I promessi sposi/Guida alla lettura

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Indice del libro


Le edizioni del romanzo[modifica]

La prima idea del romanzo risale al 24 aprile 1821[1], quando Manzoni cominciò la stesura del Fermo e Lucia, componendo in circa un mese e mezzo i primi due capitoli e la prima stesura dell'Introduzione. Interruppe però il lavoro per dedicarsi al compimento dell'Adelchi, al progetto poi accantonato della tragedia Spartaco, e alla scrittura dell'ode Il cinque maggio.
Dall'aprile del 1822 il Fermo e Lucia fu ripreso con maggiore lena e portato a termine il 17 settembre 1823 (sarebbe stato pubblicato nel 1915 da Giuseppe Lesca col titolo "Gli sposi promessi"). In questa prima edizione è presente, in nuce, la trama del romanzo. Tuttavia, il Fermo e Lucia non va considerato come laboratorio di scrittura utile a preparare il terreno al futuro romanzo, ma come opera autonoma, dotata di una struttura interna coesa e del tutto indipendente dalle successive elaborazioni dell'autore. Rimasto per molti anni inedito, il Fermo e Lucia viene oggi guardato con grande interesse. Anche se la tessitura dell'opera è meno elaborata di quella de I promessi sposi, nei quattro tomi del Fermo e Lucia si ravvisa un romanzo irrisolto a causa delle scelte linguistiche dell'autore che, ancora lontano dalle preoccupazioni che preludono alla terza ed ultima scrittura dell'opera, crea un tessuto verbale ricco, dove s'intrecciano e si alternano tracce di lingua letteraria, elementi dialettali, latinismi e prestiti di lingue straniere. Nella seconda Introduzione a Fermo e Lucia, l'autore definì la lingua usata

« un composto indigesto di frasi un po' lombarde, un po' toscane, un po' francesi, un po' anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per analogia e per estensione o dall'una o dall'altra di esse. »

Anche i personaggi appaiono meno edulcorati e forse più pittoreschi di quella che sarà la versione definitiva.

Sullo sfondo la Lombardia del XVII secolo è dipinta come scenario non pacificato, il cui potere politico coincide con l'arbitrio del più forte, la cui ragione (come insegna La Fontaine) è sempre la migliore. Romanzo dell'arbitrio e della violenza, mostra l' eterna oppressione dei potenti nei confronti degli "umili", riprendendo il tema già presente nell'Adelchi dei "due popoli", quello degli oppressi e quello degli oppressori, vicenda eterna di ogni tempo.

Una seconda stesura dell'opera (la cosiddetta Ventisettana, che è la prima edizione a stampa) fu pubblicata da Manzoni nel 1827, con il titolo I promessi sposi, storia milanese del sec. XVII, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, e riscosse notevole successo. La struttura più equilibrata (quattro sezioni di estensione pressoché uguale), la decisa riduzione di quello che appariva un "romanzo nel romanzo", ovvero la storia della Monaca di Monza, la scelta di evitare il pittoresco e le tinte più fosche a favore di una rappresentazione più aderente al vero sono i caratteri di questo che è in realtà un romanzo diverso da Fermo e Lucia.[2]

Manzoni non era, tuttavia, soddisfatto del risultato ottenuto, poiché il linguaggio dell'opera era ancora troppo legato alle sue origini lombarde. Nello stesso 1827 egli si recò, perciò, a Firenze, per risciacquare - come disse - i panni in Arno, e sottoporre il suo romanzo ad un'ulteriore e più accurata revisione linguistica, ispirata al dialetto fiorentino considerato lingua unificatrice. Ciononostante non sono pochi i lettori del romanzo a preferire la ventisettana per la ricchezza delle sue scelte lessicali, e per il retrogusto ancora schiettamente lombardo, che rendono questa versione decisamente più viva rispetto a quella successiva che viene, normalmente, stampata e di solito studiata a scuola.

Tra il 1840 e il 1842, Manzoni pubblicò quindi la terza ed ultima edizione de I promessi sposi, la cosiddetta Quarantana, cui oggi si fa normalmente riferimento. Fondamentale, all'interno dell'economia dell'opera, il ruolo che assumono le illustrazioni del piemontese Francesco Gonin, cui l'autore stesso si rivolge per arricchire il testo di un apparato iconografico. Il rapporto fra Manzoni e Gonin è di grande intesa, lo scrittore guida la mano del pittore nella composizione di questi quadretti. La forza espressiva delle litografie del Gonin è impressionante, al lettore si rivela un mondo vastissimo di volti e fisionomie, sempre varissime; personaggi che passano dal solenne al grottesco, dall'ascetico al torbido, in una composizione che non trascura mai quella certa, accattivante, ironia che ogni lettore del romanzo ben conosce. Su quest'ultimo punto si consideri, ad esempio, la vignetta che chiude l'introduzione, dove è di scena lo stesso scrittore, in camicione da notte e pantofole, mentre sfoglia davanti ad un rassicurante camino un librone, che potrebbe essere tanto il resoconto secentesco della vicenda, quanto il romanzo che chi legge ha sotto gli occhi in quel momento. La più recente critica manzoniana, si pensi solamente a Ezio Raimondi o a Salvatore Silvano Nigro, ha lungamente sottolineato il valore esegetico di questo apparato di immagini, vero e proprio paratesto alla narrazione delle vicende matrimoniali dei due protagonisti. Le moderne edizioni, che non si rifanno ai criteri della stampa anastatica, privano i lettori di uno strumento essenziale alla comprensione del testo. Oggi sfugge anche ai più colti fruitori dell'opera di Manzoni che uno dei nodi principali de I promessi sposi consiste proprio nel rapporto che intercorre fra lettera e immagine.

Secondo un tipico cliché della narrativa europea fra Settecento e Ottocento, il narratore prende le mosse da un manoscritto anonimo del XVII secolo, che racconta la storia di Renzo e Lucia. Nulla sappiamo dell'autore di questo manoscritto, salvo che ha conosciuto da vicino i protagonisti della vicenda, e non si esclude che lo stesso Renzo possa aver reso edotto questo curioso secentista lombardo della sua storia. Il tòpos della trascrizione della vicenda narrata da un testo o trascritta dalla voce diretta di uno dei protagonisti permette all'autore di giocare sull'ambiguità stessa che sta alla base del moderno romanzo realistico-borghese, ovvero il suo essere un componimento di fantasia che, spesso, non disdegna di proporsi ai suoi lettori come documento storico reale ed affidabile.

Conclude il testo la Storia della colonna infame, in cui Manzoni ricostruisce il clima di intolleranza e ferocia in cui si svolgevano gli assurdi processi contro gli untori, al tempo della peste raccontata del romanzo. Non è un'appendice ma il vero finale del romanzo, come dimostra l'impaginazione stessa, stesa dallo stesso Manzoni.

La genesi del romanzo[modifica]

La genesi interna del romanzo I promessi sposi è costituita dalle idee di partenza, dall'ideologia di base che la poetica di Manzoni doveva propagandare. È stata evinta soprattutto grazie alle lettere che lo stesso scrisse mentre stava preparando le diverse edizioni dell'opera. Il suo romanzo era fondato, infatti, su tre perni principali:[3]

  1. Il vero per soggetto: l'autore mette al centro la ricostruzione storica degli eventi che caratterizzarono quei luoghi a quel tempo.
  2. L'utile per scopo: l'opera deve mirare ad educare l'uomo ai valori che Manzoni vuole diffondere.
  3. L'interessante per mezzo: l'argomento del romanzo deve essere moderno, popolare, e quindi avere forti legami con la realtà contadina ed operaia.

La genesi esterna, invece, comprende tutte le letture e gli autori che hanno ispirato Manzoni. Tra le principali abbiamo l'Ivanhoe di Walter Scott, da cui l'autore prende l'ispirazione per la tipologia del romanzo che sarà a sfondo storico, la Storia Milanese (del 1600) di Giuseppe Ripamonti, da cui l'autore prende, appunto, la maggior parte degli avvenimenti storici che verranno intrecciati con le vicende dei personaggi.[4]. Altre fonti sono le opere dell'economista Melchiorre Gioia e del cardinale Federico Borromeo al cui scritto De Pestilentia Manzoni si ispirò per l'episodio della madre di Cecilia.

Secondo il critico Giovanni Getto una fonte per l'opera manzoniana potrebbe essere stata anche la Historia del Cavalier Perduto, romanzo erotico - cavalleresco del XVII secolo scritto dal vicentino Pace Pasini.[5] Il prof. Claudio Povolo dell'Università di Venezia con recenti documentati studi ha dimostrato che una ulteriore fonte del romanzo potrebbe essere la storia di Paolo Orgiano, signorotto di Orgiano (Vicenza), violento, rapitore di donne, condannato al carcere a vita nel processo del 1607. Molte sono le analogie con la vicenda descritta nei Promessi sposi.[6]

Molti personaggi e situazioni del romanzo manzoniano presentano analogie con precedenti opere della letteratura europea. L'argomento è trattato molto esaurientemente anche dal critico Giovanni Getto nel suo libro Manzoni europeo. Per limitarsi ad alcuni cenni, c'è da rilevare una evidente analogia fra il capolavoro manzoniano e i romanzi dello scozzese Walter Scott iniziatore del romanzo storico. Manzoni però elimina gli aspetti favolosi presenti nelle opere di Scott (per esempio, in Ivanhoe nel primo capitolo si parla del "favoloso dragone Wantley" e di "riti della superstizione druidica" ). Esistono rapporti con il gusto inglese del “quotidiano”, tipico del romanzo borghese dell’Inghilterra sette-ottocentesca (Samuel Richardson, Jane Austen, Thomas Hardy, William Thackeray, per citare gli autori più noti), gusto trasferito dal Manzoni sul mondo popolare. Riguardo all’Innominato, sono state notate analogie col mito satanico del “grande ribelle”, personaggio titanico e individualista presente in certi poeti romantici inglesi e tedeschi come Schiller e Byron (ad esempio ne I Masnadieri di Schiller e ne Il Corsaro di Byron). Egidio e, in minor misura, don Rodrigo richiamano gli eroi libertini del Settecento francese, moralmente anticonformisti, dissacratori della tradizione e rinnegatori della virtù nell’esaltazione del desiderio, degli istinti naturali, come i protagonisti dei romanzi del Marchese De Sade (Storia di Juliette, Justine ovvero le disavventure della virtù).
Lucia è la giovane innocente e virtuosa, perseguitata come Clarissa Harlowe dell’omonimo romanzo di Samuel Richardson, inoltre il suo rapimento si può avvicinare a quello di lady Rowena descritto da Walter Scott in Ivanhoe. Il rapimento di Lucia e la sua prigionia nel tetro castello dell’Innominato nonché la descrizione del castello e del suo ambiente (capitolo XX) richiamano analogie con il romanzo gotico, il genere “nero” inglese del Settecento: The monk di Matthew Gregory Lewis, The castle of Otranto di Horace Walpole, The Mysteriers of Udolpho di Ann Radcliffe.
Per la storia di Gertrude si è trovato un riferimento nel romanzo La monaca di Diderot: è la storia della monacazione forzata di una figlia della ricca borghesia. Nel romanzo di Diderot c’è però una avversione contro le istituzioni ecclesiastiche, risalente all'Illuminismo, che è assente in Manzoni. Inoltre si rileva una descrizione più positiva in Diderot in cui manca la cupezza tragica di Manzoni.
Sono riscontrabili echi dal romanzo epistolare Giulia o la nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau: la descrizione del paesaggio del lago di Ginevra (v. il lago di Como nel romanzo manzoniano), la figura di Giulia (lettera XVIII, III parte) che richiama quella di Lucia. Le avventure di Renzo sono accostabili a quelle del picaro dei romanzi picareschi spagnoli del XVI e XVII secolo.[7]

La trama[modifica]

I temi[modifica]

Note[modifica]

  1. "come è attestato dalla data che si legge all'inizio del manoscritto autografo". Lanfranco Caretti, Manzoni. Ideologia e stile, Einaudi, Torino, 1975, p.43
  2. Lanfranco Caretti, Manzoni. Ideologia e stile, Einaudi, Torino 1975, pp.46-53
  3. Lettera a Cesare d’Azeglio Sul Romanticismo (PDF), su digila.it. URL consultato l'11 agosto 2011.
  4. I Promessi sposi, ed. Bulgarini, Firenze, 1992, commento di Gilda Sbrilli
  5. http://www.gianniroghi.it/Testi/l%27europeo/6019%20%20%281%29.htm
  6. http://ladomenicadivicenza.it/a_ITA_1634_1.html
  7. Giovanni Getto, Manzoni europeo , Biblioteca europea di cultura, ed. Mursia, 1971.