Il Principe/L'opera

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Indice del libro

Il Principe (titolo originale in latino: De Principatibus, letteralmente: " Sui Principati") è un trattato di dottrina politica scritto da Niccolò Machiavelli nel 1513, nel quale espone le caratteristiche dei principati e dei metodi per mantenerli e conquistarli. Si tratta senza dubbio della sua opera più rinomata.

Copertina del libro, da un'edizione del 1550.

L'opera non è ascrivibile ad alcun genere letterario particolare, in quanto non ha le caratteristiche di un vero e proprio trattato; se ne è ipotizzata la natura di libriccino a carattere divulgativo.

Il Principe si compone di una dedica e ventisei capitoli di varia lunghezza; l'ultimo capitolo consiste nell'appello ai de' Medici ad accettare le tesi espresse nel testo.

Composizione[modifica]

La datazione della stesura dell'opera è tutt'oggi oggetto di dibattito filologico. Le ipotesi dominanti sono due. La prima vuole che l'opera sia stata stilata nel 1513 con riempimenti fino al maggio 1514 ("ingrasso et ripulisco" nella lettera al Vettori del 10 dicembre 1513). Secondo la seconda ipotesi l'opera sarebbe stata elaborata a strati dal 1513, dopo la liberazione dell'autore, fino al tentativo di Lorenzo de' Medici di istituire un principato assoluto a Firenze.

Egli ne iniziò la stesura mentre si trovava a Sant'Andrea in Percussina, confinato in seguito al ritorno a Firenze della casata Medici (1512) a cui aveva seguito l'accusa di aver partecipato alla congiura antimedicea di PietroPaolo Boscoli. L'opera sarà edita da Blado a Roma e da Giunta a Firenze nel 1532.

Machiavelli, nella lettera a Francesco Vettori, manifestò la volontà di dedicare l'opera a Giuliano de' Medici, ma, dopo la morte di questi nel 1516, la dedicò a Lorenzo de' Medici, figlio di Piero II de' Medici. L'intenzione era in ogni caso di dedicare l'opera al detentore del potere nella famiglia Medici, con la speranza di riacquistare l'incarico di Segretario della Repubblica.

La prima menzione di questa opera si ha nella lettera a Francesco Vettori, datata il 10 dicembre 1513 ed indirizzata all'amico Francesco Vettori, in risposta ad una lettera di quest'ultimo che raccontava la sua vita a Roma e che chiedeva notizie sulla vita che conduceva Machiavelli a Sant'Andrea. Quest'ultimo risponde raccontandogli gli aspetti rozzi della vita in campagna e parlando anche dei suoi studi, dichiara di aver composto un "opuscolo" intitolato De Principatibus.

Contenuti[modifica]

Per raggiungere il fine di conservare e potenziare lo Stato, viene attribuita a Machiavelli l'errata citazione "il fine giustifica i mezzi" e così facendo viene giustificata qualsiasi altra azione del Principe, anche se in contrasto con le leggi della morale. Questa citazione è fondamentalmente errata perché, da un lato non è mai stata né detta, né scritta, dall'altro perché non è stata neanche mai pensata. Infatti Machiavelli, in riferimento al Principe, ha spiegato cosa sia la pazzia, smentendo qualsiasi collegamento con la falsa citazione:

"perché un principe che può fare quello che vuole è un pazzo; un popolo che può fare ciò che vuole non è savio." N. Machiavelli, Opere complete, Alcide Parenti, Editore-Libraio, Firenze, 1843, cit., p. 313.

Perciò è pazzo colui che crede di poter dire e di poter fare quello che vuole. In altre parole è pazzo colui che pensa che il fine giustifica i mezzi. In Machiavelli, la salvezza dello Stato è necessaria e deve venire prima delle personali convinzioni etiche del Principe, poiché egli non è il padrone, bensì il servitore dello Stato.

Le caratteristiche del principe ideale[modifica]

Le qualità che, secondo Machiavelli, deve possedere un "principe" ideale (ma non idealizzato), sono tuttora citate nei testi sulla leadership:

  • la disponibilità ad imitare il comportamento di grandi uomini a lui contemporanei o del passato, es. quelli dell'Antica Roma;
  • la capacità di mostrare la necessità di un governo per il benessere del popolo, es. illustrando le conseguenze di un'oclocrazia;
  • il comando sull'arte della guerra - per la sopravvivenza dello Stato;
  • la capacità di comprendere che la forza e la violenza possono essere essenziali per mantenere stabilità e potere;
  • la prudenza;
  • la saggezza di cercare consigli soltanto quando è necessario;
  • la capacità di essere "simulatore e gran dissimulatore";
  • il rilevante potere di controllo della fortuna attraverso la virtù (la metafora utilizzata accosta la fortuna ad un fiume, che deve essere contenuto dagli argini della virtù);
  • la capacità di essere leone, volpe e centauro (leone forza - volpe astuzia - centauro come capacità di usare la forza come gli animali e la ragione come l'uomo)

La natura umana e il rapporto con gli antichi[modifica]

Secondo Machiavelli la natura umana è una natura malvagia che presenta alcuni fattori, quali le passioni, la virtù e la fortuna. Il frequente ricorso ad exempla virtutis tratti dalla storia antica e dalla sua esperienza nella politica moderna dimostrano che nella sua concezione della storia non vi è alcuna netta frattura tra il mondo degli antichi e quello dei moderni; Machiavelli trae così dalla lezione della storia delle leggi generali, le quali non vanno però intese come norme infallibili, valide in ogni contesto e situazione, ma come semplici tendenze orientanti l'azione del Principe che devono sempre confrontarsi con la realtà. Non vi è alcuna esperienza tràdita dal passato che non possa essere smentita da una nuova esperienza presente; tale mancanza di scientificità spiega la mancata sottomissione di Machiavelli alla auctoritas degli antichi: reverenza ma non ossequio nei suoi confronti; gli esempi storici sono utilizzati per un'argomentazione non scientifica ma retorica.

Guerra e pace[modifica]

La pace è fondata sulla guerra esattamente come l'amicizia è fondata sull'uguaglianza, quindi in ambito internazionale l'unica uguaglianza possibile è l'uguale potenza bellica degli Stati.

La forza della sopravvivenza di qualsiasi Stato (democratico, repubblicano o aristocratico) è legata alla forza dell'esercizio del suo potere, e quindi deve detenere il monopolio legittimo della violenza, per assicurare sicurezza interna e per prevenire una 'potenziale' guerra esterna (in riferimento ad una delle lettere proposte al Consiglio Maggiore di Firenze (1503), con la speranza di Machiavelli di convincere il Senato fiorentino all'introduzione di una nuova imposta per rafforzare l'esercito, necessario per la sopravvivenza della Repubblica Fiorentina).

Il rapporto tra Virtù e Fortuna e la loro nuova concezione[modifica]

Il termine virtù in Machiavelli cambia significato: la virtù è l'insieme di competenze che servono al principe per relazionarsi con la fortuna, cioè gli eventi esterni. La virtù è quindi un insieme di energia e intelligenza, il principe deve essere intelligente ma anche efficace ed energico.

La virtù del singolo e la fortuna si implicano a vicenda: le doti del politico restano puramente potenziali se egli non trova l'occasione adatta per affermarle, e viceversa l'occasione resta pura potenzialità se un politico virtuoso non sa approfittarne. L'occasione, tuttavia, è intesa da Machiavelli in modo peculiare: essa è quella parte della fortuna che si può prevedere e calcolare grazie alla virtù. Mentre un esempio di fortuna può essere che due Stati siano alleati (è un dato di fatto, un evento), un esempio di occasione è il fatto che bisogna allearsi con qualche altro Stato o comunque organizzarsi per essere pronti ad un loro eventuale attacco. Machiavelli nei capitoli VI e XXVI scrive che occorreva che gli ebrei fossero schiavi in Egitto, gli Ateniesi dispersi nell'Attica, i Persiani sottomessi ai Medi perché potesse rifulgere la "virtù" dei grandi condottieri di popoli come Mosè, Teseo e Ciro.

La virtù umana si può poi imporre alla fortuna attraverso la capacità di previsione, il calcolo accorto. Nei momenti di calma l'abile politico deve prevedere i futuri rovesci e predisporre i necessari ripari, come si costruiscono gli argini per contenere i fiumi in piena.

Concezione della religione a servizio della politica e rapporto con la Chiesa[modifica]

Machiavelli concepisce la religione come "instrumentum regni", cioè un mezzo con il quale tenere salda e unita la popolazione nel nome di un'unica fede. La religione per Machiavelli è quindi una religione di stato che deve essere usata per fini eminentemente politici e speculativi, uno strumento di cui il principe dispone per ottenere il consenso comune del popolo, quest'ultimo ritenuto fondamentale dal segretario fiorentino per l'unità e la lungimiranza del principato stesso.

La religione nell'Antica Roma, che riuniva tutte le divinità del pantheon romano, è stata fonte di saldezza e unità per la Repubblica e più tardi per l'Impero, e su questo esempio illustre Machiavelli incentra il suo discorso sulla religione, criticando la religione cristiana e la Chiesa cattolica, che, secondo lui, è stata, per secoli, la causa della mancata unità nazionale italiana.

Stile e lessico[modifica]

Lo stile è quello tipico di Machiavelli, cioè molto concreto in quanto deve essere in grado di fornire un modello immediatamente applicabile, non sono presenti particolari ornamentazioni retoriche, piuttosto fa massiccio uso di paragoni e similitudini (come la metafora del centauro per evidenziare l'unione tra fisicità, energia e intelligenza che insieme costituiscono la virtù di Machiavelli) e metafore tutte basate sulla concretezza, per esempio le metafore arboree spesso presenti.

Numerosissimi sono i riferimenti ad eventi del suo presente, soprattutto riguardanti il regno di Francia, ma anche dell'antichità classica, si riferisce all'Impero Persiano di Ciro, a quello Macedone di Alessandro Magno, alle poleis greche e alla storia romana. Machiavelli costruisce quindi il suo modello osservando la realtà, questo è il concetto di realtà effettuale.

Il lessico non è aulico, ma quasi un sermo cotidianus (nella questione della lingua, Machiavelli sostenne l'utilizzo del fiorentino parlato). Tutto il testo è caratterizzato da un lessico connotativo e una forte espressività, esclusi la Dedica e l'ultimo capitolo che hanno un registro diverso dalla parte centrale, infatti in entrambi prevale il carattere enfatico e specialmente la perorazione finale fuoriesce dalla realtà effettuale che caratterizza l'opera.

La sintassi è molto articolata, con prevalenza della ipotassi; la subordinazione è presente soprattutto nel processo dilemmatico, che è una delle caratteristiche di quest'opera, Machiavelli presenta due situazioni: la prima viene svolta rapidamente per poi discutere ampiamente la seconda, questa tecnica fornisce un carattere di scientificità all'opera e suggerisce l'ipotesi giusta secondo l'autore (esempio: nel Capitolo I Machiavelli propone la trattazione De' principati ereditarii e De' principati misti: la prima viene sviluppata in poche righe nel Capitolo II mentre la seconda viene ampiamente argomentata nel Capitolo III).

I titoli dei capitoli sono tutti in Latino (con corrispondente traduzione in Italiano probabilmente fatta dallo stesso Machiavelli), perché nell'ambiente umanista-rinascimentale si usava scrivere o almeno titolare le opere in Latino in quanto conferiscono dignità e prestigio al testo.

Contraddizioni tra Il Principe e il pensiero di Machiavelli[modifica]

Nell'opera, Machiavelli teorizza, come ideale, un principato assoluto, nonostante egli si sia formato nella scuola repubblicana e abbia sempre creduto nei valori della repubblica; il suo modello è la Repubblica Romana, che Machiavelli esalta nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, con la partecipazione diretta del popolo.

I critici risorgimentali sostennero la tesi che il Principe fosse una specie di manuale delle nefandezze della tirannide; celebre l'immagine del Foscolo dei Sepolcri ("quel grande che temprando lo scettro ai regnatori gli allor ne sfronda ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue").

Il dibattito su questa questione è tuttora aperto, tra le ipotesi c'è anche quella dell'opportunismo: Machiavelli avrebbe desiderato riottenere un posto politico di rilevanza e sarebbe stato quindi disposto anche ad accettare la dimensione monarchica, oppure, il suo principe, potrebbe essere un modello universale di capo di stato, di qualunque forma esso sia, monarchia o repubblica.

La critica moderna ha però ultimamente ipotizzato che la volontà di scrivere il Principe, e quindi di parlare di monarchia, sia stata mossa dall'aggravarsi della situazione in Italia. Difatti alla fine del Quattrocento ed inizio del Cinquecento, l'Italia si trovava in un periodo di continue lotte interne. Machiavelli, attraverso il suo trattato, avrebbe voluto quindi incitare i principati italiani a prendere le redini del paese, ormai sommerso da queste continue guerre, credendo che l'unico modo per riacquistare valore, in quel preciso periodo, fosse proprio un governo di tipo monarchico. È dunque questo il motivo che ha suscitato numerose critiche per lo più fuorvianti.

Reazioni[modifica]

« La corte di Roma ha severamente proibito il suo libro: lo credo bene! È proprio essa che egli dipinge più efficacemente »
(Jean Jacques Rousseau, Il contratto sociale)

Il pensiero di Machiavelli e il termine "machiavellico" sono spesso stati disapprovati, in gran parte a causa della scarsa comprensione del suo metodo. Machiavellico è un termine associato alla falsa sintesi del pensiero filosofico di Machiavelli, ossia quella de "il fine giustifica i mezzi".
Machiavelli è sicuramente rammentato per aver fondato in Europa la moderna idea della politica.

Il Principe è sempre stato nell'Indice dei libri proibiti dalla Chiesa cattolica, in parte perché smontava le teorie politiche cristiane come quelle - rispettate da lungo tempo - di Sant'Agostino e Tommaso d'Aquino, ma soprattutto perché Machiavelli annulla ogni nesso tra etica e politica: infatti, secondo lui, il Principe deve cercare di sembrare magnanimo, religioso, onesto ed etico. Ma in realtà, i doveri di un principe non gli permettono di possedere alcuna di queste virtù. Il Principe ha sfidato la filosofia scolastica della Chiesa cattolica e la sua lettura ha contribuito alla fondazione del pensiero illuminista e quindi del mondo moderno, occupando così una posizione unica nell'evoluzione del pensiero in Europa. Le sue massime più conosciute sono ampiamente citate anche oggi, in genere nella critica di leader politici:

  • "è molto più sicuro essere temuti che amati", ma non è meglio essere odiati, e nemmeno ignorare virtù e giustizia quando questi non minacciano il proprio potere.

Le idee di Machiavelli circa le virtù di un Principe ideale furono di ispirazione per la moderna filosofia politica e trovarono le più disparate e distorte applicazioni soprattutto nel XX secolo.[1]. Persino il concetto di Realpolitik si basa sulle idee di Niccolò Machiavelli. Magari è più ragionevole chiedersi quali teorie del ventesimo secolo non abbiano a che fare con Machiavelli. Anche quelle dell'economia politica sembrano di dovere qualcosa a quest'opera del Rinascimento. Le giustificazioni morali della colonizzazione delle Americhe nel XVI secolo possono trovarsi in parte in quest'opera, anche se molti colonizzatori e attività di costruzione imperiale hanno superato l'obiezione morale.

Il politologo Bernard Crick considera la "prudenza" come una delle virtù politiche. Nella sua analisi sulla "sindrome morale", Jane Jacobs ha evocato l'importanza della ricchezza nella dimostrazione di potere.
Nick Humphrey ha adoperato il termine "intelligenza machiavellica" per spiegare la funzione di queste virtù in ambienti meno rilevanti, in una "politica di tutti i giorni", come il lavoro o la famiglia. Rushworth Kidder ha caratterizzato l'etica come un'istanza simile alla politica consistente in numerosi diritti che non possono essere sorretti allo stesso momento.

Note[modifica]

  1. Giovanni Raboni, Berlusconi, il Principe e lo spot, in Corriere della Sera, 20 febbraio 1994, p. 22. URL consultato il 20-04-2010.