Vai al contenuto

Il Chassid/Capitolo 8

Wikibooks, manuali e libri di testo liberi.
Indice del libro
Chaim Elazar Spira, Munkacer Rebbe Chaim Elazar Spira, Munkacer Rebbe
Chaim Elazar Spira, Munkacer Rebbe
Aharon Roth, Reb Arele

Discepolato nell'ebraismo chassidico: uno studio su due Maestri

[modifica | modifica sorgente]

Il rapporto tra il maestro chassidico e i suoi discepoli, tra lo Zaddiq e i suoi chassidim, attende ancora un'indagine approfondita da parte degli studiosi del movimento. Non esistono studi specialistici su questo tema e persino tra le opere chassidiche l'argomento è trattato solo incidentalmente nelle numerose opere in cui viene sviluppata la dottrina dello Zaddiq. I problemi ancora da considerare sono: come facevano i primi maestri a diventare discepoli dei loro maestri? Cosa accadde per convertire un chassid ordinario in un discepolo? Perché è raro trovare un discepolo che debba la sua fedeltà a più di un maestro? In questo breve studio si cerca solo di evidenziare due esempi del rapporto tra maestro e discepolo nella vita e nell'opera di due illustri maestri chassidici del XX secolo; il termine "discepolo" viene qui utilizzato sia per i chassidim generici del maestro sia per il discepolo propriamente detto, totalmente impegnato a seguire il cammino del maestro.

Il Munkacer Rebbe

[modifica | modifica sorgente]
il Munkacer Rebbe
il Munkacer Rebbe
Per approfondire, vedi Chaim Elazar Spira, il Munkacer Rebbe e Dinastia Munkacs.

R. Chaim Elazar Spira (1868-1937), noto sia come Munkacer Rov che come Munkacer Rebbe, poiché ricoprì entrambe le cariche, affronta nel suo Divrey Torah (terza edizione, Gerusalemme, 1974, Parte 1, nr. 5) il problema, che deve aver assillato molti dei Rebbe chassidici, di come un leader spirituale possa rimanere umile senza compromettere la propria autorità. Il maestro chassidico doveva cercare di essere in sintonia con i suoi seguaci e al tempo stesso mantenere il proprio distacco. Doveva avere la massima familiarità con i suoi chassidim senza suscitare in loro il disprezzo che la familiarità genera.

Questo problema deve essere affrontato in ogni rapporto maestro-discepolo, ma è particolarmente acuto nel chassidismo, poiché la vocazione del Rebbe richiede che la sua vita interiore controlli la sua condotta esteriore, il che a volte si traduce in azioni destinate ad apparire strane, persino illecite, ai noniniziati. La tendenza dei chassidim era quella di emulare i modelli di comportamento del Rebbe. Sebbene ponessero il Rebbe su un piedistallo, i chassidim credevano comunque che il suo fosse il modello di vita a cui potevano almeno aspirare. Il dilemma che il Rebbe si trovò ad affrontare è quello inevitabile di un uomo in una posizione di straordinario potere spirituale sugli altri, che è tuttavia obbligato ad apparire ordinario, rifiutando qualsiasi ostentazione di eccessiva santità. In altre parole, come può un Rebbe agire come tale mentre nega in cuor suo di essere di un livello superiore ai suoi chassidim?

Il profeta dichiara: "Ti è stato insegnato, o uomo, ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare la misericordia e camminare umilmente con il tuo Dio" (Michea 6:8). Come si può realizzare un simile ideale, chiede il Munkacer. Se un uomo pratica davvero la giustizia e ama la misericordia, gli altri sono destinati a saperlo. Come può uno rinomato per la sua rettitudine e bontà camminare umilmente con il suo Dio? Sicuramente il profeta non intende insinuare che il bene debba essere praticato solo di nascosto, con un'apparenza esteriore di dissolutezza e irresponsabilità. (Si dice, infatti, che alcuni chassidim Kotzker fossero soliti capovolgere la pietà convenzionale, peccando in pubblico e osservando le mitzvot in segreto). Tale condotta equivarrebbe a un hillul hashem (profanazione del nome divino) abbassando gli standard.

Se, per evitare malintesi, l'uomo santo, pur nascondendo la sua santità, informa i suoi discepoli che la sua strana condotta esteriore è solo una maschera, ciò vanifica il suo scopo, poiché i discepoli sanno che l'apparente irreligione del santo è solo una finzione. Ne consegue che un rabbino e guida spirituale (rav u-manhig) è tenuto a praticare la sua religione apertamente e come esempio per gli altri, comportandosi scrupolosamente nel pieno rispetto di tutte le leggi della Torah. Ma insieme alla sua osservanza esteriore, dovrebbe avere una vita interiore profondamente spirituale, con intenzioni nascoste in tutto ciò che fa, note solo al suo Creatore.

La definizione di religione data da Whitehead come ciò che un uomo fa nella sua solitudine è difficilmente accettabile per l'ebraismo, con la sua forte enfasi sulla comunità, ma, per il Munkacer, è valida, almeno per quanto riguarda la vita interiore della religione. Un uomo molto ricco può avere uno scomparto segreto nella sua cassaforte dove custodisce i suoi beni più preziosi, lasciando alcuni oggetti di valore nello scomparto esterno in modo che, se fosse costretto da rapinatori armati ad aprire la cassaforte, questi prenderebbero solo ciò che troverebbero nello scomparto esterno. Perché l'inganno funzioni, nello scomparto esterno deve esserci una quantità sufficiente di beni da indurre i rapinatori a credere che non ci sia altro nascosto. Se la quantità trovata è di gran lunga inferiore a quella che un uomo delle sue sostanze probabilmente possiede, sospetteranno che la sua vera ricchezza sia nascosta altrove e lo costringeranno a rivelarne l'ubicazione.

Allo stesso modo, afferma il Munkacer, un leader spirituale deve ostentare la propria santità al punto che i suoi seguaci, testimoni della sua ricca condotta spirituale, non immaginino che, in aggiunta, egli possieda un tesoro spirituale ancora più ricco. Paradossalmente, la coltivazione della pietà segreta è resa possibile solo da una pubblica esibizione di virtù sufficientemente evidente da impedire ai curiosi di indagare più a fondo su ciò che realmente motiva il santo. Va aggiunto che per il Munkacer questa vita interiore segreta di cui parla implica principalmente la pratica degli yihudim ("unificazioni"), ovvero profonde riflessioni in tutto ciò che il santo fa sulle varie combinazioni di nomi divini rilevanti per ogni atto particolare.

Il biografo del Munkacer, Y. M. Gold, racconta (Darkhey Hayyim VeShalom, Gerusalemme, 1974, p. 2), a dimostrazione di questo tipo di riflessione, che durante il periodo dell'Omer il Rebbe fu visto chiacchierare a lungo con una cerchia ristretta di chassidim più eruditi su diversi eminenti Rabbini contemporanei. Sembrava tutto una mera conversazione inutile, finché il Rebbe non si lasciò sfuggire l'osservazione che chiunque fosse a conoscenza delle particolari intenzioni cabalistiche legate a quel giorno dell'Omer avrebbe compreso il significato delle sue osservazioni.

Questa enfasi sulla necessità che il Rebbe si conformi nella sua condotta esteriore porta il Munkacer a rifiutare la cieca adorazione del Rebbe da parte dei suoi chassidim. Nessun chassid, osservando il suo Rebbe o qualsiasi altro famoso Rebbe compiere atti che sembrano irregolari o illeciti, dovrebbe mai sostenere che il Rebbe sappia cosa sta facendo e che anche lui lo seguirà. A questo proposito, il Munkacer cita (Nimmukey Orah Hayyim, Gerusalemme, 1968, n. 68) il maestro chassidico di inizio Ottocento, R. Zevi Hirsch Eichenstein di Zhydachov:

« Anche se il rabbi è come un angelo del Signore degli eserciti, non abbiate fede in nulla di ciò che fa per seguire quella pratica finché non avrete dimostrato a vostra soddisfazione che è corretta... Per essere sicuri, dovete trovare delle scuse per lui. Il cielo non voglia che lo guardiate con sospetto, ma non dovete mai seguirlo per fare ciò che sembra essere contrario alla Torah. Dovete discuterne con lui, chiedendogli le sue ragioni. Solo se può dimostrarvi che ciò che fa è in accordo con la Torah e dopo che ve l'ha spiegato in modo così convincente da farvi essere certi che abbia ragione, dovreste avere fede in lui. Altrimenti non abbiate fede in lui, anche se vi dice di averla ricevuta da Elia in persona. »

Gold (p. 13) afferma che è per questo motivo che si sforza, nel suo resoconto della vita del Munkacer, di trovare supporto per ciascuna delle pratiche del Rebbe nei Codici standard e in altre opere che registrano la norma stabilita.

Oltre al suo ruolo di Rebbe, il Munkacer dirigeva una Yeshivah in cui i giovani studiavano la Torah. Gold (op. cit., nr. 886, p. 325) descrive un interessante principio pedagogico adottato dal Munkacer e con cui introduceva ogni anno i suoi interventi alla sessione di apertura della Yeshivah. I Rabbini talmudici distinguono tra lo studio della Torah fine a se stesso (lishmah) e lo studio della Torah shelo lishmah ("non fine a se stesso", cioè con secondi fini come l'acquisizione di ricchezza o reputazione di studioso). Ma viene citato il detto del maestro babilonese Rav (Pesahim 50b): "Che un uomo studi la Torah finanche shelo lishmah, perché dallo studio shelo lishmah arriverà a studiare lishmah". Il "finanche" di Rav implica che lo studio con secondi fini sia fondamentalmente indegno, ma sia tollerato perché porterà a uno studio con motivazioni meritevoli. Il chassidismo tendeva generalmente ad andare ben oltre, qualificando l'affermazione di Rav in modo così drastico che lo studio della Torah shelo lishmah è visto come un vero peccato e da evitare se possibile. Questo fu, infatti, uno dei principali motivi di contesa tra i primi chassidim e i loro oppositori, i mitnaggedim, questi ultimi molto più indulgenti in materia e che si rifiutavano di denigrare gli studiosi semplicemente perché studiavano per ottenere fama. Ancora più notevole, quindi, è il consiglio del Munkacer ai giovani studenti della sua Yeshivah di studiare inizialmente la Torah con motivazioni ambiziose. È pura illusione, sostiene, per i giovani immaginare di essere sufficientemente inebriati da Dio da poter studiare la Torah lishmah.

La verità è, dice il Munkacer, che la forza motrice all'inizio è inevitabilmente l'interesse personale. È solo quando il giovane studente si è abituato al vero piacere di imparare che automaticamente arriva a studiare lishmah. E tale dovrebbe essere la motivazione dello studente. Dovrebbe, infatti, studiare per motivi ambiziosi, altrimenti non arriverà mai a provare veramente piacere nell'apprendere, ma in fondo alla sua mente dovrebbe esserci l'intenzione di studiare in questo modo cosicché ciò lo porti a studiare lishmah. Una visione realistica dei meccanismi dello studio!

Sviluppando il principio del discepolato, il Munkacer (Divrey Torah, Parte 2, nn. 1 e 107-8) sostiene fermamente la pratica chassidica del chassid che visita il suo Rebbe per sedersi alla sua tavola, soprattutto durante gli Shabbat e le feste. Ammette che, mentre i Rabbini talmudici parlano spesso di un discepolo che rimane con il suo maestro per imparare da lui, non vi è alcuna chiara indicazione che debba prendere parte ai suoi pasti. Sì, afferma il Munkacer, la pratica chassidica del "tisch" (טיש "tavola", il pasto sacro) è un'innovazione, ma molto valida, e trova un certo supporto in fonti precedenti. Tuttavia, afferma il Munkacer (Divrey Torah, Parte 1, nr. 34), non tutti coloro che affermano di essere un Rebbe sono degni di esserlo. Molti adottano questo ruolo perché è un modo facile per guadagnarsi da vivere. È richiesto grande discernimento all'aspirante discepolo nella scelta di quale Rebbe seguire. Chi è perspicace ha la capacità di sapere se un Rebbe è davvero un uomo santo da seguire o un impostore in cerca di ricchezza e fama.

Il Munkacer sembra aver tollerato i dubbi dei suoi discepoli, credendo che alla fine sarebbero stati placati. Racconta (Divrey Torah, Parte 1, nr. 35) una storia che afferma di aver sentito da persone attendibili su un discepolo di Rabbi Baruch di Medziboz, nipote del Baal Shem Tov. Rabbi Baruch aveva un discepolo molto esperto in filosofia. Non rivelò al suo maestro il suo interesse per il pensiero filosofico, ma continuò a riflettere sui problemi di fede finché non iniziò a mettere in discussione le basi stesse della sua religione. Rabbi Baruch vide, per mezzo dello Spirito Santo, il tumulto nell'anima del suo discepolo e gli fece visita per placare i suoi dubbi. Rabbi Baruch fece riferimento all'affermazione rabbinica secondo cui ci sono cinquanta porte della comprensione. Un filosofo, quando si trova di fronte a un problema, cerca di trovare una soluzione e quando ci riesce si può dire che abbia varcato una delle porte della comprensione. Ma gli si presenta un'ulteriore domanda, e anche a questa trova la soluzione, entrando nella seconda porta. E così continua finché non raggiunge la cinquantesima porta, dove non c'è soluzione. Perché se un uomo entrasse dalla cinquantesima porta, la verità su Dio sarebbe così inconfutabile che la libertà di agire sarebbe impossibile. Se la verità fosse così chiara per un uomo, questi non avrebbe altra scelta che obbedire alla volontà di Dio.

Il Munkacer era noto come un veemente combattente per la verità così come la vedeva lui, attaccando spesso senza ritegno altri Rebbe chassidici con cui non era d'accordo. Ma nel suo rapporto con i discepoli sembra essere stato estremamente gentile e tollerante. Scrive (Divrey Torah, Parte 7, nr. 47) che poiché un maestro impara dai suoi discepoli oltre a insegnare loro, questi sono, in un certo senso, sia i suoi maestri che i suoi discepoli. Per questo motivo, il Munkacer approva il consiglio dato dal rabbino non chassidico, Akiva Eger, secondo cui un maestro dovrebbe evitare, quando possibile, di riferirsi al proprio discepolo come "mio discepolo" o di firmare una lettera a lui indirizzata come "Tuo maestro". Il Munkacer (Divrey Torah, Parte 1, nr. 114) racconta una storia, che a suo dire gli è giunta dalla tradizione chassidica, di R. Zev Wolf di Zbarazh, che da molti anni aveva intenzione di recarsi alla corte del Veggente di Lublino (entrambi maestri chassidici della fine del XVIII secolo). Quando R. Zeev Wolf finalmente intraprese il viaggio, il Veggente gli andò incontro. Questo dimostra, afferma il Munkacer, che, contrariamente al protocollo, in cui il discepolo va a incontrare il maestro, quando il discepolo è degno è giusto che il maestro vada a incontrare il suo discepolo. Il Munkacer (Divrey Torah, Parte 3, nr. 36) osserva che quando il Rebbe tiene un discorso generale ai suoi discepoli, i suoi occhi dovrebbero essere aperti in modo da comunicare le idee faccia a faccia. Ma quando pronuncia la sua "Torah" di Shabbat o durante le feste, gli occhi del Rebbe dovrebbero essere chiusi, così da poter attingere all'ispirazione che riceve dall'alto quando è completamente chiuso nel suo io interiore. Il Munkacer, in queste osservazioni, parla sempre di un Rebbe in generale, ma è abbastanza ovvio che si riferisca a se stesso, nella sua lotta per raggiungere il corretto equilibrio nel rapporto Rebbe-discepolo.

Reb Arele
Reb Arele
Per approfondire, vedi Aharon Roth, il Reb Arele e Gruppo Shomrei Emunim.

Molto diverso dal Munkacer ― che apparteneva a una dinastia chassidica affermata, succedendo come Rebbe a suo padre e a suo nonno ― fu Rabbi Aaron Roth (1894-1944). Reb Arele, come viene chiamato, subì l'influenza del chassidismo nella sua nativa Ungheria. Un gruppo di giovani entusiasti si radunò attorno a lui e per questi egli agì da guida spirituale. Alla fine fu convinto a indossare il mantello di Rebbe chassidico. Emigrò in Eretz Yisrael dove la sua sinagoga e yeshivah, la Toledot Aharon a Meah Shearim, Gerusalemme, fu presieduta, dopo la morte di Reb Arele, dal suo genero e successore nella nuova dinastia. (Reb Arele lasciò anche un figlio che, affermando di essere il vero successore di suo padre, fondò un gruppo rivale, sebbene, si ritiene, il figlio, il genero e i loro chassidim lo abbiano poi costituito). Reb Arele è quindi uno dei pochissimi maestri chassidici dall'inizio del XIX secolo ad aver fondato una propria dinastia.

Shomer Emunim di Reb Arele

Nel primo periodo del chassidismo, era generalmente il discepolo, non il figlio o il genero del Rebbe, a diventare poi Rebbe al suo posto. In questo, così come nel suo tentativo di recuperare la semplicità dei primi giorni del chsasidismo, Reb Arele cercò di rivitalizzare il movimento. Reb Arele fu uno scrittore prolifico, le sue tre opere principali sono: Shomer Emunim (Gerusalemme, 1964) sulla fede in Dio; Shulhan Ha-Tahor (Gerusalemme, 1966) sul mangiare come atto di adorazione divina; e Taharat Ha-Kodesh (Gerusalemme, 1968) su argomenti sessuali. In queste opere Reb Arele offre una guida ai suoi seguaci basata sulle numerose opere chassidiche che cita in tutto il suo testo. L'opera U-Vo Tidbak di Mordecai Blum (Gerusalemme, 1980) è un'antologia degli insegnamenti di Reb Arele, tratti da queste opere, sull'alto dovere di attaccamento ai maestri chassidici, ovvero sul discepolato chassidico. Blum afferma che Reb Arele stesso desiderava compilare un trattato dettagliato sull'argomento, ma non fu in grado di farlo a causa della pressione del lavoro in altri ambiti. Le lettere di Reb Arele ai suoi seguaci, pubblicate durante la sua vita con il titolo Iggerot Shomer Emunim (Gerusalemme, 1942), sono una miniera particolarmente ricca per gli studiosi del rapporto Rebbe-chassid. Queste lettere sono intensamente personali e offrono consigli spirituali a coloro che si rivolgevano al loro maestro nel bisogno. Le lettere sono in ebraico, ma Reb Arele spesso si interrompe a metà per scrivere in yiddish, quando evidentemente ritiene che lo stile formale ebraico non sia adatto a trasmettere il calore e l'intimità del suo coinvolgimento nei problemi dei suoi corrispondenti.

Non ci vuole molto acume psicologico per rendersi conto che i seguaci di Reb Arele erano turbati dalla loro adesione a un Rebbe che non godeva del sostegno di una dinastia consolidata e il cui forte senso di inferiorità, per questo motivo, li spingeva ad avanzare, in compenso, affermazioni sulla sua santità e sui suoi poteri taumaturgici al limite del grottesco. Suo figlio, ad esempio, nella sua introduzione allo Shulhan Ha-Tahor, afferma che quando Reb Arele era un giovane studente di yeshivah, spesso accadeva che i suoi genitori non gli mandassero il denaro per le spese, ma la fiducia del giovane in Dio era così forte che persisteva negli studi convinto che Dio avrebbe provveduto. E Dio provvide, in quanto la cassa del denaro si riempì miracolosamente, così che non si trovò mai nel bisogno. Reb Arele, nelle lettere, è estremamente infastidito dalle esagerate affermazioni che i suoi seguaci facevano a suo favore. Egli protesta (Lettera 15) dicendo di essere, in effetti, indegno ai suoi occhi di essere una sorta di mentore spirituale, ma poiché i suoi amici credono che il suo consiglio spirituale sia efficace, è obbligato a offrirlo per quello che vale.

Tradurre tutte le lettere richiederebbe un wikilibro intero. Qui una delle più rivelatrici (Lettera 7) è resa in italiano, ad esprimere gli atteggiamenti e il metodo di approccio di Reb Arele. Questa lettera è indirizzata a un discepolo che era diventato shocḥet (שוחט‎, "macellaio rituale") in un piccolo villaggio ungherese. Fu scritta mentre Reb Arele viveva nella città di Beregsaz, dopo un precedente soggiorno in Eretz Yisrael.

I miei più cordiali saluti al mio caro amico.

Devo informarti che ho ricevuto la tua bella lettera e che sono più di due settimane che mi preparo a rispondere, ma, a causa dei nostri peccati, i molti problemi di questo periodo me lo hanno impedito...

Riguardo alla sua domanda sulla mia emigrazione in Eretz Yisrael... Finora ho pensato di emigrare in Eretz Yisrael se questa fosse la volontà di Dio, anche se qual è il significato di Eretz Yisrael, visto che Dio può essere adorato ovunque, e finanche in Eretz Yisrael è possibile vivere come un animale e persino peggio di un animale. Ma cosa posso fare? Perché fin dalla mia giovinezza la mia forma di culto e il mio desiderio (quando assisto al grande declino del mondo chassidico, mancando completamente il punto della verità) è quello di rafforzare le brecce del cuore e di far sorgere una santa fratellanza per servire Dio all'unisono. Molte sofferenze mi sono state inflitte, ondata dopo ondata, finché non sono stato costretto ad andare in esilio da Eretz Yisrael perché questa era la volontà del Creatore, benedetto Egli sia. Ho lasciato lì dei capretti che ora sono cresciuti fino a diventare capre [un'espressione rabbinica, rispettivamente, per studiosi immaturi e maturi]. Ma col passare del tempo si sono allontanati dal servizio di Dio e sono molto preoccupato che tutte le mie fatiche siano state vane. I nostri Rabbini, di benedetta memoria, affermano che un piccolo gruppo in Eretz Yisrael è più significativo di settanta [membri del] Sinedrio nella Diaspora. Per questo imploro Dio di condurmi a Sion col canto, di servirLo all'unisono, di santificare il Suo nome, se questa è la Sua volontà e la Sua pietà per me, l'inferiore. Ma se Dio desidera diversamente, devo annullare la mia volontà davanti alla Sua benedetta volontà, perché questa è la cosa principale. Come hanno detto i nostri primi maestri, l'adorazione consiste nell'uomo che fa ciò che Dio vuole.

E così, per esempio, ti hanno gettato in un piccolo villaggio e lì devi trovare la grazia di Dio. Ad esempio, in una grande città ci sono molte manovre politiche, si sentono e si testimoniano molte bugie, e uno, soprattutto uno shochet, è estremamente venduto a falsità incommensurabili. Sappi, figlio mio, credi a ciò che ho ricevuto dagli Zaddiqim: quando uno è venduto, anche a una sola falsità permanente, Dio non voglia, questo fa sì che tutta l'interpretazione intorno e intorno puzzi, tale è il potere che c'è nell'attuale stile di culto completamente falso. Ma ora vivi in ​​un villaggio, libero da falsità incommensurabili, quindi dovresti essere pieno di gioia, poiché l'adorazione di Dio è in ogni caso rara nel mondo odierno e non c'è nessuno con cui conversare. Al contrario, sembra agli altri cosa comica.

Ma sappi, mio ​​caro figlio, la cosa principale è tenere il conto di ogni minuto, non prendere l'abitudine di pettegolezzi inutili con tua moglie o di chiacchiere infantili con i tuoi figli. Vedrai che, qualunque siano le abitudini a cui un uomo si abitua, è aiutato dal Cielo a mantenerle in un modo o nell'altro. Ricorda i giorni della tua giovinezza, quando spendevi tutte le tue forze nello studio assiduo della Torah e nella vita di preghiera con interiorità, che santifica e purifica interiormente ed esteriormente. Ti ho parlato spesso di come l'impegno nel culto divino impedisca di cadere. E la cosa principale, in ogni caso, è non disperare mai. Perché anche se ci si trova tra estranei, come affermano i discepoli del Baal Shem Tov, la regola è: tutto ciò che si può comprendere, lo si deve comprendere e, in caso contrario, è comunque proibito guardare il modo in cui si comporta il mondo e, se necessario, si deve fare l'esatto opposto di ciò che fa il mondo intero. Non si può comprendere, e non è permesso comprendere, l'idea della preghiera finché non ci si è immersi in questa materia per molti anni. Questo a patto che non ci si abitui a fare gesti strani, come fanno gli stupidi, a ondeggiare violentemente avanti e indietro, ad avere gli occhi vitrei o a muovere la testa su e giù e simili gesti folli che sono un abominio per Dio. Il fatto che gli Zaddiqim facessero, a volte, queste cose era dovuto al loro profondo attaccamento a Dio che ardeva nel loro cuore ed erano inconsapevoli e ignari di ciò che stavano facendo. Ma chi manca nello sforzo di concentrarsi sul chiaro significato delle parole delle preghiere o persino sulle intenzioni di purificazione e sul timore di Dio, non appartiene a questa categoria, come ogni persona intelligente capisce.

La radice del problema è che ogni figlio d'Israele deve ricercare per tutta la vita "l'umiltà di spirito e il punto della verità", poiché questa è la vera forma di adorazione per tutti i nostri giorni. Come ho detto, e sono sempre solito dire, le lettere della parola emet ["verità"] sono le lettere iniziali di emunah ["fede"], mesirat nefesh ["sacrificio di sé"] e tekifut ["testardaggine"]. Questi sono i principi fondamentali per raggiungere la verità. Infatti, l'uomo di fede non ha bisogno di adulazione e non ha bisogno di ricorrere ad alcun tipo di falsità. Quanto al sacrificio di sé, questo significa la disponibilità a sacrificarsi per la verità, e deve essere estremamente testardo per resistere, con la poca verità appresa, contro qualsiasi creatura. Di conseguenza, nel corso del tempo, Dio aiuta l'uomo a raggiungere l'umiltà di spirito, poiché la verità e l'umiltà di spirito sono compagni inseparabili.

Figlio mio caro, siamo quasi a Pesach e il periodo non è adatto a scrivere lettere. Eppure ti ho scritto per riguardo nei tuoi confronti. Ti prego, conserva questa lettera. Non buttarla via, ma prendila sempre per leggerla e, con l'aiuto di Dio, ti farà bene. Rifletti e considera in ogni momento quanto si può realizzare con spirito di sacrificio. Di conseguenza, figlio mio amato, non gettare via, Dio non voglia, il messaggio che hai ricevuto da me nella tua giovinezza. Perché questo è il significato di un vero discepolo: attenersi saldamente alle vie del suo maestro e non allontanarsene mai. Questa è la mia supplica, in tutte le mie funzioni di Rebbe, che biasimo e detesto, come è ben noto a tutti coloro che mi conoscono, affinché Dio mi aiuti a far crescere un discepolo intelligente. Tutti i miei discepoli sono tenuti a santificare il Suo nome benedetto ovunque vadano, perché questo è l'obiettivo degli obiettivi. Possa essere volontà di Dio che io ne abbia il merito per sempre. Amen.

Voglio chiederti di imparare a memoria il trattato Berakhot e di assicurarti di completarlo, senza essere indolente, perché da esso deriverà molto bene all'anima. E ripeti ogni giorno diverse pagine del Tikuney Zohar...

Il tuo amico...

Sia dal Munkacer che da Reb Arele si ricavano forti indicazioni di come questi due tardi maestri chassidici, uno rampollo di una dinastia illustre, l'altro il Rebbe fondatore di una dinastia, cercassero onestamente di affrontare i problemi del discepolato. Entrambi i maestri si sforzano di rifiutare qualsiasi senso di superiorità sui propri discepoli e tuttavia, accettando di fungere da Rebbe, devono aver accettato di essere sufficientemente avanzati da far da guida a coloro per i quali l'obiettivo era più distante. Il chassidismo dovette affrontare questo problema fin dal suo inizio, soprattutto perché sottolineava così tanto la natura elevata dello Zaddiq. Se, in ultima analisi, il chassidismo sia riuscito a risolvere adeguatamente il problema è un'altra questione. Forse R. Israel Salanter aveva ragione quando affermava: "Sia i chassidim che i mitnaggedim sbagliano. I mitnaggedim sbagliano nel pensare di non aver bisogno di un Rebbe. I chassidim sbagliano nel pensare di avere un Rebbe."

Rotolo della Torah: Libro di Isaia
Rotolo della Torah: Libro di Isaia