Impresa sociale di comunità/Rapporti di lavoro: differenze tra le versioni

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L’art. 5 prevede una seconda modalità di incentivazione dell’attività delle cooperative sociali di tipo b), ovvero la possibilità, in capo agli enti pubblici, di stipulare ''convenzioni'' con queste ultime, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione (e dunque in via diretta), per affidare loro commesse di lavoro.
L’art. 5 prevede una seconda modalità di incentivazione dell’attività delle cooperative sociali di tipo b), ovvero la possibilità, in capo agli enti pubblici, di stipulare ''convenzioni'' con queste ultime, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione (e dunque in via diretta), per affidare loro commesse di lavoro.


Va peraltro rilevato che la portata incentivante dello strumento in esame, inizialmente ammesso in via generalizzata, è stata ridimensionata dalle modificazioni apportate all’art. 5 della l. n. 381 del 1991 dall’art. 20 della l. n. 52 del 1996 ['''''link''''']. Quest’ultima disposizione, nel recepire la direttiva comunitaria 92/50/CEE, ha infatti stabilito che le descritte convenzioni non possano riguardare commesse il cui importo sia uguale o superiore a quello stabilito dalle direttive comunitarie in tema di appalti pubblici. In quest’ultimo caso, infatti, la pubblica amministrazione interessata deve comunque procedere ad una gara di appalto, salvo poter ricorrere alla cosiddetta clausola sociale, ovvero stabilire, tra le condizioni di esecuzione, l’obbligo di eseguire il contratto con l’impiego di persone svantaggiate. <br/>
Va peraltro rilevato che la portata incentivante dello strumento in esame, inizialmente ammesso in via generalizzata, è stata ridimensionata dalle modificazioni apportate all’art. 5 della l. n. 381 del 1991 dall’art. 20 della l. n. 52 del 1996 [[http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/5/20040608135451_10-113-232-21.pdf]]. Quest’ultima disposizione, nel recepire la direttiva comunitaria 92/50/CEE, ha infatti stabilito che le descritte convenzioni non possano riguardare commesse il cui importo sia uguale o superiore a quello stabilito dalle direttive comunitarie in tema di appalti pubblici. In quest’ultimo caso, infatti, la pubblica amministrazione interessata deve comunque procedere ad una gara di appalto, salvo poter ricorrere alla cosiddetta clausola sociale, ovvero stabilire, tra le condizioni di esecuzione, l’obbligo di eseguire il contratto con l’impiego di persone svantaggiate. <br/>
Il modello di inserimento lavorativo di persone svantaggiate tramite cooperative sociali di tipo b) ha avuto, come dimostrano varie ricerche empiriche sul punto, notevole successo, grazie anche al sistema di incentivi immaginato dalla l. n. 381 del 1991 e che si è qui sinteticamente descritto. Ciò è avvenuto, tra l’altro, nonostante i provvedimenti legislativi più recenti intervenuti sull’impianto di tale legge abbiano avuto, come si è avuto modo di notare, una certa tendenza al ridimensionamento degli incentivi stessi.
Il modello di inserimento lavorativo di persone svantaggiate tramite cooperative sociali di tipo b) ha avuto, come dimostrano varie ricerche empiriche sul punto, notevole successo, grazie anche al sistema di incentivi immaginato dalla l. n. 381 del 1991 e che si è qui sinteticamente descritto. Ciò è avvenuto, tra l’altro, nonostante i provvedimenti legislativi più recenti intervenuti sull’impianto di tale legge abbiano avuto, come si è avuto modo di notare, una certa tendenza al ridimensionamento degli incentivi stessi.



===L'inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati nelle imprese sociali===
===L'inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati nelle imprese sociali===

Versione delle 12:07, 7 apr 2008

M. Borzaga

Nel presente capitolo si prenderanno in esame le peculiarità dei rapporti di lavoro nelle imprese sociali e si tenterà di mettere in luce quali forme di incentivo, sia economico che normativo, siano collegate ai suddetti rapporti. Si approfondirà anzitutto lo status del socio-lavoratore di cooperativa, facendo particolare attenzione alle “deviazioni” che caratterizzano tale figura di lavoratore rispetto ai lavoratori standard, “deviazioni” dovute alla convivenza, in capo a tale soggetto, di due diversi rapporti, associativo e di lavoro. In secondo luogo, ci si occuperà dell’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati, istituto tipico, inizialmente, delle cooperative sociali ed oggi invece applicabile, in generale, a tutte le imprese sociali. In tale contesto, ci si concentrerà sugli incentivi economici e normativi a disposizione delle cooperative e delle imprese sociali, approfondendo, di seguito, l’istituto delle convenzioni tra uffici pubblici, datori di lavoro privati e cooperative sociali, introdotto dall’art. 12 della l. n. 68 del 1999 [[1]] (e successivamente implementato dall’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003 [[2]]) per favorire l’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati. In terzo luogo, si analizzeranno i contratti di lavoro atipici previsti dall’ordinamento italiano, mettendone in luce le caratteristiche principali e le ragioni per cui cooperative ed imprese sociali potrebbero essere indotte a farne uso. Particolare attenzione sarà dedicata al contratto di inserimento, introdotto dalla l. n. 30 del 2003 [[3]] e dal d. lgs. n. 276 del 2003, in considerazione del fatto che esso potrebbe costituire, per i profili incentivanti che lo caratterizzano, uno strumento utile a favorire l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati nell’ambito delle cooperative e, più in generale, delle imprese sociali.


Cosa troverete in questo capitolo:
  • Il socio lavoratore
  • I lavoratori svantaggiati
  • Convenzioni per l'inserimento lavorativo
  • Imprese sociali e contratti atipici


Mentre il presente manuale era in corso di stampa, il legislatore italiano è intervenuto su alcune delle questioni in esso trattate, modificando, in particolare, la disciplina relativa alle convenzioni per l'inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati (par. 4). In effetti, l’art. 1, co. 37 della l. n. 247 del 2007 [[4]](attuativa del cosiddetto Protocollo Welfare) ha modificato l’art. 12 della l. n. 68 del 1999 e ha introdotto nella stessa un nuovo art. 12bis, mentre l’art. 1, co. 38 della medesima legge ha abrogato l’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003. Le modifiche apportate all’art. 12 della l. n. 68 del 1999 non sembrano essere particolarmente rilevanti: assai più significativa è, invece, l’introduzione del nuovo modello convenzionale di cui all’art. 12bis della l. n. 68 del 1999, che ha di fatto sostituito quello di cui all’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003. Se non è questa la sede per poter approfondire tali questioni, va peraltro rilevato che, nel modificare le norme citate, il legislatore del 2007 ha inserito le imprese sociali tra i soggetti che possono stipulare le convenzioni di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati di cui all'art. 12 ed al nuovo art. 12bis della l. n. 68 del 1999, colmando così una lacuna che si era avuto modo di segnalare nel corso della trattazione.


Il socio lavoratore di cooperativa

Molte imprese sociali sono costituite in forma cooperativa e dunque assume particolare rilevanza, nel contesto in esame, approfondire il tema della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa (anche sociale), così come riformata dalla l. n. 142 del 2001 [[5]].
Tale posizione giuridica ha da sempre sollevato numerosi dubbi tra i giuslavoristi: per molti anni (fino sostanzialmente alla riforma) si è quasi unanimemente ritenuto che il rapporto del socio lavoratore con la cooperativa fosse unico ed avesse natura associativa: le prestazioni lavorative di costui venivano conseguentemente ricondotte al contratto di società. Era in tal modo esclusa l’esistenza, in capo al socio lavoratore, di un rapporto di lavoro, e ciò nonostante il legislatore avesse esteso alla relativa categoria di soggetti significativi “spezzoni” della disciplina giuslavoristica e previdenziale.

Tale situazione si è modificata radicalmente a seguito dell’approvazione della l. n. 142 del 2001 (successivamente modificata dall’art. 9 della l. n. 30 del 2003), la quale ha invece stabilito, in via preliminare, il principio della duplicità dei rapporti giuridici in capo al socio lavoratore, riconoscendo dunque la sussistenza, nella figura del socio lavoratore, di due diverse anime:

  1. l’anima di carattere associativo, rappresentata dal contratto di società;
  2. l’anima di carattere lavoristico, rappresentata dal contratto di lavoro.


  1. Per quanto attiene il contratto di società, infatti, l’art. 1, co. 2 della l. n. 142 del 2001 afferma che “I soci lavoratori di cooperativa:
    • concorrono alla gestione dell’impresa partecipando alla formazione degli organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell’impresa;
    • partecipano alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni concernenti le scelte strategiche, nonché alla realizzazione dei processi produttivi dell’azienda;
    • contribuiscono alla formazione del capitale sociale e partecipano al rischio d’impresa, ai risultati economici ed alle decisioni sulla loro destinazione;
    • mettono a disposizione le proprie capacità professionali anche in relazione al tipo e allo stato dell’attività svolta, nonché alla quantità delle prestazioni di lavoro disponibili per la cooperativa stessa”.
  2. Per quanto riguarda il contratto di lavoro, invece, l’art. a, co. 3 della l. n. 142 del 2001 stabilisce che: “Il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale, con cui contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali”.


Con la l. n. 142 del 2001 si riconoscono quindi in capo al socio lavoratore due distinti rapporti giuridici. Il fatto peraltro che i suddetti due distinti rapporti giuridici insistano, per l’appunto, su un medesimo soggetto comporta possibili interferenze tra gli stessi. Ne consegue che, almeno per taluni aspetti, i rapporti di lavoro tra socio lavoratore e cooperativa assumono caratteristiche peculiari, differenziandosi da quelli stipulabili dalla cooperativa con soggetti non soci.


Le caratteristiche del rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa

Prima di mettere in luce le peculiarità relative ai rapporti di lavoro instaurabili tra socio e cooperativa vale peraltro la pena di soffermarsi sulle caratteristiche generali di essi. Va ribadito che il rapporto di lavoro si pone come “ulteriore” rispetto a quello di società e che lo stesso può stipularsi in forma:

  1. subordinata;
  2. autonoma;
  3. in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale.

In particolare, con l’espressione 3. il legislatore sembrerebbe aver valorizzato in modo marcato l’autonomia contrattuale delle parti che, ex art. 1322, co. 2, del codice civile, possono dare vita a rapporti di lavoro anche atipici rispetto alle tre tipologie citate, purché non espressamente vietati dalla legge. Come si vedrà, tale locuzione, lungi dall’essere superflua, assume un’importanza del tutto particolare per inquadrare giuridicamente l’attività prestata dai soci volontari nell’ambito delle cooperative sociali.

Va a questo punto messo in luce come, sotto questo medesimo profilo, un ruolo fondamentale sia svolto dal regolamento interno della cooperativa stessa, che, ai sensi dell’art. 6 della l. n. 142 del 2001, deve indicare “la tipologia di rapporti che si intendono attuare, in forma alternativa”, nonché contenere “le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da parte dei soci, in relazione all’organizzazione aziendale della cooperativa e ai profili professionali dei soci stessi, anche nei casi di tipologie diverse da quella di lavoro subordinato”.
In altri termini, una volta individuati i profili professionali necessari per il perseguimento dei fini aziendali, il regolamento interno deve prevedere se, con riguardo singolarmente a ciascuno di essi, possano instaurarsi rapporti di lavoro subordinato, autonomo, parasubordinato o in altra forma.

È dunque l’assemblea dei soci a dover stabilire, nel regolamento interno, quali siano le tipologie di rapporto di lavoro instaurabili con i soci: di conseguenza, qualora talune forme contrattuali non siano contemplate dal regolamento interno, le medesime non possono essere utilizzate dalla cooperativa. Ciò avviene per il fatto che le parti del contratto di lavoro, in sede di conclusione di esso, devono attenersi a quanto previsto dal regolamento stesso, optando per una delle tipologie contrattuali esplicitamente contemplate da quest’ultimo.

Soprattutto a seguito della l. n. 30 e del d. lgs. n. 276 del 2003 (c.d. “riforma Biagi del mercato del lavoro”) le tipologie di contratto di lavoro flessibile (sia subordinato che autonomo) riconosciute e regolamentate dall’ordinamento italiano sono oggi molto numerose.


Il socio lavoratore subordinato e le relative tutele

Con riguardo anzitutto ai soci titolari di un rapporto di lavoro subordinato, la l. n. 142 del 2001, all’art. 2, stabilisce che per costoro debba vigere l’intera disciplina normalmente applicabile ai lavoratori subordinati in genere, seppure con alcune assai rilevanti eccezioni.
La suddetta norma afferma infatti che:

“Ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la l. 20 maggio 1970, n. 300, con esclusione dell’articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo. Si applicano altresì tutte le vigenti disposizioni in materia di sicurezza e igiene del lavoro”.

A seguito di una modifica apportata dall’art. 9 della l. n. 30 del 2003, al medesimo articolo è stato aggiunto un ulteriore inciso:

“L’esercizio dei diritti di cui al titolo III della citata legge n. 300 del 1970 trova applicazione compatibilmente con lo stato di socio lavoratore, secondo quanto determinato da accordi collettivi tra associazioni nazionali del movimento cooperativo e organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative”.

Alla stregua di tale disposizione normativa può affermarsi che le interferenze fra rapporto associativo e rapporto di lavoro danno luogo, nel caso del socio lavoratore subordinato di cooperativa, a due diversi ordini di “deviazioni” rispetto alla generalità dei rapporti di lavoro dipendente.

  1. In primo luogo, se è vero che la l. n. 300 del 1970, ovvero il c.d. Statuto dei Lavoratori risulta applicabile anche ai soci di cooperativa, è altrettanto vero che per costoro non vige l’art. 18 del suddetto provvedimento normativo – cioè la disciplina in materia di tutela reale in caso di licenziamento illegittimo – nel caso in cui con il rapporto di lavoro venga a cessare anche il rapporto associativo. In proposito, si rileva come l’art. 9, comma 1, lett. d) della l. n. 30 del 2003, nel riscrivere il secondo comma dell’art. 5 della l. n. 142 del 2001, abbia previsto che “il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli art. 2526 e 2527 del codice civile”.
    Ciò significa, in particolare, che nel caso in cui il socio receda o sia escluso dalla cooperativa, automaticamente viene meno anche il rapporto di lavoro, senza che, appunto, si applichi alcuna tutela in materia di licenziamenti illegittimi.
    In effetti, anche se il legislatore si riferisce espressamente al solo art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, si è affermato che in caso di recesso o esclusione del socio non si applichi nemmeno la c.d. tutela obbligatoria in caso di licenziamento illegittimo, prevista dalla l. n. 604 del 1996 e consistente nella riassunzione del lavoratore ovvero nel pagamento, a scelta del datore di lavoro, di un risarcimento danni. Tale conclusione si fonda sulla circostanza che nel caso di recesso o di esclusione del socio, quest’ultimo dispone soltanto di tutele di tipo societario e non lavoristico, essendo la cessazione del rapporto di lavoro, come si accennava, un automatismo legato al venire meno del rapporto associativo. L’unico strumento di tutela a disposizione del socio per salvaguardare anche il rapporto di lavoro consisterà, in questo caso, nell’impugnazione della delibera di esclusione che egli ritenga viziata e, dunque, annullabile.
  1. Un secondo ordine di “deviazioni” è costituito dal fatto che, come ha precisato l’art. 9 della l. n. 30 del 2003, i diritti di cui al titolo III della l. n. 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori), ovvero i diritti sindacali, possono essere esercitati dal socio di cooperativa compatibilmente con il suo stato di socio, ai sensi di quanto stabilito dalla contrattazione collettiva nazionale.
    A ben vedere, con riguardo a tali diritti il legislatore introduce un filtro di compatibilità, sul presupposto che la causa del contratto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa, ovvero la funzione economico-sociale di tale contratto, è parzialmente “deviata”, ovvero difforme rispetto a quella classica del lavoro subordinato in generale, identificabile nello scambio lavoro-retribuzione.
    Con ciò non si vuol certo dire che venga meno la natura contrattuale del rapporto di lavoro del socio lavoratore, ma semplicemente che la sussistenza, accanto ad esso, del rapporto associativo ha comunque delle conseguenze significative. In particolare, la circostanza che socio lavoratore subordinato e cooperativa perseguano i medesimi scopi tende a determinare il superamento, almeno parziale, della natura conflittuale che caratterizza di norma i contratti di lavoro, in quanto, specie per le cooperative sociali, la messa a disposizione dei soci di occasioni di lavoro a condizioni più favorevoli rispetto al mercato del lavoro ordinario può consistere nel perseguimento e nell’ottenimento di vantaggi diversi ed ulteriori rispetto, appunto, al mero scambio tra lavoro e retribuzione. Il perseguimento di fini solidaristici rientra senza dubbio nel rapporto associativo, ma, nel caso dei soci lavoratori, permea pure il contratto di lavoro, attenuandone il carattere tipicamente di scambio.


Il socio lavoratore autonomo

Il socio può concludere con la cooperativa un contratto ulteriore non solo di lavoro subordinato, ma anche di lavoro autonomo nonché in qualsiasi altra forma, ivi compresi i contratti di collaborazione coordinata non occasionale.

In proposito, va rilevato come i contratti di collaborazione coordinata non occasionale siano, a detta dell’unanime dottrina, assimilabili e del tutto sovrapponibili a quelli, più noti, di collaborazione coordinata e continuativa.

Con riguardo a questi ultimi, poi, va messo in luce come il legislatore della Riforma Biagi (l. n. 30 e d. lgs. n. 276 del 2003) sia intervenuto in modo assai significativo, sancendo la necessità di ricondurli a progetti specifici, programmi di lavoro o fasi di essi, introducendo così quello che è stato definito come “lavoro a progetto”. L’obiettivo perseguito dal legislatore con l’adozione di tale istituto consisteva nella volontà di ridurre gli abusi che, dalla seconda metà degli anni novanta in poi, avevano riguardato proprio i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa; tentando, con la riconduzione a progetto, di ridimensionare il fenomeno dei “contratti di lavoro subordinato mascherati da contratti di collaborazione coordinata e continuativa”, fenomeno difficilmente calcolabile in termini precisi, ma che coinvolgeva sicuramente una quota significativa di soggetti attivi.

È peraltro parso necessario accennare a tale tipologia contrattuale già in questa sede in quanto, secondo alcuni, quest’ultima sarebbe incompatibile con le peculiarità del lavoro in cooperativa o comunque inapplicabile ad esso per ragioni legate alla corretta interpretazione della l. n. 142 del 2001 e della Riforma Biagi nei loro rapporti reciproci. Se così fosse, si dovrebbe ritenere che al lavoro in cooperativa continuino ad applicarsi i “vecchi” rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e dunque, in sostanza, le norme precedenti all’entrata in vigore della l. n. 30 e del d. lgs. n. 276 del 2003.

Lente d'ingrandimento Approfondimento

Le due tesi
Le tesi con cui si è tentato di negare l’applicabilità del lavoro a progetto alle cooperative sono state, in particolare, due.

  1. Secondo un primo orientamento il suddetto istituto sarebbe incompatibile con il lavoro in cooperativa per il fatto che le relative prestazioni lavorative devono avere necessariamente durata determinata o determinabile, a differenza di quanto accadeva invece con riguardo ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa, che potevano (e possono ancora oggi, visto che come si avrà modo di dire, in determinati settori tale tipologia contrattuale continua ad esistere) essere stipulati a tempo indeterminato. Ebbene, l’intrinseca temporaneità caratterizzante il lavoro a progetto cozzerebbe, secondo il suddetto orientamento, con il dettato di alcune norme della l. n. 142 del 2001, in particolare laddove quest’ultima (art. 1, co. 2, lett. d e art. 6, co.1, lett. b) sembrerebbe stabilire che il socio, con il rapporto di lavoro ulteriore, debba mettere a disposizione della cooperativa le sue attività professionali in modo comunque continuativo. Si tratta peraltro di una soltanto delle possibili interpretazioni delle citate norme, che, tra l’altro, non parlano in maniera esplicita del carattere necessariamente continuativo delle attività professionali messe a disposizione del socio: del resto, ed è forse questa la ragione principale per cui l’opinione dottrinale sin qui descritta deve essere respinta, nessuno ha mai messo in dubbio che, a seguito dell’approvazione della l. n. 142 del 2001, il socio possa stipulare con la cooperativa un ulteriore contratto di lavoro subordinato a termine, nel qual caso, evidentemente, la natura continuativa della prestazione è senz’altro esclusa.
  2. Secondo un diverso approccio, l’applicazione del lavoro a progetto al settore delle cooperative sarebbe da respingersi sulla base del sistema di esclusioni e abrogazioni stabilito dalla Riforma Biagi con riferimento al suddetto istituto. Alla stregua di tale impostazione, cioè, il lavoro a progetto non costituirebbe una fattispecie di portata generale, per il fatto che lo stesso non sostituisce in toto i vecchi contratti di collaborazione coordinata e continuativa bensì, proprio grazie ad un particolare sistema di esclusioni, le lascia sopravvivere in determinati settori e con riguardo a specifiche figure professionali. Pertanto, poiché la Riforma Biagi non ha provveduto ad abrogare, né implicitamente né esplicitamente, quella parte dell’art. 1, co. 3 della l. n. 142 del 2001 in cui si parla di “collaborazioni coordinate non occasionali”, per quanto attiene al lavoro in cooperativa dovrebbe continuare a ricorrersi a queste ultime, essendo invece esclusa la possibilità di utilizzare il lavoro a progetto. In realtà, anche a questo orientamento può ribattersi, come del resto è stato puntualmente fatto, che mentre l’art. 1, co. 3 della l. n. 142 del 2001 ha carattere definitorio, ovvero indica quali sono le tipologie di contratto di lavoro astrattamente stipulabili tra socio e cooperativa, le norme in tema di lavoro a progetto hanno invece natura permissiva, stabiliscono cioè gli elementi che debbono essere necessariamente rispettati per poter ricorrere appunto a tale figura contrattuale. Giova inoltre ricordare che, qualora tali elementi non sussistano ovvero non siano rispettati le conseguenze sono particolarmente gravose, in quanto le norme sul lavoro a progetto prevedono la trasformazione dei relativi rapporti in lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Poiché le opinioni dottrinali che hanno tentato di dimostrare l’incompatibilità tra lavoro a progetto e cooperative sono state confutate dalla maggior parte degli interpreti, può a questo punto concludersi che tra i diversi rapporti di lavoro stipulabili tra il socio e la cooperativa ricade, appunto, anche quello di lavoro a progetto, purché, evidentemente, lo stesso sia annoverato tra quelli stabiliti dal regolamento interno. Va altresì rilevato che l’introduzione nell’ordinamento del lavoro a progetto non è stata accompagnata dall’eliminazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa.

Lente d'ingrandimento Approfondimento

Le collaborazioni coordinate continuative residue
Il d. lgs. n. 276 del 2003 non ha disposto l’abrogazione delle relative norme, ma ha piuttosto stabilito (art. 61) che, in alcuni casi, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa non debbano essere ricondotte a progetto, il che significa, in particolare, che i relativi contratti possono essere stipulati secondo le vecchie regole. Nei casi suddetti, che come si accennava verranno partitamene analizzati in seguito, anche i soci possono dunque continuare a concludere con la cooperativa contratti di collaborazione coordinata e continuativa.


Le tutele riconosciute al socio-lavoratore autonomo

Fatte queste precisazioni in merito alle tipologie di contratti di lavoro autonomo che il socio può stipulare con la cooperativa, è il caso, a questo punto, di affrontare la questione delle tutele che la l. n. 142 del 2001 stabilisce in capo al socio lavoratore autonomo. In proposito, va rammentato come, in generale, il diritto del lavoro non si applichi ai lavoratori autonomi, nemmeno qualora siano soci della cooperativa.
Con riguardo a questi ultimi, peraltro, l’art. 2, co. 1, seconda parte, della l. n. 142 del 2001, stabilisce l’applicabilità non già di tutta, bensì solo di alcune specifiche norme della l. n. 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori). Si tratta, in particolare, degli artt. 1 (libertà di opinione) e 8 (divieto di indagini sulle opinioni), di cui al titolo primo della legge in questione, dedicato alla libertà e dignità dei lavoratori e degli artt. 14 (diritto di associazione e di attività sindacale) e 15 (atti discriminatori), contenuti invece nel titolo secondo dello Statuto, concernente la libertà sindacale.

Inoltre, secondo la medesima norma della l. n. 142 del 2001, si applicano ai soci lavoratori autonomi anche le normative in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro di cui al d. lgs. n. 626 del 1994 (e successive modificazioni) ed al d. lgs. n. 494 del 1996, in quanto compatibili con le modalità della prestazione lavorativa. L’introduzione di un filtro di compatibilità in merito alle norme concernenti salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è dovuta alla circostanza che i soci lavori autonomi si caratterizzano, in quanto tali, per il fatto di auto-organizzare la propria attività professionale, che dunque dovrebbe svolgersi, di norma, al di fuori dei locali dell’impresa committente. Peraltro, specie con riguardo a quei rapporti di lavoro autonomo denotati da un significativo coordinamento tra l’attività lavorativa ed i fini perseguiti dall’impresa committente, quali sono i rapporti di lavoro a progetto e quelli di collaborazione coordinata e continuativa, accade spesso che il prestatore d’opera svolga la propria attività professionale essenzialmente all’interno dei locali aziendali. Ecco, allora, che il filtro di compatibilità è stato introdotto proprio con lo scopo di tenere conto delle descritte peculiarità dei rapporti di lavoro autonomo: le disposizioni protettive in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro troveranno evidentemente applicazione solo nei casi e nei limiti in cui i soci lavoratori autonomi prestino la loro attività all’interno dei locali aziendali.

Sempre rimanendo al versante delle tutele, ai sensi dell’art. 3 della l. n. 142 del 2001, ai soci lavoratori autonomi deve essere riconosciuto un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, comunque non inferiore ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese, appunto, in forma di lavoro autonomo. In altri termini, il legislatore richiama qui i principi costituzionali in materia di retribuzione (ed in particolare, l’art. 36 Cost.), precisando tuttavia che, laddove si tratti di lavoratori autonomi e non sussistano, in proposito, accordi economici collettivi applicabili in virtù del principio della rappresentanza a tali lavoratori, non si potranno applicare i minimi retributivi previsti da contratti collettivi stipulati con riguardo a settori o categorie affini, ma ci si dovrà piuttosto riferire ai compensi medi riconosciuti, in genere, ai lavoratori autonomi per prestazioni analoghe.

Il socio volontario

Per quanto attiene alle cooperative sociali, assume particolare importanza la categoria dei soci volontari, in merito ai quali si pone una questione preliminare, ovvero se costoro rientrino o meno nell’ambito di applicazione della l. n. 142 del 2001, specie in considerazione della gratuità che caratterizza l’attività dagli stessi prestata. In altri termini, si pone il problema di capire se i suddetti soci possano o meno considerarsi come “lavoratori”.
Su questo punto, va anzitutto rilevato come, prima dell’approvazione della l. n. 142 del 2001, l’attività di lavoro gratuito prestata dal socio volontario venisse ricondotta, sulla base della teoria dell’unicità del rapporto intercorrente tra socio e cooperativa, all’adempimento del contratto associativo. Dopo l’approvazione della normativa di riforma ed il riconoscimento della sussistenza, in capo al socio lavoratore, di due distinti rapporti, l’uno societario e l’altro di lavoro, si è però posto il problema, appunto, del corretto inquadramento di tale prestazione di carattere solidaristico.

Lente d'ingrandimento Approfondimento

La dottrina
In proposito, una parte della dottrina, applicando erroneamente un principio previsto in realtà per le sole organizzazioni di volontariato – ovvero quello secondo cui “la qualità di volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l’organizzazione di cui (questi) fa parte” (art. 2, co. 3, l. n. 266 del 1991) – ha ritenuto che la l. n. 142 del 2001 non potesse applicarsi ai soci volontari di cooperative sociali. In realtà, come si accennava, il principio enunciato riguarda soltanto il rapporto esistente tra volontari e organizzazioni di volontariato e non quello tra soci volontari e cooperative sociali, ed è dunque scorretto estendere analogicamente a questi ultimi una norma espressamente dedicata ai primi.
Non solo: sul punto va altresì rilevato che la legge istitutiva delle cooperative sociali (l. n. 381 del 1991 [link]), all’art. 3, co. 3, si limita ad affermare che “ai soci volontari non si applicano i contratti collettivi e le norme di legge in materia di lavoro subordinato ed autonomo, ad eccezione delle norme in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”. Sulla base di tale disposizione può dunque concludersi soltanto che al socio volontario non si applicano leggi e contratti collettivi in materia di lavoro autonomo e subordinato, ma non certo che il medesimo socio volontario non possa instaurare con la cooperativa sociale un rapporto ulteriore rispetto a quello associativo, avente ad oggetto la prestazione di un’attività lavorativa seppur svolta a titolo gratuito.

Non a caso, dunque, altra parte della dottrina (quella maggioritaria), ha affermato che la l. n. 142 del 2001 si applichi anche ai soci volontari di cooperative sociali, e ciò sulla base di varie considerazioni, oltre a quella appena indicata. Infatti, non solo la l. n. 381 del 1991 non esclude espressamente la possibilità per il socio volontario di instaurare con la cooperativa un rapporto di lavoro, ma sono poi alcune norme della medesima l. n. 142 del 2001 a corroborare la tesi della sua applicabilità anche ai soci volontari. Ci si riferisce, anzitutto, all’art. 1, co. 3 della l. n. 142 del 2001, all’interno del quale si afferma che il socio lavoratore, instaurando con la cooperativa l’ulteriore rapporto di lavoro, contribuisce al raggiungimento degli scopi sociali: è del tutto evidente che il socio volontario, con il proprio lavoro gratuito, concorre in maniera assolutamente significativa al conseguimento delle finalità istituzionali dell’ente. Inoltre, e ragionando in questo caso a contrario, può sostenersi (come è stato opportunamente fatto) che l’esclusione dell’attività lavorativa, pur gratuita, dei soci volontari dall’ambito di applicazione della l. n. 142 del 2001, dando vita ad una evidente disparità di trattamento tra le diverse categorie di soci, sarebbe dovuta essere oggetto di una deroga espressa, che invece non ha trovato posto nelle maglie della riforma.

Ad ogni modo, l’argomento più significativo a sostegno della tesi dell’applicabilità della l. n. 142 del 2001 anche ai soci volontari di cooperative sociali è dato dal medesimo co. 3 dell’art. 1, a mente del quale il socio instaura con la cooperativa, oltre a quello associativo, un ulteriore rapporto di lavoro subordinato, autonomo o in qualsiasi altra forma. Si tratta, evidentemente, di una formula aperta, con la quale il legislatore ha voluto far ricadere nell’ambito di applicazione della l. n. 142 del 2001 ogni rapporto di lavoro, tipico o atipico che sia, a prescindere dal fatto che la causa del relativo contratto sia di natura scambistica o liberale. Del resto, se il legislatore non avesse voluto adottare un approccio tanto ampio, il ricorso alla locuzione “in qualsiasi altra forma” sarebbe stato decisamente sovrabbondante, in quanto, allo stato attuale, nell’ordinamento italiano sono in realtà rinvenibili soltanto rapporti di lavoro subordinato, autonomo o parasubordinato; rapporti, cioè, già puntualmente ed espressamente indicati dal medesimo art. 1, co. 3 della l. n. 142 del 2001. Come si è puntualmente sottolineato, dunque, con l’utilizzo della citata locuzione il legislatore altro non avrebbe voluto fare se non, appunto, includere nell’ambito di applicazione della l. n. 142 del 2001 le prestazioni di lavoro gratuite svolte dal socio volontario nonché, eventualmente, altre forme contrattuali non ancora esistenti ma in relazione alle quali il legislatore stesso si riserva la possibilità di legiferare in futuro.

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Della legge 381/1991 si parla anche nel capitolo ottavo - Forme giuridiche.


La discussione sorta negli ultimi anni in merito allo status del socio volontario assume una rilevanza fondamentale: riconoscere a quest’ultimo la posizione di socio lavoratore significa, infatti, superare l’assunto, per lungo tempo dominante, secondo cui qualora una persona compia una prestazione di natura solidaristica non vi sarebbe comunque spazio per il diritto del lavoro, sebbene la persona in questione partecipi, con la propria attività, alla gestione dell’impresa ed al perseguimento delle relative finalità sociali.


Le tutele riconosciute al socio-lavoratore volontario

L’interpretazione secondo la quale anche il socio volontario instaura, con la cooperativa sociale, un ulteriore rapporto di lavoro, pur di natura gratuita, apre in particolare la strada per un’applicazione selettiva della disciplina giuslavoristica, ovvero consente di riconoscere al socio volontario, oltre a quelle espressamente indicate dalla l. n. 381 del 1991, tutte le altre tutele, specie di natura costituzionale, che non presuppongano la sussistenza di un rapporto di lavoro retribuito.
Con riguardo alle prime, ci si riferisce, in particolare, all’art. 2, co. 3 della l. n. 381 del 1991, il quale prevede l’estensione, ai soci volontari di cooperativa, delle norme in materia di assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali, gestita, quest’ultima, come ampiamente noto, dall’INAIL.
In merito invece alle seconde, si tratta di un novero di materie difficile da individuare con precisione, proprio per il fatto che, non essendo discipline espressamente determinate dal legislatore, è l’interprete a doverle volta a volta selezionare. Per quanto attiene a tale secondo ordine di materie potrebbe dunque avere un ruolo rilevante il regolamento interno di cui all’art. 6 della l. n. 142 del 2001, specie in considerazione del fatto che nell’ambito del medesimo regolamento deve farsi richiamo espresso (art. 6, co. 1, lett. c) alle normative di legge vigenti per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato e quindi anche a quelli svolti a titolo gratuito dal socio volontario.

Volendo, ad ogni modo, provare a mettere in luce quali potrebbero essere alcune delle tutele estensibili ai soci volontari, in quanto concernenti aspetti del rapporto di lavoro non direttamente connessi all’onerosità che di norma caratterizza, appunto, sia i rapporti di lavoro autonomo che quelli di lavoro subordinato, si tratta, anzitutto, di diritti generalissimi attinenti alla dignità umana e professionale, alla riservatezza, all’immagine, alla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, ai divieti di discriminazione, ai diritti di riunione e di associazione sindacale ed a quelli di formazione professionale continua. L’estensione al socio lavoratore volontario di questi diritti basilari si giustifica, in particolare, per il fatto che, sebbene a titolo gratuito, egli presta comunque un’attività lavorativa nell’ambito della quale è, evidentemente, coinvolta la persona del socio volontario stesso. Sulla base di tale ultima considerazione, nonché di una valorizzazione molto marcata della duplicità dei rapporti instaurati tra socio volontario e cooperativa, alcuni autori si sono spinti a sostenere che, accanto al novero di tutele generalissime appena indicate possano individuarsene alcune altre, in particolare quelle che, pur essendo proprie del lavoro subordinato sono comunque funzionalizzate alla salvaguardia di diritti sociali fondamentali. Si tratta, in particolare, della disciplina dell’orario di lavoro e dei riposi, della maternità, dei congedi parentali e formativi, delle ferie ed aspettative, oltre alle regole processuali del rito del lavoro.

Socio lavoratore e contratti atipici

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Poiché la regolamentazione delle tipologie contrattuali atipiche non presenta particolari peculiarità con riguardo alle cooperative sociali rispetto agli ordinari datori di lavoro, si rinvia l’analisi all’ultima parte di questo capitolo.


Imprese sociali e lavoratori svantaggiati

Le peculiarità del lavoro svolto nell’ambito di cooperative sociali non attengono soltanto alla duplicità dei rapporti contrattuali esistenti in capo al socio lavoratore, ma anche al fatto che tali enti – ed oggi, più in generale, tutte le imprese sociali – hanno un ruolo di prim’ordine per quanto attiene all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati.
In effetti, se è vero che l’ordinamento italiano presta attenzione al fenomeno del collocamento di taluni soggetti svantaggiati, e cioè in particolare dei disabili, da ormai lunghissimo tempo, l’avvento delle cooperative sociali ha dato nuovo impulso a tale fenomeno, modificando altresì, almeno in parte, l’approccio con il quale esso veniva ed ancora in parte viene affrontato.
Come si vedrà nelle pagine che seguono, del resto, l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati in cooperative sociali si ispira ad una logica promozionale ed incentivante per le cooperative stesse, mentre il collocamento obbligatorio dei disabili ha da sempre natura vincolistica, viene cioè pensato e realizzato come un vero e proprio imponibile di manodopera nei confronti dei datori di lavoro cui si applica. A questo proposito deve peraltro rilevarsi che i due sistemi appena descritti si sono evoluti nel tempo e che il legislatore ha tentato anche di metterli in comunicazione tramite la previsione di specifici strumenti, di tipo convenzionale.

Il presente paragrafo si suddivide in due diverse sezioni: la prima dedicata all’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati nelle cooperative sociali e la seconda all’inserimento dei soggetti svantaggiati nelle imprese sociali. Ciò consentirà di mettere in luce le innovazioni apportate dal legislatore su questi aspetti, proprio con la normativa in materia di impresa sociale e di capire quali limiti tali innovazioni in realtà incontrino.
A tale ricostruzione seguirà, poi, l’analisi degli strumenti convenzionali, anch’essi per molti versi problematici e perfettibili, messi in campo dal legislatore con la l. n. 68 del 1999 [[6]] prima e con il d. lgs. n. 276 del 2003 poi.


L'inserimneto lavorativo dei soggetti svantaggiati nelle cooperative sociali

La l. n. 381 del 1991 prevede due modelli di cooperative sociali:

  • quelle cd. di tipo a), che si occupano della gestione di servizi socio-sanitari ed educativi;
  • quelle di tipo b), che invece svolgono attività diverse (agricole, industriali, commerciali e di servizi) finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.

Con riguardo, in particolare, a queste ultime, va posto anzitutto in luce come esse rappresentino, nel panorama giuridico italiano, un modello di inserimento lavorativo di persone svantaggiate alternativo rispetto a quello del collocamento obbligatorio, sancito dapprima dalla l. n. 482 del 1968 e, successivamente, dalla l. n. 68 del 1999. Più in particolare si potrebbe affermare che mentre con il collocamento obbligatorio il legislatore ha fatto proprio un approccio vincolistico all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, con la regolamentazione delle cooperative sociali di tipo b) il medesimo legislatore si è invece mosso in una prospettiva promozionale.
La differenza fondamentale tra le due suddette modalità di intervento andava, e va in parte ancora oggi, ricercata nel fatto che il legislatore, mentre con riguardo al cosiddetto collocamento obbligatorio si è mosso in una logica di imponibile di manodopera, istituendo le cooperative sociali di tipo b) ha invece ritenuto, nel recepire una serie di esperienze concrete già in atto in Italia, di dare riconoscimento ad una forma di impresa la cui mission consiste proprio nell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati.
Oltre a dare riconoscimento a tale nuova realtà cooperativa, il legislatore ha altresì stabilito di supportarla tramite la previsione di un articolato sistema di incentivi.

Lente d'ingrandimento Approfondimento

In questa sede non è certo possibile ricostruire la disciplina relativa al collocamento obbligatorio, per il fatto che essa riguarda, in generale, tutti i datori di lavoro privati e pubblici e soltanto una parte di lavoratori svantaggiati, cioè i disabili, ed esula così in gran parte dall’oggetto specifico del presente capitolo. Ciononostante, nelle pagine che seguono il modello del collocamento obbligatorio (oggi definito collocamento mirato) verrà più volte richiamato, in quanto potrà essere utile come metro di paragone per valutare al meglio, anche secondo una logica di contrapposizioni, quali siano le peculiarità dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate nel quadro delle cooperative sociali.


Il concetto di lavoratore svantaggiato

Per quanto attiene all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate in cooperative sociali di tipo b), va anzitutto rilevato come la l. n. 381 del 1991 faccia riferimento ad un novero di soggetti più ampio sia di quello accolto dalla l. n. 482 del 1968 sul collocamento obbligatorio, sia di quello fatto successivamente proprio dalla l. n. 68 del 1999 in materia di collocamento mirato.
Le due normative appena citate, l’una sostitutiva dell’altra, fanno riferimento ad uno spettro di destinatari piuttosto simile, a dispetto delle diciture utilizzate, che sembrerebbero invece evidenziare una certa evoluzione normativa e, conseguentemente, una loro non totale identità. In effetti, se è vero che la l. n. 68 del 1999 sostituisce alla categoria degli invalidi, utilizzata dalla l. n. 482 del 1968, quella dei disabili, è altrettanto vero che tale passaggio appare essenzialmente terminologico. La l. n. 68 del 1999, cioè, facendo riferimento a soggetti affetti da minorazione fisica, psichica o sensoriale, ovvero da handicap intellettivo, rimane pur sempre collegata, come lo era la l. n. 482 del 1968, alla necessaria sussistenza di una riduzione della capacità lavorativa pari ad almeno il 45%. Inoltre, la nozione di disabile continua a riguardare le persone invalide del lavoro, con un grado di invalidità superiore al 33%, così come non vedenti e sordomuti, persone invalide di guerra, civili di guerra e per servizio. Infine, a tali soggetti si affiancano alcune categorie di lavoratori normodotati (come ad esempio orfani e coniugi superstiti di coloro che siano deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio), già incluse nel novero dei destinatari del collocamento obbligatorio dalla l. n. 482 del 1968.
Se si eccettuano le categorie di lavoratori normodotati citate da ultimo, risulta evidente che la nuova disciplina del collocamento mirato, come peraltro quella precedente, si riferisce a soggetti colpiti da menomazioni qualificate, cui consegue una riduzione della capacità lavorativa superiore ad una determinata percentuale e non, invece, a persone che presentino difficoltà di accesso al mercato del lavoro intese in senso ampio.

A questo tipo di difficoltà ha invece tentato di dare risposta la l. n. 381 del 1991, prevedendo, all’art. 4, co. 1, che le cooperative sociali di tipo b) possano occuparsi dell’inserimento lavorativo non soltanto di invalidi fisici, psichici e sensoriali, ma anche, più in generale, di altri soggetti a rischio di esclusione sociale, quali gli ex degenti di ospedali psichiatrici (anche giudiziari), le persone in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, le persone detenute o internate negli istituti penitenziari, nonché i condannanti e gli internati ammessi alle misture alternative alla detenzione o al lavoro all’esterno.
Tale novero di persone può essere, poi, ulteriormente ampliato in via amministrativa.
Si tratta, evidentemente, del riconoscimento dell’esistenza di un insieme di lavoratori svantaggiati ben più ampio rispetto a quello dei soli invalidi (o disabili), così come definiti dalla normativa sul collocamento obbligatorio (oggi, più correttamente, mirato). La l. n. 381 del 1991 rappresenta dunque, sotto questo profilo, la prima presa di coscienza del fatto che le difficoltà di accesso al mercato del lavoro non riguardano solo soggetti con ridotta capacità lavorativa, con menomazioni qualificate, ma anche persone che, pur essendo normodotate sotto quest’ultimo profilo, presentano caratteristiche in grado comunque di emarginarle.
Come si vedrà subito tale presa di coscienza, insieme a quella dell’importanza del ruolo della cooperazione sociale nel settore dell’inserimento lavorativo, hanno indotto il legislatore a supportare la relativa attività secondo una logica incentivante e promozionale; una logica assai diversa, per non dire opposta, rispetto a quella seguita per quanto attiene al collocamento obbligatorio ed anche a quello mirato.


Gli incentivi per il sostegno delle attività di inserimento lavorativo di persone svantaggiate

Le disposizioni normative di riferimento sono costituite dagli artt. 4 e 5 della l. n. 381 del 1991.

L’art. 4 dispone, anzitutto, che le cooperative sociali di tipo b) debbano impiegare, sul totale degli occupati, almeno il 30% di persone svantaggiate e che queste ultime debbano altresì essere, compatibilmente con il loro stato soggettivo, socie delle medesime cooperative sociali di tipo b) in cui sono inserite.

Il prosieguo della norma si occupa di un primo tipo di incentivi all’attività delle cooperative sociali di tipo b), che consiste nell’esonero totale, in capo ad esse, dal pagamento della contribuzione previdenziale ed assistenziale relativamente alla retribuzione corrisposta ai lavoratori svantaggiati regolarmente impiegati e remunerati. Si tratta di un incentivo economico dall’impatto particolarmente rilevante. La portata di esso è stata peraltro in parte ridimensionata dall’art. 1 della l. n. 193 del 2000 che – modificando l’art. 4 della l. n. 381 del 1991 – ha stabilito che con riguardo alle retribuzioni di alcune categorie dei soggetti menzionati dalla norma stessa (detenuti, ex degenti di ospedali psichiatrici e condannati ammessi al lavoro esterno al carcere) vi sia un esonero soltanto parziale dal pagamento della contribuzione previdenziale e assistenziale, determinato in misura percentuale, ogni due anni, da un decreto del Ministero della Giustizia.

L’art. 5 prevede una seconda modalità di incentivazione dell’attività delle cooperative sociali di tipo b), ovvero la possibilità, in capo agli enti pubblici, di stipulare convenzioni con queste ultime, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione (e dunque in via diretta), per affidare loro commesse di lavoro.

Va peraltro rilevato che la portata incentivante dello strumento in esame, inizialmente ammesso in via generalizzata, è stata ridimensionata dalle modificazioni apportate all’art. 5 della l. n. 381 del 1991 dall’art. 20 della l. n. 52 del 1996 [[7]]. Quest’ultima disposizione, nel recepire la direttiva comunitaria 92/50/CEE, ha infatti stabilito che le descritte convenzioni non possano riguardare commesse il cui importo sia uguale o superiore a quello stabilito dalle direttive comunitarie in tema di appalti pubblici. In quest’ultimo caso, infatti, la pubblica amministrazione interessata deve comunque procedere ad una gara di appalto, salvo poter ricorrere alla cosiddetta clausola sociale, ovvero stabilire, tra le condizioni di esecuzione, l’obbligo di eseguire il contratto con l’impiego di persone svantaggiate.
Il modello di inserimento lavorativo di persone svantaggiate tramite cooperative sociali di tipo b) ha avuto, come dimostrano varie ricerche empiriche sul punto, notevole successo, grazie anche al sistema di incentivi immaginato dalla l. n. 381 del 1991 e che si è qui sinteticamente descritto. Ciò è avvenuto, tra l’altro, nonostante i provvedimenti legislativi più recenti intervenuti sull’impianto di tale legge abbiano avuto, come si è avuto modo di notare, una certa tendenza al ridimensionamento degli incentivi stessi.

L'inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati nelle imprese sociali

La recente legislazione in tema di impresa sociale – la l. delega n. 118 del 2005 [link] ed il d. lgs. n. 155 del 2006 [[8]] – introduce disposizioni specifiche in materia: si tratta, soprattutto, dell’art. 2 del d. lgs. n. 155 del 2006, in virtù del quale possono acquisire la qualifica di impresa sociale, fra le altre, le organizzazioni private che esercitino la propria attività al fine di promuovere l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. Fatta questa affermazione di carattere generale, il legislatore si dedica successivamente all’identificazione dei soggetti svantaggiati, da un lato, senza peraltro prendere posizione; dall’altro, al tema degli incentivi da riservare alle imprese sociali che si occupino dell’inserimento lavorativo di costoro.


L’ampliamento del concetto di lavoratore svantaggiato

La normativa in esame richiama, a fini definitori, la legislazione di matrice comunitaria in materia di aiuti di Stato a favore dell’occupazione (Regolamento CE n. 2204/2002) [[9]]. Il provvedimento normativo da ultimo citato fa propria una nozione di persona svantaggiata più ampia rispetto al passato, riferendosi non soltanto ai disabili, ma anche ad altre categorie di soggetti, ulteriori persino rispetto a quelle contemplate dalla l. n. 381 del 1991.
Va peraltro rilevato che, a differenza di altri interventi legislativi di cui si dirà tra breve (ci si riferisce soprattutto all’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003, c.d. Riforma Biagi del mercato del lavoro), l’art. 2, co. 2 del d. lgs. n. 155 del 2006 in materia di impresa sociale richiama soltanto alcuni dei soggetti svantaggiati di cui alla disciplina comunitaria.
La norma in esame distingue, in particolare, tra lavoratori disabili e lavoratori svantaggiati. Quanto ai primi, si tratta di:

  • qualsiasi persona riconosciuta come disabile ai sensi della legislazione nazionale, ovvero qualsiasi persona riconosciuta affetta da un grave handicap fisico, mentale o psichico.

Rientrano, invece, fra i lavoratori svantaggiati le seguenti categorie di persone:

  • qualsiasi giovane che abbia meno di 25 anni o che abbia completato la propria formazione a tempo pieno da non più di due anni e che non abbia ancora ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente;
  • qualsiasi persona riconosciuta come affetta, al momento o in passato, da una dipendenza ai sensi della legislazione nazionale;
  • qualsiasi persona che non abbia ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente da quando è stata sottoposta ad una pena detentiva o a un’altra sanzione penale.

Come si accennava, già da un primo, superficiale raffronto, emerge come le categorie di persone svantaggiate richiamate dalla normativa in materia di impresa sociale siano più numerose rispetto a quelle indicate dalla l. n. 381 del 1991 in tema di cooperative sociali. Se è vero che tale ampliamento è meno pronunciato di quanto ci si sarebbe potuti attendere, è altrettanto vero che esso ha comunque notevole rilevanza sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo. Il legislatore italiano, infatti, facendo una selezione dei soggetti destinatari degli aiuti di Stato ai sensi della disciplina comunitaria, ha sì finito con il riconfermare sostanzialmente il novero di soggetti svantaggiati di cui alla l. n. 381 del 1991, ma ha anche provveduto ad includere, tra costoro, i giovani che abbiano difficoltà di accesso al mercato del lavoro; ha cioè dato riconoscimento ad una ulteriore, significativa, forma di svantaggio di cui si era, fino ad oggi, tenuto conto soltanto parzialmente (soprattutto per il tramite del tanto discusso contratto di formazione e lavoro).

L’ampliamento del novero dei soggetti svantaggiati destinatari di attività di inserimento lavorativo ed il fatto che tale attività non è più riservata, ai sensi della l. n. 118 del 2005 e del d. lgs. n. 155 del 2006, alle sole cooperative sociali di tipo b), ma può essere svolta da tutte le organizzazioni private disciplinate dall’ordinamento che abbiano acquisito la qualifica di impresa sociale, sembrerebbero poter determinare un rafforzamento dell’esperienza applicativa della l. n. 381 del 1991. In realtà, tale possibile rafforzamento è messo seriamente in discussione dal fatto che la legislazione in materia di impresa sociale non ha previsto, in relazione all’attività di inserimento lavorativo, alcun incentivo economico e normativo ulteriore rispetto a quanto già stabilito, per le cooperative sociali di tipo b), dalla più volte citata l. n. 381 del 1991.

La (spinosa) questione degli incentivi

L’ampliamento dell’esperienza applicativa della l. n. 381 del 1991 con riferimento alle cooperative sociali di tipo b) potrebbe derivare da due diversi versanti: anzitutto, grazie alla previsione secondo la quale l’attività di inserimento lavorativo di persone svantaggiate può essere ora svolta non soltanto da cooperative sociali di tipo b), bensì anche da ogni impresa sociale, ovvero da ogni organizzazione privata riconosciuta dall’ordinamento e dedita allo svolgimento di attività imprenditoriali di utilità sociale (requisito, quest’ultimo, necessario appunto per l’acquisto della qualifica di impresa sociale); secondariamente, per il fatto che le norme in materia di impresa sociale ampliano il novero dei soggetti svantaggiati, includendovi, rispetto alla disciplina in tema di cooperative sociali, i giovani con difficoltà di accesso al mercato del lavoro.

Ebbene, tale prospettiva di rafforzamento sembra in realtà essere frustrata dal fatto che il legislatore non ha poi provveduto ad individuare adeguati incentivi, di matrice normativa ed economica, al fine di sostenere l’attività di inserimento lavorativo di persone svantaggiate da parte delle imprese sociali.
Il problema si pone in relazione ad entrambe le prospettive di ampliamento che si sono appena evidenziate.

In primo luogo, con riguardo alla circostanza che l’attività di inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati possa essere svolta da qualunque impresa sociale, è il caso di rilevare come il legislatore non ricolleghi a tale attività alcun tipo di incentivo economico o normativo, tanto meno quelli di cui all’art. 4 della l. n. 381 del 1991. Questa assenza di incentivi si rivela ancora più inspiegabile se si considera che l’art. 2 del d. lgs. n. 155 del 2006, al co. 4, riproduce invece gli obblighi di cui alla legge in materia di cooperative sociali, stabilendo che i soggetti svantaggiati, così come definiti dal precedente co. 2, debbano costituire non meno del 30% dei lavoratori impiegati a qualunque titolo nell’impresa sociale. Alla luce di tali considerazioni, pare di poter dire con un certo margine di certezza che l’apertura del legislatore verso un ampliamento delle forme imprenditoriali dedite all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, così com’è, sia destinata a conoscere numerose difficoltà di implementazione. Rimanendo ferme le disposizioni in materia di cooperative sociali di tipo b), infatti, è probabile che l’attività di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati continui ad essere svolta soltanto da questa specifica tipologia di imprese sociali, non avendovi le altre interesse proprio per la mancanza, in proposito, di specifici incentivi stabiliti dalla legge.

In ordine alla seconda questione, ovvero all’ampliamento del novero delle persone svantaggiate operato dalle norme in materia di impresa sociale, si pongono problemi del tutto simili. In effetti, il legislatore non ha connesso al suddetto ampliamento incentivi normativi od economici di alcun genere, con la probabile conseguenza che se, per le ragioni anzidette, saranno anche in futuro le sole imprese sociali costituite in forma di cooperative sociali di tipo b) a svolgere attività di inserimento lavorativo, esse privilegeranno necessariamente, nelle suddette attività, i soggetti svantaggiati di cui all’art. 4 della l. n. 381 del 1991 e non quelli di cui all’art. 2, co. 2 del d. lgs. n. 155 del 2006. Ciò, evidentemente, per il fatto che le cooperative sociali di tipo b) possono godere di incentivi economici soltanto con riguardo ai primi.
La mancata incentivazione dell’attività di inserimento lavorativo disciplinata dai recenti provvedimenti in materia di impresa sociale rischia anche di vanificare l’ampliamento del novero delle persone svantaggiate che possono essere destinatarie dell’attività di inserimento lavorativo, ampliamento peraltro voluto dal legislatore medesimo.
Certo, il successo delle attività di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati non dipende soltanto dalla dotazione di incentivi normativi ed economici che il legislatore predispone a favore delle imprese che le svolgono: ciò non toglie, peraltro, che tali tipologie di incentivi possano costituire un importante volano per l’affermazione e lo sviluppo delle suddette attività e dunque il loro mancato riconoscimento, da parte del legislatore, rischia di lasciare sostanzialmente inalterata la situazione, a dispetto della volontà manifestata sul piano formale, di rafforzare l’esperienza applicativa della l. n. 381 del 1991.

Convenzioni per l'inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati

Come già si accennava all’inizio del terzo paragrafo, il legislatore ha tentato di porre in comunicazione il sistema vincolistico di collocamento dei disabili con quello promozionale di inserimento lavorativo di persone svantaggiate tramite cooperative sociali di tipo b) con l’individuazione di uno specifico modello convenzionale.


Art. 12 della l. n. 68 del 1999

Tale modello, di carattere trilaterale per il fatto di coinvolgere uffici pubblici, datori di lavoro privati e cooperative sociali di tipo b), è stato introdotto, per la prima volta, dall’art. 12 della l. n. 68 del 1999. Adottando quest’ultima disposizione il legislatore ha tentato di coinvolgere attivamente la cooperazione sociale di inserimento lavorativo nel collocamento mirato, ammettendo la possibilità che i datori di lavoro privati adempissero agli obblighi relativi all’assunzione di disabili tramite l’inserimento temporaneo di una parte di costoro presso cooperative sociali di tipo b), in cambio dell’impegno, da parte dei datori di lavoro stessi, di affidare a queste ultime commesse di lavoro.


Lente d'ingrandimento Approfondimento

Le premesse
Il modello tracciato dall’art. 12 della l. n. 68 del 1999 è la trasposizione sul piano normativo dei contenuti di un accordo sindacale stipulato a Treviso nel 1996, trasposizione peraltro parziale per il fatto che il suddetto accordo riguardava un vasto novero di soggetti svantaggiati, ed invece le convenzioni di cui all’art. 12 della l. n. 68 del 1999 possono concernere soltanto i disabili in senso stretto, così come definiti dalla medesima legge. È significativo notare come tale ridimensionamento sia in realtà il frutto del dibattito che precedette, nella seconda metà degli anni novanta, la riforma del collocamento cosiddetto obbligatorio: in quella sede il Governo propose infatti di prevedere uno strumento convenzionale di ampio respiro – non sostitutivo, bensì integrativo degli ordinari sistemi di collocamento dei disabili – ma tale proposta fu avversata con decisione dalle organizzazioni di rappresentanza dei disabili stessi, forse per il timore di un indebolimento dell’apparato vincolistico.

Come si evince da questa sommaria descrizione del modello convenzionale prescelto dal legislatore, il raccordo tra prospettiva vincolistica e promozionale dovrebbe essere qui garantito da due ordini di incentivi: per i datori di lavoro, la possibilità di adempiere a parte degli obblighi di cui alla l. n. 68 del 1999 tramite l’inserimento temporaneo dei disabili assunti presso cooperative sociali di tipo b); per queste ultime, l’opportunità di ottenere commesse di lavoro in cambio del suddetto inserimento temporaneo.
A fronte di ciò, va peraltro posto in luce come ai datori di lavoro che stipulano le convenzioni in esame non siano invece riconosciute le agevolazioni previste dall’art. 13 della medesima l. n. 68 del 1999 in caso della sottoscrizione di altri due generi di convenzioni, quelle ordinarie e quelle di integrazione lavorativa, in relazione alle quali il legislatore ha stabilito, a favore appunto dei datori di lavoro, alcuni incentivi di matrice essenzialmente economica. Si tratta, in particolare, di misure di fiscalizzazione dei contribuiti previdenziali e assistenziali relativi ad ogni lavoratore disabile assunto, fiscalizzazione che può essere parziale o totale a seconda del grado di disabilità di quest’ultimo. Inoltre, tramite gli strumenti convenzionali citati gli uffici pubblici competenti possono contribuire al rimborso delle spese sostenute dal datore di lavoro per rendere il posto di lavoro occupato dal disabile adeguato alle sue caratteristiche, ovvero ancora per l’apprestamento di tecnologie di telelavoro o per la rimozione di eventuali barriere architettoniche che limitino in qualunque modo l’integrazione lavorativa del disabile stesso.

Se dunque, sul piano politico, l’art. 12 della l. n. 68 del 1999 costituisce un importante riconoscimento del ruolo della cooperazione sociale di inserimento lavorativo come strumento di politica del lavoro, il fatto che gli incentivi da essa approntati a favore dei datori di lavoro stipulanti le relative convenzioni siano di portata inferiore rispetto a quelli stabiliti dall’art. 13 della medesima l. n. 68 del 1999 nel caso della sottoscrizione di convenzioni ordinarie o di integrazione lavorativa, sembra aver contribuito in modo significativo al fallimento dell’istituto. Ciò è del resto confermato anche dalla prima relazione al Parlamento sullo stato di applicazione della l. n. 68 del 1999, secondo la quale il modello convenzionale di cui all’art. 12 della suddetta legge non è stato mai utilizzato nella prassi.

Le ragioni del fallimento dell’istituto in esame vanno ovviamente ricercate non soltanto nell’insufficienza degli incentivi stabiliti dal legislatore: si tratta, oltre che della sua complicatezza tecnica e delle difficoltà interpretative connesse alla sua implementazione, della durata troppo breve dell’inserimento temporaneo (al massimo 12 mesi), foriera di eccessivi costi transattivi e formativi per i datori di lavoro coinvolti e di un elevato turn over nelle cooperative sociali destinatarie dell’inserimento temporaneo stesso.
Inoltre, la previsione secondo la quale è comunque il datore di lavoro privato ad assumere fin dall’inizio il lavoratore disabile che viene poi inserito temporaneamente nella cooperativa sociale di tipo b) sembra disconoscere il ruolo formativo e di accompagnamento nell’accesso al mercato del lavoro della cooperazione sociale. Tale previsione, in altri termini, sembra criticabile per il fatto di prescindere dagli esiti del percorso professionale che il disabile è chiamato a svolgere presso la cooperativa sociale, esiti che potrebbero assumere particolare importanza specie con riguardo alla successiva individuazione, presso il datore di lavoro privato, del posto di lavoro più adatto alle sue caratteristiche.

Art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003

Alla luce della mancata utilizzazione dell’istituto regolamentato dall’art. 12 della l. n. 68 del 1999 e delle critiche che sono state avanzate in merito alle sue caratteristiche strutturali, il legislatore ha ritenuto, a distanza di qualche anno, di affiancargli un nuovo modello convenzionale, regolamentato dall’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003.
Tale modello si differenzia dal precedente per alcuni aspetti essenziali.

Anzitutto, la convenzione rimane plurilaterale, ma assume i caratteri di convenzione quadro stipulabile, a livello territoriale, tra uffici pubblici competenti (che assumono, o dovrebbero assumere, un ruolo propulsivo), associazioni sindacali dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale, associazioni di rappresentanza, assistenza e tutela delle cooperative sociali di tipo b) ed, infine, i consorzi di cooperative sociali di cui all’art. 8 della l. n. 381 del 1991.

In secondo luogo, tali convenzioni, oltre che per la loro natura di convenzioni quadro, si distinguono da quelle di cui all’art. 12 della l. n. 68 del 1999 anche per il fatto che possono riguardare non solo disabili in senso stretto, ma un novero di soggetti assai più ampio. L’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003, infatti, si riferisce, nell’individuare tale novero di soggetti, al Regolamento CE n. 2204/2002, come del resto fa – lo si è già detto in precedenza – l’art. 2 del d. lgs. n. 155 del 2006. Da un’analisi comparata delle due disposizioni, peraltro, si evince che il richiamo operato dall’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003 a tale disciplina comunitaria è, in realtà, più ampio rispetto a quello fatto proprio dalla legislazione in materia di impresa sociale, perché relativo al disposto dell’art. 2, lett. f) del Regolamento CE n. 2204/2002 nel suo complesso e non soltanto a talune delle categorie di soggetti svantaggiati da questo contemplate.
Alla luce di tale richiamo, dunque, tra i soggetti svantaggiati che possono essere destinatari delle convenzioni di cui all’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003 si annoverano, genericamente, tutte le persone appartenenti ad una categoria che abbia difficoltà ad accedere, senza assistenza, al mercato del lavoro ai sensi, appunto, dell’art. 2, lett. f), del Regolamento CE n. 2204/2002. Va peraltro rilevato che il significativo ampliamento del novero di soggetti svantaggiati operato dall’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003 è, in realtà, più in potenza che in atto: poiché infatti la materia che si sta esaminando, dopo la riforma del titolo V della Costituzione ad opera della l. cost. n. 3 del 2001, è oggetto di competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni, il grado di coinvolgimento del vasto novero di soggetti svantaggiati cui si riferisce l’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003 dipende e dipenderà, essenzialmente, dalla sensibilità sia dei legislatori regionali che delle parti stipulanti le convenzioni di inserimento lavorativo.

Un terzo elemento di novità apportato dal nuovo modello convenzionale consiste nel fatto che la disposizione di cui all’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003 elimina, rispetto al proprio antecedente storico, il requisito della previa assunzione del lavoratore disabile da parte del datore di lavoro obbligato, nonché, conseguentemente, quello della temporaneità dell’inserimento nella cooperativa sociale.

Si tratta di novità rilevanti, che pure non potranno essere apprezzate in tutta la loro portata fino a che non verrà completato l’iter di implementazione della norma, che, essendo come si accennava relativa a materie di competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni, dovrà passare per l’adozione di leggi regionali ad hoc, oltre che, naturalmente, delle convenzioni quadro in essa stessa regolamentate e delle convenzioni applicative di queste ultime.
In proposito, va sottolineato come alcune leggi regionali e convenzioni quadro siano già state approvate: sulla loro portata si tornerà brevemente oltre, anche se, preme dirlo già ora, è comunque attualmente impossibile formulare un giudizio compiuto sull’impatto dell’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003, per il fatto che mancano invece i dati in ordine alle convenzioni applicative tra singole imprese e cooperative sociali di tipo b).
Con riguardo al raccordo tra sistema vincolistico e promozionale, e dunque in ordine agli incentivi previsti sul punto, le prospettive di sviluppo del modello convenzionale in esame non sembrano peraltro essere particolarmente incoraggianti. In proposito, va premesso che le convenzioni quadro sono finalizzate a favorire l’inserimento dei soggetti svantaggiati in cooperative sociali di tipo b) tramite il conferimento a queste ultime, da parte delle imprese private aderenti alle associazioni stipulanti le convenzioni stesse, di commesse di lavoro.
Cambia, come si accennava, lo schema giuridico di riferimento, nel senso che ora non è più il datore di lavoro privato ad assumere la persona svantaggiata e ad inviarla successivamente alla cooperativa sociale di tipo b) per il suo inserimento temporaneo, ma è piuttosto la cooperativa sociale stessa ad assumerlo direttamente.

Detto ciò, e concentrandosi ora sulla questione degli incentivi all’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati, si rileva come l’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003 presenti una rilevantissima incongruenza. Dopo aver, al co. 1, definito i soggetti svantaggiati destinatari della disposizione stessa in modo amplissimo, la norma in commento stabilisce, al co. 3, che solo qualora il conferimento di commesse alle cooperative sociali di tipo b) riguardi lavoratori disabili che presentino particolari caratteristiche e difficoltà di inserimento nel ciclo lavorativo ordinario esso possa concorrere alla copertura di parte della quota di riserva di cui alla l. n. 68 del 1999. Si, tratta, a ben vedere, di una discrasia sorprendente: a fronte dell’individuazione di un novero vastissimo di possibili destinatari della norma, il legislatore concede incentivi soltanto con riguardo ad alcuni soggetti svantaggiati, i disabili, e nemmeno a tutti quelli di cui all’art. 1 della l. n. 68 del 1999, bensì solo a coloro che gli uffici pubblici competenti ritengano essere in condizioni più gravi. Inoltre, anche qualora venissero comunque stipulate convenzioni quadro concernenti l’inserimento di persone svantaggiate non comprese tra quelle indicate dall’art. 4 della l. n. 381 del 1991, le cooperative sociali di tipo b) interessate non potrebbero godere degli incentivi previsti dalla norma stessa, né i soggetti inseriti potrebbero rientrare nella quota percentuale di legge pari al 30% dei lavoratori occupati.

Se, dunque, si vuole valutare l’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003 dal punto di vista degli incentivi da esso previsti in favore degli aderenti alle associazioni stipulanti le convenzioni quadro, risulta del tutto evidente come la portata della norma, che pareva tanto ampia sotto il profilo definitorio, sia destinata ad un significativo ridimensionamento. Non è allora un caso se, dall’analisi delle prime leggi regionali e convenzioni quadro adottate in materia, emerga che la maggior parte di esse si occupano essenzialmente, sotto il profilo soggettivo, dei soli lavoratori disabili che presentino particolari caratteristiche e difficoltà di inserimento nel ciclo lavorativo ordinario, ovvero di quei soggetti il cui inserimento consente la copertura della quota di riserva a carico dei datori di lavoro interessati. La menzione, da parte delle leggi regionali e delle convenzioni quadro dei soli disabili gravi, testimonia dunque il fatto che l’art. 14 del d. lgs. n. 276 del 2003 è considerato, in realtà, come un’ulteriore modalità di adempimento degli obblighi di assunzione sanciti dalla l. n. 68 del 1999.

Un’ultima questione problematica che si ritiene necessario porre in luce consiste nel fatto che la recente legislazione in materia di impresa sociale non ha modificato né il modello convenzionale di cui si sta discutendo, né tanto meno quello di cui all’art. 12 della l. n. 68 del 1999, con la conseguenza che, allo stato attuale, le imprese sociali che non rivestano la forma giuridica di cooperative sociali di tipo b) sono escluse dall’elaborazione di – e dalla partecipazione a – entrambi i suddetti modelli.

In conclusione, può dunque affermarsi che l’assenza di specifici incentivi a favore della stipula di convenzioni quadro che riguardino un novero di soggetti più ampio dei soli disabili gravi, da un lato, e il mancato coordinamento normativo tra i modelli convenzionali descritti e la nuova disciplina in materia di imprese sociali, dall’altro, rischino di determinare il misconoscimento del ruolo della cooperazione sociale di tipo b) e, più in generale, delle imprese sociali nell’attività di inserimento lavorativo di persone svantaggiate.


Imprese sociali e rapporti di lavoro atipici

Si analizzeranno ora i principali contratti di lavoro cosiddetti atipici, al fine di capire in che termini almeno alcune di tali tipologie contrattuali possano costituire, per le imprese sociali, opportunità incentivanti ulteriori rispetto a quelle che si sono sin qui descritte e che, come si è avuto modo di dire, presentano in realtà luci ed ombre. Quanto esposto è tendenzialmente applicabile anche ai soci lavoratori di cooperative sociali, tenuto conto delle peculiarità che li riguardano e di cui si è detto nella prima parte del presente capitolo. Per ragioni di spazio, peraltro, la tipologia contrattuale più interessante per le imprese sociali, ovvero il contratto di inserimento, verrà analizzata ex professo, mentre con riguardo alle altre ci si dovrà qui limitare ad indicare le sole caratteristiche essenziali, rimandando ad esse per quanto attiene all’analisi della relativa disciplina.


Il contratto di inserimento

Passando all’analisi dei singoli modelli contrattuali e cercando di individuare quelli che maggiormente potrebbero assumere interesse per le imprese sociali, anche per la loro possibile funzione incentivante rispetto all’attività di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, va preso anzitutto in considerazione il contratto di inserimento.
Si tratta di una tipologia contrattuale disciplinata dagli artt. 54 e ss. del d. lgs. n. 276 del 2003 e, dunque, di piuttosto recente emersione nel panorama del lavoro flessibile.


Lente d'ingrandimento Approfondimento

Le radici del contratto di inserimento
Il contratto di inserimento trova le proprie radici in due precedenti modelli contrattuali, quello del contratto di reinserimento, previsto dall’art. 20 della l. n. 223 del 1991 e finalizzato a favorire il reingresso nel mercato del lavoro di disoccupati di lunga durata e quello del contratto di formazione e lavoro, contratto a causa mista nell’ambito del quale il lavoratore avrebbe dovuto ricevere, a fronte dello svolgimento della propria attività lavorativa, retribuzione e, appunto, formazione. Si tratta, come ben noto, di una tipologia contrattuale incentivata e oggetto nel tempo di molteplici abusi, soprattutto per quanto attiene al versante qualificante della formazione, il cui ruolo è stato assai spesso misconosciuto dai datori di lavoro, che vi hanno nella maggioranza dei casi fatto ricorso al solo fine, appunto, di approfittare degli incentivi economici e normativi in proposito predisposti dal legislatore. Da ultimo, tale politica di incentivi è stata riconosciuta incompatibile con la disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, tramite una procedura di infrazione che ha condotto, dopo varie vicende, ad una sentenza di condanna della Corte di Giustizia ed alla conseguente abrogazione dell’istituto, almeno con riguardo al settore privato, da parte proprio del d. lgs. n. 276 del 2003, lo stesso provvedimento, cioè, che ha poi introdotto il contratto di inserimento.

Anche sulla base dei precedenti storici citati nell’approfondimento, il legislatore, nell’elaborare la nuova tipologia contrattuale, ha posto in particolare l’attenzione sulla prospettiva del reinserimento di alcune categorie di lavoratori in difficoltà nel mercato del lavoro e non già, o comunque non in misura preponderante, sugli aspetti formativi. Pertanto, alla luce della normativa citata, può affermarsi che quello di inserimento si caratterizza per il fatto di essere un contratto di lavoro diretto a realizzare, mediante un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore ad un determinato contesto lavorativo, l’inserimento ovvero il reinserimento nel mercato del lavoro di alcune persone ritenute particolarmente deboli.


I lavoratori coinvolgibili

Quanto ai soggetti che possono stipulare il suddetto contratto si tratta, in particolare, sul versante dei lavoratori, di:

  1. soggetti di età compresa tra i diciotto e i ventinove anni;
  2. disoccupati di lunga durata da ventinove fino a trentadue anni;
  3. lavoratori con più di cinquanta anni di età che siano privi di un posto di lavoro;
  4. lavoratori che desiderino riprendere una attività lavorativa e che non abbiano lavorato per almeno due anni;
  5. donne di qualsiasi età residenti in una area geografica in cui il tasso di occupazione femminile determinato con apposito decreto del Ministro dei lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sia inferiore almeno del 20 per cento di quello maschile o in cui il tasso di disoccupazione femminile superi del 10 per cento quello maschile;
  6. persone riconosciute affette, ai sensi della normativa vigente, da un grave handicap fisico, mentale o psichico.

Come si evince dall’elenco appena riportato, i soggetti cui si riferisce la normativa in tema di contratto di inserimento coincidono in gran parte con i lavoratori svantaggiati di cui al più volte citato Regolamento CE n. 2204/2004, il che testimonia come, evidentemente a seguito della procedura di infrazione avviata contro l’Italia, il legislatore si sia voluto adeguare alla disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato all’occupazione (anche se peraltro tale adeguamento, come si vedrà, non è stato completo).


I datori di lavoro

Quanto, invece, ai datori di lavoro che possono ricorrere a tale tipologia contrattuale, si tratta di un novero molto ampio (quasi onnicomprensivo) di soggetti, tra cui possono senz’altro essere fatte rientrare le imprese sociali. Si tratta, in particolare, di:

  1. enti pubblici economici, imprese e loro consorzi;
  2. gruppi di imprese;
  3. associazioni professionali, socio-culturali, sportive;
  4. fondazioni;
  5. enti di ricerca, pubblici e privati;
  6. organizzazioni e associazioni di categoria.


Strumenti In Pratica

I requisiti del contratto di inserimento
In ordine alle caratteristiche proprie del suddetto contratto, va anzitutto posto in luce come requisito fondamentale di esso (e condizione per l’assunzione) sia la predisposizione di un progetto individuale di inserimento, finalizzato a garantire l’adeguamento delle competenze professionali del lavoratore al contesto lavorativo. Peraltro, il legislatore non specifica quali debbano essere i contenuti del suddetto progetto, rinviando in proposito all’intervento delle parti sociali in sede di contrattazione collettiva. La normativa in esame si limita ad affermare che il progetto deve essere redatto con il consenso del lavoratore. Può comunque ritenersi, in proposito, che il progetto abbia la funzione di individuare un percorso individualizzato di inserimento, con l’indicazione dell’impiego fatto delle competenze professionali del lavoratore nello specifico contesto produttivo in cui egli si trova ad operare e di come debba avvenire l’adattamento di costui all’ambiente di lavoro.

In secondo luogo, deve precisarsi che si tratta di un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato: poiché tuttavia nell’ambito di tale tipologia contrattuale il progetto di inserimento e dunque l’adattamento delle competenze del lavoratore al contesto produttivo assumono una particolare rilevanza, il legislatore ha ritenuto di dover prevedere, in proposito, un limite minimo di durata. Pertanto, il contratto di inserimento non può essere stipulato per un tempo inferiore ai 9 mesi ed ha una durata massima pari a 18 mesi, elevabile a 36 nel caso di portatori di handicap grave.

Il contratto di inserimento deve essere stipulato in forma scritta, pena la sua nullità e la sua conversione in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e deve contenere l’indicazione specifica del progetto individuale di inserimento.

Da ultimo, va specificato come il contratto di inserimento non possa essere rinnovato tra le stesse parti, salva la possibilità di proroga nei limiti del termine di durata massima di 18 (o 36) mesi individuato dal legislatore.

Gli incentivi per il contratto di inserimento

Fatte queste precisazioni in ordine alle caratteristiche del contratto di inserimento, è il caso, a questo punto, di passare agli incentivi che il legislatore ha previsto con riguardo ad esso, il quale può dunque, a ragione, essere considerato quale strumento di politica attiva del lavoro e misura di incentivazione dell’occupazione.
Tali incentivi sono di due tipi, normativo (1) ed economico (2), ed hanno, come si dirà subito, diversi ambiti di applicazione con riguardo ai soggetti svantaggiati coinvolti.

  1. Per quanto attiene agli incentivi normativi, il primo di essi consiste nel fatto che il lavoratore svantaggiato assunto con contratto di inserimento può essere inquadrato in una categoria fino a due livelli inferiore rispetto a quella spettante, in applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, ai lavoratori addetti a mansioni o funzioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al conseguimento delle quali è preordinato il progetto di inserimento oggetto del contratto. Si tratta della previsione di un salario di ingresso che comporta, evidentemente, un abbassamento del costo del lavoro in capo alla parte datoriale. Sempre con riguardo agli incentivi di carattere normativo, le disposizioni in materia di contratto di inserimento stabiliscono che i lavoratori assunti con tale contratto non si computino nell’organico aziendale ai fini applicativi di determinati istituti di matrice legale o contrattuale collettiva, salva peraltro la facoltà, riconosciuta alle parti sociali, di disporre diversamente. Gli effetti più significativi dell’istituto del non computo riguardano, evidentemente, gli ambiti di applicazione delle tutele reale ed obbligatoria in caso di licenziamento illegittimo: ricorrendo al contratto di inserimento, in altri termini, il datore di lavoro non corre il rischio di superare la “fatidica” soglia dei 15 dipendenti, che costituisce appunto lo spartiacque, nell’ordinamento italiano, tra applicabilità, o meno, della normativa che garantisce al lavoratore la possibilità di essere o meno reintegrato nel posto di lavoro.
  2. Sul versante degli incentivi economici, le norme relative al contratto di inserimento richiamano quelle dettate in tema di contratti di formazione e lavoro, a mente delle quali sono previsti, a favore del datore di lavoro, degli sgravi contributivi in misura differenziata sulla base di diversi fattori, quali soprattutto la tipologia del lavoratore svantaggiato coinvolto (v. Circolare Ministero del Lavoro n. 31 del 21 luglio 2004, art. 8 [link]). Vi è comunque uno sgravio contributivo minimo pari al 25%. La conferma di tali incentivi economici ha peraltro natura provvisoria, nel senso che, a detta del medesimo legislatore, gli stessi dovranno essere rivisti e ripensati nell’ambito della più complessa riforma (non ancora approvata) degli ammortizzatori sociali e degli aiuti all’occupazione. Per il momento, stante l’accertata incompatibilità di alcune delle norme incentivanti in materia di contratto di formazione e lavoro con la disciplina comunitaria, il legislatore ha deciso di confermare gli sgravi contributivi con riguardo a tutte le categorie di lavoratori svantaggiati che possono essere assunte con contratto di inserimento, salvo che con riguardo alla prima, ovvero ai giovani tra i 18 ed i 29 anni. Del resto, in ordine a tale categoria sussiste ancora una discrasia tra regolamentazione comunitaria e legislazione nazionale, laddove il legislatore UE riconosce sì i giovani quali lavoratori svantaggiati, ma solo laddove questi abbiano meno di 25 anni di età.


Prima di concludere in merito alla disciplina del contratto di inserimento, va da ultimo rilevato come il legislatore stabilisca, in capo al datore di lavoro, una condizione di ricorso all’istituto. Si tratta, in particolare, del fatto che per poter stipulare contratti di inserimento il datore di lavoro deve aver mantenuto in servizio (peraltro, con alcune eccezioni, v. sempre Circolare Ministero del Lavoro n. 31 del 21 luglio 2004, art. 3) almeno il 60% dei lavoratori il cui contratto di inserimento sia venuto a scadere nei diciotto mesi precedenti. La norma in esame si connota chiaramente per la sua natura antifrode: essa è cioè volta ad evitare che i datori di lavoro ricorrano al contratto di inserimento soltanto per risparmiare sul costo del lavoro, senza avere l’obiettivo reale di adattare le competenze del lavoratore al proprio contesto aziendale per poi stabilizzarlo definitivamente.
Sempre sul piano sanzionatorio, è poi previsto che in caso di gravi inadempienze con riguardo alla realizzazione del progetto di inserimento, il datore di lavoro debba versare la quota dei contributi agevolati maggiorata del 100% (senza peraltro che il contratto di inserimento si trasformi in uno di lavoro subordinato a tempo indeterminato).
Infine, va rammentato che, qualora il rapporto di lavoro prosegua tra le parti oltre la scadenza originaria senza che vi sia una proroga, ovvero comunque oltre i 18 o i 36 mesi, il contratto di inserimento si trasforma in uno di lavoro a tempo indeterminato (salvo un periodo di tolleranza massimo di 30 giorni).

Il contratto di apprendistato

Per quanto riguarda il contratto di apprendistato, è qui soltanto il caso di dire che si tratta di una tipologia contrattuale volta all’inserimento nel mercato del lavoro di giovani che, contestualmente allo svolgimento di un’attività lavorativa, ricevono anche una formazione.
È un tipico contratto di lavoro a causa mista, ovvero un contratto di lavoro nell’ambito del quale il lavoratore è tenuto a prestare la propria opera, mentre il datore di lavoro deve garantirgli retribuzione e, appunto, formazione.
Il contratto di apprendistato, originariamente disciplinato dalla l. n. 25 del 1955, rimasta in vigore nella sua interezza (lo è ancora oggi in parte) per quasi cinquant’anni, è stato radicalmente rivisitato ad opera del d. lgs. n. 276 del 2003 (artt. 47-53), anche a seguito del superamento del contratto di formazione e lavoro.
Allo stato attuale, vi sono tre diverse tipologie di contratto di apprendistato:

  • il contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione, che riguarda giovani che abbiano compiuto i 15 anni e non può avere una durata superiore a 3 anni;
  • il contratto di apprendistato professionalizzante, che riguarda giovani tra i 18 ed i 29 anni e che non può avere durata inferiore a 2 anni né superiore a 6;
  • il contratto di apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione, che riguarda giovani tra 18 e 29 anni (in questo caso la legge non stabilisce limiti di durata, rinviando tale determinazione all’intervento dei legislatori regionali.

Con riguardo all’apprendistato va da ultimo posto in luce che si tratta di una forma contrattuale incentivata sia sotto il profilo normativo che dal punto di vista economico e che la relativa disciplina trova, nel d. lgs. n. 276 del 2003, una regolamentazione soltanto di massima: dopo la Riforma del Titolo V della Costituzione, risalente al 2001, infatti, un ruolo significativo in proposito è svolto dai legislatori regionali, specie con riguardo al profilo della formazione professionale.


Il contratto di lavoro a tempo determinato

In ordine a tale tipologia contrattuale, va rilevato che la relativa disciplina è stata oggetto di un intervento flessibilizzante ad opera del d. lgs. n. 368 del 2001 [[10]], il quale ha, sostanzialmente, liberalizzato l’istituto, cui è ora possibile ricorrere non più nei soli casi stabiliti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, bensì a fronte di ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo (clausola generale).
In altri termini, può oggi stipularsi un contratto a termine in ogni situazione aziendale nella quale ricorra una delle ragioni indicate (di carattere piuttosto generico) e laddove (requisito elaborato da dottrina e giurisprudenza) il datore di lavoro debba rispondere ad una esigenza non già stabile, bensì temporanea.

Si tratta di un contratto di lavoro subordinato, la cui principale particolarità consiste, per l’appunto, nel fatto di dare luogo ad un rapporto di lavoro instabile, a scadenza.
In questo senso, dunque, il principale incentivo per il datore di lavoro alla stipula di un contratto a termine consiste nel fatto di non dover riconoscere al lavoratore la tutela in caso di licenziamento illegittimo, per il fatto che, una volta spirato il termine originario ovvero quello prorogato, il rapporto si estingue automaticamente. Anche qualora il lavoratore dovesse essere illegittimamente licenziato nel corso del rapporto, poi, la tutela che gli può essere riconosciuta ha natura meramente risarcitoria (e mai reintegratoria).
Per ciò che riguarda i restanti requisiti dell’istituto (forma, proroga, sistema sanzionatorio) si rinvia agli artt. 1-12 del d. lgs. n. 368 del 2001.

Il contratto di lavoro a tempo parziale

Anche in relazione al contratto di lavoro a tempo parziale il legislatore italiano è recentemente intervenuto a più riprese, con una serie di interventi volti a rendere sempre più flessibile (soprattutto per quanto attiene al versante dei datori di lavoro) il ricorso all’istituto.
Più nel dettaglio, l’originaria disciplina di cui all’art. 5 della l. n. 863 del 1984 è stata sostituita dal d. lgs. n. 61 del 2000 [[11]], come da ultimo profondamente modificato ad opera dell’art. 46 del d. lgs. n. 276 del 2003.
In generale, va qui soltanto detto che il contratto di lavoro part-time è sostanzialmente un contratto di lavoro subordinato (a tempo indeterminato o a termine) caratterizzato da un orario di lavoro ridotto.
Il d. lgs. n. 61 del 2000 riconosce tre diverse forme di lavoro a tempo parziale:

  1. orizzontale (in cui la riduzione di orario è prevista in relazione all’orario normale giornaliero di lavoro);
  2. verticale (in cui si prevede che la prestazione a tempo pieno sia svolta in periodi predeterminati della settimana, del mese o dell’anno);
  3. misto (che si svolge secondo una combinazione dei precedenti).

Quanto alla disciplina specifica del contratto di lavoro a tempo parziale, nel rinviare al d. lgs. n. 61 del 2000, va qui soltanto precisato che, come già si accennava, le ultime modifiche all’istituto, operate dal d. lgs. n. 276 del 2003, hanno previsto numerosi elementi di flessibilità decisamente sbilanciati a favore del datore di lavoro, che ha oggi ampi margini di manovra per piegare le modalità della prestazione del lavoratore part-time rispetto alle proprie esigenze aziendali. Si pensi soltanto all’attuale regolamentazione di istituti quali il lavoro supplementare e le clausole flessibili ed elastiche, che consentono appunto al datore di lavoro, a condizioni piuttosto favorevoli, di modificare in aumento l’orario di lavoro del singolo lavoratore part-time (lavoro supplementare e clausole elastiche), ovvero di variarne la collocazione (clausole flessibili).

Il contratto di lavoro a progetto

A differenza delle altre tipologie contrattuali sin qui descritte, il lavoro a progetto rappresenta una fattispecie di lavoro autonomo.
Questa circostanza ha conseguenze rilevanti, soprattutto nel senso che con riguardo al lavoro a progetto il diritto del lavoro e le garanzie da esso stabilite non trovano applicazione, salvi i casi in cui il legislatore lo abbia stabilito espressamente. Si tratta, in altri termini, di una tipologia contrattuale assai meno tutelata rispetto a tutte le forme di lavoro subordinato, seppure flessibili.

Quanto alle fonti della disciplina del lavoro a progetto, va rilevato che si tratta di una fattispecie in cui il legislatore ha fatto confluire parte dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa a carattere prevalentemente personale di cui all’art. 409 n. 3 del codice di procedura civile: confluenza avvenuta grazie agli artt. da 61 a 69 del d. lgs. n. 276 del 2003.
I requisiti per la stipula di tale contratto sono, per l’appunto, quelli di cui all’art. 409 n. 3 del codice di procedura civile (collaborazione, continuatività, coordinazione, prevalente personalità della prestazione) a cui deve accompagnarsi l’elaborazione di un progetto, programma di lavoro o fase di esso, che specifichi i compiti che devono essere svolti, in autonomia, dal collaboratore.


Le tutele del lavoratore a progetto

Sul versante delle tutele, il lavoratore a progetto è anzitutto titolare di garanzie di tipo previdenziale e assistenziale (gestione separata INPS e tutela INAIL). Quanto in particolare alla tutela previdenziale, vanno versati contributi pari attualmente al 23,5% (sempre che il lavoratore medesimo non sia iscritto ad altra forma previdenziale obbligatoria, nel qual caso l’aliquota contributiva scende al 16%): a fronte di tali versamenti il lavoratore a progetto matura diritti di carattere strettamente pensionistico, godendo altresì della indennità di malattia, di maternità, nonché del diritto a percepire, qualora sussistano le relative condizioni, gli assegni familiari.
Per ciò che concerne, poi, le altre garanzie di tipo più strettamente giuslavoristico, ai lavoratori a progetto è riconosciuta l’applicazione delle norme in materia di processo del lavoro, nonché la disciplina delle rinunce e transazioni di cui all’art. 2113 del codice civile. Inoltre, ai lavoratori a progetto che prestano la propria opera presso l’azienda del committente si applicano le norme in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, di cui al d. lgs. n. 626 del 1994; infine, ai sensi dell’art. 63 del d. lgs. n. 276 del 2003, il compenso corrisposto ai lavoratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito: per la determinazione di tale compenso deve tenersi conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto.
Nel rinviare, per il resto della disciplina del contratto di lavoro a progetto, agli artt. da 61 a 69 del d. lgs. n. 276 del 2003 (ed alle circolare ministeriale n. 1 del 2004), va qui soltanto posto in luce, da ultimo, come la suddetta normativa stabilisca, da un lato, la necessità che il suddetto contratto debba avere durata determinata o determinabile ed individui, dall’altro, un sistema sanzionatorio assai severo, prevedendo che qualora manchi, in concreto, l’individuazione del progetto, o del programma di lavoro o della fase di esso il relativo rapporto si considera di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dalla data della sua costituzione.


I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa

Se, come si accennava in precedenza, nel lavoro a progetto sono stati fatti confluire dal legislatore alcuni dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa a carattere prevalentemente personale, ciò non ha significato il radicale venir meno di questi ultimi, che continuano ad essere sottoscrivibili, oltre che nel settore pubblico, anche con riferimento ad alcune particolari categorie di soggetti, con la conseguenza che la relativa tipologia contrattuale potrebbe conservare un certo interesse anche per le imprese sociali.
Per quanto attiene alle suddette categorie di soggetti (individuate dall’art. 61, co. 3 del d. lgs. n. 276 del 2003), quelle rilevanti per le imprese sociali sono rappresentate, in particolare, dai professionisti intellettuali iscritti ad albi, nonché dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni, nonché da coloro che percepiscono la pensione di vecchiaia.
Le suddette categorie di soggetti possono, dunque, continuare a stipulare con i propri committenti contratti di collaborazione continuativa e coordinata, senza, cioè, che sia necessario, nel loro caso, individuare uno specifico progetto, programma di lavoro, o fase di esso.
Tale possibilità ha poi ulteriori conseguenze: i contratti di collaborazione continuativa e coordinata, a differenza di quelli di lavoro a progetto, pur rientrando nell’ambito del lavoro autonomo, possono comunque essere stipulati a tempo indeterminato.


Le tutele previste per i collaboratori coordinati continuativi

Per quanto attiene al versante delle tutele, tra collaborazioni coordinate e continuative e lavoro a progetto non sussistono differenziazioni di sorta con riguardo alle garanzie di matrice previdenziale e assistenziale, mentre ai primi non si applicano, come è ovvio, le tutele di carattere sostanziale introdotte, proprio con riguardo al lavoro a progetto, dal d. lgs. n. 276 del 2003. Ciò significa, dunque, che i collaboratori coordinati e continuativi non si vedranno applicate le norme in tema di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, anche qualora essi prestino la propria opera nei locali aziendali, né quanto stabilito, per il lavoro a progetto, in materia di corrispettivo. Rimane invece ferma l’applicazione del processo del lavoro e della disciplina delle rinunce e transazioni.


Libro aperto Risorse

Impresa Sociale, n. 4, 2006, “I rapporti di lavoro nelle cooperative sociali”.