Guida maimonidea/Critica del linguaggio: differenze tra le versioni

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I mali sofferti da una persona siccome è un essere materiale, sostiene Maimonide, sono "privazioni", cioè situazioni che non hanno una vera esistenza e che ci appaiono come l'assenza di una situazione desiderata. La malattia è l'assenza di salute, la morte è l'assenza di vita, l'infermità è l'assenza di completezza, e così via. In questi casi, Dio non crea il male perché il male non esiste veramente, e tutto ciò che esiste è bene. Il male è l'assenza di una certa realtà; l'esistenza di per se stessa è bene.<ref name="Halbert3"/>
I mali sofferti da una persona siccome è un essere materiale, sostiene Maimonide, sono "privazioni", cioè situazioni che non hanno una vera esistenza e che ci appaiono come l'assenza di una situazione desiderata. La malattia è l'assenza di salute, la morte è l'assenza di vita, l'infermità è l'assenza di completezza, e così via. In questi casi, Dio non crea il male perché il male non esiste veramente, e tutto ciò che esiste è bene. Il male è l'assenza di una certa realtà; l'esistenza di per se stessa è bene.<ref name="Halbert3"/>


Di tutti gli argomenti filosofici esposti nella ''Guida'', questo sembra essere il più debole. Prima di tutto, il male causato dall'assenza del bene può a volte causare grande dolore e sofferenza insopportabile. Il dolore stesso può difficilmente essere descritto come assenza, poiché è reale, esistente e rovente. Oltre a ciò, l'argomento sembra essere un gioco logico casistico che contribuisce ben poco ad una comprensione della questione. Cosa ci si guadagna a chiamare qualcosa l'assenza di un'altra? C'è sicuramente qualcosa d'altro in gioco dietro al fragile argomento dell'assenza, un argomento più profondo e significativo: i danneggiamenti e i mali che risultano dalla nostra natura materiale sono condizioni necessarie.
Di tutti gli argomenti filosofici esposti nella ''Guida'', questo sembra essere il più debole. Prima di tutto, il male causato dall'assenza del bene può a volte causare grande dolore e sofferenza insopportabile. Il dolore stesso può difficilmente essere descritto come assenza, poiché è reale, esistente e rovente. Oltre a ciò, l'argomento sembra essere un gioco logico casistico che contribuisce ben poco ad una comprensione della questione. Cosa ci si guadagna a chiamare qualcosa l'assenza di un'altra? C'è sicuramente qualcosa d'altro in gioco dietro al fragile argomento dell'assenza, un argomento più profondo e significativo: i danneggiamenti e i mali che risultano dalla nostra natura materiale sono condizioni necessarie. Chiedere perché nel mondo esistano morte, malattia, o vecchiaia difficile è fare domande insensate fintanto che siamo interessati ad essere quello che siamo, cioè creature materiali. Lamentarsi di questi mali necessariamente comporta un'aspettativa di essere qualcosa di diverso da ciò che siamo. Per sua natura stessa, la materia è limitata e finita, e sperare che sia perfetta ed eterna è come sperare di squadrare il cerchio. Distruzione e menomazione sono partte dell'essenza di qualcosa di materiale, e la materia subisce incidenti e non sarà mai perfetta. E così, in quelle relativamente rare occasioni quando dei bambini nascono con difetti, la situazione e legata necessariamente al nostro essere creature in possesso di corpi. Che Dio non crei materiale durevole o perfetto non significa che il Suo potere sia limitato, perché Dio non fa quello che è logicamente impossibile: È incapace di creare un numero "due" che moltiplicandolo per se stesso dia come risultato "cinque".Questo approccio alla prima categoria del male è segnato da un'accettazione profonda di limiti e da un riconoscimento della nostra finitezza. La consapevolezza del male è, tra le altre cose, una conseguenza dell'aspettativa che confronta la limitazione di ciò che è possibile. Se la morte è necessaria, non la viviamo come se fosse un male; è parte dell'essere ciò che siamo. Il riconoscere che qualcosa è inevitabile sminuisce la forza del patimento.<ref name="Male"/>

Ma l'affermazione della realtà non può comportare soltanto l'inevitabilità delle sue carenze. La realtà, così com'è, ci deve permettere la possibilità di un'esistenza buona e gratificante. E qui bisogna esaminare le due rimanenti tipologie di male: il male causato da altri e quello volontario, autoimposto. I mali che gli uomini si fanno a vicenda, come le guerre ed i crimini, risultano, secondo Maimonide, dalla lotta per le risorse limitate. Ciò nondimeno, un esame della natura del mondo dimostra che più una risorsa è basilare e necessaria, e più è abbondante. Aria, acqua e cibo di base esistono quasi senza limitazioni. La lotta per le risorse inizia quando le persone interiorizzano fine innaturali, come la ricerca della richchezza, dell'onore, e del piacere. Non ci sono diamanti e lingotti d'oro sufficienti per tutti, né c'è potere e potenza per tutti. La gente interiorizza mete inopportune e poi si lamenta che il mondo non riesca a sodisfare adeguatamente i propri desideri. E ciò incide non solo sui rapporti interpersonali ma anche sulla vita dell'individuo. Se la persona fosse soddisfatta di realizzare i propri bisogni basilari, non verrebbe a passare la sua vita correndo rischi, avendo preoccupazioni, frustrazioni gelosie ed amarezze. Similmente, dato che Maimonide credeva che la maggior parte delle malattie derivasse da una consumpazione impropria di cibo, l'uomo in congtrollo dei propri desideri avrebbe meno esposizione alle malattie e al declino psicofisico.<ref name="Male"/>


==La Provvidenza==
==La Provvidenza==

Versione delle 20:33, 3 dic 2014

Indice del libro
Manoscritto yemenita della Guida dei perplessi, XIII secolo
« Il Tuo splendore è la mia oscurità. Non conosco nulla di Te e, da solo, non riesco neppure a immaginare come fare per conoscerTi. Se Ti immagino, m'inganno. Se Ti comprendo, m'illudo. Se sono consapevole e certo di conoscerTi, sono pazzo.
L'oscurità basta. »

(Thomas Merton, Dialoghi con il Silenzio)
« Inoltre, ci sono cose che la mente comprende in una parte, ma ne rimane ignorante in un'altra; e quando l'uomo è capace di comprendere certe cose, non ne consegue che debba esser capace a comprendere tutto. »
(Maimonide)

Dopo i primi settanta capitoli della Guida, che trattano in gran parte del linguaggio biblico e del linguaggio religioso in generale, Maimonide si dedica al grande e centrale problema metafisico dell'opera: il mondo fu creato ex nihilo o è esistito da tutta l'eternità, come Dio? Questa porzione dell'opera copre trentasette capitoli, andando dal Capitolo 71 della Parte I al Capitolo 31 della Parte II. È la parte più tecnica e filosofica del trattato, ma è importante notare che la discussione non intende fornire una presentazione sistematica delle posizioni filosofiche di per se stesse. Come per la prima parte del trattato, questa sezione fu scritta per dare una risposta alla crisi esistenziale della persona perplessa.[1]

La domanda a cui questi capitoli sono dedicati era la più fondamentale che avesse mai confrontato l'Ebraismo del Medioevo. La posizione che uno assumeva se il mondo fosse stato creato ex nihilo o era esistito da tutta l'eternità aveva implicazioni per i concetti basilari dell'Ebraismo nel suo complesso, e la tensione creata da questo problema metafisico è presente in tutto il resto della Guida. I vari approcci al problema della creazione si irradiano in quattro materie trattate nella seconda metà della Guida, ed il presente capitolo le esaminerà nel seguente ordine: 1) il concetto di profezia; 2) il problema del male e il fine dell'esistenza; 3) l'idea della divina provvidenza e conoscenza; 4) le ragioni dei comandamenti. Oltre a ciò, le varie interpretazioni della posizione di Maimonide sulla questione della creazione, un soggetto sul quale i suoi interpreti sono stati incerti dal Medioevo ad oggi, ci presentano le due rimanenti letture complessive della Guida (oltre alla lettura scettica e a quella mistica già discusse) — la lettura conservatrice e la lettura filosofica.

La Creazione del mondo: Lettura Conservatrice e Lettura Filosofica

Perché la questione dell'eternità del cosmo o la creazione ex nihilo divennero la domanda principale dei perplessi di quel tempo? Altri numerosi problemi, che andavano ben oltre la semplice curiosità circa le origini del mondo, dipendevano da questa domanda. La scelta tra vedute alternative sull'inizio del mondo rifletteva, in effetti, due posizioni opposte relative al concetto di divinità. L'idea tradizionale della creazione presume che in un determinato momento, la volontà di creare il mondo sorse in Dio, e per forza di tale volontà, l'Universo fu creato ex nihilo. Dalla prospettiva della filosofia aristotelica, tuttavia, attribuire volontà a Dio menoma la Sua perfezione. Ciò che è perfetto non manca di nulla e non desidera nulla, ma lo stimolo della volontà di Dio implica che Dio mancava di qualcosa — e ciò è imperfetto. Similmente, lo stimolo della volontà di Dio implica un cambiamento nella divinità, l'attualizzazione di un potenziale. Un'entità perfetta non cambia; è stabile e fissa, il motore immobile. Inoltre, se il mondo fu creato con la forza di volontà di Dio, non si può sostenere che Dio la prima causa in una concatenazione di causalità, perché sembrerebbe che ci fosse stato un qualche altro fattore che ha mosso la Sua volontà e quindi abbia agito come Primo Motore. Aristotele quindi affermava che il mondo era esistito dall'eternità e che la relazione di Dio col mondo non era quella di creatore verso creatura — come, per dire, quella di un falegname con la sedia che ha costruito. Il mondo esiste proprio a ragione del fatto che Dio esiste e non in conseguenza di un Suo volere, come l'ombra di un uomo consegue proprio dall'esistenza di quest'ultimo o la luce irradiata dal sole scaturisce dall'esistenza del sole. Di conseguenza, il mondo è eterno e dipende, in modo continuante, dall'esistenza di Dio.[1]

La posizione alternativa, che affermava la creazione del mondo ex nihilo, è anch'essa basata su una nozione della perfezione di Dio, sebbene opposta. Se la volontà non può essere attribuita a Dio, Gli viene negata una componente basilare di sovranità e potere. Dio onnipotente non ha limitazioni. Può creare ex nihilo mediante la forza della Sua volontà, e la Sua perfezione è caratterizzata dal libero esercizio della Sua volontà.[1]

Il conflitto tra creazione e preesistenza implica quindi uno scontro tra due differenti nozioni di perfezione. Nella versione aristotelica, la perfezione di Dio significa che l'esistenza del mondo è derivata causalmente proprio dalla presenza di Dio, senza nessun atto intenzionale. La situazione può essere paragonata a quella di un leader che non ha bisogno di alzare la voce per dare un comando, per punire, o per minacciare, così da motivare i suoi seguaci. Esercita la sua influenza semplicemente con la sua esistenza, tramite l'ispirazione fornita dalla sua presenza. La visione che afferma la creazione, in contrapposizione, vede l'espressione della perfezione di Dio nella Sua libertà totale di esercitare la Sua volontà per cambiare l'esistenza come desidera. Dietro gli sforzi tecnici dettagliati per provare o confutare l'una o l'altra posizione, vi si possono vedere riflesse impostazioni fondamentalmente diverse di potenza. Una vede la potenza come stabilità immutabile; l'altra la vede come movimento libero e costante. Nella Guida, Maimonide formulò queste impostazioni alternative al concetto di Dio in termini di saggezza e volontà: la necessità causale riflette ordine strutturato e saggezza; la libertà di volontà riflette la frattura dell'ordine e della struttura e la creazione di qualcosa ex nihilo.[2]

Rifiutando la volontà divina ha conseguenze non solo sulla creazione ma anche su tutti i concetti fondamentali della fede nel Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Prima di tutto, la negazione della volontà divina mina il concetto tradizionale della profezia. La rivelazione apparentemente sembrerebbe essere un atto di volontà divina. Dio si rivela in un momento particolare con la forza della Sua volontà, esercitando la Sua autorità sull'uomo mediante un comando supremo. L'Ebraismo può sopravvivere senza il concetto di creazione, ma la propria essenza è la rivelazione, e la nozione aristotelica della divinità sembrerebbe quindi minacciare l'essenza dell'Ebraismo. Tuttavia non è solo la rivelazione che è in pericolo nello scontro tra saggezza e volontà. Nozioni fondamentali di religione biblica e tradizione ebraica — provvidenza, ricompensa e punizione, e miracoli, tra le altre cose — dipendono dal fatto che Dio abbia una personalità inclusiva di volontà, motivata e attiva, che reagisce e cambia continuamente. La divinità aristotelica, in contrasto, è interamente egocentrica, inalterabile nella sua perfezione, che muove l'Universo grazie alla sua esistenza. Non c'è quindi da meravigliarsi che la questione di preesistenza o creazione sia divenuta il problema ultimo della fede ebraica nel suo incontro con la filosofia greco-araba. Coloro che interiorizzarono la nozione filosofica della preesistenza si confrontarono con una dura decisione esistenziale rispetto alla propria identità religiosa ebraica.[2]

Maimonide analizzò tre possibilità rispetto alla creazione. La prima, quella di Aristotele, negava che ci fosse stato un qualche evento di creazione ex nihilo. Il mondo come lo conosciamo è esistito da sempre; l'universo è eterno. La seconda posizione, quella tradizionale della Torah di Mosè, afferma che Dio creò il mondo ex nihilo e che il mondo rappresenta qualcosa di nuovo. La terza posizione, attribuita a Platone, asserisce che prima della creazione del mondo esistesse una materia primordiale grezza, che Dio formò nel mondo. Riguardo al concetto del divino, è chiaro che eista una profonda tensione tra la visione di Aristotele e quella della Torah; cioè, tra un mondo eterno preesistente e un mondo creato dal nulla. L'idea platonica della creazione, tuttavia, non nega l'atto volitivo di Dio nell'imporre forma alla materia primordiale. Un ebreo devoto non avrebbe difficoltà ad assorbire tale posizione, che potrebbe persino incorporare il significato semplice del testo biblico. La problematica seria vien posta dalla posizione aristotelica, e questa riceve quindi la maggior attenzione nei capitoli della Guida che si occupano della creazione. Ed è in questi capitoli che la tensione tra la lettura coservatrice della Guida e quella radicale diventa palese.[2]

La lettura conservatrice si basa aulle parelle espressi di Maimonide nei capitoli in cui considera la creazione e che si estendono dalla Parte I, Capitolo 71, alla Parte II, Capitolo 31. Lì egli difende l'idea della creazione come una possibilità ragionevole, rifiutando la prova di Aristotele riguardo ad un mondo preesistente. Secondo Maimonide, la ragione è limitata nella sua abilità di risolvere questa questione metafisica; néé la creazione né la preesistenza possono essere provate o confutate. Le limitazioni sorgono dal fatto che una considerazione delle origini del mondo richiede l'analisi di materie come esistono ora e il tentativo di proiettare i risultati di tale analisi nel lontano passato. Tale sorta di esperimento tuttavia può produrre solo congetture. Si presupponga, suggrisce Maimonide, che un bambino divenga orfano di madre mentre ancora infante e fosse cresciuto da un gruppo di uomini su un isola sperduta, non vedendo mai una donna, una gravidanza o una nascita. Se gli venisse detto che l'uomo nasce dall'utero di una donna, dove il feto è racchiuso in un contenitore di liquidi incapace di respirare o evacuare le proprie feci, il bambino rifiuterebbe l'idea ritenendola assurda e sosterrebbe con certezza che l'essere umano non potrebbe sopravvivere in quel tipo di situazione per nove mesi. Il difetto nel proiettare dal presente al passato si riscontra nella premessa, spesso semplicemente errata, che le cose restino le stesse. Questo argomento fondamentale proposto da Maimonide assomiglia, sebbene in direzione opposta, all'obiezione sull'induzione sostenuta da David Hume centinaia di anni dopo. La nostra conoscenza del mondo si origina dalla nostra esperienza diretta dello stato attuale delle cose. Hume mette in dubbio la nostra capacità di trarre conclusioni dal presente al futuro, una situazione della quale non abbiamo esperienza. Perché possiamo assumere, per esempio, che dato che il sole è sorto stamattina lo farà anche domattina? Lo crediamo perche in tutto il corso della nostra vita abbiamo verificato l'apparizione quotidiana del sole. Ma c'è un problema in questo tipo di induzione, poiché il futuro stesso non è qualcosa che abbiamo verificato. Le nostre inferenze su ciò potrebbero metterci nella situazione dll'animale che è stato ingrassato per la macellazione: la bella vita che ha goduto lo porta ad aspettarsi che tale vita continui felicemente fino a tarda età. Maimonide cita limitazioni analoghe circa la nostra abilità di trarre conclusioni dalle nostre esperienze attuali per il passato.[2][1]

Inoltre, Maimonide credeva che, sebbene né la creazione né la preesistenza potessero essere provate, la creazione era nonostante tutto la più ragionevole delle due posizioni. L'astronomia medievale non poteve offrire una spiegazione plausibile del moto stellare e planetario. Se il mondo proseguiva causalmente solo dalla saggezza divina, ci si doveva aspettare che i pianeti e le stelle si muovessero in percorsi circolari regolari. Tuttavia, l'osservazione dimostra che si muovono a velocità differenti ed in direzioni differenti e sono distribuiti in tutti i cieli in gruppi alquanto arbitrari. Per spiegare queste osservazioni, l'astronomia medievale postulava svariati modi di epicicli, ma il quadro che ne risultava era complesso, confuso e sgraziato. Implicava l'esistenza nell'Universo di un elemento di libera scelta e libero arbitrio responsabile di tutto questo disordine. Di conseguenza, il mondo non consegue di necessità dal fatto che Dio esista, e la dipartita da una struttura ordinata riflette un esercizio di volontà e di intenzione deliberata. Se Maimonide avesse conosciuto le scoperte di Copernico e di Keplero e della fisica newtoniana, quasi sicuramente non avrebbe fatto quel ragionamento. L'astronomia moderna ha ovviato la complessità dei cicli e degli epicicli e offerto una struttura elegante del moto celeste che avrebbe entusiasmato i proponenti della saggezza (contro quelli della volontà). Maimonide, in ogni caso, credeva che l'idea di innovazione e creazione ex nihilo, sebbene non necessaria, fosse più ragionevole dell'alternativa.[1]

Attribuire volontà a Dio, come si è visto, sta in contrasto con la nozione aristotelica della perfezione divina, e la tensione tra quelle idee genera seri problemi metafisici. Per risolvere tali problemi, Maimonide asserisce che uno non può paragonare la "volontà" come la conosciamo in un contesto umano con la volontà divina; condividono solo il termine che le designa. La volontà divina non è causata da qualche carenza o da un motore esterno, e non implica un cambiamento nella divinità stessa. La differenza sostanziale tra l'umano ed il divino permette di attribuire a Dio la volontà senza implicare l'attribuzione di un difetto. Secondo la lettura conservatrice della Guida, questa trattazione del problema della volontà divina spiega la connessione tra la Parte I, che si occupa delle limitazioni del linguaggio, ed i capitoli successivi, che considerano la creazione del mondo. La discussione del linguaggio insegna che uno non può fare delle analogie tra un fenomeno umano e la divinità.[3]

La lettura scettica della Guida, tuttavia, sostiene una necessità di un ulteriore e consistente sviluppo della critica del linguaggio. Se è vero che non ha senso associare attributi positivi a Dio, allora ciò vale anche per gli attributi di "volontà" e "saggezza". Non sappiamo cosa significhi attribuire volontà a Dio, e non sappiamo il significato di saggezza divina. Il silenzio quindi è la posizione raccomandata rispetto a questo grande problema metafisico, poiché le limitazioni del linguaggio lo rendono una questione che semplicemente non può essere formulata. Di conseguenza, c'è una differenza importante e interessante tra lo scetticismo limitato e specifico della lettura conservatrice in merito alla questione metafisica della creazione opposta alla preesistenza, e lo scetticismo generalizzato e complessivo della lettura scettica. La posizione conservatrice sostiene che le limitazioni della nostra conoscenza rispetto alle origini del mondo escludono la possibilità di provare sia creazione che preesistenza; e raccomanda di accettare la creazione per le ragioni descritte prima. La lettura scettica, in conrasto, sostiene che non si possa affatto assumere una posizione in merito al problema, poiché le limitazioni di comprensione fanno molto di più del precludere il provare creazione o preesistenza; tali limitazioni prevengono una formulazione coerente della questione stessa. Dato che la questione riguarda la natura della divinità e gli attributi di Dio, essa diventa insensata e irrefutabile.[3][1]

La grande impresa di Maimonide, secondo coloro che supportano la lettura conservatrice, sta nel suo provare che la preesistenza non è una necessità logica, permettendo quindi all'ebreo perplesso di rimanere devoto alla Torah e ai comandamenti senza sacrificare il suo impegno nella filosofia. Come materia filosofica, la preesistenza opposta alla creazione rimane un problema aperto; il credente perplesso è pertanto libero di affermare la creazione in vista della propria affinità alla Torah; ed è parimenti libero di credere nella rivelazione come atto della volontà di Dio, base della Torah intera. A causa delle sue inclinazioni filosofiche, tuttavia, Maimonide adotterà il principio della creazione solo nella misura limitata necessaria. Si prese cura di ribadire il punto ripetutamente: la possibilità della creazione non nega l'idea che la natura, con implicita la saggezza, sia la rivelazione di Dio centrale e più importante del mondo. Gli interventi intenzionali di Dio, che siano nel creare il mondo o nel dare la Torah, sono dipartite straordinarie dalla norma, atipiche della più ampia visione del mondo. La possibilità di creazione intenzionale esiste solo al punto iniziale, nel momento in cui il sistema è messo in atto; dopodiché la scena è pronta per la saggezza.[3][4]

Proprio per la stessa ragione, Maimonide rigettò la nozione apocalittica della fine del mondo. Che il mondo abbia le sue origini in un atto di volontà non comporta la premessa che debba anche avere una fine. La natura, formata dalla volontà di Dio, durerà per sempre senza cambiamenti:

« La materia ti è ora diventata chiara e la dottrina sintetizzata. Cioè, siamo d'accordo con Aristotele in merito ad una metà della sua opinione e crediamo che ciò che esiste sia eterno a parte post e durerà per sempre con quella natura che Egli, sia glorificato, ha voluto; che nulla in essa sarà cambiato in qualsiasi rispetto meno che in qualche particolare se miracolosamente — sebbene Egli, che sia esaltato, abbia il potere di cambiare il tutto, o annichilire qualsiasi nature in esso che Egli voglia. »
(II:29, p. 346)

In un successivo punto della Guida, aggiunge:

« Se consideri questa opinione [cioè, della Torah] e l'opinione filosofica, riflettendo su tutti i precedenti capitoli in questo Trattato che sono connessi a questa nozione, non troverai nessuna differenza tra loro in merito a qualsiasi dei particolari di tutto ciò che esiste. Non troverai differenza oltre a quella che abbiamo spiegato: cioè, che essi considerano il mondo come eterno e noi lo consideriamo come prodotto nel tempo. Comprendilo. »
(III:25, p. 506)

Maimonide evidenzia gli stretti confini del suo supporto della creazione nel tempo, insistendo a distanziarsi dalle correnti del pensiero islamico la cui visione del mondo era influenzata completamente dall'idea della creazione. Queste correnti — la corrente Mu`tazilita e la corrente Ash`arita, parte del movimento Kalam — sorsero durante l'ottavo secolo e nuovamente nel decimo, e basavano le loro prove dell'esistenza di Dio su argomentazioni che il mondo fosse stato creato nel tempo. Se il mondo fu creato, doveva avere un creatore. Inoltre, sostenevano, le azioni intenzionali di Dio non finirono con l'evento della creazione, poiché nessuna natura causale esiste indipendentemente dalla volontà di Dio. Per esempio, se il calore trasforma l'acqua in vapore, Dio deve esserne coinvolto con la forza della Sua volontà, causando la vaporizzazione dell'acqua. Che il calore vaporizzi l'acqua non fornisce nessuna prova di una relazione causale indipendente tra gli eventi. Il collegamento tra gli eventi è piuttosto il risultato della scelta di Dio di attivare la sua volontà in modo fisso, cosicché le persone sono in grado di anticipare il risultati. Occasionalmente Dio scegli di agire in un modo che differisce dalla Sua scelta usuale, nel qual caso noi percepiremo l'avvenire di un miracolo, ma l'intervento intenzionale di Dio è presente in ogni evento che succede nel mondo. Dietro a questo quadro della realtà sta una posizione religiosa che punta ad affermare l'assoluta sovranità di Dio. La premessa che esiste un ordine causale indipendente compromette il dominio assoluto di Dio nel mondo.[4]

Secondo Maimonide, la prospettiva Kalam, che nega quello che appare essere l'esistenza di un ordine causale indipendente per provare quindi l'esistenza di Dio, rappresentava un'apologetica religiosa piuttosto che una vera filosofia:

« Riassumendo: Tutti i primi Mutakallimūn tra i Greci che avevano adottato il Cristianesimo e tra i mussulmani non si conformarono nelle loro premesse alla comparsa di ciò che esiste, ma considerarono come l'essere doveva essere per poter fornire una prova della correttezza di una particolare opinione, o almeno per non confutarla. »
(I:71, p. 178)

La creazione del mondo non è soggetta a prova, e ne consegue che la prova dell'esistenza di Dio non può essere basata sull'idea della creazione. Similmente, un impegno razionale non può essere preso a servizio della fede, neanche per difendere ciò che è considerata la premessa fondamentale dell'esistenza religiosa: "Riassumendo: Ti dirò che la materia è come la mette Temistio: ciò che esiste non si conforma alle varie opinioni, ma piuttosto le opinioni corrette si conformano a ciò che esiste" (I:71, p. 179). Inoltre, anche se presumiamo che il mondo sia stato creato nel tempo, non avremmo ragione per questo motivo di negare la realtà dell'ordine causale. Dio creò il mondo mediante un atto di volontà, ma vi ha infuso un ordine causale che opera indipendentemente, come un orologiaio crea un orologio con un meccanismo interno che lo fa operare continuativamente.[5]

Maimonide credeva di aver rivelato gli errori fondamentali del pensiero Kalam, ma non si fermò lì; egli considerò invalida tutta la prospettiva religiosa di quella corrente, con la suaòòò enfasi sulla volontà divina assoluta. Secondo Maimonide, la creazione del mondo nel tempo non è in conflitto con l'esistenza di un ordine causale stabile, che è la meravigliosa espressione della rivelazione di Dio nel mondo. Il principio della creazione permette un intervento intenzionale da parte di Dio, come rivelazione o provvidenza, ma non domina il quadro complessivo del mondo o il concetto del divino. La lettura conservatrice della Guida rende possibile accettare la creazione senza rigettare la natura e la scienza.[5]

I vari commenti da parte del primo traduttore ed interprete della Guida, Samuel Ibn Tibbon, suggeriscono che egli rifiutasse la lettura conservatrice sebbene sia quella implicita di una lettura semplice del livello palese del trattato. Invece della lettura conservatrice, Ibn Tibbon adottò quella filosofica, secondo la quale il segreto della Guida è radicato nell'idea della preesistenza eterna del mondo e la creazione nel tempo è una credenza necessaria piuttosto che una credenza vera. La necessità del credere nella creazione scaturisce dal fatto che l'autorità della legge e l'ordine sociale verrebbero compromessi senza un'accettazione diffusa degli atti della volontà divina, manifesti nella rivelazione e nella provvidenza. Maimonide si adoperò con vigore, e a ragione, di nascondere la sua posizione filosofica, piena di pericolose conseguenze politiche, ed i numerosi capitoli che dedicò a confutare la posizione aristotelica sono intesi a mascherare la sua vera posizione. Una lettura attenta ed ragguagliata dei capitoli specifici sulla preesistenza, come anche gli altri, dimostrano che Maimonide affermava l'interpretazione che il mondo era eterno e preesistente.[6]

Dai tempi di Ibn Tibbon ad oggi, ci sono stati coloro che hanno letto l'opera in questo modo, particolarmente data l'affermazione stessa di maimonide di aver nascosto la sua posizione al lettore; ciò implica, si pensa, che la vera posizione di Maimonide sia quella più radicale, poiché altrimenti non ci sarebbe bisogno di nascondimento. Ulteriore supporto si evince dalla dipendenza da parte di Maimonide, quando gli viene richiesto di spiegare certi fenomeni, su principi derivati dalla preesistenza nonostante la sua dichiarata affermazione della creazione nel tempo. Un esempio appare nell'Opera della Creazione stessa: spiegando i vari giorni della creazione, il processo con cui le varie specie furono create, o la comparsa dei continenti e la formazione degli oceani, egli esamina i processi causali naturali estratti dalla scienza aristotelica. Asserisce, per esempio, che Dio non creò l'uomo attraverso un atto diretto di volontà. La creazione dell'uomo richiese sia il movimento delle sfere, che miscelò i vari elementi che formano il corpo dell'uomo, e l'intelletto attivo, che gli infuse la sua essenza umana.[6]

Dalla prospettiva dell'interpretazione filosofica, il successo dellaGuida si basa nel suo aver dato ai concetti fondamentali dell'Ebraismo — creazione, profezia, provvidenza e comandamenti, tra le altre cose — un'interpretazione coerente con il concetto di un mondo eterno. L'ebreo perplesso può conservare la sua posizione aristotelica senza abbandonare la sua affinità all'Ebraismo, poiché Maimonide gli rivela come il significato nascosto della Torah sia coerente con la preesistenza. La lettura conservatrice e quella filosofica differiscono quindi profondamente ed ampiamente su come interpretano la Guida ed il modo in cui risolve la crisi esistenziale dell'ebreo perplesso.[1][6][3][4]

L'origine del mondo è una questione metafisica affascinante, ma non è di per se stessa una materia di importanza decisiva. La Bibbia non presenta ostacoli insormontabili per affermare una qualsiasi delle varie posizioni, e Maimonide sostiene che, se avesse prova della preesistenza, interpreterebbe i relativi passi biblici in tal modo. L'interpretazione è una porta aperta, e quella mossa interpretativa sarebbe certamente più facile di quella che egli intraprende per interpretare sistematicamente ogni espressione biblica antropomorfica:

« Sappi che il nostro evitare l'affermazione dell'eternità del mondo non è dovuto ad un testo presente nella Torah secondo cui il mondo è stato prodotto nel tempo. Poiché i testi che indicano che il mondo è stato prodotto nel tempo non sono più numerosi di quelli che indicano che la divinità abbia un corpo... Forse ciò sarebbe persino più facile da farsi: saremmo ben in grado di dare un'interpretazione figurativa di quei testi e affermare come vera l'eternità del mondo, proprio come abbiamo dato un'interpretazione figurativa di quegli altri testi e abbiamo negato che Egli, sempre sia glorificato, è un corpo. »
(II:25, pp. 327-328)

L'importanza della questione sta nelle sue implicazioni del concetto di Dio, e la maniera in cui uno debba confrontarsi con le idee di rivelazione e provvidenza. È l'interpretazione di questi concetti, man mano che la Guida li discute, che formano il nucleo dello scontro tra la lettura conservatrice e la lettura filosofica.[4]

Il Concetto della Profezia

Pagina della Guida dei perplessi in ebraico

La Guida tratta il concetto della profezia nei capitoli susseguenti a quelli che si occupano della creazione, andando dal Capitolo 32 della Parte II fino alla fine della parte, nel Capitolo 48. Maimonide inizia la discussione stabilendo una connessione tra la comprensione della profezia e l'interpretazione della creazione. Espone tre alternative che sembrano corrispondere alle varie interpretazioni della creazione nel tempo e della preesistenza. La prima vede la profezia come un evento miracoloso, un'espressione della volontà sovrana di Dio. Dio appare ad un apersona, imponendogli una missione o un camdno. Il profeta è lo strumento di Dio, scelto da Dio secondo il Suo volere, e la scelta non è necessariamente legata a meriti o qualità del profeta. In contrapposizione a questa posizione, Maimonide pone l'alternativa filosofica, che considera la profezia un evento naturale. Questa opinione, adottata dal al-Farabi, considera la profezia una forma di perfezione umana. Una persona che, nel corso della vita, ha ottenuto perfezione di carattere e di intelletto otterrebbe di necessità la profezia, poiché non dipende affatto dall'intervento intenzionale di Dio. Il terzo approccio alla profezia, presentato come la posizione propria di Maimonide e quella della Torah, riconcilia i primi due approcci. Per meritarsi la profezia, una persona durante la sua vita deve ottenere perfezione di carattere e di intelletto. Non tutti, quindi, possono ottenere la profezia, poiché quando succede, è un evento causale naturale. Pertanto Maimonide rifiutò totalmente la prima posizione, che vedeva la profezia come qualcosa che dipendeva interamente dalla volontà di Dio, impartita a chiunque Dio decidesse. Ma Maimonide affermava anche, in contrasto con l'approccio filosofico che vedeva la profezia come interamente naturale, che Dio avesse il potere di negare la profezia ad una persona altrimenti degna. Un uomo poteva raggiungere una reputazione meritevole di profezia ma non ottenerla perché Dio, per atto di volontà, non gliela concedeva. E quindi la profezia è un raggiungimento naturale che richiede comunque l'approvazione divina. Maimonide perciò respingeva la seconda opinione, che vedeva la profezia come un evento naturale che si realizzava necessariamente una volta che le premesse erano state soddisfatte.[7]

Gli interpreti di Maimonide rifletterono sulla natura della corrispondenza tra queste vedute della profezia e le varie vedute della creazione. Alcuni credevano che la prima interpretazione della profezia, che la riteneva qualcosa di miracoloso, corrispondesse all'affermazione della creazione ex nihilo; che la seconda posizione, quella filosofica, corrispondesse alla posizione di Aristotele rispetto alla creazione; e che la terza posizione, quella mediana, corrispondesse alla visione di Platone che la creazione implicasse la formazione intenzionale del mondo da parte di Dio, estratto da materiale preesistente. Questa schiera di corrispondenze implica che Maimonide accettasse la posizione platonica della creazione, che corrispondeva alla sua interpretazione della profezia. Ma i capitoli della Guida che si occupano della creazione sottendono che ciò non sia il caso e che Maimonide accettò la posizione che il mondo fu creato ex nihilo. Se è così, allora l'allineamento tra le opinioni sulla profezia e quelle sulla creazione appaiono differire dall'opinione appena citata. La prima posizione rispetto alla profezia corrisponde alla libera opinione Kalam della creazione nel tempo. Dio agisce in maniera interamente volitiva e la natura non ha un'esistenza indipendente; in maniera corrispondente, la profezia è totalmente libera èda qualsiasi contesto naturale. Dio può causare l'asino di Balaam a parlare e può fare lo stesso con ogni persona da Lui scelta come messaggero. La seconda posizione della profezia corrisponde all'affermazione aristotelica della preesistenza. Vede la profezia come evento causale necessario, proprio come l'esistenza del mondo consegue causalmente dall'esistenza di Dio. La terza posizione della profezia corrisponde all'interpretazione maimonidea della creazione nel tempo, che sta in opposizione a quella Kalam. La creazione maimonidea non nega scienza e natura, ma sostiene il principio della volontà nel contesto limitato dell'evento creativo iniziale; e così è per la profezia. La posizione mediana allora non è quella di Platone ma la posizione della Torah rispetto alla creazione. Occupa il posto tra la posizione Kalam, che afferma solo la creazione nel tempo, e la posizione aristotelica, che asserisce solo la preesistenza.[7][4]

Quale che sia la serie giusta di corrispondenze tra creazione e profezia, la posizione reale di Maimonide è molto più vicina all'interpretazione filosofica-naturale che a quella volitiva-miracolosa. Quando avviene la profezia, è un evento naturale, come sostengono i filosofi. Dobbiamo comprenderlo come un evento legato alla struttura naturale del mondo. L'intervento intenzionale di Dio appare solo quando la profezia non riesce ad avvenire sebbene le condizioni naturali siano mature. In tale luce, dobbiamo esaminare le implicazioni della posizione di Maimonide in merito al concetto della rivelazione, alla natura e carattere della profezia, e alla distinzione del profeta come persona.[4]

Il profeta, secondo Maimonide, deve essere distinto da due altri tipi di personalità speciali: il leader politico ed il filosofo. Il leader è dotato della capacità di affascinare la gente, di forgiare immagini e simboli, di legiferare, e di prevedere i modi in cui gli eventi potrebbero svilupparsi. La sua perfezione, dice Maimonide, è quella dell'immaginazione — il potere col quale uno riesce ad immaginarsi, in visioni mentali, impressioni sensoriali che non sono attualmente presenti, come l'immagine di un amico non incontrato da tempo. L'immaginazione inoltre permette ad uno di combinare impressioni sensoriali familiari in una nuova immagine che in realtà non esiste; per esempio, uno può rappresentarsi l'immagine di un uomo con la testa di cavallo. E, allo stesso modo, l'immaginazione rende possibile raffigurarsi nella mente come se stesse accadendo, un evento che ancora non è successo. L'oggeto dell'immaginazione sarà sembre concreto fino ad un certo punto, poiché l'immaginazione non opera nella sfera dell'astrazione; e Maimonide sosteneva che fosse un potere fisico. L'abilità di evocare immagini differisce da persona a persona, come succede per l'abilità di raffigurarsi immagini formate combinando percezioni sensoriali. I grandi leader politici sono dotati di perfezione della facoltà immaginativa. Creano simboli ed immagini avvincenti; inventano storie fondazionali e organizzative; e promulgano leggi. Alcuni godono della capacità di prevedere eventi e scrutare il futuro come se fosse davanti ai loro occhi.[7]

Il filosofo, in contrapposizione al leader, è dotato di perfezione dell'intelletto. È idoneo a trattare di astrazioni e può pensare criticamente in un modo che gli permette di distinguere tra verità e falsità, dare giudizi equilibrati, e discernere tra bene e male. Ma perché manca di forza immaginativa, differisce dal leader in quanto incapace di tradurre le sue intuizioni in un linguaggio popolare. Difetta dell'abilità di creare simboli ed immagini che possano trasmettere le sue interpretazioni intellettuali in maniera che spinga la gente all'azione. Il leader politico, d'altra parte, può motivare le persone e formare una comunità, ma difetta della capacità di pensare criticamente. Rassomiglia ad un'efficiente agenzia pubblicitaria, che opera senza nessuna preoccupazione degli scopi e dei traguardi da promuovere.[1]

Il profeta è l'uomo completo, in possesso di entrambe le perfezioni: la potenza intellettuale perfezionata del filosofo e la potenza immaginativa perfezionata del leader. È in grado di formare immagini e governare la comunità, sebbene il suo carattere ed il suo intelletto perfezionati significhino che le mete della comunità saranno soggette al suo attento scrutinio di verità e falsità, di bene e male. È inoltre in grado di tradurre le grandi verità in una forma comprensibile alle masse; il suo linguaggioo è quello della storia, del simbolo e dell'allegoria. Non plasma semplicemente l'ordine sociale e genera l'attività comune, come fa un ordinario leader politico; ma porta anche la comunità nel suo complesso ad una visione del mondo più vera e appropriata. Maimonide capiva che l'immaginazione era una qualità fisica derivata dalla nostra esperienza sensoriale e quindi dipendente dalla composizione naturale di ogni individuo. Alcuni non potrebbero mai diventare profeti, proprio come altri non potranno mai diventare maratoneti. La capacità immaginativa è una dote naturale, e ottenere il carattere perfezionato che dia disciplina all'uomo e gli permetta di dedicarsi ad un impegno intellettuale è un modo di vita totale, assoluto. La profezia non colpisce improvvisamente, come un fulmine; è il risultato di talenti naturali e diligente preparazione morale ed intellettuale nel corso di tutta una vita.[7][1][4]

L'immaginazione opera principalmente in assenza di impressioni sensoriali immediate. Il sogno è quindi l'arena in cui l'esercizio più creativo dell'immaginazione ha luogo, ed è anche la scena centrale della profezia. Ogni profezia si svolge in un sogno o una visione; quest'ultima è uno stato in cui la persona, sebbene desta, si ritira dall'ambiente circostante è viene sommersa da immagini interiori. Un sogno è profetico non perché il suo contenuto derivi da un intervento esterno, sebbene lo possa sembrare; in verità, il contenuto consiste di immagini emergenti dalle profondità del conscio stesso del profeta. I sogni di un profeta, a differenza di quelli di gente ordinaria, sono profezie; ma la ragione non è che i primi sono elargiti da Dio, mentre i secondi no. I contenuti del segno di un profeta, come quelli di tutti i sogni, sono influenzati dalla propria vita esteriore, da svegli. Ma poiché il profeta è coinvolto con gli intellegibili, le immagini che crea nei suoi sogni sono, in effetti, una traduzione simbolica di profonde intuizioni che riguardano il vero ed il falso, il bene ed il male. Può essere paragonata ad un matematico che si sveglia la mattina con la soluzione di un complicato problema matematico che stava esaminando. La soluzione non gli è venuta a seguito di un'analisi logica consapevole; gli è semplicemente apparsa mentre dormiva. È tuttavia importante che questa sorta di situazione accada solo al matematico, in parte perché aveva elaborato il problema con grande intensità mentre era sveglio.[8]

La visione di Isaia (dipinto di Benjamin West, 1738–1820)

In questa esposizione del processo profetico, non c'è una scelta intenzionale, volitiva di una persona da parte di Dio; la profezia è un evento mentale interno del profeta. La componente esterna della profezia risulta dal fatto che raggiunge l'immaginazione mediante l'ispirazione dell'intelletto, e la teoria della cognizione di Maimonide afferma che l'intelletto di una persona si identifica con gli oggetti della cognizione e con l'intelletto che concepisce tali oggetti, chiamato intelletto attivo. Questa componente esterna — che non si volge direttamente al profeta ma è da lui attivata — non è Dio stesso ma l'intelletto separato finale, l'intelletto attivo, che Maimonide definisce "un angelo al livello degli Ishim". Maimonide quindi sostiene che ogni profezia rappresenti il contatto con un angelo ed indirettamente con Dio. Questo concetto di profezia è alquanto distante dall'interpretazione tradizionale, in cui il Dio sovrano esercita la Sua volontà per comunicare e promulgare un comando al Suo messaggero. Secondo Maimonide, quando il profeta dice di sentire dio che gli parla o di vedre un angelo che lo chiama, non sta riportando un evento esterno che ha luogo al di fuori del proprio conscio. Dio non si rivela al profeta in un sogno; piuttosto, il profeta sogna che Dio gli si è rivelato. La differenza tra questi due concetti è grande, come grande è la differenza tra l'andare a fare una passeggiata rilassante e sognare di farla. Qualsiasi racconto di aver visto o sentito Dio o un angelo è il racconto di un sogno o di un "sogno ad occhi aperti", poiché Dio non appare o parla e neanche un angelo lo fa.[8] Il profeta sogna che un evento abbia luogo: "Sappi dunque che nel caso di chiunque sia menzionato in un testo scritturale che un angelo gli ha parlato o che tale discorso gli sia stato profferto da Dio, ciò non successe se non in un sogno o in una visione di profezia" (II:41, p. 386).

Giacobbe lotta con l'angelo (dipinto di Rembrandt, ca. 1659)

Non è difficile identificare l'aspetto innovativo audace di questa idea che il collegamento tra la profezia ed il sogno rifletta la consapevolezza interiore del profeta. E Maimonide non si sforza di nascondere il suo concetto in merito poiché, dato che è impossibile vedere un angelo, qualsiasi apparizione di un angelo deve per forza essere un sogno del profeta. Un esempio offerto nella Guida è quello della lotta di Giacobbe con l'angelo narrata in Genesi 32. Un angelo non ha un corpo fisico, quindi Giacobbe non poteva aver lottato con un angelo; sognò solo di aver lottato con un angelo. Il sogno ha un significato simbolico profondo, in parte perché è il sogno di un uomo come Giacobbe, ma è pur sempre un sogno. Maimonide asserisce persino che, quando Abramo vide i tre angeli all'entrata della sua tenda, stava sognando o stava avendo una visione ad occhi aperti, e che l'angelo che gli esclamò di non uccidere Isacco era parimenti una visione da sveglio da parte di Abramo. Secondo Maimonide, tutte le rivelazioni divine in forma di apparizione, annuncio o discorso devono essere interpretate in questo modo.[8]

L'interpretazione del profeta e del processo profetico da parte di Maimonide ridefinisce la distinzione tra profezia vera e profezia falsa. Non si può più identificare una profezia vera come quella in cui Dio di fatto profferì le Sue parole al profeta, in cntrasto con una profezia generata dalla mente propria del profeta stesso. Secondo Maimonide, ogni profezia si origina nella mente del profeta, poiché Dio non gli si rivolge. La vera profezia deve essere identificata con la base delle virtù del profeta ed in luce dello scopo del profeta. Il quadro della profezia descritto da Maimonide è pertanto vicino alla posizione filosofica, come presentata costantemente da al-Farabi.[7] Maimonide differisce dalla posizione filosofica in quanto credeva che Dio potesse negare la profezia a qualcuno che altrimenti sarebbe stato idoneo ad ottenerla, ma in realtà tale idoneità non ha importanza quando la profezia poi avviene. In tal caso, la profezia come intesa da Maimonide non si base sull'autorevolezza convenzionale di una rivelazione intenzionale dalla bocca di Dio, diretta al profeta.[8]

I sostenitori della lettura filosofica della Guida vedono il resoconto della profezia da parte di Maimonide come prova che egli credesse nella preesistenza eterna del mondo. Argomentano che nei capitoli che trattano della creazione, egli affermi di credere nella creazione nel tempo in parte perché la preesistenza eterna compromette il concetto della rivelazione. In supporto della creazione nel tempo, Maimonide dice quanto segue:

« Sappi che con la credenza nella creazione del mondo nel tempo, tutti i miracoli diventano possibili e la Legge diventa possibile, e tutte le domande che si possono sollevare circa questa materia svaniscono. Quindi si potrebbe chiedere: Perché Dio ha concesso la rivelazione profetica a questo e non a quello? Perché Dio dà questa Legge a questa particolare nazione, e perché Egli non ha legiferato per le altre? Perché Egli ha legiferato in questo momento particolare, e perché non ha legiferato prima o dopo?... La risposta a tutte queste domande sarebbe di dire: Egli voleva così; oppure la Sua saggezza richiedeva così. Proprio come Egli ha portato il mondo in esistenza, con la forma che ha, quando Egli ha voluto, senza che noi sappiamo la Sua volontà a questo riguardo. »
(II:25, p. 329)

Secondo questo argomento, la fede nella ceazione nel tempo permette che la rivelazione sia interpretata come una comunicazione intenzionale di Dio all'uomo. Ma, dicono i sostenitori della preesistenza, quando Maimonide si mette ad interpretare la profezia stessa e la sua relativa natura, egli sistematicamente omette qualsiasi riferimento alla volontà divina come un fattore della profezia. Nonostante questo argomento persuasivo, la disputa se la Guida debba essere interpretata che affermi la preesistenza o la creazione nel tempo si estese a comprendere i capitoli sulla profezia. La forza della disputa è legata ad un elemento importante e ricorrente nella discussione di Maimonide sulla profezia, cioè la sua enfatica esclusione della profezia di Mosè da qualsiasi cose egli dica nella Guida riguardo alla profezia in generale. A differenza degli altri profeti, Mosè non incontra un angelo ma Dio stesso. E mentre gli altri profeti profetizzano in una visione ad occhi aperti o in un sogno, Mosè profetizza direttamente, non in una visione o un sogno. Per la stessa ragione, la profezia di Mosè non è collegata alla facoltà immaginativa, come succede agli altri profeti, ma deriva direttamente dall'intelletto stesso. In effetti, Maimonide determina che la spiegazione naturale che sottosta alla sua interpretazione della profezia in generale semplicemente non si applichi nel caso di Mosè. La profezia di Mosè è paragonabile a quella degli altri profeti solo in quanto essi condividono il termine "profezia".[8] Esiste un certo elemento comune, ma è marginale, ed essi differiscono interamente nell'essenza: "Ti faccio sapere che tutto ciò che dico in merito alla profezia nei capitoli di questo Trattato si riferisce solo alla forma della profezia di tutti i profeti che vi furono prima di Mosè e che verranno dopo di lui... Poiché a mio avviso il termine profeta usato con riferimento a Mosè e agli altri è anfibolo" (Guida II:35, p. 367). Lettori conservatori della Guida potrebbero sostenere che, distinguendo Mosè dagli altri profeti non solo in rango ma anche in sostanza, Maimonide stesse difendendo l'autorevolezza della Torah e della rivelazione: come il mondo fu creato mediante un atto miracoloso della volontà divina, così fu la Torah data a Mosè. Come in tutti i temi relativi alla fede nella creazione nel tempo, l'azione della volontà di Dio non nega la natura nella sua interezza. La profezia di tutti gli altri profeti, coloro che precedettero Mosè e quelli che lo seguirono, può essere spiegata naturalmente. Secondo la credenza nella creazione nel tempo, la volontà divina è attiva solo nel minuto originale fondazionale; e così anche rispetto alla rivelazione: la volontà divina appare nel dare la Torah, dove lo stato assoluto della legge divina è stabilito sulla base dell'Ebraismo nel suo complesso.[1]

La lettura filosofica della Guida sostiene tuttavia che isolare la profezia di Mosè è nella natura di una fede necessaria, un altro esempio di celare una posizione che ha il potenziale di pregiudicare le fondamenta della religione. In verità Maimonide credeva che l'autorità della Torah di Mosè, come quella della profezia di altri profeti, non derivasse da Dio come Colui che, in tutta la Sua gloria, la rivelò a Mosè. La Torah è divina non a causa della sua fonte ma a causa del merito perfetto di Mosè, e del suo contenuto e dei suoi fini. Quando Maimonide, nella seconda parte della Guida, Capitolo 40, definisce la legge divina, la caratterizza infatti in termini relativi allo scopo: legge divina è una legge che si preoccupa non solo di una giusta società, motivo di preoccupazione di tutta la legislazione politica, ma anche della maggior perfezione del popolo — delle sue convizioni e opinioni. Un esame della Torah di Mosè dimostra di occuparsi di tali problemi in maniera equilibrata e perfetta. Qualcosa di imperfetto appare molte volte, ma qualcosa di perfetto appare una volta sola. Se ad un certo punto un profeta della statura di Mosè dovesse apparire e promulgare una legge divina, tale legge sarebbe identica alla Torah di Mosè. Di conseguenza, c'è un grande divario tra la lettura conservatrice e la lettura filosofica, in merito alla fonte dell'autorità della Torah.[8][4]

Nonostante gli argomenti a supporto della lettura filosofica, Maimonide lasciò la porta aperta ad una lettura conservatrice delle sue parole, come fece nel caso della creazione nel tempo. Questa ambiguità, che permette letture multiple, appare anche nel contesto del prossimo problema nel quale si scontrano le due citate letture, quello della provvidenza. Tuttavia, prima di prendere in considerazione la natura della provvidenza, dobbiamo esaminare la questione del male, la cui discussione è uno dei pinnacoli più sorprendenti del pensiero religioso di Maimonide.[4]

Il Problema del Male e il Fine dell'Esistenza

Un buco nero crea una galassia (rappresentazione artistica)
Un buco nero crea una galassia (rappresentazione artistica)

Il problema del male rappresenta una delle questioni più difficili affrontate dal pensiero religioso monoteista. Concettualmente, il problema può essere presentato come segue — Come è possibile affermare, simultaneamente, queste tre proposizioni: 1) Dio è onnipotente; 2) Dio è buono; 3) esiste il male. Se Dio non è onnipotente, allora possiamo capire il fenomeno del male; Dio, sebbene buono, manca del potere di prevenirlo. Similmente, possiamo capire il fenomeno se Dio è onnipotente ma non è buono — Dio ha il potere di prevenire il male, ma poiché non è essenzialmente buono, Egli è indifferente al male che avviene nel mondo. Tuttavia, apparentemente il pensiero religioso monoteista sembra affermare sia l'onnipotenza di Dio sia la Sua bontà, quindi come possiamo spiegare l'esistenza del male?[9]

Alla luce delle intense disamine religiose di queste credenze relative a Dio, il male passa dall'essere un fatto tragico con cui bisogna confrontarsi ad essere un problema religioso di prim'ordine. Mette in pericolo, con ragione, la struttura basilare della fede. Ma oltre al conflitto concettuale con i fondamenti della fede, il problema del male crea una profonda crisi esistenziale rispetto alla vita in generale. Una persona di fronte al male diventa consapevole del grande divario tra i propri giudizi morali e la struttura causale dell'universo. La struttura gli sembra totalmente arbitraria, insensibile ai suoi valori basilari. Le leggi cieche della natura danneggiano tutti, anche i neonati che non hanno mai peccato e i giusti che hanno solo compiuto buone azioni per tutta la vita. Una volta che la persona conosce il bene ed il male, non è più a suo agio nel mondo. Sente una tragica lacerazione, un senso di alienazione dall'universo. Il mondo appare senza senso, un posto estraneo nel quale viene gettato e lasciato a lottare con la crudeltà cieca dell'esistenza e dei suoi molti tormenti. L'esame del problema del male da parte di Maimonide dimostra come fosse preoccupato tanto dal disagio esistenziale quanto dall'enigma teologico, ed egli analizza entrambi contemporaneamente.[9]

Molte impostazioni che affrontano il problema del male cercano di convalidare sia la bontà di Dio e sia la Sua onnipotenza negando che il male esista veramente. La storia della teologia è colma di tali impostazioni, che tendono ad essere dubbie e problematiche. Maimonide fa parte di questa tradizione, e trattando il problema, egli nega l'esistenza del male. Perciò si assume un compito molto difficile, che si adopera a svolgre in un modo unico, permeato della sua visione complessiva del mondo.[9]

Prima di considerare il modo specifico in cui Maimonide nega l'esistenza del male, dobbiamo notare due posizioni convenzionali del problema del male che egli rifiutò. La prima è quella in cui si incolpava il sofferente, la vittima. Secondo questa posizione, è la giustizia divina che decreta la sofferenza del mondo, ma non possiamo percepire tale giustizai fino alla fine. Questa è la convinzione degli amici di Giobbe, i quali asseriscono che la sua sofferenza fosse evidenza dei suoi peccati commessi. Potrebbe non aver capito di aver peccato, ma se esamina attentamente le sue azioni — dicono gli amici — scoprirà che in verità la sofferenza gli è stat imposta giustamente. Sebbene il Libro di Giobbe poi rifiuti questa posizione, essa è riecheggiata nella storia religiosa fino ad oggi. La morte di bambini indifesi ed innocenti viene vista come punizione, a volte per i peccati dei loro genitori e a volte per coloro che si dice siano reincarnati in essi. Argomenti di questo tipo peggiorano le cose: non solo non riescono a risolvere il problema del male, ma lo peggiorano incolpando la vittima. In risposta alla terribile angoscia di Giobbe per la morte dei suoi figli, i suoi amici procedono orridamente ad incolparlo della loro morte. Giobbe protesta contro la loro asserzione e Dio lo rivendica, affermando che egli non ha colpa. Maimonide interpretò Giobbe secondo la premessa che egli non debba essere incolpato delle sue sofferenze. Rigettò la posizione che risolverebbe il problema del male interpretando tutta la sofferenza come risultato del peccato.[9]

Similmente, Maimonide rifiutò anche il secondo argomento convenzionale, che intendeva usare il mondo a venire come strumento per risolvere il problema del male in questo mondo. Secondo tale argomento, i tormenti subiti dal giusto in questo mondo aumenteranno la loro ricompensa nel mondo a venire, ed i piaceri provati dal malvagio in questo mondo aumenteranno la loro punizione nel mondo a venire. Per giustificare Dio nel mondo a noi conosciuto, è necessario postulare un altro mondo, in cui i conti sono regolati e tutti i problemi risolti. Il mondo che percepiamo nel senso stretto non può essere giusto a meno che non ci sia un secondo mondo in cui le ingiustizie sono rimediate. Maimonide credeva che questo argomento, come il primo, complica il problema piuttosto che risolverlo. Nel discutere le tribolazioni, egli rifiuta "ciò che viene generalmente accettato dalla gente riguardo all'oggetto delle tribolazioni...: Dio infligge calamità ad un individuo, senza che siano state precedute da peccato, onde poter aumentare la sua ricompensa" (III:24, p. 497). Perché non aumentare la ricompensa del giusto senza farlo soffrire? L'argomento non sembra meno abietto dell'incolpare la vittima e affermare che debba aver peccato per meritarsi l'afflizione. Secondo Maimonide, il mondo a venire è il risultato naturale della vita in questo mondo. Non è inteso come soluzione del problema del male, poiché, tra l'altro, non riesce affatto a risolverlo. Nella Guida, Maimonide suggerisce un altro modo per negare l'esistenza del male, uno basato su una triplice divisione dei mali che possono affliggere una persona. I primi mali sono quelli che sorgono semplicemente perché la persona è un essere materiale. Morte, malattia, infermità e ferite, tutte scaturiscono dalla natura difettosa del materiale con cui l'uomo è formato. I mali del secondo tipo sono provocati da altre persone; esempi ovvi sono le guerre, i crimini e le ingiustizie. Infine, ci sono i mali autoimposti, avvenuti come risultato del comportamento stesso della persona. Rischi eccessivi incorsi per ottenere troppa ricchezza o onori eccessivi, regimi alimentari futili e distorti, desideri che non possono essere realizzati — tutto ciò apporta malattia fisica e sofferenza psichica. Maimonide sostiene che un'analisi di ciascun tipo di male possa rivelare il problema e portare alla conclusione che non c'è male al mondo che debbe essere attribuito alle limitazioni della potenza divina o all'indifferenza di Dio verso la sofferenza.[9][10]

I mali sofferti da una persona siccome è un essere materiale, sostiene Maimonide, sono "privazioni", cioè situazioni che non hanno una vera esistenza e che ci appaiono come l'assenza di una situazione desiderata. La malattia è l'assenza di salute, la morte è l'assenza di vita, l'infermità è l'assenza di completezza, e così via. In questi casi, Dio non crea il male perché il male non esiste veramente, e tutto ciò che esiste è bene. Il male è l'assenza di una certa realtà; l'esistenza di per se stessa è bene.[10]

Di tutti gli argomenti filosofici esposti nella Guida, questo sembra essere il più debole. Prima di tutto, il male causato dall'assenza del bene può a volte causare grande dolore e sofferenza insopportabile. Il dolore stesso può difficilmente essere descritto come assenza, poiché è reale, esistente e rovente. Oltre a ciò, l'argomento sembra essere un gioco logico casistico che contribuisce ben poco ad una comprensione della questione. Cosa ci si guadagna a chiamare qualcosa l'assenza di un'altra? C'è sicuramente qualcosa d'altro in gioco dietro al fragile argomento dell'assenza, un argomento più profondo e significativo: i danneggiamenti e i mali che risultano dalla nostra natura materiale sono condizioni necessarie. Chiedere perché nel mondo esistano morte, malattia, o vecchiaia difficile è fare domande insensate fintanto che siamo interessati ad essere quello che siamo, cioè creature materiali. Lamentarsi di questi mali necessariamente comporta un'aspettativa di essere qualcosa di diverso da ciò che siamo. Per sua natura stessa, la materia è limitata e finita, e sperare che sia perfetta ed eterna è come sperare di squadrare il cerchio. Distruzione e menomazione sono partte dell'essenza di qualcosa di materiale, e la materia subisce incidenti e non sarà mai perfetta. E così, in quelle relativamente rare occasioni quando dei bambini nascono con difetti, la situazione e legata necessariamente al nostro essere creature in possesso di corpi. Che Dio non crei materiale durevole o perfetto non significa che il Suo potere sia limitato, perché Dio non fa quello che è logicamente impossibile: È incapace di creare un numero "due" che moltiplicandolo per se stesso dia come risultato "cinque".Questo approccio alla prima categoria del male è segnato da un'accettazione profonda di limiti e da un riconoscimento della nostra finitezza. La consapevolezza del male è, tra le altre cose, una conseguenza dell'aspettativa che confronta la limitazione di ciò che è possibile. Se la morte è necessaria, non la viviamo come se fosse un male; è parte dell'essere ciò che siamo. Il riconoscere che qualcosa è inevitabile sminuisce la forza del patimento.[9]

Ma l'affermazione della realtà non può comportare soltanto l'inevitabilità delle sue carenze. La realtà, così com'è, ci deve permettere la possibilità di un'esistenza buona e gratificante. E qui bisogna esaminare le due rimanenti tipologie di male: il male causato da altri e quello volontario, autoimposto. I mali che gli uomini si fanno a vicenda, come le guerre ed i crimini, risultano, secondo Maimonide, dalla lotta per le risorse limitate. Ciò nondimeno, un esame della natura del mondo dimostra che più una risorsa è basilare e necessaria, e più è abbondante. Aria, acqua e cibo di base esistono quasi senza limitazioni. La lotta per le risorse inizia quando le persone interiorizzano fine innaturali, come la ricerca della richchezza, dell'onore, e del piacere. Non ci sono diamanti e lingotti d'oro sufficienti per tutti, né c'è potere e potenza per tutti. La gente interiorizza mete inopportune e poi si lamenta che il mondo non riesca a sodisfare adeguatamente i propri desideri. E ciò incide non solo sui rapporti interpersonali ma anche sulla vita dell'individuo. Se la persona fosse soddisfatta di realizzare i propri bisogni basilari, non verrebbe a passare la sua vita correndo rischi, avendo preoccupazioni, frustrazioni gelosie ed amarezze. Similmente, dato che Maimonide credeva che la maggior parte delle malattie derivasse da una consumpazione impropria di cibo, l'uomo in congtrollo dei propri desideri avrebbe meno esposizione alle malattie e al declino psicofisico.[9]

La Provvidenza

Le Ragioni dei Comandamenti

I Dieci Comandamenti
I Dieci Comandamenti

Note

  1. 1,00 1,01 1,02 1,03 1,04 1,05 1,06 1,07 1,08 1,09 Per questa sezione si vedano in particolare Herbert Davidson, "Maimonides` Secret Position on Creation", Studies in Medieval Jewish History and Literature, Harvard University Press, 1979, pp. 16-40; Gad Freudenthal, "Maimonides on the Knowability of the Heavens and of Their Mover: Guide 2:24", Aleph 8, 2008, pp. 151-157; Sarah Klein-Brelavy, Maimonides` Interpretation of the Creation Story, Reuven Mass Press, 1988 (in ebr.); Abraham Nuriel, "Creation of the World or Eternity Accoding to Maimonides", Revealed and Hidden in Medieval Jewish Philosophy, Magnes Press, 1980, pp.25-40; Kenneth Seeskin, Maimonides: A Guide for Today's Perplexed, Behrman House, 1991, passim & ss.vv.
  2. 2,0 2,1 2,2 2,3 Alfred L. Ivry, “Maimonides on Creation”, Creation and the End of Days: Judaism and Scientific Cosmology, D. Novack & N. Samuelson (curatori), pp. 185-214; id., “Maimonides on the Creation of the World”, Shlomo Pines Jubilee Volume, M. Idel et al., vol. 2, pp. 115-137; Norbert Samuelson, “Maimonides’ Doctrine of Creation”, Harvard Theological Review 84, 1991, pp. 249-271.
  3. 3,0 3,1 3,2 3,3 J. Faur, “Maimonides on Freedom and Language”, Helios 9, 1982, pp. 73-95; Arthur Hyman, “Maimonides on Religious Language”, Perspectives on Maimonides: Philosophical and Historical Studies, Joel L. Kraemer (cur.), pp. 175-194; Josef Stern, “Maimonides on Language and the Science of Language”, Maimonides and the Sciences, Robert S. Cohen & Hillel Levine (curatori), pp. 173-226.
  4. 4,0 4,1 4,2 4,3 4,4 4,5 4,6 4,7 4,8 Moshe Halbertal, Maimonides, cit., 2014, pp. 312-329.
  5. 5,0 5,1 Michael Schwarz, “Who Were Maimonides' Mutakallimun? Some Remarks on Guide I.73 (part 1)”, Maimonidean Studies 2, 1991, pp. 159-209; id., “Who Were Maimonides' Mutakallimun? Some Remarks on Guide I.73 (part 2)”, Maimonidean Studies 3, 1992-93, pp. 143-172.
  6. 6,0 6,1 6,2 Zvi Diesendruk, "Samuel and Moses ibn Tibbon on Maimonides` Theory of Providence", HUCA 11, 1936, pp. 341-366; Aviezer Ravitzky, "R. Shmuel ibn Tibbon and the Secret of The Guide of the Perplexed", Maimonidean Studies, 2006, pp. 86-101.
  7. 7,0 7,1 7,2 7,3 7,4 Jeffrey Macy, "Prophecy in al-Farabi and Maimonides", in S. Pines & Y. Yovel (curatori), Maimonides and Philosophy, cit., 1986, pp. 185-201; W. Z. Harvey, "A Third Approach to Maimonides` Comogony-Prophetology Puzzle", Harvard Theological Review 74, 1981, pp. 287-301.
  8. 8,0 8,1 8,2 8,3 8,4 8,5 David Bakan, Maimonides on Prophecy: A Commentary on Selected Chapters of the Guide of the Perplexed, Jason Aronson Inc. Publishers, 1991, pp. 186-200; Howard Kreisel, Prophecy: The History of an Idea in Medieval Jewish Philosophy, Springer Science & Business Media, 2003, s.v. "Moses ben Maimon", pp. 148-312, spec. pp. 210-284; Heidi M. Ravven, “Some Thoughts on What Spinoza Learned from Maimonides about the Prophetic Imagination. Part 1. Maimonides on Prophecy and the Imagination. Part 2: Spinoza's Maimonideanism”, Journal of the History of Philosophy 39, 2001, pp. 193-214, 385-406.
  9. 9,0 9,1 9,2 9,3 9,4 9,5 9,6 Per questa sezione si vedano particolarmente W.Z. Havery, "Maimonides and Spinoza and the Knowledge of Good and Evil", Iyyun 28, 1978, pp. 165-185 (in ebr.); David Burrell, “ Maimonides, Aquinas and Gersonides on Providence and Evil”, Religious Studies 20, 1984, pp. 335-52; Idit Dobbs-Weinstein, “Matter as Creature and Matter as the Source of Evil: Maimonides and Aquinas”, Neoplatonism and Jewish Thought, Lenn Goodman (cur.), pp. 217-235; Shlomo Pines, “Truth and Falsehood Versus Good and Evil: a Study in Jewish and General Philosophy in Connection with Guide of the Perplexed I,2”, Studies in Maimonides, Isadore Twersky (cur.), Harvard University Press, 1991, pp. 95-157; Jon Douglas Levenson, Creation and the Persistence of Evil: the Jewish Drama of Divine Omnipotence, Princeton, 1994, passim.
  10. 10,0 10,1 Moshe Halbertal, Maimonides, cit., 2014, pp. 329-341 & passim.