Non c'è alcun altro/Dio è Antipatico: differenze tra le versioni

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Approfondiamo per un momento questa immagine di Dio. Veramente, quale che sia l'interpretazione del passo di chiusura succitato, cosa comporterebbe vivere in un mondo governato da questo tipo di Dio? Sarebbe come vivere in un mondo regolato da un sovrano, vanitoso, capriccioso, ma onnipotente, che si relaziona alle persone in modi totalmente imprevedibili e non sente nemmeno il bisogno di render conto del proprio comportamento. Non c'è traccia qui di un dualismo divino; Satana è chiaramente soggetto a Dio. Necessita del permesso di Dio per mettere alla prova Giobbe. Dio è indubbiamente il sovrano esclusivo del mondo, ma che Dio è questo? Se ricolleghiamo la decisione originale di Abramo di lasciare la sua terra natia col relativo paganesimo, alla motivazione di una visione di vita regolata da un Dio che promuove giustizia e rettitudine, allora Giobbe sembra sovvertire tale visione completamente. Ciò che impariamo però da questo libro – specie se accettiamo l'interpretazione alternativa dell'ultimo versetto nel discorso conclusivo di Giobbe – è che Dio accoglie le nostre contestazioni, persino la nostra empietà. Una lezione così non è da poco!
Approfondiamo per un momento questa immagine di Dio. Veramente, quale che sia l'interpretazione del passo di chiusura succitato, cosa comporterebbe vivere in un mondo governato da questo tipo di Dio? Sarebbe come vivere in un mondo regolato da un sovrano, vanitoso, capriccioso, ma onnipotente, che si relaziona alle persone in modi totalmente imprevedibili e non sente nemmeno il bisogno di render conto del proprio comportamento. Non c'è traccia qui di un dualismo divino; Satana è chiaramente soggetto a Dio. Necessita del permesso di Dio per mettere alla prova Giobbe. Dio è indubbiamente il sovrano esclusivo del mondo, ma che Dio è questo? Se ricolleghiamo la decisione originale di Abramo di lasciare la sua terra natia col relativo paganesimo, alla motivazione di una visione di vita regolata da un Dio che promuove giustizia e rettitudine, allora Giobbe sembra sovvertire tale visione completamente. Ciò che impariamo però da questo libro – specie se accettiamo l'interpretazione alternativa dell'ultimo versetto nel discorso conclusivo di Giobbe – è che Dio accoglie le nostre contestazioni, persino la nostra empietà. Una lezione così non è da poco!


Rimane il fatto che solo un versetto dal Libro di Giobbe viene riportato nella liturgia successiva. Si recita: "Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore" ({{passo biblico|Giobbe|1:21}}) ad ogni inumazione ebraica. Tale dichiarazione non deve essere presa come un tentativo di giustificare o riscattare Dio, un modo di renderLo "simpatico". Non è un'affermazione teologica, né un'asserzione concettuale astratta sulla natura di Dio. È invece un'invocazione che viene dal cuore, un'affermazione della sovranità di Dio e del Suo potere assoluto sui nostri destini, esclamata proprio al momento quando siamo più tentati a mettere in dubbio tale principio. Le parole sono performative; sono una formulazione verbale dell'atto di inchinare la testa e accettare il giudizio di Dio, qualunque esso sia. E ciò è precisamente quello che fa Giobbe. Ecco perché continuiamo a recitare queste parole quando siamo in contatto con la morte.<ref>Si veda [[:en:w:Will Herberg|Will Herberg]], ''Judaism and Modern Man: An Interpretation of Jewish Religion'', Jewish Lights Publishing, 1997, 45-59 e ''passim''.</ref>
Rimane il fatto che solo un versetto dal Libro di Giobbe viene riportato nella liturgia successiva. Si recita: "Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore" ({{passo biblico|Giobbe|1:21}}) ad ogni inumazione ebraica. Tale dichiarazione non deve essere presa come un tentativo di giustificare o riscattare Dio, un modo di renderLo "simpatico". Non è un'affermazione teologica, né un'asserzione concettuale astratta sulla natura di Dio. È invece un'invocazione che viene dal cuore, un'affermazione della sovranità di Dio e del Suo potere assoluto sui nostri destini, esclamata proprio al momento quando siamo più tentati a mettere in dubbio tale principio. Le parole sono performative; sono una formulazione verbale dell'atto di inchinare la testa e accettare il giudizio di Dio, qualunque esso sia. E ciò è precisamente quello che fa Giobbe. Ecco perché continuiamo a recitare queste parole quando siamo in contatto con la morte.<ref>Si veda [[:en:w:Will Herberg|Will Herberg]], ''Judaism and Modern Man: An Interpretation of Jewish Religion'', Jewish Lights Publishing, 1997, 47-86 e Parte III ''passim''.</ref>


==Dio è etico?==
==Dio è etico?==
Ad un livello più astratto, l'invocazione solleva un problema puramente teologico. Per dirlo chiaro e tondo: Dio è etico? La risposta più precisa è che dipende da cosa uno intenda per etico. La risposta tradizionalista sarebbe quella di scartarla come eretica. Dio definisce ciò che è etico, e non viceversa. Tutto quello che fa Dio è, per definizione, etico. Ovviamente Dio è etico, che domande!



==La morte di Rabbi Akiva==
==La morte di Rabbi Akiva==

Versione delle 14:11, 23 ago 2019

Indice del libro


"Creazione del Sole e della Luna", incisione di Wenceslas Hollar (ca.1650)
"Creazione del Sole e della Luna", incisione di Wenceslas Hollar (ca.1650)
Rotolo della Torah su pergamena
Rotolo della Torah su pergamena

Metafore invise

Tuttavia Dio non è sempre simpatico. I nostri antenati ne erano completamente consapevoli, come noi del resto. A volte Dio sembra maltrattare le persone — anche le persone giuste, anche il popolo ebraico, che Dio dovrebbe amare in modo speciale. Quando si sentivano maltrattati, ingiuriati, gli ebrei cercavano disperatamente di giustificare il comportamento di Dio in modo da integrare la propria delusione con la loro immagine di un Dio amorevole. Ma spesso i sentimenti negativi scivolano tra le crepe e la tensione viene esposta a tutti.

Ma anche allora, la loro rabbia per il comportamento di Dio veniva sempre espressa nell'ambito del costante rapporto con Lui. Non permisero mai che il loro senso di essere stati maltrattati da Dio li facesse abbandonare la comunità religiosa e la rispettiva struttura confessionale. Alcuni probabilmente se ne andarono; ma comprensibilmente, con almeno un'eccezione degna di nota, i nostri testi non conservano traccia che ne spieghi le loro motivazioni. D'altra parte, ci sono molti testi che registrano i sentimenti di coloro che, nonostante la loro evidente ira contro Dio, rimasero ebrei devoti e fedeli. Queste persone scrissero salmi per questo Dio che li abbandonava o narrarono storie del comportamento divino, incanalando la loro delusione in una sfida. Non chiesero mai scusa per la loro rabbia con Dio. Capivano che fosse una dimensione totalmente legittima di ogni rapporto interpresonale; non andava a significare che il rapporto era morto. In verità, abbandonare tale rapporto li avrebbe privati delle basi necessarie alla loro sfida.

Queste esperienze negative e i sentimenti che suscitavano vennero incorporati in quelle che io chiamo immagini "antipatiche" di Dio e che pervadono la nostra letteratura classica. Ci si può certamente chiedere cosa ci facciano questi testi nella Bibbia, ma i nostri avi che erano responsabili della canonizzazione della Bibbia, del Talmud e della liturgia, riconoscevano che la gente a volte si sentiva così con Dio, che loro stessi avevano questi sentimenti negativi e tristi, e che tali sentimenti facevano parte del repertorio vasto e complesso degli incontri tra Dio e gli esseri umani.

Nella Bibbia stessa e in gran parte dellaletteratura postbiblica, il modo convenzionale di integrare le esperienze negative di Dio era di attribuirle a punizioni divine per la peccaminosità umana. Tutto d'un colpo, questa immagine di un Dio giudicante e punitivo risolveva quasi tutto: difendeva il comportamento di Dio, cancellava i sentimenti di abbandono e forniva un mezzo per ripristinare la relazione positiva originale — cioè, pentimento e ritorno a Dio. La dichiarazione classica dell'equazione che il peccato provoca punizione (e la virtù provoca tutti i tipi di benedizione) è Deuteronomio 11:13-21, il secondo dei tre paragrafi della Shema, che gli ebrei recitano due volte al giorno. Se ascoltiamo i comandi di Dio e Lo serviamo con tutto il cuore e con tutta l'anima, allora riceveremo pioggia, raccolti abbondanti, cibo e bevande; se ci ribelliamo, la nostraterra non darà frutto e noi saremo banditi dalla terra.

I nostri progenitori potevano giustificare il comportamento di Dio perché credevano che i Suoi giudizi fossero sempre equi e onesti. Oggi riconosciamo che alcuni giudici umani sono corrotti, ma che Dio fosse un giudice corrotto era impensabile per i n ostri antenati. A tutt'oggi, quando un ebreo sente che qualcuno è morto, la sua reazione liturgica immediata è Barukh dayan ha-emet. Traduzione letterale della frase è: "Sia benedetto il Giudice della verità", oppure "il vero Giudice", o "il Giudice che giudica sinceramente", o "accuratamente", o "il cui giudizio è vero".

Quale che sia il modo di tradurre la frase, la metafora sottesa è che Dio sia una giudice giusto e che la nostra sofferenza sia meritata. Pertanto, un'esperienza di Dio potenzialmente negativa diventa positiva. Potremmo essere a disagio con la nozione che Dio segga in trono a giudicare le persone – di solito preferiamo relazioni che non ci giudicano – ma primo, c'è una dimensione intrinseca non-giudicativa in tutti i rapporti interpersonali; secondo, l'implicazione pratica di vedere Dio come giudice è di insegnarci che siamo responsabili delle vite che viviamo. Poiché Dio è un giudice giusto, possiamo aspettarci un giudizio giusto, e forse anche un giudizio compassionevole, dato che Dio è anche compassionevole.

Ciononostante, ci sono testi che descrivono l'abbandono di Dio che sono completamente privi della benché minima allusione a colpe. Abbiamo prima studiato due di questi, i Salmi 13 e 44. Il primo un'invocazione di lamento da parte di una persona che si sente abbandonata da Dio in un momento di crisi e Lo prega di considerarlo, di rispondergli e di salvarlo. Il secondo è un'invocazione ancor più dolorosa — questa volta a nome del popolo di Israele, che è stato devastato dai suoi nemici. I nessuno di questi due testi c'è alcuna allusione che la condotta punitiva di Dio sia meritata. Invero, il secondo salmo asserisce proprio l'oppsto: è precisamente a causa della lealtà a Dio da parte della comunità che tale comunità sta venendo distrutta. L'unica conclusione possibile è che Dio stia dormendo...

Dio ha dormito troppo? La sveglia di Dio non ha suonato per tempo? Questo sarcasmo amaro, per quanto sia doloroso leggerlo, viene canonizzato nella Scrittura ebraica. È come un dono alla nostra generazione post-Olocausto. Ci dà modo di esprimere la nostra amarezza odierna. Ci fornisce un linguaggio per sfogare i nostri problemi correnti.

Giobbe

"Giobbe" di Léon Joseph Florentin Bonnat (1880)
"Giobbe" di Léon Joseph Florentin Bonnat (1880)

L'immagine di Dio in quei due salmi è abbastanza negativa, ma lo diventa ancor di più, e più dolorosa, nei primi due capitoli del Libro di Giobbe. Prima di tutto, ci si chiede "Che ci fa questo libro nella Bibbia?" Giobbe era un uomo giusto, dice il testo. Dio elogia la devozione di Giobbe parlandone a Satana – l'"avversario" o che fa, appunto, l'"avvocato del diavolo" – che controbatte che Giobbe è giusto solo perché Dio non lo ha mai messo alla prova. Allora Dio concede a Satana il diritto di danneggiare la proprietà di Giobbe e, nel capitolo 2, di ferirlo fisicamente ma non di ucciderlo. In tutto questo, come dire, pandemonio Giobbe rimane fedele a Dio. La moglie di Giobbe lo sollecita a "Bestemmia Dio e muori!" ma Giobbe risponde: "Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?" (Giobbe 9-10).

Poi arrivano i "consolatori" di Giobbe ed evocano l'interpretazione classica della sofferenza presente nella Torah: Giobbe deve aver peccato. Ma Giobbe ribatte di non aver peccato, o che non ha peccato abbastanza da giustificare tale punizione. Alla fine del libro, Dio parla a Giobbe nei discorsi "di mezzo al turbine". Questi sono un peana alla potenza di Dio e alla complessità della Sua creazione. I loro messaggio è: "Giobbe, non cercare di capirMi. Non cercare di inserirMi nelle tue categorie morali. I sono Dio; tu sei un essere umano." Sorprendentemente, Giobbe riconosce la differenza:

« Comprendo che puoi tutto
e che nessuna cosa è impossibile per te...
Io ti conoscevo per sentito dire,
ma ora i miei occhi ti vedono.
Perciò mi ricredo
e ne provo pentimento sopra polvere e cenere. »
(Giobbe 42:2,5-6)

Ciò implica che Giobbe ha ora ottenuto una comprensione più chiara delle vie di Dio e una misura di chiusura. Allora Dio "ha riguardo di Giobbe" (42:9) e ripristina la sua fortuna, "accresce anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto" (42:10) e Giobbe muore "vecchio e sazio di giorni" (42:9) — la stessa frase usata per descrivere la morte di Abramo (Genesi 25:8).

Esiste un'altra traduzione dell'ultimo versetto che dà un'interpretazione alquanto differente. Possiamo infatti leggere gli ultimi due versetti come "Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora che i miei occhi ti vedono rabbrividisco di dolore per il fango mortale." In questa traduzione, Giobbe sembra sì di esser giunto ad una misura di conclusione, ma non ha certo ritrattato la sua sfida a Dio. Sfida Dio fino alla fine. In effetti, dice a Dio: "Se questo è il tipo di Dio che sei, allora rabbrividisco per gli esseri umani che devono vivere sotto il Tuo dominio." Il Dio che loda Giobbe alla fine del libro stesso e ripristina le sue fortune è un Dio che ha perso. Paradossalmente, la perdita di Dio è anche la Sua vittoria, dato che ora sappiamo che questo è un Dio che apprezza l'irreverenza di Giobbe e accetta la sua sfida.[1]

Tre questioni non mancano mai di preoccuparmi ogni volta che riapro e leggo questo libro impossibile. Prima questione: a Giobbe non viene mai detto perché soffra. I lettori, che lo hanno capito dal primo capitolo che descrive la sfida di Satana, sanno il perché, ma Giobbe non lo scopre mai. Ad Abramo, alla fine della storia del sacrificio di Isacco (Genesi 22), viene detto che era tutta una messa in prova della sua fedeltà. A Giobbe invece non viene mai data una spiegazione. Mi viene a volte una fantasia dove cerco di immaginare cosa sarebbe successo se Giobbe e Abramo si fossero incontrati e condiviso le proprie rispettive esperienze, sorseggiando una tazza di caffè seduti su una panchina lungo la strada. Che si sarebbero detti? Non riesco ad oltrepassare l'immagine della faccia di Giobbe quando Abramo gli dice che, alla fine, gli fu detto che Dio stava mettendo alla prova la sua fede. "Almeno tu sai perché ti sia successo così. Io non l'ho mai saputo!" avrebbe detto Giobbe. D'altra parte, sono anche contento che non l'abbia mai saputo. Come avrebbe reagito Giobbe venendo a sapere che le sue sofferenze erano state prodotte per far vincere una scommessa di Dio con Satana?

Seconda questione: nel passo 42:7 Dio esplicitamente rifiuta la teologia dei consolatori che la sofferenza di Giobbe fosse una punizione di peccati; in verità, Dio dice a Giobbe che se lui intercede per loro, Dio li perdonerà. Ma questo è un ripudio totale della spiegazione normativa che la Torah dà per la sofferenza umana. L'autore biblico ha proprio un bel coraggio, una vera audacia teologica! Tuttavia, coloro che canonizzarono il Libro di Giobbe includendolo nella Bibbia non furono disturbati da questa inversione apparentemente eretica. Dando un'interpretazione positiva a tale conclusione, da essa impariamo che è legittimo anche per noi moderni rifiutare antiche dottine ebraiche quando non ci sembrano più accettabili.[2]

Infine, e più dolorosamente. mentre nei Salmi 13 e 44 rimaniamo a chiederci perché Dio sia così trascurato, qui nel Libro di Giobbe abbiamo un indizio per le motivazioni di Dio: è stata semplicemente la vanità di Dio in reazione alla sfida di Satana. Dio considera la devozione di Giobbe come testimonianza della Sua potenza. Quando Satana mette in dubbio tale presupposto, Dio risponde: "Mettilo alla prova e vedrai che ha ragione." Non c'è da stupirci che Dio non voglia far conoscere a Giobbe tale motivazione, alla fine del libro.

Approfondiamo per un momento questa immagine di Dio. Veramente, quale che sia l'interpretazione del passo di chiusura succitato, cosa comporterebbe vivere in un mondo governato da questo tipo di Dio? Sarebbe come vivere in un mondo regolato da un sovrano, vanitoso, capriccioso, ma onnipotente, che si relaziona alle persone in modi totalmente imprevedibili e non sente nemmeno il bisogno di render conto del proprio comportamento. Non c'è traccia qui di un dualismo divino; Satana è chiaramente soggetto a Dio. Necessita del permesso di Dio per mettere alla prova Giobbe. Dio è indubbiamente il sovrano esclusivo del mondo, ma che Dio è questo? Se ricolleghiamo la decisione originale di Abramo di lasciare la sua terra natia col relativo paganesimo, alla motivazione di una visione di vita regolata da un Dio che promuove giustizia e rettitudine, allora Giobbe sembra sovvertire tale visione completamente. Ciò che impariamo però da questo libro – specie se accettiamo l'interpretazione alternativa dell'ultimo versetto nel discorso conclusivo di Giobbe – è che Dio accoglie le nostre contestazioni, persino la nostra empietà. Una lezione così non è da poco!

Rimane il fatto che solo un versetto dal Libro di Giobbe viene riportato nella liturgia successiva. Si recita: "Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore" (1:21) ad ogni inumazione ebraica. Tale dichiarazione non deve essere presa come un tentativo di giustificare o riscattare Dio, un modo di renderLo "simpatico". Non è un'affermazione teologica, né un'asserzione concettuale astratta sulla natura di Dio. È invece un'invocazione che viene dal cuore, un'affermazione della sovranità di Dio e del Suo potere assoluto sui nostri destini, esclamata proprio al momento quando siamo più tentati a mettere in dubbio tale principio. Le parole sono performative; sono una formulazione verbale dell'atto di inchinare la testa e accettare il giudizio di Dio, qualunque esso sia. E ciò è precisamente quello che fa Giobbe. Ecco perché continuiamo a recitare queste parole quando siamo in contatto con la morte.[3]

Dio è etico?

Ad un livello più astratto, l'invocazione solleva un problema puramente teologico. Per dirlo chiaro e tondo: Dio è etico? La risposta più precisa è che dipende da cosa uno intenda per etico. La risposta tradizionalista sarebbe quella di scartarla come eretica. Dio definisce ciò che è etico, e non viceversa. Tutto quello che fa Dio è, per definizione, etico. Ovviamente Dio è etico, che domande!

La morte di Rabbi Akiva

"Rabbi Akiva", illustrazione sulla Haggadah di Mantova (1568)
"Rabbi Akiva", illustrazione sulla Haggadah di Mantova (1568)

Dio non è onnipotente

Dopo l'Olocausto

Dio è morto

Note

  1. Per questa interpretazione più radicale del passo finale nel Libro di Giobbe, si veda Jack Miles, God: A Biography, Alfred A. Knopf, 1995, 323-328.
  2. Per questa sezione si veda Richard Rubenstein, in The Condition of Jewish Belief, compilato dai curatori di Commentary Magazine, Macmillan, 1966, 199-209.
  3. Si veda Will Herberg, Judaism and Modern Man: An Interpretation of Jewish Religion, Jewish Lights Publishing, 1997, 47-86 e Parte III passim.