Riflessioni su Yeshua l'Ebreo/Sacrificio religioso: differenze tra le versioni

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L'idea che al battesimo i cristiani entrino in una nuova vita, in realtà la vera vita per la prima volta, fu centrale nel suo pensiero. Mise a confronto l'esistenza precristiana del convertito, nella migliore delle ipotesi una sorta di morte vivente che termina con la morte effettiva, con la sua vita cristiana, che era in procinto di diventare vita come era stata intesa da Dio prima del peccato di Adamo, la vita priva delle relative maledizioni del peccato e della mortalità ({{passo biblico2|1Corinzi|15:21-2}}; {{passo biblico2|Romani|5:12-15}}). Paolo descrisse ripetutamente il cristiano battezzato come ''en Christo'', "in Cristo", e insistette sul fatto che ''en Christo'' il cristiano diveniva un uomo nuovo. Scrisse ai Corinzi: "Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove" ({{passo biblico2|2Corinzi|5:17}}). L'identità del cristiano è così radicalmente trasformata dalla sua esistenza in Cristo che Paolo poteva affermare della propria identità postbattesimale: "In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" ({{passo biblico2|Galati|2:19-20}}).
L'idea che al battesimo i cristiani entrino in una nuova vita, in realtà la vera vita per la prima volta, fu centrale nel suo pensiero. Mise a confronto l'esistenza precristiana del convertito, nella migliore delle ipotesi una sorta di morte vivente che termina con la morte effettiva, con la sua vita cristiana, che era in procinto di diventare vita come era stata intesa da Dio prima del peccato di Adamo, la vita priva delle relative maledizioni del peccato e della mortalità ({{passo biblico2|1Corinzi|15:21-2}}; {{passo biblico2|Romani|5:12-15}}). Paolo descrisse ripetutamente il cristiano battezzato come ''en Christo'', "in Cristo", e insistette sul fatto che ''en Christo'' il cristiano diveniva un uomo nuovo. Scrisse ai Corinzi: "Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove" ({{passo biblico2|2Corinzi|5:17}}). L'identità del cristiano è così radicalmente trasformata dalla sua esistenza in Cristo che Paolo poteva affermare della propria identità postbattesimale: "In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" ({{passo biblico2|Galati|2:19-20}}).


Paolo usava spesso la metafora di spogliarsi del vecchio e indossare il nuovo per descrivere la morte del vecchio sé e la rinascita in Cristo (Efesini 4: 22-24: Col. 3: 9; vedere Rom. 13:12, Col. . 2:12). Il nuovo sé che il cristiano acquisisce annulla sia il vecchio sé che il mondo premessianico. Tutte le distinzioni cruciali che hanno maledetto l'umanità sono terminate, almeno in linea di principio, con il battesimo: "Poiché voi tutti che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è né Giudeo né Greco, non c'è né schiavo né libero, non c'è né maschio né femmina, perché tutti siete uno in Cristo Gesù." ({{passo biblico2|Galati|3:27-28}}; cfr. {{passo biblico2|1Corinzi|2:13}}). Se il termine "rinascita" è assente dalle lettere (confermate) di Paolo, la realtà spirituale e psicologica dell'esperienza del cristiano come nato nuovamente e veramente pervade il suo pensiero.
Paolo usava spesso la metafora di spogliarsi del vecchio e indossare il nuovo per descrivere la morte del vecchio sé e la rinascita in Cristo (Efesini 4: 22-24: Col. 3: 9; vedere Rom. 13:12, Col. . 2:12). Il nuovo sé che il cristiano acquisisce annulla sia il vecchio sé che il mondo premessianico. Tutte le distinzioni cruciali che hanno maledetto l'umanità sono terminate, almeno in linea di principio, con il battesimo: "Poiché voi tutti che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è né Giudeo né Greco, non c'è né schiavo né libero, non c'è né maschio né femmina, perché tutti siete uno in Cristo Gesù." ({{passo biblico2|Galati|3:27-28}}; cfr. {{passo biblico2|1Corinzi|2:13}}). Se il termine "rinascita" è assente dalle lettere (confermate) di Paolo, la realtà spirituale e psicologica dell'esperienza del cristiano come nato nuovamente e veramente pervade comunque il suo pensiero.

Per comprendere la teologia di Paolo, nei decenni centrali del ventesimo secolo studiosi cristiani come [[w:William D. Davies|W. D. Davies]], Robin Scroggs e [[w:Charles Kingsley Barrett|C. K. Barrett]] hanno studiato la rilevanza della speculazione rabbinica su Adamo. Scroggs, in particolare, ha sottolineato l'importanza della speculazione sia rabbinica che apocrifa (se davvero le due tendenze possono essere separate) sulla caduta di Adamo per una comprensione dell'interpretazione da parte di Paolo del ruolo di Cristo come "l'ultimo Adamo" che inverte la condanna arrecata al genere umano dal primo Adamo. Secondo Scroggs, la tradizione rabbinica sosteneva che 1) prima di peccare, Adamo godeva di prerogative regali su tutta la creazione: proprio come Dio è re in alto, il destino originale di Adamo era quello di essere re in basso; 2) Adamo originariamente possedeva una saggezza superlativa, di gran lunga superiore a quella degli angeli; 3) Adamo fu veramente creato a immagine (''eikon'') di Dio. Adamo quindi somigliava a Dio stesso piuttosto che agli angeli, che in origine erano inferiori a lui; 4) Adamo possedeva una natura gloriosa. "Il suo tallone brillava più del sole". Adamo partecipò così alla gloria stessa di Dio nella misura in cui era possibile per un essere creato; infine 5) Adamo possedeva dimensioni cosmiche e fu ridotto alle dimensioni degli uomini mortali solo dopo la sua disobbedienza.<ref>Robin Scroggs, ''The Last Adam: A Study in Puline Anthropology'' (Philadelphia: Fortress Press, 1966), 46-50.</ref>

Le categorie di Scroggs riassumono convenientemente e accuratamente le speculazioni rabbiniche su Adamo prima della caduta. Concordo con la sua stima del significato di queste speculazioni: l'immagine rabbinico-apocrifa di Adamo prima della caduta somiglia all'immagine, secondo la tradizione, di come sarà l'uomo nel mondo a venire. L'esistenza senza morte, glorificata e felice di cui gode l'Adamo prelapsario è il tipo di esistenza che attende i giusti nel mondo a venire. Adamo originariamente godeva del tipo di esistenza che Dio voleva che tutti gli uomini potessero provare. Quando le corruzioni dell'era presente saranno finalmente annullate, la progenie di Adamo sarà riportata alla felice esistenza che il loro padre primordiale avrebbe dovuto godere. Sebbene ci sia un carattere sfuggente e ambiguo nella speculazione rabbinica sul mondo a venire, il che rende estremamente difficile affermare che qualsiasi dottrina rappresenti il consenso rabbinico, sembrerebbe che ci fosse almeno un accordo sul fatto che i morti sarebbero risorti e che quelli trovati accettabili da Dio avrebbero goduto di una sorta di beatitudine. La mia cautela nel suggerire qualcosa di più di ciò, riflette l'ammonimento implicito nel noto detto di Rabbi Johanan, un insegnante palestinese del II secolo: "R. Johanan ha detto: Ogni profeta ha profetizzato solo per i giorni del Messia, ma per quanto riguarda il Mondo a venire (cioè l'ultima era dopo il giudizio finale dell'umanità), ‘Nessuno aveva mai sentito né orecchio udito né occhio visto alcun DIO all'infuori di Te, che agisce per chi spera in Lui’ (Isaia 64:4)" (Berakhoth 34b). È possibile che il commento di Johanan riflettesse una reazione rabbinica al movimento cristiano sempre più dilagante. Tuttavia, c'era un collegamento nel mito rabbinico tra la felicità che attende i giusti e l'immortalità perduta da Adamo alla caduta. I rabbini usavano spesso il termine ''gan ‘eden'', il giardino dell'Eden, per riferirsi al paradiso a venire. Anche la lingua italiana non può evitare una certa coincidenza linguistica in questo ideale: la stessa parola è usata sia per il paradiso da riconquistare che per il paradiso perduto. Sebbene nessuna singola riflessione rabbinica sul Mondo a venire possa essere considerata autorevole, c'è una dichiarazione di Rab, un'autorità rabbinica babilonese del terzo secolo, che può essere rilevante per il nostro studio di Paolo. Secondo Rab,
{{q|Il Mondo a Venire non è come questo mondo. Nel Mondo a Venire non si mangia né si beve; non c'è procreazione di figli o affari; nessuna invidia, odio o conflitto; ma i giusti stanno sul trono con le loro corone sulle loro teste e godono dello splendore della ''[[w:Shekhinah|Shekhinah]]'', come sta scritto, "essi videro Dio, e mangiarono e bevvero" (Esodo 24:11) — furono soddisfatti dello splendore della ''Shekhinah'' di Dio; per loro era cibo e bevanda.|Berakhoth 17a}}
Questo detto ricorda la risposta di Gesù ai Sadducei riguardo allo stato civile di una donna che aveva successivamente sposato diversi fratelli secondo la legge del [[w:levirato|matrimonio levirato]]. Gesù disse: "Quando risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli" ({{passo biblico2|Marco|12:25}}; cfr. {{passo biblico2|Matteo|22:30}}, {{passo biblico2|Luca|20:34-36}}). Dietro i detti di Johanan, Rab e Gesù, è possibile discernere una convinzione comune che l'ordine delle cose come lo conosciamo offre pochi indizi sull'esistenza nell'era a venire. Come vedremo, Paolo condivide questa convinzione (cfr. {{passo biblico2|1Corinzi|15:46-50}}).







Versione delle 19:29, 22 ago 2020

Indice del libro
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"Consummatum Est", guazzo & grafite su carta di James Tissot, 1886-94

La separazione tra ebraismo e cristianesimo

Il Sacrificio religioso

In questo capitolo, esplorerò la questione di ciò che era in gioco culturalmente, religiosamente e psicologicamente nella separazione delle vie tra l'ebraismo e il paleocristianesimo. Poiché le questioni in gioco sono molteplici, ho scelto di concentrarmi principalmente sul sacrificio religioso. Credo che questo problema mostri simultaneamente elementi di continuità e discontinuità tra le due tradizioni.

Cominciamo con il racconto dell’Aqedah (ebr. הָעֲקֵידָה‎ Ha-Aqedah - "la legatura") nella Scrittura (Genesi 22:1-19). Come è noto, in uno dei giorni più sacri del calendario religioso ebraico, il secondo giorno di Rosh Hashanah, la lettura della Torah tratta principalmente dell’Aqedah, in cui ad Abramo viene comandato incondizionatamente: "Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va' nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò" (Genesi 22:2 [1]).

Questa è la storia di un infanticidio abortito richiesto da Dio. Secondo l'eminente studioso ebreo, il compianto Shalom Spiegel, "lo scopo principale della storia dell’Akedah potrebbe essere stato solo questo: attaccare a un vero pilastro del popolo e ad una venerata reputazione la nuova norma: abolire il sacrificio umano, sostituirci invece gli animali".[1] Sembrerebbe che la maggior parte, ma non tutti, gli studiosi ebrei moderni siano d'accordo con Spiegel.

C'è, tuttavia, un'opinione di minoranza espressa in modo convincente da Jon Levenson di Harvard, che "Gen. 22:1-19 è spaventosamente inequivocabile sull'ordine di YHWH a un padre di offrire il proprio figlio in sacrificio".[2] Condivido questa opinione. Sebbene Shalom Spiegel fosse il mio insegnante al Jewish Theological Seminary,[3] devo rispettosamente dissentire con lui.

Una ragione importante per questa divergenza di opinioni è che ci sono versetti nella Scrittura in cui il comando divino di sacrificare il primogenito maschio sembra essere incondizionato. Ad esempio, Esodo 13:1-2 stabilisce: "Il SIGNORE disse a Mosè: «Consacrami ogni primogenito tra i figli d'Israele, ogni primo parto, sia tra gli uomini, sia tra gli animali: esso appartiene a me»". Esodo 22:28-29 recita: "Non ritarderai l'offerta di ciò che riempie il tuo granaio e di ciò che stilla dal tuo frantoio. Il primogenito dei tuoi figli lo darai a Me. Così farai per il tuo bue e per il tuo bestiame minuto: sette giorni resterà con sua madre, l'ottavo giorno Me lo darai." In nessuno dei due versetti troviamo una qualificazione attenuante.

Altrove in Esodo, la Scrittura richiede un'offerta sostitutiva a rimpiazzare e redimere il primogenito maschio: "Quando il SIGNORE ti avrà fatto entrare nel paese dei Cananei... consacra al SIGNORE ogni primogenito e ogni primo parto del tuo bestiame. I maschi saranno del SIGNORE. Ma riscatta ogni primo parto dell'asino con un agnello; se non lo vuoi riscattare, spezzagli il collo. Riscatterai anche ogni primogenito di uomo fra i tuoi figli" (Esodo 13:11-13).

Ci sono anche testimonianze nella Scrittura che il sacrificio di bambini non solo era praticato in Israele, forse fino al 500 p.e.v., ma che poteva benissimo anche essere stato parte del culto ufficiale piuttosto che un'intrusione pagana. Il suggerimento più intrigante che tale fosse effettivamente il caso si trova nelle parole del profeta Ezechiele nel descrivere YHWH che monta un crescendo di accuse contro "Gerusalemme" culminante nella seguente condanna: "Prendesti inoltre i tuoi figli e le tue figlie, che Mi avevi partoriti, e li offristi loro in sacrificio, perché li divorassero. Non bastavano dunque le tue prostituzioni, perché tu avessi anche a scannare i Miei figli, e a darli loro facendoli passare per il fuoco?" (Ezechiele 16:20-21).

Inoltre, c'è un passaggio molto strano in Ezechiele in cui il profeta ammette apparentemente che i rituali che detesta erano effettivamente praticati da uomini e donne che li consideravano un'autentica espressione dello Yahwismo: "Diedi loro perfino delle leggi non buone e dei precetti per i quali non potevano vivere. Li contaminai con i loro doni, quando facevano passare per il fuoco ogni primogenito, per ridurli alla desolazione affinché conoscessero che Io sono il SIGNORE" (Ezechiele 20:25-26).

Ed Noort, uno studioso olandese, ha definito questo passaggio "la frase più peculiare sul ruolo della torah (sic) nella Bibbia ebraica", notando: "è lo stesso YHWH che fornisce le leggi che portano alla morte invece che alla vita. Permette a Israele di contaminare se stesso con il sacrificio del primogenito".[4] La descrizione di Ezechiele che YHWH dà a Israele "leggi che conducono alla morte" è coerente con l'opinione di Noort secondo cui, nella ricerca biblica contemporanea, "Il quadro delle opposizioni in bianco e nero tra il Baalismo e lo Yahwismo è scomparso."[5]

Potremmo essere in grado di imparare molto sul sacrificio di bambini nell'antico Israele dall'antica Cartagine. Fondata come colonia della città fenicia di Tiro, con la quale Giuda e Israele avevano importanti contatti commerciali e religiosi nei tempi antichi, "apparentemente c'era una stretta affinità tra la cultura israelita e quella fenicia o cananea ".[6] Antichi scrittori come Clitarco, Agatocle, Diodoro Siculo, Plutarco e il teologo cristiano Tertulliano (c.155-c.220) testimoniano tutti la pratica del sacrificio di bambini nel regno di Cartagine. Nel dicembre 1921, il più grande cimitero di bambini sacrificati nell'antico Vicino Oriente fu scoperto a Cartagine, ora un sobborgo turistico della città di Tunisi.[7] Esistono siti fenici simili e più piccoli in Sicilia, Sardegna e Tunisia.

Stele nel Tofet di Cartagine
Stele nel Tofet di Cartagine

Negli anni ’70, gli archeologi Lawrence E. Stager e Samuel R. Wolff scavarono un'area nella città di Cartagine stimata non inferiore ai "54.000 e oltre i 64.000 piedi quadrati" che chiamarono il "Tofet cartaginese". Si stima che fino a 20.000 urne funerarie contenenti le ossa di bambini piccoli siano state depositate nel sito tra il 400 p.e.v. e il 200 p.e.v. o, circa, un sacrificio di bambini ogni tre giorni.[8] Mescolate con le ossa dei bambini in alcune urne furonoi trovate anche urne contenenti le ossa carbonizzate di agnelli e capretti. Ne conclusero che "gli animali bruciati erano intesi come sacrifici sostitutivi dei bambini".[9] Devo tuttavia precisare che una minoranza di studiosi contesta l'idea che bambini vivi fossero sacrificati a Cartagine e sostengono che le prove letterarie di tali sacrifici non erano altro di una diffamazione di sangue diffusa da antagonisti stranieri.[10] Tuttavia, il consenso della maggioranza di studiosi è che le prove letterarie e archeologiche puntano in modo schiacciante alla pratica del sacrificio di bambini. Dovremmo anche notare che sebbene tali sacrifici fossero motivati ​​religiosamente, servivano una funzione sociologica di controllo della popolazione, proprio come l'aborto e l'infanticidio hanno in altre culture.

Sembrerebbe quindi esserci una chiara connessione tra agnelli e capretti nelle urne cartaginesi e l'ariete che prende il posto di Isacco nell’Aqedah (Genesi 22:13), come anche l'agnello richiesto per il riscatto al posto del primogenito israelita in Esodo 34:19-20 dove Dio è raffigurato mentre dichiara: "Ogni essere che nasce per primo dal seno materno è Mio: ogni tuo capo di bestiame maschio, primogenito del bestiame grosso e minuto. Il primogenito dell'asino riscatterai con un altro capo di bestiame e, se non lo vorrai riscattare, gli spaccherai la nuca. Ogni primogenito dei tuoi figli lo dovrai riscattare. Nessuno venga davanti a Me a mani vuote".

“Ogni primo discendente del grembo materno è Mio, da tutto il tuo bestiame che lascia cadere un maschio come primogenito, sia bestiame che pecora. Ma riscatterai il primogenito dell'asino con una pecora; se non lo riscatti, devi spezzargli il collo. E devi riscattare ogni primogenito tra i tuoi figli. Nessuno comparirà davanti a me a mani vuote ". Parimenti, sembrerebbe esserci una connessione tra i surrogati animali cartaginesi e l'agnello pasquale in Esodo 12-13. Pertanto, la Scrittura descrive Dio mentre comanda agli ebrei di mettere "del sangue" d'agnello sugli stipiti delle loro case e dichiara: "In quella notte Io passerò per il paese d'Egitto e colpirò ogni primogenito nel paese d'Egitto, uomo o bestia; così farò giustizia di tutti gli dèi dell'Egitto. Io sono il Signore! Il sangue sulle vostre case sarà il segno che voi siete dentro: Io vedrò il sangue e passerò oltre, non vi sarà per voi flagello di sterminio, quando Io colpirò il paese d'Egitto" (Esodo 12:12-13). Come per l'ariete dell’Aqedah, l'agnello pasquale è un'offerta sostitutiva al posto del primogenito ebreo. Il sangue fornisce la prova della sostituzione.

Come notato sopra, la maggior parte degli studiosi ebrei moderni ha sostenuto che la lezione fondamentale dell’Aqedah era che il sacrificio del primogenito non veniva più richiesto e che un animale era surrogato accettabile. Un tale giudizio può riflettere un pregiudizio culturale in cui la religione è vista come un'evoluzione dalle forme inferiori a quelle superiori. Pertanto, i pensatori ebrei riformati del diciannovesimo secolo tendevano ad eliminare le preghiere tradizionali per la restaurazione del Tempio di Gerusalemme e i suoi rituali di sacrificio animale ordinati secondo la Scrittura perché consideravano la preghiera una forma di adorazione "superiore" e più "spirituale" rispetto ai sacrifici animali cruenti. Tuttavia, Stager e Wolff ci informano che non ci fu cessazione di sacrifici umani a Cartagine nel corso dei secoli. Al contrario, riferiscono che la proporzione di ossa umane rispetto a quelle animali trovate nelle urne era di gran lunga maggiore nel "quarto e terzo secolo p.e.v., quando Cartagine aveva raggiunto l'apice dell'urbanità", rispetto ai secoli precedenti. Inoltre, le iscrizioni sui monumenti rivelano che una proporzione molto maggiore delle ossa era di figli di famiglie nobili e prospere piuttosto che di "comuni cartaginesi". Ci ricordano anche che i Fenici erano tra i popoli più civilizzati e cosmopoliti del Mediterraneo.[11] Ricordiamoci che Hiram, re di Tiro, inviò architetti, scalpellini e altri operai, oltre che legno di cedro, a Salomone per il costruzione del Primo Tempio di Gerusalemme.

Un motivo importante per la tenacia e anche per l'aumento del sacrificio umano può essere stato il pensiero che se i sacrifici animali erano efficaci, tanto più efficace sarebbe stata un'offerta maggiormente preziosa, il sacrificio dell'amato figlio.

"Pidyon HaBen": riscatto del primogenito

Inoltre, l'ebraismo non ha mai rifiutato del tutto l'idea che Dio richieda il sacrificio del figlio primogenito. Comunque valutiamo l'esistenza del sacrificio di bambini nell'antica Giuda, in Israele, in Canaan e nelle colonie di Canaan-Fenicia, è evidente che abbiamo a che fare con un Dio che esige la morte di bambini. Riflettendo sulla questione del sacrificio di bambini nell'ebraismo e nel cristianesimo, Levenson commenta, "il complesso mitico-rituale che chiamo ‘sacrificio di bambini’ non fu mai stato sradicato; fu solo trasformato".[12] Un primario esempio di questa trasformazione è il rituale pidyon haBen (פדיון הבן‎) in adempimento del comandamento già annotato: "Ogni primogenito dei tuoi figli lo dovrai riscattare. Nessuno venga davanti a Me a mani vuote" (Esodo 34:20). Nella cerimonia (ancor oggi) il padre presenta il suo figlio primogenito a un cohen o preposto sacerdote il trentesimo giorno dopo la sua nascita, dopodiché il sacerdote chiede al padre: "Quale preferisci, tuo figlio o il tuo denaro?" Il padre dichiara di preferire suo figlio e presenta al cohen cinque monete d'argento, l'equivalente simbolico di cinque sicli biblici, per "riscattare" suo figlio. Il sacerdote accetta le monete con la formula rituale: "Queste (monete) al posto di quello (il bambino). Questo in cambio di quello." Lo scopo fondamentale della cerimonia è di riconoscere subliminalmente le nostre tendenze infanticide e deviarne. A suo modo, questo motivo è operativo anche nel cristianesimo, poiché è Cristo, il Figlio, che viene sacrificato affinché gli altri possano essere redenti. Tuttavia capisco che, a un certo livello, il rituale ebraico riconosce che il potere sotterraneo dell'impulso infanticida non è mai del tutto scomparso. Oggi, la cerimonia è un'occasione familiare felice e pochi partecipanti, se non nessuno, sono consapevoli del suo significato più antico.

Non solo la tradizione ebraica continua ancor oggi la cerimonia del pidyon haBen, ma, come abbiamo visto, in uno dei giorni più sacri dell'ebraismo, agli ebrei viene ricordato che la morte del figlio primogenito del loro patriarca ancestrale fu scongiurata solo a causa dell'incondizionata obbedienza al terribile comando di Dio. Pertanto, la Scrittura descrive un "angelo del Signore" che dice ad Abrahamo: "Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio". (Gen. 22:12) Segue un secondo discorso angelico. Ad Abramo viene detto: "Tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché tu hai ubbidito alla mia voce" (Genesi 22:18) Non solo il sacrificio è stato evitato a causa dell'obbedienza incondizionata di Abramo, ma l'Alleanza di Dio è stata conferita a lui e ai suoi discendenti a causa di tale stessa obbedienza. Inoltre, l'obbedienza di Abramo fu pari a quella di suo figlio. La Scrittura descrive Isacco mentre chiede a suo padre: "Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov'è l'agnello per l'olocausto?" E Abramo risponde: "Dio stesso provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio!". La Scrittura quindi riporta: "E proseguirono tutti e due insieme" (Genesi 22:7-8) indicando in tal modo la loro completa unità di risolutezza.[13] Alcune tradizioni si riferiscono alle "ceneri di Isacco" e affermano che Abramo compì il sacrificio ma che Isacco fu risorto.[14] Il poeta del XII secolo, Rabbi Efraim ben Jacob di Bonn (nato nel 1132), raffigurò Isacco mentre implorava Abramo così:

« Lega per me le mie mani e i miei piedi
Per non essere trovato ingrato e profano al sacrificio.
Ho paura del panico, mi preoccupo di onorarti,
La mia volontà è di onorarti grandemente.[15] »

Abramo quindi prepara il fuoco e la legna del sacrificio "nel giusto ordine", dopodiché:

« Con mani ferme lo sacrificò secondo il rito,
Nel giusto fu il macello. »

Il poeta poi racconta della risurrezione di Isacco e della determinazione di Abramo a completare il sacrificio:

« Giù su di lui cadde la rugiada di risurrezione, ed egli risuscitò.
Il padre (allora) lo afferrò per macellarlo ancora.
Scrittura, rendi testimonianza! Ben fondato è il fatto:
E il Signore chiamò Abramo, una seconda volta dal cielo. »

A quel punto, appare l'ariete "impigliato in un cespuglio vicino".

A causa dei massacri degli ebrei perpetrati dai Crociati nella Renania durante la vita del rabbino Ephraim, il poema ebbe un'intensità speciale. A quel tempo, molti padri ebrei sacrificarono i loro figli. Quando i Crociati invasero Bonn, Mainz, Wurms e altre comunità nel loro cammino verso la Terra Santa, diedero agli ebrei la scelta tra morte o conversione. A quei tempi gli ebrei preferivano morire e spesso uccidevano i loro figli per evitare che venissero sopraffatti da un momento di debolezza e si convertissero.

Come notato sopra, la maggior parte dei commentatori ebrei moderni vede la lezione dell’Aqedah come il rifiuto del sacrificio umano da parte di YHWH. Tuttavia, un'autorità religiosa così eminente quale il defunto rabbino Joseph Soloveitchik, probabilmente il più importante pensatore ortodosso dell'America del ventesimo secolo, rifiutò questa visione:

« Abramo attuò il sacrificio di Isacco non sul Monte Moria, ma nel profondo del suo cuore. Rinunciò a Isacco nello stesso istante in cui Dio si rivolse a lui e gli chiese di restituire il suo bene più prezioso al suo legittimo padrone e proprietario. Immediatamente, senza discutere o supplicare, Abramo rese Isacco. Vi rinunciò non appena fu emesso il comando "e offrilo là in olocausto" (Genesi 22:2). Dentro di sé, l'atto sacrificale fu consumato immediatamente. Isacco non appartenne più ad Abramo. Egli era morto per quanto concerneva Abramo.[16] »

Secondo Soloveitchik, a causa della volontà di Abramo di uccidere suo figlio e del fatto che egli provò il pieno orrore del sacrificio nell'istante stesso in cui gli fu dato il comando, "non ci fu bisogno del sacrificio fisico" e l'animale divenne un sostituto accettabile. Soloveitchik commenta ulteriormente che se Abramo non avesse "reso immediatamente Isacco, se non avesse provato l’Aqedah nella sua totale grandiosità e spaventosa impotenza, Dio non avrebbe mandato l'Angelo per impedire ad Abramo di attuare il comando. Abramo avrebbe perso Isacco fisicamente".[17]

Pertanto, Soloveitchik confuta chiaramente l'idea che lo scopo del racconto dell’Aqedah fosse quello di dimostrare il rifiuto di Dio del reale sacrificio di Isacco. L'interpretazione di Soloveitchik è coerente con la Scrittura che afferma chiaramente che non solo il sacrificio di Isacco fu scongiurato a causa dell'obbedienza incondizionata di Abramo, ma l'Alleanza di Dio fu concessa ad Abramo e alla sua progenie grazie a quella stessa obbedienza (Genesi 22:15-18).

Passiamo ora più direttamente a Gesù. Quali che siano le divergenze narrative esistenti tra i quattro Vangeli canonici, essi sono tutt'uno nel descrivere la morte di Gesù avvenuta durante la stagione della Pesach. Marco, con tutta probabilità il Vangelo più antico, offre la seguente descrizione dell'inizio della carriera pubblica di Gesù:

« In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: "Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto". »
(Marco 1:9-11[18])

Levenson vede echi del ruolo di Isacco nell’Aqedah per la designazione di Gesù come il Figlio prediletto di Dio, ma c'è una grande ironia in questa designazione. Essere il prediletto figlio di Dio o anche il figlio benamato nel complesso religioso israelita-cananeo-fenicio non è una promessa di felicità duratura. Troppo spesso il destino del benamato figlio era quello di subire una prova sacrificale suprema o ancor peggio. A Cartagine, le famiglie nobili spesso sacrificavano ciò che era più prezioso per loro, il loro bambino, come dono alla dea Taanit o al dio Baal Hammon. Inoltre, in una fase molto precoce, la neonata comunità cristiana arrivò a credere che il servo sofferente di Isaia 52:13-53:12 fosse collegato all'idea di Gesù come il Figlio prediletto di Dio. Ciò contribuì a trasformare la crocifissione da un'arma di morte dolorosa a una certezza di vita eterna.[19] Isacco, il servo sofferente di Isaia, e Gesù devono entrambi sottoporsi a un terribile confronto con la morte per compiacere il loro Padre celeste.[20]

Al primo incontro di Gesù e Giovanni Battista, il quarto Vangelo descrive il Battista che dichiara: "Ecco l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo!" (Giovanni 1:29). Queste parole sono state incorporate nella Messa latina come Agnus Dei qui tollis peccata mundi, "un'immagine che prefigura la prossima passione".[21] In realtà, questa doppia identificazione di Gesù come Figlio di Dio e Agnello di Dio potrebbe non indicare una reale differenza, in quanto il termine Figlio di Dio può anche indicare il ruolo di Gesù come vittima sacrificale.

Potrebbe esserci qualche domanda riguardante la veridicità storica della versione di Giovanni dell'incontro tra il Battista e Gesù. Tuttavia, poiché Giovanni descrive Gesù come uno straniero che discende da un regno celeste per un soggiorno temporaneo sulla terra, i dettagli storici riguardanti le attività terrene di Gesù erano meno preoccupanti per lui che non per Marco, Matteo e Luca. Quindi, almeno nel racconto riguardante il coinvolgimento delle autorità ebraiche nella morte di Gesù, Paula Fredricksen sostiene che Giovanni potrebbe in effetti preservare più dettagli storici di quanto non facciano gli scrittori evangelici successivi.[22]

Il primo racconto scritto su Gesù, le lettere di Paolo, identifica Gesù come l'Agnello Pasquale. Paolo non solo era a suo agio nell'usanza ebraica, ma il simbolismo e lo stato d'animo della Pasqua sono presenti in 1 Corinzi dove Paolo chiama Cristo "la nostra Pasqua" e usa come metafora l'usanza ebraica di purificare la casa da tutto il lievito prima della festività di Pesach per l'autopurificazione morale della Chiesa di Corinto (1 Corinzi 5:6-8).[23] La prima lettera di Paolo ai Corinzi è anche il più antico documento cristiano esistente sulla Cena del Signore.[24] Sebbene Paolo non abbia lasciato un'esposizione sistematica del significato dell'Eucaristia, egli discute in modo approfondito la Cena del Signore in due passaggi di tale epistola. In questi passaggi si riferisce alla Cena del Signore in connessione con i suoi sforzi per affrontare i problemi sorti a Corinto in sua assenza. Mettendo in guardia i credenti di Corinto dal comportamento immorale e idolatra, Paolo scrive:

« Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane... Non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni. »
(1 Corinzi 10:16-21)

Nel capitolo successivo, Paolo scrive:

« Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie (eucharistéō), lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me". Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. »
(1 Corinzi 11:23-26)

Nella sua forma scritta, il racconto di Marco della Cena del Signore (Marco 14:12-26) è di alcuni anni più tardi di quello di Paolo, ma probabilmente riflette la stessa tradizione orale utilizzata da Paolo. Sebbene il racconto di Paolo differisca in qualche modo da quello di Marco nei dettagli, c'è un accordo fondamentale che suggerisce che la chiesa primitiva conservò un ricordo ben definito dell'ultimo pasto di Gesù con i suoi discepoli, in cui identificò il pane e il vino con il proprio corpo e sangue. In tal modo, Gesù aprì la possibilità allo sviluppo di un rituale sacrificale centrato nella propria persona. Tuttavia, l'Ultima Cena di Gesù non è ancora un pasto in cui Gesù stesso è la vittima sacrificale. Durante l'Ultima Cena, Gesù dichiarò ai suoi discepoli: "In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio" (Marco 14:25). Queste parole indicherebbero che l'Ultima Cena fu principalmente una festa di commiato e di speranza anticipatoria. Gesù attendeva con ansia il tempo in cui sarebbe stato di nuovo a mangiare in compagnia dei suoi discepoli "nel regno di Dio". È consenso dell'opinione accademica che la promessa di Gesù si riferisca alla futura festa messianica che il Messia godrà con i fedeli quando tutto sarà compiuto.

È molto probabile che la promessa di Gesù di tornare corrispondesse al desiderio più profondo dei suoi discepoli. Erano consapevoli della minaccia terminale che incombeva sulla vita del loro maestro e non era affatto certo che il gruppo potesse mantenersi e continuare senza di lui. In virtù dell'impatto assolutamente unico che Gesù aveva sui suoi seguaci, egli non poteva proprio essere sostituito. Con ogni probabilità, le sue parole di fiduciosa certezza che sarebbe tornato riflettevano la sua comprensione intuitiva di ciò che la sua perdita avrebbe significato per loro.

Oscar Cullmann ha commentato che i pasti condivisi dai discepoli subito dopo la morte di Gesù erano inizialmente pasti di gioia e di ringraziamento piuttosto che dolorose commemorazioni della crocifissione.[25] Secondo Atti, i discepoli "ogni giorno tutti insieme frequentavano il Tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con gioia e semplicità di cuore" (Atti 2:46). Se i pasti che condividevano avessero avuto un carattere spiccatamente sacrificale, enfatizzando la consumazione del corpo e del sangue di Cristo risorto, è improbabile che avrebbero continuato a incontrarsi "ogni giorno nel Tempio" dove venivano offerti i tradizionali sacrifici ebraici.

Forse il modo più utile per comprendere l'evoluzione dell'Eucaristia si trova nella distinzione di Oscar Cullmann tra i primi pasti sacri, in cui i discepoli mangiavano con Cristo, e il successivo Pasto del Signore, in cui Cristo fu mangiato.[26] I pasti gioiosi della comunione in cui Cristo risorto era presente ai suoi discepoli, erano pasti in cui i discepoli o mangiavano con Cristo o si aspettavano di mangiare con lui durante la festa messianica. Tuttavia, ci fu un momento in cui la speranza anticipata del ritorno di Cristo predominava sul sentimento della sua presenza. Le fonti descrivono Cristo come presente subito dopo la Risurrezione, ma, in breve tempo, i discepoli sono lasciati a continuare la loro opera senza di lui. È a questo punto che il loro desiderio del suo ritorno deve essersi intensificato. Questo desiderio è fortemente espresso nella liturgia eucaristica conservata nella Didaché, che la maggior parte degli studiosi data non più tardi del 150 e molti molto prima. Quando il pasto sacro si conclude, il leader prega: "Si avvicini la sua Grazia (cioè Cristo) e il mondo present passi via". La congregazione risponde: "Osanna all'Iddio di Davide". Leader: "Chi è santo, si avvicini. Chi non lo è, si ravveda". La congregazione conclude con il Maranatha: "O Signore, vieni presto. Amen."[27]

La versione Didaché dell'Eucaristia si basa sull'assicurazione di Gesù ai suoi discepoli che egli non avrebbe bevuto più vino fino a quando non lo avesse fatto nel regno di Dio. Questa versione esprime la nota di anticipazione e aspettativa che abbiamo già notato nelle prime forme del pasto sacro cristiano. Tuttavia, c'è un limite alla capacità umana di desiderio non corrisposto. In definitiva, gli uomini devono scegliere di abbandonare l'oggetto del desiderio e reinvestire la loro energia emotiva altrove oppure di trovare un modo per ricongiungersi all'oggetto perduto.

Tale modo fu trovato mediante l'identificazione con Cristo. Nel corso della sua vita, Paolo vide il problema fondamentale dell'umanità in questi termini: come possiamo ottenere il giusto rapporto con il nostro Creatore? Prima della conversione, la sua risposta era la classica risposta ebraica: gli esseri umani raggiungono il giusto rapporto tramite l'obbediente sottomissione alla volontà di Dio. Questa sottomissione era il motivo per cui l'ebraismo normativo è sempre stato la religione della Torah e dei suoi autorevoli interpreti. Dopo la conversione, Paolo trovò un altro modo per ottenere una relazione accettabile con Dio: l'identificazione con Cristo. L'identificazione è quindi una categoria cruciale in cui sia il mondo religioso che quello psicologico si intersecano nell'esperienza di Paolo e dei suoi eredi spirituali.

Sono in debito con l'importante studio di Albert Schweitzer per gran parte della mia interpretazione del ruolo d'identificazione nel pensiero e nell'esperienza religiosa di Paolo.[28] Prima di Schweitzer, gli studiosi protestanti del Nuovo Testamento tendevano a leggere Paolo attraverso gli occhi e l'esperienza di Martin Lutero, sottolineando la centralità della dottrina della giustificazione mediante la fede. Schweitzer sostenne che la dottrina della giustificazione per fede, anche se indubbiamente di grande importanza, era meno centrale nel pensiero di Paolo del suo "misticismo di Cristo" e della sua escatologia. Invece di considerare Paolo come un oppositore dell'ebraismo, come tendevano a fare i primi studiosi protestanti, Schweitzer lo interpretò come un ebreo leale convinto che il Cristo risorto avesse iniziato l'era messianica.[29] Secondo Schweitzer, Paolo capì il tipo di esistenza che i cristiani battezzati avrebbero goduto nell'era messianica sarebbe stata letteralmente quella della solidarietà corporale con il corpo glorificato e immortale del Cristo risorto. Schweitzer affermò che la concezione fondamentale del misticismo di Cristo proposta da Paolo è che gli eletti e Cristo partecipano a un'identità corporea comune.[30] Questa identificazione è espressa in modo più grafico nell'esclamazione di Paolo che, essendo stato crocifisso con Cristo, non è più lui che vive ma Cristo che vive in lui (Galati 2:20: "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me"). Paolo descrisse che i cristiani si erano "rivestiti" di Cristo, e con questo intendeva dire che Cristo era il loro nuovo corpo celeste piuttosto che il loro nuovo abito (Galati 3:27; Romani 13:14; cfr. 2 Corinzi 5:3,4 ; Efesini 4:24; Colossesi 3:10).

Secondo Paolo, nel battesimo i cristiani si identificano sia con la morte di Cristo che con la sua risurrezione. Pertanto, in Romani 6:3-4 Paolo scrive: "O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova". E in Colossesi 2:12: "Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti".

L'idea che al battesimo i cristiani entrino in una nuova vita, in realtà la vera vita per la prima volta, fu centrale nel suo pensiero. Mise a confronto l'esistenza precristiana del convertito, nella migliore delle ipotesi una sorta di morte vivente che termina con la morte effettiva, con la sua vita cristiana, che era in procinto di diventare vita come era stata intesa da Dio prima del peccato di Adamo, la vita priva delle relative maledizioni del peccato e della mortalità (1 Corinzi 15:21-2; Romani 5:12-15). Paolo descrisse ripetutamente il cristiano battezzato come en Christo, "in Cristo", e insistette sul fatto che en Christo il cristiano diveniva un uomo nuovo. Scrisse ai Corinzi: "Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove" (2 Corinzi 5:17). L'identità del cristiano è così radicalmente trasformata dalla sua esistenza in Cristo che Paolo poteva affermare della propria identità postbattesimale: "In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Galati 2:19-20).

Paolo usava spesso la metafora di spogliarsi del vecchio e indossare il nuovo per descrivere la morte del vecchio sé e la rinascita in Cristo (Efesini 4: 22-24: Col. 3: 9; vedere Rom. 13:12, Col. . 2:12). Il nuovo sé che il cristiano acquisisce annulla sia il vecchio sé che il mondo premessianico. Tutte le distinzioni cruciali che hanno maledetto l'umanità sono terminate, almeno in linea di principio, con il battesimo: "Poiché voi tutti che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è né Giudeo né Greco, non c'è né schiavo né libero, non c'è né maschio né femmina, perché tutti siete uno in Cristo Gesù." (Galati 3:27-28; cfr. 1 Corinzi 2:13). Se il termine "rinascita" è assente dalle lettere (confermate) di Paolo, la realtà spirituale e psicologica dell'esperienza del cristiano come nato nuovamente e veramente pervade comunque il suo pensiero.

Per comprendere la teologia di Paolo, nei decenni centrali del ventesimo secolo studiosi cristiani come W. D. Davies, Robin Scroggs e C. K. Barrett hanno studiato la rilevanza della speculazione rabbinica su Adamo. Scroggs, in particolare, ha sottolineato l'importanza della speculazione sia rabbinica che apocrifa (se davvero le due tendenze possono essere separate) sulla caduta di Adamo per una comprensione dell'interpretazione da parte di Paolo del ruolo di Cristo come "l'ultimo Adamo" che inverte la condanna arrecata al genere umano dal primo Adamo. Secondo Scroggs, la tradizione rabbinica sosteneva che 1) prima di peccare, Adamo godeva di prerogative regali su tutta la creazione: proprio come Dio è re in alto, il destino originale di Adamo era quello di essere re in basso; 2) Adamo originariamente possedeva una saggezza superlativa, di gran lunga superiore a quella degli angeli; 3) Adamo fu veramente creato a immagine (eikon) di Dio. Adamo quindi somigliava a Dio stesso piuttosto che agli angeli, che in origine erano inferiori a lui; 4) Adamo possedeva una natura gloriosa. "Il suo tallone brillava più del sole". Adamo partecipò così alla gloria stessa di Dio nella misura in cui era possibile per un essere creato; infine 5) Adamo possedeva dimensioni cosmiche e fu ridotto alle dimensioni degli uomini mortali solo dopo la sua disobbedienza.[31]

Le categorie di Scroggs riassumono convenientemente e accuratamente le speculazioni rabbiniche su Adamo prima della caduta. Concordo con la sua stima del significato di queste speculazioni: l'immagine rabbinico-apocrifa di Adamo prima della caduta somiglia all'immagine, secondo la tradizione, di come sarà l'uomo nel mondo a venire. L'esistenza senza morte, glorificata e felice di cui gode l'Adamo prelapsario è il tipo di esistenza che attende i giusti nel mondo a venire. Adamo originariamente godeva del tipo di esistenza che Dio voleva che tutti gli uomini potessero provare. Quando le corruzioni dell'era presente saranno finalmente annullate, la progenie di Adamo sarà riportata alla felice esistenza che il loro padre primordiale avrebbe dovuto godere. Sebbene ci sia un carattere sfuggente e ambiguo nella speculazione rabbinica sul mondo a venire, il che rende estremamente difficile affermare che qualsiasi dottrina rappresenti il consenso rabbinico, sembrerebbe che ci fosse almeno un accordo sul fatto che i morti sarebbero risorti e che quelli trovati accettabili da Dio avrebbero goduto di una sorta di beatitudine. La mia cautela nel suggerire qualcosa di più di ciò, riflette l'ammonimento implicito nel noto detto di Rabbi Johanan, un insegnante palestinese del II secolo: "R. Johanan ha detto: Ogni profeta ha profetizzato solo per i giorni del Messia, ma per quanto riguarda il Mondo a venire (cioè l'ultima era dopo il giudizio finale dell'umanità), ‘Nessuno aveva mai sentito né orecchio udito né occhio visto alcun DIO all'infuori di Te, che agisce per chi spera in Lui’ (Isaia 64:4)" (Berakhoth 34b). È possibile che il commento di Johanan riflettesse una reazione rabbinica al movimento cristiano sempre più dilagante. Tuttavia, c'era un collegamento nel mito rabbinico tra la felicità che attende i giusti e l'immortalità perduta da Adamo alla caduta. I rabbini usavano spesso il termine gan ‘eden, il giardino dell'Eden, per riferirsi al paradiso a venire. Anche la lingua italiana non può evitare una certa coincidenza linguistica in questo ideale: la stessa parola è usata sia per il paradiso da riconquistare che per il paradiso perduto. Sebbene nessuna singola riflessione rabbinica sul Mondo a venire possa essere considerata autorevole, c'è una dichiarazione di Rab, un'autorità rabbinica babilonese del terzo secolo, che può essere rilevante per il nostro studio di Paolo. Secondo Rab,

« Il Mondo a Venire non è come questo mondo. Nel Mondo a Venire non si mangia né si beve; non c'è procreazione di figli o affari; nessuna invidia, odio o conflitto; ma i giusti stanno sul trono con le loro corone sulle loro teste e godono dello splendore della Shekhinah, come sta scritto, "essi videro Dio, e mangiarono e bevvero" (Esodo 24:11) — furono soddisfatti dello splendore della Shekhinah di Dio; per loro era cibo e bevanda. »
(Berakhoth 17a)

Questo detto ricorda la risposta di Gesù ai Sadducei riguardo allo stato civile di una donna che aveva successivamente sposato diversi fratelli secondo la legge del matrimonio levirato. Gesù disse: "Quando risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli" (Marco 12:25; cfr. Matteo 22:30, Luca 20:34-36). Dietro i detti di Johanan, Rab e Gesù, è possibile discernere una convinzione comune che l'ordine delle cose come lo conosciamo offre pochi indizi sull'esistenza nell'era a venire. Come vedremo, Paolo condivide questa convinzione (cfr. 1 Corinzi 15:46-50).



Addendum

Sigmund Freud e il mito del crimine primordiale

Note

Per approfondire, vedi Biografie cristologiche, Ebraicità del Cristo incarnato, Ecco l'uomo e Serie cristologica.
  1. Shalom Spiegel, The Last Trial, trad. (EN) Judah Goldin (New York: Schocken Books, 1969), 64.
  2. Jon D. Levenson, The Death and Resurrection of the Beloved Son (New Haven: Yale University Press, 1993), 12.
  3. Il Jewish Theological Seminary, conosciuto in ambiente ebraico semplicemente come JTS, è uno dei principali centri dell'Ebraismo conservatore fondato nel 1886 a New York City, su iniziativa del rabbino livornese Sabato Morais, come eredità del Seminario Teologico Ebraico di Breslavia.
  4. 3. Ed Noort, "Child Sacrifice in Ancient Israel: The Status Quaestionis", in Jan N. Bremmer, cur., The Strange World of Human Sacrifice (Leuwen: Peeters Publishers, 2006), 112-13.
  5. Noort, "Child Sacrifice", 104.
  6. evenson, The Death and Resurrection, 20.
  7. Malcolm W. Browne, "Relics of Carthage Show Brutality Among the Good Life", New York Times, 1 settembre 1987.
  8. Lawrence E. Stager e Samuel R. Wolff, "Child Sacrifice at Carthage-Religious Rite or Population Control?" Biblical Archaeology Review 10, no. 1 (gennaio-febbraio 1984): 31-51.
  9. Stager e Wolff, "Child Sacrifice".
  10. Si veda M’hamed Hassine Fantar, "Were Living Children Sacrificed to the Gods? No." Archaeology Odyssey 3, nr. 6 (novembre-dicembre 2000), e Joseph Greene e Lawrence E. Stager, "An Odyssey Debate: Were Living Children Sacrificed to the Gods? Yes." Archaeology Odyssey, 3, nr. 6 (novembre-dicembre 2000).
  11. Stager e Wolff, "Child Sacrifice".
  12. Levenson, The Death and Resurrection, 45.
  13. Si veda Levenson, The Death and Resurrection, 133-40.
  14. Si veda Levenson, The Death and Resurrection, 298-99.
  15. Una traduzione (EN) del poema si trova in Spiegel, The Last Trial, 143-52. La mia qui è una traduzione "libera".
  16. Joseph B. Soloveitchik, David Shatz, Joel B. Wolowelsky e Reuven Ziegler, curr., Abraham’s Journey: Reflections on the Life of the Founding Patriarch (New York: K’TSAV, 2008), 11-12.
  17. Soloveitchik et al., Abraham’s Journey.
  18. Cfr. Matteo 3:17, Luca 3:22, 2 Pietro 1:17
  19. Levenson, The Death and Resurrection, 200-01.
  20. Levenson, The Death and Resurrection, 202.
  21. Paula Fredricksen, From Jesus to Christ, II ediz. (New Haven: Yale University Press, 2000), 20.
  22. Fredricksen, From Jesus, 204.
  23. Richard L. Rubenstein, My Brother Paul (New York: Harper and Row, 1972), 91.
  24. Jean Hering, The First Epistle of Saint Paul to the Corinthians, trad. A. W. Heathcote e P. J. Allcock (Londra: Epsworth Press, 1962), 115.
  25. Oscar Cullmann, Early Christian Worship, trad. A. Stewart Todd e James B. Terrence (Londran: SCM Press, 1962), 10-15.
  26. Cullmann, Early Christian Worship, 19.
  27. Didache, trad. (EN) Maxwell Staniforth, in Early Christian Writings: The Apostolic Fathers (Harmondsworth, Middlesex: Penguin Books, 1968), 231-35.
  28. Albert Schweitzer, The Mysticism of Paul the Apostle, trad. (EN) William Montgomery (Londra: A &C Black, 1953); cfr. anche W. D. Davies, "Paul and Judaism Since Schweitzer", in Davies, Paul and Rabbinic Judaism: Some Rabbinic Elements in Pauline Thought (New York: Harper Torchbooks, 1967), vii-xv.
  29. Schweitzer, The Mysticism of Paul, 52-74.
  30. Schweitzer, The Mysticism of Paul, 116-25.
  31. Robin Scroggs, The Last Adam: A Study in Puline Anthropology (Philadelphia: Fortress Press, 1966), 46-50.