Riflessioni su Yeshua l'Ebreo/Sacrificio religioso: differenze tra le versioni

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{{q|Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie (''eucharistéō''), lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me". Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga.|{{passo biblico2|1Corinzi|11:23-26}}}}
{{q|Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie (''eucharistéō''), lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me". Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga.|{{passo biblico2|1Corinzi|11:23-26}}}}


{{Immagine grande|Última Cena - Da Vinci 5.jpg|800px|''"Ultima Cena"'' di Leonardo da Vinci (1495-1498)}}
Nella sua forma scritta, il racconto di Marco della Cena del Signore ({{passo biblico2|Marco|14:12-26}}) è di alcuni anni più tardi di quello di Paolo, ma probabilmente riflette la stessa tradizione orale utilizzata da Paolo. Sebbene il racconto di Paolo differisca in qualche modo da quello di Marco nei dettagli, c'è un accordo fondamentale che suggerisce che la chiesa primitiva conservò un ricordo ben definito dell'ultimo pasto di Gesù con i suoi discepoli, in cui identificò il pane e il vino con il proprio corpo e sangue. In tal modo, Gesù aprì la possibilità allo sviluppo di un rituale sacrificale centrato nella propria persona. Tuttavia, l'Ultima Cena di Gesù non è ancora un pasto in cui Gesù stesso è la vittima sacrificale. Durante l'Ultima Cena, Gesù dichiarò ai suoi discepoli: "In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio" ({{passo biblico2|Marco|14:25}}). Queste parole indicherebbero che l'Ultima Cena fu principalmente una festa di commiato e di speranza anticipatoria. Gesù attendeva con ansia il tempo in cui sarebbe stato di nuovo a mangiare in compagnia dei suoi discepoli "nel regno di Dio". È consenso dell'opinione accademica che la promessa di Gesù si riferisca alla futura festa messianica che il Messia godrà con i fedeli quando tutto sarà compiuto.
Nella sua forma scritta, il racconto di Marco della Cena del Signore ({{passo biblico2|Marco|14:12-26}}) è di alcuni anni più tardi di quello di Paolo, ma probabilmente riflette la stessa tradizione orale utilizzata da Paolo. Sebbene il racconto di Paolo differisca in qualche modo da quello di Marco nei dettagli, c'è un accordo fondamentale che suggerisce che la chiesa primitiva conservò un ricordo ben definito dell'ultimo pasto di Gesù con i suoi discepoli, in cui identificò il pane e il vino con il proprio corpo e sangue. In tal modo, Gesù aprì la possibilità allo sviluppo di un rituale sacrificale centrato nella propria persona. Tuttavia, l'Ultima Cena di Gesù non è ancora un pasto in cui Gesù stesso è la vittima sacrificale. Durante l'Ultima Cena, Gesù dichiarò ai suoi discepoli: "In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio" ({{passo biblico2|Marco|14:25}}). Queste parole indicherebbero che l'Ultima Cena fu principalmente una festa di commiato e di speranza anticipatoria. Gesù attendeva con ansia il tempo in cui sarebbe stato di nuovo a mangiare in compagnia dei suoi discepoli "nel regno di Dio". È consenso dell'opinione accademica che la promessa di Gesù si riferisca alla futura festa messianica che il Messia godrà con i fedeli quando tutto sarà compiuto.


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Alcuni sostengono che il Dio di Padre Mapple sia il Dio di una forma particolarmente rigida di [[w:Calvinismo|Calvinismo]] e non il vero Dio della fede biblica.<ref>Henry A. Murray, "In Nomine Diaboli", in ''Melville'', cur. Richard Chase (Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall, 1962); publ. orig. in ''The New England Quarterly'' 24, nr. 4 (dicembre 1951): 435-52.</ref> Tuttavia, Padre Mapple ha ragione quando osserva che nella religione biblica il dovere principale dell'uomo è quello di subordinare le proprie inclinazioni alla volontà di Dio.
Alcuni sostengono che il Dio di Padre Mapple sia il Dio di una forma particolarmente rigida di [[w:Calvinismo|Calvinismo]] e non il vero Dio della fede biblica.<ref>Henry A. Murray, "In Nomine Diaboli", in ''Melville'', cur. Richard Chase (Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall, 1962); publ. orig. in ''The New England Quarterly'' 24, nr. 4 (dicembre 1951): 435-52.</ref> Tuttavia, Padre Mapple ha ragione quando osserva che nella religione biblica il dovere principale dell'uomo è quello di subordinare le proprie inclinazioni alla volontà di Dio.


Ma non abbiamo mai sentito parlare della virtù salvifica dell'obbedienza? La Scrittura non ci ha detto forse che Abramo fu sollevato dal suo obbligo di sacrificare grazie alla sua obbedienza? Ricordiamoci le parole del primo Angelo di Dio: mentre Abramo solleva il coltello per sacrificare Isacco, l'Angelo lo chiama e gli dice di non uccidere il ragazzo: "Ora so che tu temi Dio, poiché non mi hai rifiutato tuo figlio, l'unico tuo" ({{passo biblico2|Genesi|22:12}}). Nel suo commento sull'autorevole ''Jewish Study Bible'' circa il termine "timor di Dio" come viene usato qui, Jon Levenson scrive che "nel Tanakh, il ‘timor di Dio’ denota un'attiva obbedienza alla volontà divina".<ref>Commentario di Jon D. Levenson a Genesi 22:12 in ''The Jewish Study Bible'', cur. Adele Berlin e Marc Zvi Brettler (New York: Oxford University Press, 2004), 46.</ref> È a causa della sua obbedienza a Dio e della sua disobbedienza a se stesso che l'alleanza viene conferita ad Abramo e alla sua progenie. Inoltre, questo atto di obbedienza radicale è condiviso da Isacco che non oppone resistenza. Riguardo a padre e figlio, la Scrittura ripete "E proseguirono tutt'e due insieme" ({{passo biblico2|Genesi|22:8}}).

La convinzione di Paolo che il mondo fosse stato trasformato, almeno per coloro che sono "in Cristo", nacque dalla sua fede incrollabile nella risurrezione di Cristo. Come i suoi insegnanti rabbinici e contemporanei, come Rabban Gamaliel, Paolo non vedeva la mortalità umana come necessariamente radicata nella biologia umana. Al contrario, vedevano la mortalità umana come originata dalla disobbedienza del progenitore originale dell'umanità, Adamo. Tuttavia, a differenza dei rabbini, dopo Damasco Paolo si convinse che i relativi difetti nella creazione, mortalità, disobbedienza umana e sottomissione del cosmo ai poteri elementali erano in procinto di essere superati. Espresso tale convinzione in molte occasioni. Quelle più rilevanti per il nostro problema sono le sue riflessioni sul primo e sull'ultimo Adamo in {{passo biblico2|Romani|5}} e {{passo biblico2|1Corinzi|15}}. In Romani 5, Paolo inizia con una riflessione sull'origine della morte. "Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato" ({{passo biblico2|Romani|5:12}}).

Pochi passaggi del Nuovo Testamento sono stati commentati così estensivamente. Come abbiamo visto, le duplici affermazioni di Paolo secondo cui la morte è il risultato del peccato e che il peccato è entrato nel mondo "tramite un uomo" sono del tutto in linea con le speculazioni dei suoi contemporanei ebrei. Romani 5:12 si basa in ultima analisi sull'autorità di {{passo biblico2|Genesi|3:17-19}}. In questo brano in Romani, Paolo sembra sostenere che gli uomini muoiono perché replicano il peccato di Adamo, non ''a causa'' del peccato di Adamo. Tuttavia, i contemporanei ebrei di Paolo non avrebbero potuto essere d'accordo con Paolo mentre continuava la sua riflessione sui due Adami: "Adamo è figura di Colui che doveva venire. Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini." ({{passo biblico2|Romani|5:15}}).

Il "dono in abbondanza" che viene tramite Cristo è, ovviamente, la fine della mortalità. In questo versetto Adamo è raffigurato come l'antitipo di Gesù.<ref>Esiste un certo dibattito tra studiosi riguardo al significato di "Colui che doveva venire". Secondo C. K. Barrett, "Colui che doveva venire" è il Cristo escatologico che verrà rivelato completamente nell'Ultimo Giorno. Cfr. C. K. Barrett, ''From First Adam to Last'' (Londra: A & C. Black, 1962), 92-119.</ref> Proprio come il frutto del peccato di Adamo è la morte, così attraverso la giustizia superlativa di Cristo molti riceveranno la "grazia divina" come "dono in abbondanza" ({{passo biblico2|Romani|5:16}}). Paolo elabora questo tema nel verso successivo: "Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo". Il "dono" che Cristo mette a disposizione è l'opposto della pena inflitta all'umanità dal suo antitipo. Adamo porta la morte; Gesù porta la vita eterna.

Paolo inoltre descrive Cristo che inverte la "condanna" provocata da Adamo e porta invece "la giustificazione" (Romani 5:16). La giustificazione ha un significato molto esplicito per Paolo. Quando Dio giustifica il peccatore indegno, Egli pronuncia su di lui un verdetto di assoluzione e gli concede il dono della vita eterna. Dal tempo di Martin Lutero fino all'inizio del ventesimo secolo, i protestanti hanno avuto la tendenza a considerare la dottrina della giustificazione per fede come il cuore e il centro della teologia di Paolo. Non voglio entrare nel dibattito su questo tema se non per dire che credo che un aspetto della dottrina della giustificazione per fede debba rimanere centrale per qualsiasi interpretazione di Paolo: non dobbiamo perdere di vista l'importanza decisiva della vita eterna come frutto della giustificazione da parte di Dio del peccatore, come intesa da Paolo. In {{passo biblico2|Romani|6:23}}, Paolo contrappone i frutti del peccato e della giustificazione: "Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù". Adamo pagò il prezzo del peccato; per mezzo di Gesù viene concesso il dono immeritato della giustificazione.

La centralità della vita eterna come frutto della giustificazione è sottolineata con grande forza nella discussione di Paolo su Adamo e Cristo in {{passo biblico2|1Corinzi|15}}. Scroggs ha osservato che i temi di Romani 5:12-21 e 1 Corinzi 15 "sono correlati ma non identici". In 1 Corinzi 15 l'interesse principale di Paolo è di rendere credibile agli scettici corinzi la speranza cristiana che coloro che sono "in Cristo" alla fine risorgeranno come risorse Gesù. Per risurrezione Paolo intendeva la risurrezione del corpo, così come lo intendevano i suoi contemporanei ebrei. Apparentemente c'era un notevole scetticismo a Corinto riguardo alla futura risurrezione dei corpi dei morti anche tra coloro che credevano nella risurrezione di Gesù. Paolo confrontò questo scetticismo sostenendo che "ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia (''aparche'') di coloro che dormono" ({{passo biblico2|1Corinzi|15:20}}). Secondo Jean Héring, la parola ''aparche'' è quasi sinonimo dell'ebraico ''arrabon'', che è un pegno o un deposito.<ref>Jean Héring, trad. {{en}} ''The First Epistle of Saint Paul to the Corinthians'', Wipf & Stock Publishers, 2008, ''ad hoc''.</ref> Il significato di Paolo è che la risurrezione di Cristo anticipa la risurrezione dei suoi seguaci, che un giorno condivideranno il suo glorioso destino.

Dopo aver affermato che la risurrezione attende il credente, Paolo torna al tema del primo e dell'ultimo Adamo: "Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo" ({{passo biblico2|1Corinzi|15:21-22}}). L'enfasi di Paolo in 1 Corinzi è sulla vita eterna e perfetta che attende il credente in Cristo. Non possiamo soffermarci sull'interpretazione di Paolo riguardo al tipo di esistenza corporea perfezionata in Cristo che il risorto godrà, se non per dire che la natura risorta di Cristo è quella di un ''soma pneumatikon'', un "corpo spirituale", e che il corpo spirituale sia per Paolo che per i rabbini non è immateriale. Paolo inoltre ci dice che "la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l'incorruttibilità" ({{passo biblico2|1Corinzi|15:50}}) Quando avverrà la trasformazione, tutte le cose cambieranno. Il mondo deperibile sarà riscattato. La morte, la corruzione e il dominio demoniaco saranno sconfitti per sempre.

Le affermazioni di Paolo sullo straordinario potere di Cristo di redimere l'uomo e il cosmo portano alla domanda sul perché solo Cristo avesse il merito superlativo di essere la "primizia di coloro che dormono", nonché la fonte della vita eterna per un'umanità risorta. In un senso importante, sia Paolo che i suoi contemporanei ebrei erano convinti che la disobbedienza fosse l'unico peccato e che tutti gli altri peccati derivassero da quell'unica offesa. Poiché l'ebraismo considerava tutti i comandamenti come espressioni della volontà di Dio, ogni comandamento presentava agli uomini la scelta angosciosa di obbedienza o ribellione contro il Padre onnisciente e onnipotente. Non faceva differenza se un comandamento era ostico per la comprensione umana. Era un atto supremo di arroganza per un uomo giudicare da sé cosa obbedire e cosa non obbedire. Si potrebbe infatti sostenere che l'obbedienza a comandamenti apparentemente irrazionali o insignificanti fosse di maggiore importanza dell'obbedienza a comandamenti il ​​cui scopo poteva essere chiaramente compreso. Il vero problema era se un uomo si sottometteva o si ribellava al suo Creatore. Inoltre, il Creatore aveva sempre ragione poiché la struttura stessa della realtà era il frutto della Sua volontà. Nella religione biblica un uomo che decide da solo a quale dei comandamenti di Dio obbedirà, si mette al posto di Dio, affermando la priorità del proprio giudizio su quello di Dio. Egli giudica ciò che Dio solo può giudicare e, così facendo, si arroga una preminenza che Dio solo possiede giustamente.

Non c'è posto in questo sistema per l'ideale moderno dell'uomo autonomo che considera le proprie azioni come interamente di sua competenza etica. Paolo afferma che Adamo commise il peccato paradigmatico della religione biblica, la disobbedienza. Egli sostiene che a causa della disobbedienza di Adamo nel non adempiere a un singolo comandamento la morte entrò nel mondo. In contrasto, solo Cristo di tutti gli uomini era così perfettamente obbediente da considerare la sua stessa vita di nessuna importanza rispetto alla maestosa struttura della sapienza di Dio. Poiché Paolo considerava Adamo come l'uomo paradigmaticamente peccatore, egli vedeva Cristo come l'unico uomo veramente giusto — poiché l'obbedienza di Cristo si estendeva finanche alla straordinaria agonia della morte sulla croce come innocente senza macchia. Sebbene Paolo offra molti suggerimenti sul motivo per cui la morte di Cristo determinò la liberazione dell'umanità dalle conseguenze del peccato di Adamo, è molto esplicito nell'affermare che Cristo fu uno "spirito vivificante" grazie alla sua obbedienza: "Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti" ({{passo biblico2|Romani|5:19}}).

Nella sua prima lettera ai Corinzi, Paolo ricordò alla chiesa che egli aveva trasmesso loro la buona notizia che aveva ricevuto: "Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati" ({{passo biblico2|1Corinzi|15:3}}). Questa è una delle prime affermazioni del ''[[w:kerigma|kerygma]]'' cristiano. È stato spesso interpretato come un riferimento alla morte di Cristo come un'espiazione vicaria per i peccati dell'umanità. Ci sono pochi dubbi sul fatto che Paolo abbia sostenuto che la morte di Cristo fosse di carattere sacrificale (Rom. 3:21-28; 5:1-2; 1 Cor. 5:7). Tuttavia, anche se accettiamo la tesi che Paolo considerava la morte di Cristo come un'espiazione vicaria, dobbiamo comunque identificare il merito superlativo posseduto da Cristo che rese possibile tale espiazione. Altri sono morti senza un risultato così fortunato; cosa c'era di unico in Gesù? Paolo ha risposto a questa domanda nel passaggio che abbiamo citato, Romani 5:19: il merito di Cristo consisteva nella sua superlativa obbedienza. Cristo, nella sua innocenza, aveva più giustificazioni di qualsiasi altro uomo per ribellarsi contro il destino che gli era stato inflitto. Tuttavia si sottomise in perfetta obbedienza alla morte immeritata sulla croce. Secondo Paolo, solo Cristo fu senza macchia alcuna di ribellione contro il Padre.

La logica di Paolo era in linea con quella dei suoi contemporanei ebrei. C'era una diffusa speculazione ebraica secondo cui un uomo totalmente senza peccato, cioè perfettamente obbediente, non sarebbe stato condannato a morte.<ref>Si veda [[w:Louis Ginzberg|Louis Ginzberg]], ''[[:en:w:Legends of the Jews|The Legends of the Jews]]'', vol. 5 (Philadelphia: Jewish Publication Society, 1909-13), 128-131, n. 142; Richard L. Rubenstein, ''The Religious Imagination'' (Indianapolis: Bobbs-Merrill, 1968), 43-47.</ref> A differenza dei suoi contemporanei ebrei, Paolo era convinto che ci fosse un uomo simile, Cristo, e che il merito della sua impeccabile obbedienza era sufficiente a donare la vita agli altri oltre che a se stesso.

Secondo Paolo, se Cristo fosse stato contaminato anche solo da una traccia di peccaminosità, le potenze sotto cui era caduto il dominio dopo la trasgressione di Adamo sarebbero state nel loro legittimo diritto di rivendicare Cristo come loro vittima. Secondo la Legge, la loro Legge, il salario del peccato è la morte. Fortunatamente per l'umanità, le potenze cosmiche non hanno riconosciuto Cristo come il Figlio di Dio obbediente senza peccato. Cristo ha permesso loro di superare la loro propria sfera quando lo hanno condannato alla crocifissione. Con la sua perfetta obbedienza al piano saggio e misterioso del Padre, Cristo ha ingannato i "dominatori di questo mondo " (''hoi archontes tou aiōnos toutou'') ({{passo biblico2|1Corinzi|2:8}}), e quindi li ha privati del loro dominio sull'umanità. Cristo ha così invertito ciò che Adamo aveva tristemente iniziato.
{{q|Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo (''hoi archontes tou aiōnos toutou'') che vengono ridotti al nulla; parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano.|{{passo biblico2|1 Corinzi|2:6-9}}}}




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Versione delle 22:35, 22 ago 2020

Indice del libro
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"Consummatum Est", guazzo & grafite su carta di James Tissot, 1886-94

La separazione tra ebraismo e cristianesimo

Il Sacrificio religioso

In questo capitolo, esplorerò la questione di ciò che era in gioco culturalmente, religiosamente e psicologicamente nella separazione delle vie tra l'ebraismo e il paleocristianesimo. Poiché le questioni in gioco sono molteplici, ho scelto di concentrarmi principalmente sul sacrificio religioso. Credo che questo problema mostri simultaneamente elementi di continuità e discontinuità tra le due tradizioni.

Cominciamo con il racconto dell’Aqedah (ebr. הָעֲקֵידָה‎ Ha-Aqedah - "la legatura") nella Scrittura (Genesi 22:1-19). Come è noto, in uno dei giorni più sacri del calendario religioso ebraico, il secondo giorno di Rosh Hashanah, la lettura della Torah tratta principalmente dell’Aqedah, in cui ad Abramo viene comandato incondizionatamente: "Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va' nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò" (Genesi 22:2 [1]).

Questa è la storia di un infanticidio abortito richiesto da Dio. Secondo l'eminente studioso ebreo, il compianto Shalom Spiegel, "lo scopo principale della storia dell’Akedah potrebbe essere stato solo questo: attaccare a un vero pilastro del popolo e ad una venerata reputazione la nuova norma: abolire il sacrificio umano, sostituirci invece gli animali".[1] Sembrerebbe che la maggior parte, ma non tutti, gli studiosi ebrei moderni siano d'accordo con Spiegel.

C'è, tuttavia, un'opinione di minoranza espressa in modo convincente da Jon Levenson di Harvard, che "Gen. 22:1-19 è spaventosamente inequivocabile sull'ordine di YHWH a un padre di offrire il proprio figlio in sacrificio".[2] Condivido questa opinione. Sebbene Shalom Spiegel fosse il mio insegnante al Jewish Theological Seminary,[3] devo rispettosamente dissentire con lui.

Una ragione importante per questa divergenza di opinioni è che ci sono versetti nella Scrittura in cui il comando divino di sacrificare il primogenito maschio sembra essere incondizionato. Ad esempio, Esodo 13:1-2 stabilisce: "Il SIGNORE disse a Mosè: «Consacrami ogni primogenito tra i figli d'Israele, ogni primo parto, sia tra gli uomini, sia tra gli animali: esso appartiene a me»". Esodo 22:28-29 recita: "Non ritarderai l'offerta di ciò che riempie il tuo granaio e di ciò che stilla dal tuo frantoio. Il primogenito dei tuoi figli lo darai a Me. Così farai per il tuo bue e per il tuo bestiame minuto: sette giorni resterà con sua madre, l'ottavo giorno Me lo darai." In nessuno dei due versetti troviamo una qualificazione attenuante.

Altrove in Esodo, la Scrittura richiede un'offerta sostitutiva a rimpiazzare e redimere il primogenito maschio: "Quando il SIGNORE ti avrà fatto entrare nel paese dei Cananei... consacra al SIGNORE ogni primogenito e ogni primo parto del tuo bestiame. I maschi saranno del SIGNORE. Ma riscatta ogni primo parto dell'asino con un agnello; se non lo vuoi riscattare, spezzagli il collo. Riscatterai anche ogni primogenito di uomo fra i tuoi figli" (Esodo 13:11-13).

Ci sono anche testimonianze nella Scrittura che il sacrificio di bambini non solo era praticato in Israele, forse fino al 500 p.e.v., ma che poteva benissimo anche essere stato parte del culto ufficiale piuttosto che un'intrusione pagana. Il suggerimento più intrigante che tale fosse effettivamente il caso si trova nelle parole del profeta Ezechiele nel descrivere YHWH che monta un crescendo di accuse contro "Gerusalemme" culminante nella seguente condanna: "Prendesti inoltre i tuoi figli e le tue figlie, che Mi avevi partoriti, e li offristi loro in sacrificio, perché li divorassero. Non bastavano dunque le tue prostituzioni, perché tu avessi anche a scannare i Miei figli, e a darli loro facendoli passare per il fuoco?" (Ezechiele 16:20-21).

Inoltre, c'è un passaggio molto strano in Ezechiele in cui il profeta ammette apparentemente che i rituali che detesta erano effettivamente praticati da uomini e donne che li consideravano un'autentica espressione dello Yahwismo: "Diedi loro perfino delle leggi non buone e dei precetti per i quali non potevano vivere. Li contaminai con i loro doni, quando facevano passare per il fuoco ogni primogenito, per ridurli alla desolazione affinché conoscessero che Io sono il SIGNORE" (Ezechiele 20:25-26).

Ed Noort, uno studioso olandese, ha definito questo passaggio "la frase più peculiare sul ruolo della torah (sic) nella Bibbia ebraica", notando: "è lo stesso YHWH che fornisce le leggi che portano alla morte invece che alla vita. Permette a Israele di contaminare se stesso con il sacrificio del primogenito".[4] La descrizione di Ezechiele che YHWH dà a Israele "leggi che conducono alla morte" è coerente con l'opinione di Noort secondo cui, nella ricerca biblica contemporanea, "Il quadro delle opposizioni in bianco e nero tra il Baalismo e lo Yahwismo è scomparso."[5]

Potremmo essere in grado di imparare molto sul sacrificio di bambini nell'antico Israele dall'antica Cartagine. Fondata come colonia della città fenicia di Tiro, con la quale Giuda e Israele avevano importanti contatti commerciali e religiosi nei tempi antichi, "apparentemente c'era una stretta affinità tra la cultura israelita e quella fenicia o cananea ".[6] Antichi scrittori come Clitarco, Agatocle, Diodoro Siculo, Plutarco e il teologo cristiano Tertulliano (c.155-c.220) testimoniano tutti la pratica del sacrificio di bambini nel regno di Cartagine. Nel dicembre 1921, il più grande cimitero di bambini sacrificati nell'antico Vicino Oriente fu scoperto a Cartagine, ora un sobborgo turistico della città di Tunisi.[7] Esistono siti fenici simili e più piccoli in Sicilia, Sardegna e Tunisia.

Stele nel Tofet di Cartagine
Stele nel Tofet di Cartagine

Negli anni ’70, gli archeologi Lawrence E. Stager e Samuel R. Wolff scavarono un'area nella città di Cartagine stimata non inferiore ai "54.000 e oltre i 64.000 piedi quadrati" che chiamarono il "Tofet cartaginese". Si stima che fino a 20.000 urne funerarie contenenti le ossa di bambini piccoli siano state depositate nel sito tra il 400 p.e.v. e il 200 p.e.v. o, circa, un sacrificio di bambini ogni tre giorni.[8] Mescolate con le ossa dei bambini in alcune urne furonoi trovate anche urne contenenti le ossa carbonizzate di agnelli e capretti. Ne conclusero che "gli animali bruciati erano intesi come sacrifici sostitutivi dei bambini".[9] Devo tuttavia precisare che una minoranza di studiosi contesta l'idea che bambini vivi fossero sacrificati a Cartagine e sostengono che le prove letterarie di tali sacrifici non erano altro di una diffamazione di sangue diffusa da antagonisti stranieri.[10] Tuttavia, il consenso della maggioranza di studiosi è che le prove letterarie e archeologiche puntano in modo schiacciante alla pratica del sacrificio di bambini. Dovremmo anche notare che sebbene tali sacrifici fossero motivati ​​religiosamente, servivano una funzione sociologica di controllo della popolazione, proprio come l'aborto e l'infanticidio hanno in altre culture.

Sembrerebbe quindi esserci una chiara connessione tra agnelli e capretti nelle urne cartaginesi e l'ariete che prende il posto di Isacco nell’Aqedah (Genesi 22:13), come anche l'agnello richiesto per il riscatto al posto del primogenito israelita in Esodo 34:19-20 dove Dio è raffigurato mentre dichiara: "Ogni essere che nasce per primo dal seno materno è Mio: ogni tuo capo di bestiame maschio, primogenito del bestiame grosso e minuto. Il primogenito dell'asino riscatterai con un altro capo di bestiame e, se non lo vorrai riscattare, gli spaccherai la nuca. Ogni primogenito dei tuoi figli lo dovrai riscattare. Nessuno venga davanti a Me a mani vuote".

“Ogni primo discendente del grembo materno è Mio, da tutto il tuo bestiame che lascia cadere un maschio come primogenito, sia bestiame che pecora. Ma riscatterai il primogenito dell'asino con una pecora; se non lo riscatti, devi spezzargli il collo. E devi riscattare ogni primogenito tra i tuoi figli. Nessuno comparirà davanti a me a mani vuote ". Parimenti, sembrerebbe esserci una connessione tra i surrogati animali cartaginesi e l'agnello pasquale in Esodo 12-13. Pertanto, la Scrittura descrive Dio mentre comanda agli ebrei di mettere "del sangue" d'agnello sugli stipiti delle loro case e dichiara: "In quella notte Io passerò per il paese d'Egitto e colpirò ogni primogenito nel paese d'Egitto, uomo o bestia; così farò giustizia di tutti gli dèi dell'Egitto. Io sono il Signore! Il sangue sulle vostre case sarà il segno che voi siete dentro: Io vedrò il sangue e passerò oltre, non vi sarà per voi flagello di sterminio, quando Io colpirò il paese d'Egitto" (Esodo 12:12-13). Come per l'ariete dell’Aqedah, l'agnello pasquale è un'offerta sostitutiva al posto del primogenito ebreo. Il sangue fornisce la prova della sostituzione.

Come notato sopra, la maggior parte degli studiosi ebrei moderni ha sostenuto che la lezione fondamentale dell’Aqedah era che il sacrificio del primogenito non veniva più richiesto e che un animale era surrogato accettabile. Un tale giudizio può riflettere un pregiudizio culturale in cui la religione è vista come un'evoluzione dalle forme inferiori a quelle superiori. Pertanto, i pensatori ebrei riformati del diciannovesimo secolo tendevano ad eliminare le preghiere tradizionali per la restaurazione del Tempio di Gerusalemme e i suoi rituali di sacrificio animale ordinati secondo la Scrittura perché consideravano la preghiera una forma di adorazione "superiore" e più "spirituale" rispetto ai sacrifici animali cruenti. Tuttavia, Stager e Wolff ci informano che non ci fu cessazione di sacrifici umani a Cartagine nel corso dei secoli. Al contrario, riferiscono che la proporzione di ossa umane rispetto a quelle animali trovate nelle urne era di gran lunga maggiore nel "quarto e terzo secolo p.e.v., quando Cartagine aveva raggiunto l'apice dell'urbanità", rispetto ai secoli precedenti. Inoltre, le iscrizioni sui monumenti rivelano che una proporzione molto maggiore delle ossa era di figli di famiglie nobili e prospere piuttosto che di "comuni cartaginesi". Ci ricordano anche che i Fenici erano tra i popoli più civilizzati e cosmopoliti del Mediterraneo.[11] Ricordiamoci che Hiram, re di Tiro, inviò architetti, scalpellini e altri operai, oltre che legno di cedro, a Salomone per il costruzione del Primo Tempio di Gerusalemme.

Un motivo importante per la tenacia e anche per l'aumento del sacrificio umano può essere stato il pensiero che se i sacrifici animali erano efficaci, tanto più efficace sarebbe stata un'offerta maggiormente preziosa, il sacrificio dell'amato figlio.

"Pidyon HaBen": riscatto del primogenito

Inoltre, l'ebraismo non ha mai rifiutato del tutto l'idea che Dio richieda il sacrificio del figlio primogenito. Comunque valutiamo l'esistenza del sacrificio di bambini nell'antica Giuda, in Israele, in Canaan e nelle colonie di Canaan-Fenicia, è evidente che abbiamo a che fare con un Dio che esige la morte di bambini. Riflettendo sulla questione del sacrificio di bambini nell'ebraismo e nel cristianesimo, Levenson commenta, "il complesso mitico-rituale che chiamo ‘sacrificio di bambini’ non fu mai stato sradicato; fu solo trasformato".[12] Un primario esempio di questa trasformazione è il rituale pidyon haBen (פדיון הבן‎) in adempimento del comandamento già annotato: "Ogni primogenito dei tuoi figli lo dovrai riscattare. Nessuno venga davanti a Me a mani vuote" (Esodo 34:20). Nella cerimonia (ancor oggi) il padre presenta il suo figlio primogenito a un cohen o preposto sacerdote il trentesimo giorno dopo la sua nascita, dopodiché il sacerdote chiede al padre: "Quale preferisci, tuo figlio o il tuo denaro?" Il padre dichiara di preferire suo figlio e presenta al cohen cinque monete d'argento, l'equivalente simbolico di cinque sicli biblici, per "riscattare" suo figlio. Il sacerdote accetta le monete con la formula rituale: "Queste (monete) al posto di quello (il bambino). Questo in cambio di quello." Lo scopo fondamentale della cerimonia è di riconoscere subliminalmente le nostre tendenze infanticide e deviarne. A suo modo, questo motivo è operativo anche nel cristianesimo, poiché è Cristo, il Figlio, che viene sacrificato affinché gli altri possano essere redenti. Tuttavia capisco che, a un certo livello, il rituale ebraico riconosce che il potere sotterraneo dell'impulso infanticida non è mai del tutto scomparso. Oggi, la cerimonia è un'occasione familiare felice e pochi partecipanti, se non nessuno, sono consapevoli del suo significato più antico.

Non solo la tradizione ebraica continua ancor oggi la cerimonia del pidyon haBen, ma, come abbiamo visto, in uno dei giorni più sacri dell'ebraismo, agli ebrei viene ricordato che la morte del figlio primogenito del loro patriarca ancestrale fu scongiurata solo a causa dell'incondizionata obbedienza al terribile comando di Dio. Pertanto, la Scrittura descrive un "angelo del Signore" che dice ad Abrahamo: "Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio". (Gen. 22:12) Segue un secondo discorso angelico. Ad Abramo viene detto: "Tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché tu hai ubbidito alla mia voce" (Genesi 22:18) Non solo il sacrificio è stato evitato a causa dell'obbedienza incondizionata di Abramo, ma l'Alleanza di Dio è stata conferita a lui e ai suoi discendenti a causa di tale stessa obbedienza. Inoltre, l'obbedienza di Abramo fu pari a quella di suo figlio. La Scrittura descrive Isacco mentre chiede a suo padre: "Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov'è l'agnello per l'olocausto?" E Abramo risponde: "Dio stesso provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio!". La Scrittura quindi riporta: "E proseguirono tutti e due insieme" (Genesi 22:7-8) indicando in tal modo la loro completa unità di risolutezza.[13] Alcune tradizioni si riferiscono alle "ceneri di Isacco" e affermano che Abramo compì il sacrificio ma che Isacco fu risorto.[14] Il poeta del XII secolo, Rabbi Efraim ben Jacob di Bonn (nato nel 1132), raffigurò Isacco mentre implorava Abramo così:

« Lega per me le mie mani e i miei piedi
Per non essere trovato ingrato e profano al sacrificio.
Ho paura del panico, mi preoccupo di onorarti,
La mia volontà è di onorarti grandemente.[15] »

Abramo quindi prepara il fuoco e la legna del sacrificio "nel giusto ordine", dopodiché:

« Con mani ferme lo sacrificò secondo il rito,
Nel giusto fu il macello. »

Il poeta poi racconta della risurrezione di Isacco e della determinazione di Abramo a completare il sacrificio:

« Giù su di lui cadde la rugiada di risurrezione, ed egli risuscitò.
Il padre (allora) lo afferrò per macellarlo ancora.
Scrittura, rendi testimonianza! Ben fondato è il fatto:
E il Signore chiamò Abramo, una seconda volta dal cielo. »

A quel punto, appare l'ariete "impigliato in un cespuglio vicino".

A causa dei massacri degli ebrei perpetrati dai Crociati nella Renania durante la vita del rabbino Ephraim, il poema ebbe un'intensità speciale. A quel tempo, molti padri ebrei sacrificarono i loro figli. Quando i Crociati invasero Bonn, Mainz, Wurms e altre comunità nel loro cammino verso la Terra Santa, diedero agli ebrei la scelta tra morte o conversione. A quei tempi gli ebrei preferivano morire e spesso uccidevano i loro figli per evitare che venissero sopraffatti da un momento di debolezza e si convertissero.

Come notato sopra, la maggior parte dei commentatori ebrei moderni vede la lezione dell’Aqedah come il rifiuto del sacrificio umano da parte di YHWH. Tuttavia, un'autorità religiosa così eminente quale il defunto rabbino Joseph Soloveitchik, probabilmente il più importante pensatore ortodosso dell'America del ventesimo secolo, rifiutò questa visione:

« Abramo attuò il sacrificio di Isacco non sul Monte Moria, ma nel profondo del suo cuore. Rinunciò a Isacco nello stesso istante in cui Dio si rivolse a lui e gli chiese di restituire il suo bene più prezioso al suo legittimo padrone e proprietario. Immediatamente, senza discutere o supplicare, Abramo rese Isacco. Vi rinunciò non appena fu emesso il comando "e offrilo là in olocausto" (Genesi 22:2). Dentro di sé, l'atto sacrificale fu consumato immediatamente. Isacco non appartenne più ad Abramo. Egli era morto per quanto concerneva Abramo.[16] »

Secondo Soloveitchik, a causa della volontà di Abramo di uccidere suo figlio e del fatto che egli provò il pieno orrore del sacrificio nell'istante stesso in cui gli fu dato il comando, "non ci fu bisogno del sacrificio fisico" e l'animale divenne un sostituto accettabile. Soloveitchik commenta ulteriormente che se Abramo non avesse "reso immediatamente Isacco, se non avesse provato l’Aqedah nella sua totale grandiosità e spaventosa impotenza, Dio non avrebbe mandato l'Angelo per impedire ad Abramo di attuare il comando. Abramo avrebbe perso Isacco fisicamente".[17]

Pertanto, Soloveitchik confuta chiaramente l'idea che lo scopo del racconto dell’Aqedah fosse quello di dimostrare il rifiuto di Dio del reale sacrificio di Isacco. L'interpretazione di Soloveitchik è coerente con la Scrittura che afferma chiaramente che non solo il sacrificio di Isacco fu scongiurato a causa dell'obbedienza incondizionata di Abramo, ma l'Alleanza di Dio fu concessa ad Abramo e alla sua progenie grazie a quella stessa obbedienza (Genesi 22:15-18).

Passiamo ora più direttamente a Gesù. Quali che siano le divergenze narrative esistenti tra i quattro Vangeli canonici, essi sono tutt'uno nel descrivere la morte di Gesù avvenuta durante la stagione della Pesach. Marco, con tutta probabilità il Vangelo più antico, offre la seguente descrizione dell'inizio della carriera pubblica di Gesù:

« In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: "Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto". »
(Marco 1:9-11[18])

Levenson vede echi del ruolo di Isacco nell’Aqedah per la designazione di Gesù come il Figlio prediletto di Dio, ma c'è una grande ironia in questa designazione. Essere il prediletto figlio di Dio o anche il figlio benamato nel complesso religioso israelita-cananeo-fenicio non è una promessa di felicità duratura. Troppo spesso il destino del benamato figlio era quello di subire una prova sacrificale suprema o ancor peggio. A Cartagine, le famiglie nobili spesso sacrificavano ciò che era più prezioso per loro, il loro bambino, come dono alla dea Taanit o al dio Baal Hammon. Inoltre, in una fase molto precoce, la neonata comunità cristiana arrivò a credere che il servo sofferente di Isaia 52:13-53:12 fosse collegato all'idea di Gesù come il Figlio prediletto di Dio. Ciò contribuì a trasformare la crocifissione da un'arma di morte dolorosa a una certezza di vita eterna.[19] Isacco, il servo sofferente di Isaia, e Gesù devono entrambi sottoporsi a un terribile confronto con la morte per compiacere il loro Padre celeste.[20]

Al primo incontro di Gesù e Giovanni Battista, il quarto Vangelo descrive il Battista che dichiara: "Ecco l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo!" (Giovanni 1:29). Queste parole sono state incorporate nella Messa latina come Agnus Dei qui tollis peccata mundi, "un'immagine che prefigura la prossima passione".[21] In realtà, questa doppia identificazione di Gesù come Figlio di Dio e Agnello di Dio potrebbe non indicare una reale differenza, in quanto il termine Figlio di Dio può anche indicare il ruolo di Gesù come vittima sacrificale.

Potrebbe esserci qualche domanda riguardante la veridicità storica della versione di Giovanni dell'incontro tra il Battista e Gesù. Tuttavia, poiché Giovanni descrive Gesù come uno straniero che discende da un regno celeste per un soggiorno temporaneo sulla terra, i dettagli storici riguardanti le attività terrene di Gesù erano meno preoccupanti per lui che non per Marco, Matteo e Luca. Quindi, almeno nel racconto riguardante il coinvolgimento delle autorità ebraiche nella morte di Gesù, Paula Fredricksen sostiene che Giovanni potrebbe in effetti preservare più dettagli storici di quanto non facciano gli scrittori evangelici successivi.[22]

Il primo racconto scritto su Gesù, le lettere di Paolo, identifica Gesù come l'Agnello Pasquale. Paolo non solo era a suo agio nell'usanza ebraica, ma il simbolismo e lo stato d'animo della Pasqua sono presenti in 1 Corinzi dove Paolo chiama Cristo "la nostra Pasqua" e usa come metafora l'usanza ebraica di purificare la casa da tutto il lievito prima della festività di Pesach per l'autopurificazione morale della Chiesa di Corinto (1 Corinzi 5:6-8).[23] La prima lettera di Paolo ai Corinzi è anche il più antico documento cristiano esistente sulla Cena del Signore.[24] Sebbene Paolo non abbia lasciato un'esposizione sistematica del significato dell'Eucaristia, egli discute in modo approfondito la Cena del Signore in due passaggi di tale epistola. In questi passaggi si riferisce alla Cena del Signore in connessione con i suoi sforzi per affrontare i problemi sorti a Corinto in sua assenza. Mettendo in guardia i credenti di Corinto dal comportamento immorale e idolatra, Paolo scrive:

« Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane... Non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni. »
(1 Corinzi 10:16-21)

Nel capitolo successivo, Paolo scrive:

« Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie (eucharistéō), lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me". Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. »
(1 Corinzi 11:23-26)
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"Ultima Cena" di Leonardo da Vinci (1495-1498)

Nella sua forma scritta, il racconto di Marco della Cena del Signore (Marco 14:12-26) è di alcuni anni più tardi di quello di Paolo, ma probabilmente riflette la stessa tradizione orale utilizzata da Paolo. Sebbene il racconto di Paolo differisca in qualche modo da quello di Marco nei dettagli, c'è un accordo fondamentale che suggerisce che la chiesa primitiva conservò un ricordo ben definito dell'ultimo pasto di Gesù con i suoi discepoli, in cui identificò il pane e il vino con il proprio corpo e sangue. In tal modo, Gesù aprì la possibilità allo sviluppo di un rituale sacrificale centrato nella propria persona. Tuttavia, l'Ultima Cena di Gesù non è ancora un pasto in cui Gesù stesso è la vittima sacrificale. Durante l'Ultima Cena, Gesù dichiarò ai suoi discepoli: "In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio" (Marco 14:25). Queste parole indicherebbero che l'Ultima Cena fu principalmente una festa di commiato e di speranza anticipatoria. Gesù attendeva con ansia il tempo in cui sarebbe stato di nuovo a mangiare in compagnia dei suoi discepoli "nel regno di Dio". È consenso dell'opinione accademica che la promessa di Gesù si riferisca alla futura festa messianica che il Messia godrà con i fedeli quando tutto sarà compiuto.

È molto probabile che la promessa di Gesù di tornare corrispondesse al desiderio più profondo dei suoi discepoli. Erano consapevoli della minaccia terminale che incombeva sulla vita del loro maestro e non era affatto certo che il gruppo potesse mantenersi e continuare senza di lui. In virtù dell'impatto assolutamente unico che Gesù aveva sui suoi seguaci, egli non poteva proprio essere sostituito. Con ogni probabilità, le sue parole di fiduciosa certezza che sarebbe tornato riflettevano la sua comprensione intuitiva di ciò che la sua perdita avrebbe significato per loro.

Oscar Cullmann ha commentato che i pasti condivisi dai discepoli subito dopo la morte di Gesù erano inizialmente pasti di gioia e di ringraziamento piuttosto che dolorose commemorazioni della crocifissione.[25] Secondo Atti, i discepoli "ogni giorno tutti insieme frequentavano il Tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con gioia e semplicità di cuore" (Atti 2:46). Se i pasti che condividevano avessero avuto un carattere spiccatamente sacrificale, enfatizzando la consumazione del corpo e del sangue di Cristo risorto, è improbabile che avrebbero continuato a incontrarsi "ogni giorno nel Tempio" dove venivano offerti i tradizionali sacrifici ebraici.

Forse il modo più utile per comprendere l'evoluzione dell'Eucaristia si trova nella distinzione di Oscar Cullmann tra i primi pasti sacri, in cui i discepoli mangiavano con Cristo, e il successivo Pasto del Signore, in cui Cristo fu mangiato.[26] I pasti gioiosi della comunione in cui Cristo risorto era presente ai suoi discepoli, erano pasti in cui i discepoli o mangiavano con Cristo o si aspettavano di mangiare con lui durante la festa messianica. Tuttavia, ci fu un momento in cui la speranza anticipata del ritorno di Cristo predominava sul sentimento della sua presenza. Le fonti descrivono Cristo come presente subito dopo la Risurrezione, ma, in breve tempo, i discepoli sono lasciati a continuare la loro opera senza di lui. È a questo punto che il loro desiderio del suo ritorno deve essersi intensificato. Questo desiderio è fortemente espresso nella liturgia eucaristica conservata nella Didaché, che la maggior parte degli studiosi data non più tardi del 150 e molti molto prima. Quando il pasto sacro si conclude, il leader prega: "Si avvicini la sua Grazia (cioè Cristo) e il mondo present passi via". La congregazione risponde: "Osanna all'Iddio di Davide". Leader: "Chi è santo, si avvicini. Chi non lo è, si ravveda". La congregazione conclude con il Maranatha: "O Signore, vieni presto. Amen."[27]

La versione Didaché dell'Eucaristia si basa sull'assicurazione di Gesù ai suoi discepoli che egli non avrebbe bevuto più vino fino a quando non lo avesse fatto nel regno di Dio. Questa versione esprime la nota di anticipazione e aspettativa che abbiamo già notato nelle prime forme del pasto sacro cristiano. Tuttavia, c'è un limite alla capacità umana di desiderio non corrisposto. In definitiva, gli uomini devono scegliere di abbandonare l'oggetto del desiderio e reinvestire la loro energia emotiva altrove oppure di trovare un modo per ricongiungersi all'oggetto perduto.

Tale modo fu trovato mediante l'identificazione con Cristo. Nel corso della sua vita, Paolo vide il problema fondamentale dell'umanità in questi termini: come possiamo ottenere il giusto rapporto con il nostro Creatore? Prima della conversione, la sua risposta era la classica risposta ebraica: gli esseri umani raggiungono il giusto rapporto tramite l'obbediente sottomissione alla volontà di Dio. Questa sottomissione era il motivo per cui l'ebraismo normativo è sempre stato la religione della Torah e dei suoi autorevoli interpreti. Dopo la conversione, Paolo trovò un altro modo per ottenere una relazione accettabile con Dio: l'identificazione con Cristo. L'identificazione è quindi una categoria cruciale in cui sia il mondo religioso che quello psicologico si intersecano nell'esperienza di Paolo e dei suoi eredi spirituali.

Sono in debito con l'importante studio di Albert Schweitzer per gran parte della mia interpretazione del ruolo d'identificazione nel pensiero e nell'esperienza religiosa di Paolo.[28] Prima di Schweitzer, gli studiosi protestanti del Nuovo Testamento tendevano a leggere Paolo attraverso gli occhi e l'esperienza di Martin Lutero, sottolineando la centralità della dottrina della giustificazione mediante la fede. Schweitzer sostenne che la dottrina della giustificazione per fede, anche se indubbiamente di grande importanza, era meno centrale nel pensiero di Paolo del suo "misticismo di Cristo" e della sua escatologia. Invece di considerare Paolo come un oppositore dell'ebraismo, come tendevano a fare i primi studiosi protestanti, Schweitzer lo interpretò come un ebreo leale convinto che il Cristo risorto avesse iniziato l'era messianica.[29] Secondo Schweitzer, Paolo capì il tipo di esistenza che i cristiani battezzati avrebbero goduto nell'era messianica sarebbe stata letteralmente quella della solidarietà corporale con il corpo glorificato e immortale del Cristo risorto. Schweitzer affermò che la concezione fondamentale del misticismo di Cristo proposta da Paolo è che gli eletti e Cristo partecipano a un'identità corporea comune.[30] Questa identificazione è espressa in modo più grafico nell'esclamazione di Paolo che, essendo stato crocifisso con Cristo, non è più lui che vive ma Cristo che vive in lui (Galati 2:20: "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me"). Paolo descrisse che i cristiani si erano "rivestiti" di Cristo, e con questo intendeva dire che Cristo era il loro nuovo corpo celeste piuttosto che il loro nuovo abito (Galati 3:27; Romani 13:14; cfr. 2 Corinzi 5:3,4 ; Efesini 4:24; Colossesi 3:10).

Secondo Paolo, nel battesimo i cristiani si identificano sia con la morte di Cristo che con la sua risurrezione. Pertanto, in Romani 6:3-4 Paolo scrive: "O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova". E in Colossesi 2:12: "Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti".

L'idea che al battesimo i cristiani entrino in una nuova vita, in realtà la vera vita per la prima volta, fu centrale nel suo pensiero. Mise a confronto l'esistenza precristiana del convertito, nella migliore delle ipotesi una sorta di morte vivente che termina con la morte effettiva, con la sua vita cristiana, che era in procinto di diventare vita come era stata intesa da Dio prima del peccato di Adamo, la vita priva delle relative maledizioni del peccato e della mortalità (1 Corinzi 15:21-2; Romani 5:12-15). Paolo descrisse ripetutamente il cristiano battezzato come en Christo, "in Cristo", e insistette sul fatto che en Christo il cristiano diveniva un uomo nuovo. Scrisse ai Corinzi: "Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove" (2 Corinzi 5:17). L'identità del cristiano è così radicalmente trasformata dalla sua esistenza in Cristo che Paolo poteva affermare della propria identità postbattesimale: "In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Galati 2:19-20).

Paolo usava spesso la metafora di spogliarsi del vecchio e indossare il nuovo per descrivere la morte del vecchio sé e la rinascita in Cristo (Efesini 4: 22-24: Col. 3: 9; vedere Rom. 13:12, Col. . 2:12). Il nuovo sé che il cristiano acquisisce annulla sia il vecchio sé che il mondo premessianico. Tutte le distinzioni cruciali che hanno maledetto l'umanità sono terminate, almeno in linea di principio, con il battesimo: "Poiché voi tutti che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è né Giudeo né Greco, non c'è né schiavo né libero, non c'è né maschio né femmina, perché tutti siete uno in Cristo Gesù." (Galati 3:27-28; cfr. 1 Corinzi 2:13). Se il termine "rinascita" è assente dalle lettere (confermate) di Paolo, la realtà spirituale e psicologica dell'esperienza del cristiano come nato nuovamente e veramente pervade comunque il suo pensiero.

Per comprendere la teologia di Paolo, nei decenni centrali del ventesimo secolo studiosi cristiani come W. D. Davies, Robin Scroggs e C. K. Barrett hanno studiato la rilevanza della speculazione rabbinica su Adamo. Scroggs, in particolare, ha sottolineato l'importanza della speculazione sia rabbinica che apocrifa (se davvero le due tendenze possono essere separate) sulla caduta di Adamo per una comprensione dell'interpretazione da parte di Paolo del ruolo di Cristo come "l'ultimo Adamo" che inverte la condanna arrecata al genere umano dal primo Adamo. Secondo Scroggs, la tradizione rabbinica sosteneva che 1) prima di peccare, Adamo godeva di prerogative regali su tutta la creazione: proprio come Dio è re in alto, il destino originale di Adamo era quello di essere re in basso; 2) Adamo originariamente possedeva una saggezza superlativa, di gran lunga superiore a quella degli angeli; 3) Adamo fu veramente creato a immagine (eikon) di Dio. Adamo quindi somigliava a Dio stesso piuttosto che agli angeli, che in origine erano inferiori a lui; 4) Adamo possedeva una natura gloriosa. "Il suo tallone brillava più del sole". Adamo partecipò così alla gloria stessa di Dio nella misura in cui era possibile per un essere creato; infine 5) Adamo possedeva dimensioni cosmiche e fu ridotto alle dimensioni degli uomini mortali solo dopo la sua disobbedienza.[31]

Le categorie di Scroggs riassumono convenientemente e accuratamente le speculazioni rabbiniche su Adamo prima della caduta. Concordo con la sua stima del significato di queste speculazioni: l'immagine rabbinico-apocrifa di Adamo prima della caduta somiglia all'immagine, secondo la tradizione, di come sarà l'uomo nel mondo a venire. L'esistenza senza morte, glorificata e felice di cui gode l'Adamo prelapsario è il tipo di esistenza che attende i giusti nel mondo a venire. Adamo originariamente godeva del tipo di esistenza che Dio voleva che tutti gli uomini potessero provare. Quando le corruzioni dell'era presente saranno finalmente annullate, la progenie di Adamo sarà riportata alla felice esistenza che il loro padre primordiale avrebbe dovuto godere. Sebbene ci sia un carattere sfuggente e ambiguo nella speculazione rabbinica sul mondo a venire, il che rende estremamente difficile affermare che qualsiasi dottrina rappresenti il consenso rabbinico, sembrerebbe che ci fosse almeno un accordo sul fatto che i morti sarebbero risorti e che quelli trovati accettabili da Dio avrebbero goduto di una sorta di beatitudine. La mia cautela nel suggerire qualcosa di più di ciò, riflette l'ammonimento implicito nel noto detto di Rabbi Johanan, un insegnante palestinese del II secolo: "R. Johanan ha detto: Ogni profeta ha profetizzato solo per i giorni del Messia, ma per quanto riguarda il Mondo a venire (cioè l'ultima era dopo il giudizio finale dell'umanità), ‘Nessuno aveva mai sentito né orecchio udito né occhio visto alcun DIO all'infuori di Te, che agisce per chi spera in Lui’ (Isaia 64:4)" (Berakhoth 34b). È possibile che il commento di Johanan riflettesse una reazione rabbinica al movimento cristiano sempre più dilagante. Tuttavia, c'era un collegamento nel mito rabbinico tra la felicità che attende i giusti e l'immortalità perduta da Adamo alla caduta. I rabbini usavano spesso il termine gan ‘eden, il giardino dell'Eden, per riferirsi al paradiso a venire. Anche la lingua italiana non può evitare una certa coincidenza linguistica in questo ideale: la stessa parola è usata sia per il paradiso da riconquistare che per il paradiso perduto. Sebbene nessuna singola riflessione rabbinica sul Mondo a venire possa essere considerata autorevole, c'è una dichiarazione di Rab, un'autorità rabbinica babilonese del terzo secolo, che può essere rilevante per il nostro studio di Paolo. Secondo Rab,

« Il Mondo a Venire non è come questo mondo. Nel Mondo a Venire non si mangia né si beve; non c'è procreazione di figli o affari; nessuna invidia, odio o conflitto; ma i giusti stanno sul trono con le loro corone sulle loro teste e godono dello splendore della Shekhinah, come sta scritto, "essi videro Dio, e mangiarono e bevvero" (Esodo 24:11) — furono soddisfatti dello splendore della Shekhinah di Dio; per loro era cibo e bevanda. »
(Berakhoth 17a)

Questo detto ricorda la risposta di Gesù ai Sadducei riguardo allo stato civile di una donna che aveva successivamente sposato diversi fratelli secondo la legge del matrimonio levirato. Gesù disse: "Quando risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli" (Marco 12:25; cfr. Matteo 22:30, Luca 20:34-36). Dietro i detti di Johanan, Rab e Gesù, è possibile discernere una convinzione comune che l'ordine delle cose come lo conosciamo offre pochi indizi sull'esistenza nell'era a venire. Come vedremo, Paolo condivide questa convinzione (cfr. 1 Corinzi 15:46-50).

L'importanza suprema dell'obbedienza nella religione biblica è stata illustrata graficamente da Herman Melville in Moby Dick, nel sermone di Padre Mapple in cui il predicatore descrive il peccato di Giona ben Amittai:

« Come avviene per tutti gli uomini che peccano, il peccato di questo figlio di Amittai fu nella sua disubbidienza cosciente al comando di Dio (lasciamo stare per ora cosa fu quel comando e come venne impartito), un comando che egli trovò duro. Ma tutte le cose che Dio vuole da noi sono dure a farsi, ricordàtelo: è per questo che Egli ci comanda, il più delle volte, invece di tentare la persuasione. E se obbediamo a Dio dobbiamo disubbidire a noi stessi: ed è in questa disubbidienza a noi stessi che consiste la difficoltà di obbedire a Dio.[32] »

Alcuni sostengono che il Dio di Padre Mapple sia il Dio di una forma particolarmente rigida di Calvinismo e non il vero Dio della fede biblica.[33] Tuttavia, Padre Mapple ha ragione quando osserva che nella religione biblica il dovere principale dell'uomo è quello di subordinare le proprie inclinazioni alla volontà di Dio.

Ma non abbiamo mai sentito parlare della virtù salvifica dell'obbedienza? La Scrittura non ci ha detto forse che Abramo fu sollevato dal suo obbligo di sacrificare grazie alla sua obbedienza? Ricordiamoci le parole del primo Angelo di Dio: mentre Abramo solleva il coltello per sacrificare Isacco, l'Angelo lo chiama e gli dice di non uccidere il ragazzo: "Ora so che tu temi Dio, poiché non mi hai rifiutato tuo figlio, l'unico tuo" (Genesi 22:12). Nel suo commento sull'autorevole Jewish Study Bible circa il termine "timor di Dio" come viene usato qui, Jon Levenson scrive che "nel Tanakh, il ‘timor di Dio’ denota un'attiva obbedienza alla volontà divina".[34] È a causa della sua obbedienza a Dio e della sua disobbedienza a se stesso che l'alleanza viene conferita ad Abramo e alla sua progenie. Inoltre, questo atto di obbedienza radicale è condiviso da Isacco che non oppone resistenza. Riguardo a padre e figlio, la Scrittura ripete "E proseguirono tutt'e due insieme" (Genesi 22:8).

La convinzione di Paolo che il mondo fosse stato trasformato, almeno per coloro che sono "in Cristo", nacque dalla sua fede incrollabile nella risurrezione di Cristo. Come i suoi insegnanti rabbinici e contemporanei, come Rabban Gamaliel, Paolo non vedeva la mortalità umana come necessariamente radicata nella biologia umana. Al contrario, vedevano la mortalità umana come originata dalla disobbedienza del progenitore originale dell'umanità, Adamo. Tuttavia, a differenza dei rabbini, dopo Damasco Paolo si convinse che i relativi difetti nella creazione, mortalità, disobbedienza umana e sottomissione del cosmo ai poteri elementali erano in procinto di essere superati. Espresso tale convinzione in molte occasioni. Quelle più rilevanti per il nostro problema sono le sue riflessioni sul primo e sull'ultimo Adamo in Romani 5 e 1 Corinzi 15. In Romani 5, Paolo inizia con una riflessione sull'origine della morte. "Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato" (Romani 5:12).

Pochi passaggi del Nuovo Testamento sono stati commentati così estensivamente. Come abbiamo visto, le duplici affermazioni di Paolo secondo cui la morte è il risultato del peccato e che il peccato è entrato nel mondo "tramite un uomo" sono del tutto in linea con le speculazioni dei suoi contemporanei ebrei. Romani 5:12 si basa in ultima analisi sull'autorità di Genesi 3:17-19. In questo brano in Romani, Paolo sembra sostenere che gli uomini muoiono perché replicano il peccato di Adamo, non a causa del peccato di Adamo. Tuttavia, i contemporanei ebrei di Paolo non avrebbero potuto essere d'accordo con Paolo mentre continuava la sua riflessione sui due Adami: "Adamo è figura di Colui che doveva venire. Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini." (Romani 5:15).

Il "dono in abbondanza" che viene tramite Cristo è, ovviamente, la fine della mortalità. In questo versetto Adamo è raffigurato come l'antitipo di Gesù.[35] Proprio come il frutto del peccato di Adamo è la morte, così attraverso la giustizia superlativa di Cristo molti riceveranno la "grazia divina" come "dono in abbondanza" (Romani 5:16). Paolo elabora questo tema nel verso successivo: "Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo". Il "dono" che Cristo mette a disposizione è l'opposto della pena inflitta all'umanità dal suo antitipo. Adamo porta la morte; Gesù porta la vita eterna.

Paolo inoltre descrive Cristo che inverte la "condanna" provocata da Adamo e porta invece "la giustificazione" (Romani 5:16). La giustificazione ha un significato molto esplicito per Paolo. Quando Dio giustifica il peccatore indegno, Egli pronuncia su di lui un verdetto di assoluzione e gli concede il dono della vita eterna. Dal tempo di Martin Lutero fino all'inizio del ventesimo secolo, i protestanti hanno avuto la tendenza a considerare la dottrina della giustificazione per fede come il cuore e il centro della teologia di Paolo. Non voglio entrare nel dibattito su questo tema se non per dire che credo che un aspetto della dottrina della giustificazione per fede debba rimanere centrale per qualsiasi interpretazione di Paolo: non dobbiamo perdere di vista l'importanza decisiva della vita eterna come frutto della giustificazione da parte di Dio del peccatore, come intesa da Paolo. In Romani 6:23, Paolo contrappone i frutti del peccato e della giustificazione: "Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù". Adamo pagò il prezzo del peccato; per mezzo di Gesù viene concesso il dono immeritato della giustificazione.

La centralità della vita eterna come frutto della giustificazione è sottolineata con grande forza nella discussione di Paolo su Adamo e Cristo in 1 Corinzi 15. Scroggs ha osservato che i temi di Romani 5:12-21 e 1 Corinzi 15 "sono correlati ma non identici". In 1 Corinzi 15 l'interesse principale di Paolo è di rendere credibile agli scettici corinzi la speranza cristiana che coloro che sono "in Cristo" alla fine risorgeranno come risorse Gesù. Per risurrezione Paolo intendeva la risurrezione del corpo, così come lo intendevano i suoi contemporanei ebrei. Apparentemente c'era un notevole scetticismo a Corinto riguardo alla futura risurrezione dei corpi dei morti anche tra coloro che credevano nella risurrezione di Gesù. Paolo confrontò questo scetticismo sostenendo che "ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia (aparche) di coloro che dormono" (1 Corinzi 15:20). Secondo Jean Héring, la parola aparche è quasi sinonimo dell'ebraico arrabon, che è un pegno o un deposito.[36] Il significato di Paolo è che la risurrezione di Cristo anticipa la risurrezione dei suoi seguaci, che un giorno condivideranno il suo glorioso destino.

Dopo aver affermato che la risurrezione attende il credente, Paolo torna al tema del primo e dell'ultimo Adamo: "Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo" (1 Corinzi 15:21-22). L'enfasi di Paolo in 1 Corinzi è sulla vita eterna e perfetta che attende il credente in Cristo. Non possiamo soffermarci sull'interpretazione di Paolo riguardo al tipo di esistenza corporea perfezionata in Cristo che il risorto godrà, se non per dire che la natura risorta di Cristo è quella di un soma pneumatikon, un "corpo spirituale", e che il corpo spirituale sia per Paolo che per i rabbini non è immateriale. Paolo inoltre ci dice che "la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l'incorruttibilità" (1 Corinzi 15:50) Quando avverrà la trasformazione, tutte le cose cambieranno. Il mondo deperibile sarà riscattato. La morte, la corruzione e il dominio demoniaco saranno sconfitti per sempre.

Le affermazioni di Paolo sullo straordinario potere di Cristo di redimere l'uomo e il cosmo portano alla domanda sul perché solo Cristo avesse il merito superlativo di essere la "primizia di coloro che dormono", nonché la fonte della vita eterna per un'umanità risorta. In un senso importante, sia Paolo che i suoi contemporanei ebrei erano convinti che la disobbedienza fosse l'unico peccato e che tutti gli altri peccati derivassero da quell'unica offesa. Poiché l'ebraismo considerava tutti i comandamenti come espressioni della volontà di Dio, ogni comandamento presentava agli uomini la scelta angosciosa di obbedienza o ribellione contro il Padre onnisciente e onnipotente. Non faceva differenza se un comandamento era ostico per la comprensione umana. Era un atto supremo di arroganza per un uomo giudicare da sé cosa obbedire e cosa non obbedire. Si potrebbe infatti sostenere che l'obbedienza a comandamenti apparentemente irrazionali o insignificanti fosse di maggiore importanza dell'obbedienza a comandamenti il ​​cui scopo poteva essere chiaramente compreso. Il vero problema era se un uomo si sottometteva o si ribellava al suo Creatore. Inoltre, il Creatore aveva sempre ragione poiché la struttura stessa della realtà era il frutto della Sua volontà. Nella religione biblica un uomo che decide da solo a quale dei comandamenti di Dio obbedirà, si mette al posto di Dio, affermando la priorità del proprio giudizio su quello di Dio. Egli giudica ciò che Dio solo può giudicare e, così facendo, si arroga una preminenza che Dio solo possiede giustamente.

Non c'è posto in questo sistema per l'ideale moderno dell'uomo autonomo che considera le proprie azioni come interamente di sua competenza etica. Paolo afferma che Adamo commise il peccato paradigmatico della religione biblica, la disobbedienza. Egli sostiene che a causa della disobbedienza di Adamo nel non adempiere a un singolo comandamento la morte entrò nel mondo. In contrasto, solo Cristo di tutti gli uomini era così perfettamente obbediente da considerare la sua stessa vita di nessuna importanza rispetto alla maestosa struttura della sapienza di Dio. Poiché Paolo considerava Adamo come l'uomo paradigmaticamente peccatore, egli vedeva Cristo come l'unico uomo veramente giusto — poiché l'obbedienza di Cristo si estendeva finanche alla straordinaria agonia della morte sulla croce come innocente senza macchia. Sebbene Paolo offra molti suggerimenti sul motivo per cui la morte di Cristo determinò la liberazione dell'umanità dalle conseguenze del peccato di Adamo, è molto esplicito nell'affermare che Cristo fu uno "spirito vivificante" grazie alla sua obbedienza: "Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti" (Romani 5:19).

Nella sua prima lettera ai Corinzi, Paolo ricordò alla chiesa che egli aveva trasmesso loro la buona notizia che aveva ricevuto: "Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati" (1 Corinzi 15:3). Questa è una delle prime affermazioni del kerygma cristiano. È stato spesso interpretato come un riferimento alla morte di Cristo come un'espiazione vicaria per i peccati dell'umanità. Ci sono pochi dubbi sul fatto che Paolo abbia sostenuto che la morte di Cristo fosse di carattere sacrificale (Rom. 3:21-28; 5:1-2; 1 Cor. 5:7). Tuttavia, anche se accettiamo la tesi che Paolo considerava la morte di Cristo come un'espiazione vicaria, dobbiamo comunque identificare il merito superlativo posseduto da Cristo che rese possibile tale espiazione. Altri sono morti senza un risultato così fortunato; cosa c'era di unico in Gesù? Paolo ha risposto a questa domanda nel passaggio che abbiamo citato, Romani 5:19: il merito di Cristo consisteva nella sua superlativa obbedienza. Cristo, nella sua innocenza, aveva più giustificazioni di qualsiasi altro uomo per ribellarsi contro il destino che gli era stato inflitto. Tuttavia si sottomise in perfetta obbedienza alla morte immeritata sulla croce. Secondo Paolo, solo Cristo fu senza macchia alcuna di ribellione contro il Padre.

La logica di Paolo era in linea con quella dei suoi contemporanei ebrei. C'era una diffusa speculazione ebraica secondo cui un uomo totalmente senza peccato, cioè perfettamente obbediente, non sarebbe stato condannato a morte.[37] A differenza dei suoi contemporanei ebrei, Paolo era convinto che ci fosse un uomo simile, Cristo, e che il merito della sua impeccabile obbedienza era sufficiente a donare la vita agli altri oltre che a se stesso.

Secondo Paolo, se Cristo fosse stato contaminato anche solo da una traccia di peccaminosità, le potenze sotto cui era caduto il dominio dopo la trasgressione di Adamo sarebbero state nel loro legittimo diritto di rivendicare Cristo come loro vittima. Secondo la Legge, la loro Legge, il salario del peccato è la morte. Fortunatamente per l'umanità, le potenze cosmiche non hanno riconosciuto Cristo come il Figlio di Dio obbediente senza peccato. Cristo ha permesso loro di superare la loro propria sfera quando lo hanno condannato alla crocifissione. Con la sua perfetta obbedienza al piano saggio e misterioso del Padre, Cristo ha ingannato i "dominatori di questo mondo " (hoi archontes tou aiōnos toutou) (1 Corinzi 2:8), e quindi li ha privati del loro dominio sull'umanità. Cristo ha così invertito ciò che Adamo aveva tristemente iniziato.

« Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo (hoi archontes tou aiōnos toutou) che vengono ridotti al nulla; parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano. »
(1 Corinzi 2:6-9)


Addendum

Sigmund Freud e il mito del crimine primordiale

Note

Per approfondire, vedi Biografie cristologiche, Ebraicità del Cristo incarnato, Ecco l'uomo e Serie cristologica.
  1. Shalom Spiegel, The Last Trial, trad. (EN) Judah Goldin (New York: Schocken Books, 1969), 64.
  2. Jon D. Levenson, The Death and Resurrection of the Beloved Son (New Haven: Yale University Press, 1993), 12.
  3. Il Jewish Theological Seminary, conosciuto in ambiente ebraico semplicemente come JTS, è uno dei principali centri dell'Ebraismo conservatore fondato nel 1886 a New York City, su iniziativa del rabbino livornese Sabato Morais, come eredità del Seminario Teologico Ebraico di Breslavia.
  4. 3. Ed Noort, "Child Sacrifice in Ancient Israel: The Status Quaestionis", in Jan N. Bremmer, cur., The Strange World of Human Sacrifice (Leuwen: Peeters Publishers, 2006), 112-13.
  5. Noort, "Child Sacrifice", 104.
  6. evenson, The Death and Resurrection, 20.
  7. Malcolm W. Browne, "Relics of Carthage Show Brutality Among the Good Life", New York Times, 1 settembre 1987.
  8. Lawrence E. Stager e Samuel R. Wolff, "Child Sacrifice at Carthage-Religious Rite or Population Control?" Biblical Archaeology Review 10, no. 1 (gennaio-febbraio 1984): 31-51.
  9. Stager e Wolff, "Child Sacrifice".
  10. Si veda M’hamed Hassine Fantar, "Were Living Children Sacrificed to the Gods? No." Archaeology Odyssey 3, nr. 6 (novembre-dicembre 2000), e Joseph Greene e Lawrence E. Stager, "An Odyssey Debate: Were Living Children Sacrificed to the Gods? Yes." Archaeology Odyssey, 3, nr. 6 (novembre-dicembre 2000).
  11. Stager e Wolff, "Child Sacrifice".
  12. Levenson, The Death and Resurrection, 45.
  13. Si veda Levenson, The Death and Resurrection, 133-40.
  14. Si veda Levenson, The Death and Resurrection, 298-99.
  15. Una traduzione (EN) del poema si trova in Spiegel, The Last Trial, 143-52. La mia qui è una traduzione "libera".
  16. Joseph B. Soloveitchik, David Shatz, Joel B. Wolowelsky e Reuven Ziegler, curr., Abraham’s Journey: Reflections on the Life of the Founding Patriarch (New York: K’TSAV, 2008), 11-12.
  17. Soloveitchik et al., Abraham’s Journey.
  18. Cfr. Matteo 3:17, Luca 3:22, 2 Pietro 1:17
  19. Levenson, The Death and Resurrection, 200-01.
  20. Levenson, The Death and Resurrection, 202.
  21. Paula Fredricksen, From Jesus to Christ, II ediz. (New Haven: Yale University Press, 2000), 20.
  22. Fredricksen, From Jesus, 204.
  23. Richard L. Rubenstein, My Brother Paul (New York: Harper and Row, 1972), 91.
  24. Jean Hering, The First Epistle of Saint Paul to the Corinthians, trad. A. W. Heathcote e P. J. Allcock (Londra: Epsworth Press, 1962), 115.
  25. Oscar Cullmann, Early Christian Worship, trad. A. Stewart Todd e James B. Terrence (Londran: SCM Press, 1962), 10-15.
  26. Cullmann, Early Christian Worship, 19.
  27. Didache, trad. (EN) Maxwell Staniforth, in Early Christian Writings: The Apostolic Fathers (Harmondsworth, Middlesex: Penguin Books, 1968), 231-35.
  28. Albert Schweitzer, The Mysticism of Paul the Apostle, trad. (EN) William Montgomery (Londra: A &C Black, 1953); cfr. anche W. D. Davies, "Paul and Judaism Since Schweitzer", in Davies, Paul and Rabbinic Judaism: Some Rabbinic Elements in Pauline Thought (New York: Harper Torchbooks, 1967), vii-xv.
  29. Schweitzer, The Mysticism of Paul, 52-74.
  30. Schweitzer, The Mysticism of Paul, 116-25.
  31. Robin Scroggs, The Last Adam: A Study in Puline Anthropology (Philadelphia: Fortress Press, 1966), 46-50.
  32. Herman Melville, Moby-Dick, trad. (IT) online: <http://www.iloveroma.it/immagini/Moby%20Dick.pdf>.
  33. Henry A. Murray, "In Nomine Diaboli", in Melville, cur. Richard Chase (Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall, 1962); publ. orig. in The New England Quarterly 24, nr. 4 (dicembre 1951): 435-52.
  34. Commentario di Jon D. Levenson a Genesi 22:12 in The Jewish Study Bible, cur. Adele Berlin e Marc Zvi Brettler (New York: Oxford University Press, 2004), 46.
  35. Esiste un certo dibattito tra studiosi riguardo al significato di "Colui che doveva venire". Secondo C. K. Barrett, "Colui che doveva venire" è il Cristo escatologico che verrà rivelato completamente nell'Ultimo Giorno. Cfr. C. K. Barrett, From First Adam to Last (Londra: A & C. Black, 1962), 92-119.
  36. Jean Héring, trad. (EN) The First Epistle of Saint Paul to the Corinthians, Wipf & Stock Publishers, 2008, ad hoc.
  37. Si veda Louis Ginzberg, The Legends of the Jews, vol. 5 (Philadelphia: Jewish Publication Society, 1909-13), 128-131, n. 142; Richard L. Rubenstein, The Religious Imagination (Indianapolis: Bobbs-Merrill, 1968), 43-47.