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Utente:Chi.carlon/Sandbox

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8. La Resistenza e il Dopoguerra

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8.1. Resistenza e partecipazione femminile

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La partecipazione femminile alla Resistenza fu un fenomeno complesso e multiforme, a lungo marginalizzato nella storiografia tradizionale e solo a partire dalla metà degli anni settanta del Novecento oggetto di una più sistematica ricostruzione e riconoscimento storiografico [1].

Forme e motivazioni della partecipazione femminile

Sfilata di partigiani a Milano dopo la Liberazione

Le donne parteciparono attivamente alla Resistenza in diverse forme. Sebbene meno numerosa, una parte significativa prese parte ai combattimenti nelle formazioni partigiane, superando in alcuni casi le resistenze interne al movimento per la loro piena integrazione.

Le staffette rappresentarono un elemento cruciale per il sistema di comunicazione e il trasporto di informazioni, persone e materiali, sfruttando la loro minore sospettabilità e agilità di movimento.

Numerose donne fornirono rifugio sicuro, assistenza medica essenziale, viveri e indumenti ai combattenti partigiani, spesso assumendosi rischi personali significativi.

Molte delle interviste e della memorialistica raccolta sulle esperienze delle partigiane hanno evidenziato come la loro motivazione derivasse da una scelta interiore e non da obblighi esterni e che il contributo dato le condusse ad una crescente consapevolezza del proprio ruolo come cittadine.

L'esperienza condivisa nella lotta, il confronto con altre donne e la solidarietà sviluppatasi all'interno dei gruppi di resistenza favorirono inoltre in molte la crescita personale, la messa in discussione degli schemi culturali preesistenti, portando a una nuova coscienza politica e a un forte senso di "sorellanza" e di solidarietà con le altre compagne, fondamentale per affrontare le sfide e i pregiudizi, sia esterni che interni al movimento.[2]

Resistenza civile e maternage

Il concetto di resistenza civile è molto più ampio rispetto alla semplice opposizione armata a un occupante o a un regime. Si manifesta come un insieme variegato di strategie - tra cui azioni di disobbedienza, diffusione di propaganda e informazione clandestina, organizzazione di reti di supporto e di protezione fondamentali per la sopravvivenza - messe in atto dalla popolazione non combattente per affrontare e contrastare le condizioni imposte dalla guerra o dall'occupazione militare.

Il concetto di "maternage di massa", introdotto dalla storica Anna Bravo, descrive l'assunzione da parte delle donne di compiti tradizionalmente femminili in un contesto pubblico e politico. Durante il periodo del conflitto mondiale, in cui la guerra non rimase confinata nei fronti militari, ma interessò tutta la popolazione civile, secondo Bravo l'attività delle donne assunse una dimensione inedita, estendendosi oltre i confini familiari per divenire una pratica di cura e sostegno vitale per l'intera comunità, favorendo la sopravvivenza collettiva, la riorganizzazione sociale e la rielaborazione dell'identità femminile.

Il maternage è un fenomeno molto complesso, che presenta sia elementi di continuità con la tradizione, che di rottura e trasformazione.

Da un lato, affonda le sue radici nei valori tradizionalmente legati alla maternità e alla cura, come cucinare, curare, accudire e proteggere all’interno dell’ambiente domestico, in linea con lo stereotipo fascista della donna dedita alla casa e alla famiglia. Dall’altra, la guerra, estende, trasforma e ridefinisce il ruolo della maternità, i cui compiti non si limitano più solo ed esclusivamente alla sfera familiare, ma vengono ridefiniti nel contesto pubblico, divenendo strumenti di sopravvivenza, solidarietà e resistenza; le donne, infatti, si prendono cura anche di sconosciuti, aiutando soldati in fuga e organizzando salvataggi, rendendo la maternità un “gesto” pubblico, collettivo e attivo, non solo affettivo e privato.

La guerra, quindi, fa evolvere la maternità, trasportandola fuori dalle mura domestiche e dandole una nuova forza sociale e politica.[3]

Questa nuova mobilità femminile, spesso in contrasto con gli stereotipi promossi dal regime fascista, si sarebbe rivelata essenziale per garantire l'assistenza a diversi livelli, tra cui l'approvvigionamento del cibo, la protezione di militari sbandati dopo l'armistizio, la creazione di reti di solidarietà nei rifugi antiaerei.

Le donne parteciparono anche a numerose forme spontanee di protesta contro le condizioni di vita imposte dal conflitto, come durante lo sciopero del pane che nel 1941 interessò molte città italiane, e che le vide in prima fila nelle manifestazioni davanti ai forni, ai municipi e ad altri centri di distribuzione.

8.2. Donne partigiane e il diritto al voto (1945-1946)

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Nell’ottobre del 1944, l'Unione Donne Italiane (UDI) fece sentire la sua voce con il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), chiedendo con forza che alle donne venisse riconosciuto il diritto di votare e di essere elette nella nuova Italia e a questo proposito, nel promemoria inviato a Ivanoe Bonomi, successore di Badoglio, si argomentava che a causa delle sofferenze patite durante la guerra e la loro solidarietà con i combattenti, le donne avevano finalmente guadagnato questo diritto[4]. Nonostante il governo del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) nell'Italia centromeridionale concesse effettivamente il diritto di voto alle donne con il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 30 gennaio 1945, la parità politica non fu completamente realizzata in quel momento, poiché inizialmente il decreto permetteva alle donne di votare, ma non di essere elette; infatti, solo successivamente, le donne ottennero anche il diritto di candidarsi e di essere elette nelle istituzioni[5].

Nonostante l'impegno di tante donne in questa battaglia, alcune delle quali avevano agito con un coraggio "sino all'incoscienza", il riconoscimento ufficiale del loro diritto a unirsi all'attività armata arrivò solo verso la fine della guerra, nell'aprile del 1945, e in termini piuttosto ambigui; infatti, sembrava quasi che, nonostante il loro contributo fosse sotto gli occhi di tutti, e molte donne avevano "fatto il gran salto materiale, dalla ordinata vita quotidiana in famiglia a quella spericolata e massimamente incerta della guerra", ci fosse una certa esitazione a riconoscerne appieno il ruolo politico. Finalmente, il 2 giugno 1946 segnò una data storica: l'Italia divenne una Repubblica grazie al primo voto in cui anche le donne poterono esprimersi e tutte quelle donne che avevano lottato per la libertà ora potevano finalmente partecipare a costruire il futuro del loro paese. Nonostante quest’evento, si tendeva ad allontanare la presenza femminile dalla scena pubblica, quasi a voler ripristinare un'immagine più tradizionale e rassicurante della donna, come se la memoria delle donne combattenti, delle partigiane, non fosse ancora pienamente integrata nell'immaginario collettivo, nonostante fossero state proprio loro, con la loro "sconfinata libertà" e il loro "entusiasmo", a spingere per un "capovolgimento del nostro mondo"[6].

L’esperienza delle donne partigiane è stata complessa e le ragioni che le hanno spinte a unirsi alla Resistenza andavano ben oltre la semplice opposizione politica; toccavano corde profonde di desiderio di libertà e affermazione personale. La conquista del diritto di voto è stata un momento cruciale, strettamente legato al loro impegno nella Resistenza, ma non ha segnato la fine di una lunga battaglia per una piena uguaglianza di diritti in tutti gli aspetti della vita sociale e civile. L'ingresso delle donne nella Resistenza non è stata una decisione facile, ma spesso una scelta drammatica e profondamente sentita, dettata dalla necessità di combattere il fascismo; questa conquista non fu vista come una semplice concessione da parte degli uomini, ma come il risultato della lotta antifascista e dell'impegno politico delle donne nella Resistenza. Tuttavia, nonostante, questo importante passo avanti nei diritti politici, la partecipazione femminile nella sfera pubblica nel dopoguerra fu inizialmente limitata soprattutto all'assistenza ai reduci, ai profughi e agli orfani, in un'ottica di ricostruzione morale e materiale del paese[7].

Questa partecipazione alla lotta di liberazione rappresentò per molte donne un momento cruciale, ma non isolato, di un impegno politico che per le più anziane era iniziato anni prima e che per quasi tutte continuò anche dopo il 1945. La scelta antifascista e l'impegno nella Resistenza erano visti come anelli di un'unica catena di tenacia e coerenza da portare avanti sempre come impegno di vita[8]. La guerra spinse le donne fuori di casa, obbligandole a cercare lavoro, prendere decisioni, e soprattutto a liberarsi dal ruolo tradizionale di moglie e madre esemplare imposto dal fascismo e dalla Chiesa; anche se non sempre avveniva coscientemente, questa trasgressione femminile si impresse nella coscienza delle donne, svelando ad esse la possibilità di creare percorsi di vita attivi, autonomi e gratificanti[9].

Dopo la Liberazione, ci fu un'intensa campagna per convincere le donne, che votavano per la prima volta, a capire e a partecipare.

Una delle intervistate, Lucia Bianciotto, sostenne di essere stata candidata per la Costituente:

[…] Poi mi hanno messa candidata per la costituente nella circoscrizione Cuneo, Asti, Alessandria. Se andavo ancora a parlare in un paese o due forse uscivo deputata; solo che il partito non puntava su di me, a Cuneo puntava su Giolitti.                                                                                                                   A Alessandria doveva uscire Longo, che poi ha optato per Valerio Audisio. E allora, come ti dico, il partito delle donne ha sempre parlato molto, però in pratica… Non c’era nessuno che faceva propaganda per me, i voti che ho avuto li ho avuti proprio per simpatia, che io stessa poi alla fine, dicevo: – Votate per Antonio Giolitti –. Ho fatto tanti comizi con lui […][10].

L'ottenimento del diritto di voto fu un passo cruciale per la libertà delle donne, ma la lotta per l’effettiva parità fu lunga e difficile. Le donne partigiane e le militanti avevano combattuto non solo contro il fascismo, ma anche e soprattutto contro la disuguaglianza e l’ingiustizia che da sempre le teneva legate a una dipendenza dall’uomo. Durante gli incontri clandestini tra compagni e compagne, si discuteva di come dovesse essere l'Italia libera ideale, sognando un futuro diverso rispetto al presente, caratterizzato da una giustizia sociale che prevedeva anche una condizione femminile differente[11].

Un esempio concreto della continuazione di questa lotta nel dopoguerra fu lo sciopero di sole donne avvenuto a Torino il 14 luglio 1945, per ottenere la parità di indennità di contingenza con gli uomini. Grazie all’intervento dell’UDI e del Comitato di liberazione nazionale, venne firmato un accordo provinciale, secondo cui, a Torino, operai e operaie avranno la stessa indennità di contingenza. Questa manifestazione, ideata e attuata solo da donne, contro la volontà di alcuni uomini, riuscì a riunire migliaia di lavoratrici e portò, per un anno, alla parità retributiva a Torino. Questo sciopero, e altri esempi di mobilitazione, dimostrano che le donne, uscite dalla Resistenza, non vollero riaccomodarsi mute nel ruolo tradizionale di moglie e madre, rilegato tra le mura domestiche, ma lottarono per dimostrare che per loro "un posto prestabilito non c’è e non deve esserci", ma che al contrario sono libere di collocarsi ovunque esse vogliano, senza rendere conto a nessuno[12].

8.3. Costituzione e diritti delle donne (1948)

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Il 1948 fu l'anno della Costituzione e anche in quel contesto, le donne ebbero un ruolo significativo: il 24 marzo 1947 si verificò un evento simbolico, poiché tutte le ventun donne elette nell’Assemblea costituente si tennero per mano al momento del voto per inserire il ripudio della guerra nella Costituzione. Questo gesto non era casuale: molte donne avevano partecipato alla Resistenza proprio con la profonda convinzione che fosse una "guerra alla guerra", un modo per costruire un futuro di pace; la loro sensibilità a determinati valori era da ritrovarsi nell'esperienza diretta con la violenza e la sofferenza.

Teresa Noce, che aveva combattuto nella Resistenza, propose nel 1948 una legge fondamentale per la tutela delle lavoratrici madri e nel 1950, insieme a Maria Federici, si batté per la parità salariale tra uomini e donne. Queste iniziative, nate dalla consapevolezza dei diritti maturata anche durante l'esperienza della Resistenza, mostrano come le donne non si accontentarono del diritto di voto, ma continuarono a lottare per una piena eguaglianza in tutti gli aspetti della vita. Nonostante questi importanti passi avanti, persistessero difficoltà e resistenze poiché anche all'interno dei partiti antifascisti, le donne si scontravano con una mentalità maschile che faticava a riconoscere la necessità di un impegno politico specifico per l'emancipazione femminile e che spesso relegava le donne a ruoli tradizionali. Per questo motivo si sviluppò un'intensa attività di organizzazione e sensibilizzazione, in particolare attraverso i Gruppi di difesa della donna (GDD), nei quali dirigenti come Ada Gobetti, capirono quanto fosse fondamentale partire dai bisogni concreti delle donne – come il cibo e i vestiti – per coinvolgerle nella lotta per una causa più grande e in un vero e proprio risveglio di coscienza, un modo per appropriarsi progressivamente di uno spazio politico e sociale che era stato negato fino a quel momento. Le donne si riunivano, discutevano, imparavano e si ponevano domande cruciali sul significato di democrazia e sul loro futuro ruolo nella vita del Paese[13]. I GDD non solo fornivano assistenza ai combattenti, ma rappresentavano un movimento femminile organizzato con una capacità di lotta autonoma. Le donne utilizzavano la loro "invisibilità" per scopi antifascisti, potendo nascondere manifesti, medicinali o altro con più disinvoltura rispetto agli uomini, il che era vantaggioso ma allo stesso tempo anche molto pericoloso. L'opera di propaganda era spesso svolta nei luoghi della vita quotidiana, come nelle code davanti ai negozi, dove si poteva parlare e discutere a bassa voce per non attirare l'attenzione[14].

Nonostante i tentativi che cercavano di portare avanti le questioni femminili, le donne si scontravano con forti resistenze, come se il parlare di emancipazione delle donne potesse essere visto come un elemento di disturbo e per questo motivo, la strada verso una reale parità era ancora lunga e piena di ostacoli, nonostante il fondamentale contributo delle donne alla Resistenza e la conquista del diritto di voto. La "Tristezza della Liberazione" per molte donne fu anche questa: vedere che le grandi speranze di cambiamento e di un "capovolgimento del mondo" si scontravano con la persistenza di vecchi pregiudizi e resistenze[15]. Quindi, nonostante tutti gli sforzi, dopo la Liberazione, molte donne partigiane si sentirono "doppiamente tradite" dalle forze politiche tradizionali e spesso dagli stessi compagni di lotta, che consideravano "naturale rinchiudere nuovamente in casa le donne", vanificando tutti gli sforzi compiuti dalle stesse durante gli anni di lotta; infatti, spesso, gli uomini non erano molto disposti a concedere riconoscimenti, cariche e poteri alle donne, considerandole inadatte a ricoprire cariche che non fossero quelle tradizionalmente proprie di una donna rispettabile[16].

8.4. Femminismo tra Resistenza e Repubblica (1945-1968)

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Il periodo tra la Resistenza e i movimenti femministi degli anni Settanta è un tempo di impegno politico continuo per molte donne, caratterizzato da coraggio, impegno e speranza, ma anche da difficoltà e ripensamenti a causa delle continue barriere e respingimenti da parte degli uomini. Le discussioni sui diritti delle donne, sul lavoro, sulla famiglia, anche se non sempre esplicitamente definite "femminismo" nel senso moderno, erano parte integrante della loro esperienza e delle loro rivendicazioni[17]. Il periodo della Resistenza in Italia fu un momento di intenso dibattito e ridefinizione delle dinamiche di genere, con profonde implicazioni sul lavoro, la famiglia e le nascenti aspirazioni emancipazioniste femminili. Anche se non tutte si unirono immediatamente alla lotta armata, il percorso verso l'antifascismo spesso iniziò da una critica radicale alle misere condizioni di vita imposte dal regime fascista e da un rifiuto dell'apatia di una società costretta a "UBBIDIRE CREDERE E COMBATTERE" e in alcuni casi, furono compagne già attive politicamente a incoraggiare altre donne a compiere il "salto" verso la Resistenza armata. Queste donne dimostrarono una crescente consapevolezza della necessità di non essere semplici vittime passive della guerra, ma di diventare "soggetti di azione" e "agenti di cambiamento", sfidando anche un ambiente militare spesso restio alla presenza femminile.

Nonostante il forte desiderio di essere parte attiva nel combattimento, molte donne del Corpo di assistenza femminile (CAF) si trovarono spesso a ricoprire ruoli di supporto logistico, contribuendo così a mantenere le tradizionali divisioni di genere, ma allo stesso tempo rivendicando con orgoglio il coraggio dimostrato nelle loro attività partigiane. L'aiuto fornito alla Resistenza, che spesso includeva dare rifugio a prigionieri o assistere i renitenti alla leva, non significava per loro rinunciare a rivendicare la propria emancipazione, contestando l'idea che dovessero sacrificarsi eccessivamente per i compagni uomini senza ricevere riconoscimenti o senza affermare il loro ruolo attivo nella lotta. Anzi, le donne che si impegnarono in queste azioni, così come quelle che protestarono apertamente contro il regime, tornarono in seguito a sottolineare come la loro "scelta" di resistenza fosse maturata in un contesto sociale e individuale ben preciso[18].

Discussioni su lavoro, famiglia e divorzio

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La partecipazione femminile alla Resistenza portò in primo piano questioni cruciali relative al ruolo delle donne nella società, in particolare nel contesto lavorativo e familiare. In ambito lavorativo, le donne furono attivamente coinvolte sia nel sostegno logistico alla Resistenza sia, in molti casi, direttamente nelle azioni di lotta e questa partecipazione mise in discussione la tradizionale divisione dei ruoli e evidenziò le capacità e la determinazione delle lavoratrici. Le rivendicazioni di parità salariale emersero con forza, soprattutto in settori a forte presenza femminile, segnando una precoce contestazione delle disparità economiche di genere; così, la Resistenza divenne, per molte, una prosecuzione della lotta per i diritti dei lavoratori, con una specifica attenzione alla condizione femminile spesso caratterizzata da maggiore sfruttamento. Parallelamente, la struttura familiare tradizionale subì notevoli tensioni e trasformazioni. L'assenza degli uomini dal fronte, la necessità di provvedere al sostentamento in condizioni di estrema difficoltà, e il coinvolgimento diretto delle donne nella Resistenza modificarono le dinamiche interne alla famiglia, portando le donne a ricoprire ruoli di responsabilità precedentemente riservati agli uomini, sviluppando nuove competenze e una maggiore autonomia decisionale. Questo periodo rappresentò una fase di emancipazione di fatto per molte donne, sebbene non sempre accompagnata da un riconoscimento formale e sociale immediato.

La questione del divorzio, all'epoca non riconosciuto legalmente, si affacciò sullo sfondo delle trasformazioni sociali. Sebbene non fosse un tema centrale della Resistenza, alcune dinamiche personali e familiari riflettevano la complessità delle relazioni in un periodo di sconvolgimento e la possibilità di sottrarsi a legami oppressivi, pur in assenza di strumenti legali, si manifestò da parte di alcune donne, sebbene con le limitazioni e le conseguenze sociali del caso. La rigidità del contesto morale e sociale dell'epoca rendeva la discussione aperta e la formalizzazione di nuove unioni al di fuori del matrimonio particolarmente delicata[19].

Ruolo dell'UDI e di altre organizzazioni

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L'organizzazione del movimento femminile fu un aspetto fondamentale della partecipazione delle donne alla Resistenza e nella fase di ricostruzione postbellica.

• I Gruppi di difesa della donna (GDD), nati nel 1943 e poi evoluti nell'Unione Donne Italiane (UDI), rappresentarono una delle principali forme di aggregazione femminile. Queste organizzazioni si proposero di mobilitare e coordinare l'impegno delle donne nella lotta di liberazione, agendo come un fronte unitario al di là delle appartenenze politiche specifiche e L'UDI, in particolare, divenne un importante strumento di rivendicazione dei diritti femminili nel dopoguerra, promuovendo l'uguaglianza giuridica, politica ed economica[20]. L'UDI era un'organizzazione attiva nel dopoguerra, che partecipò ad esempio alla discussione e all'organizzazione dello sciopero per la parità retributiva a Torino nel 1945. Altre forme di organizzazione e comunicazione per le donne includevano giornali come "Noi Donne" e "La Difesa della Lavoratrice", a sostegno delle loro opinioni e rivendicazioni[21].

• Accanto all'UDI, emersero altre organizzazioni femminili, spesso legate a specifiche forze politiche o sensibilità ideologiche e la pluralità del panorama associativo femminile rifletteva la diversità degli orientamenti politici presenti nel movimento di Resistenza. Organizzazioni come il Centro Italiano Femminile (CIF), di ispirazione cattolica, rappresentarono un'ulteriore espressione dell'impegno femminile, sebbene con una specifica attenzione a valori e principi diversi.

Queste organizzazioni svolsero un ruolo cruciale nel fornire supporto logistico ai partigiani, nell'organizzare azioni di protesta e sensibilizzazione, e nel promuovere la partecipazione politica delle donne. L'UDI, in particolare, si impegnò nella diffusione di consapevolezza sui diritti civili e politici, contribuendo in modo significativo al dibattito sulla parità di genere nella fase costituente della Repubblica Italiana.

Prime contestazioni al modello emancipazionista

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Già durante e immediatamente dopo la Resistenza, si manifestarono le prime riflessioni critiche e le difficoltà nell'applicazione di un modello emancipazionista univoco. Alcune figure, come Ada Gobetti, pur riconoscendo l'importanza dell'organizzazione femminile, sollevarono dubbi sulla necessità di una separazione netta dai movimenti maschili, auspicando una lotta comune per obiettivi condivisi, posizione che rifletteva una visione dell'emancipazione come parte integrante di una più ampia trasformazione sociale. La terminologia utilizzata per definire il ruolo delle donne nella Resistenza, come "Gruppi di difesa della donna", fu percepita da alcune come limitativa e non pienamente rappresentativa del contributo attivo e combattivo delle donne, con una preferenza per definizioni come "volontarie della libertà" che evidenziava il desiderio di un riconoscimento più pieno e paritario. La persistenza di pregiudizi patriarcali, sia nella società che all'interno del movimento di Resistenza, rappresentò un ostacolo significativo poiché era ancora diffusa l'idea che il ruolo primario delle donne dovesse rimanere quello familiare e di cura, e di conseguenza era presente la difficoltà nel riconoscere appieno il loro impegno politico e militare, tutte cause che limitarono l'effettiva realizzazione di un modello emancipazionista compiuto. Le esclusioni e lo sminuimento subite dalle partigiane dopo la Liberazione, insieme al silenzio che avvolse le violenze di genere, testimoniarono la resistenza di modelli tradizionali e la necessità di un ulteriore percorso per il pieno riconoscimento del ruolo femminile nella storia e nella società italiana, rendendo necessario un cambiamento culturale profondo, che andava oltre la pur fondamentale partecipazione alla lotta di liberazione[22].

La "questione femminile" o la specifica oppressione delle donne era raramente discussa all'interno dei partiti, anche quelli di sinistra, che sottovalutavano l'importanza di un lavoro politico specifico rivolto alle donne. Esse, pur esprimendo a volte un certo disagio o sospetto verso la parola "femminismo", con cui erano venute a contatto principalmente negli anni Settanta, mostravano una chiara consapevolezza delle disuguaglianze e del "torto subito come donne" a causa della mancanza dei giusti riconoscimenti. Le loro critiche al narcisismo maschile e la denuncia di come avevano vissuto la lotta in quanto donne, contraddicevano oggettivamente le posizioni teoriche che minimizzavano la specificità dell'oppressione femminile, motivo per il quale era necessaria una "rifondazione teorica della questione femminile". Una critica esplicita ai partiti di sinistra, in particolare al PCI, emerge in relazione al periodo post 1968, quando si commise il gravissimo errore di decidere di smantellare le organizzazioni femminili con l’errata convinzione che le donne fossero già emancipate. Per dare alle donne i giusti spazi e riconoscimenti, era necessaria una politica che includesse la comprensione della condizione della donna, non banalizzandola e sottovalutandola, azione fondamentale per la loro emancipazione[23].

Bibliografia

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  1. Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, La Pietra, Milano, 1976.
  2. Benedetta Tobagi, La Resistenza delle Donne, Einaudi, Torino, 2022.
  3. Anna Bravo, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Bari, 2002.
  4. Benedetta Tobagi, La Resistenza delle Donne, cit.
  5. Michela Ponzani, Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico» 1940-45, Einaudi, Torino, 2021.
  6. Benedetta Tobagi, La Resistenza delle Donne, cit.
  7. Michela Ponzani, Guerra alle donne, cit.
  8. Bianca Guidetti Serra, Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile, Einaudi, Torino, 1977.
  9. Miriam Mafai, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale, Rizzoli, Milano, 2022.
  10. Bianca Guidetti Serra, Compagne, cit., p.360.
  11. Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina, La Resistenza taciuta, cit.
  12. Miriam Mafai, Pane nero, cit.
  13. Benedetta Tobagi, La Resistenza delle Donne, cit.
  14. Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina, La Resistenza taciuta, cit.
  15. Benedetta Tobagi, La Resistenza delle Donne, cit.
  16. Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina, La Resistenza taciuta, cit.
  17. Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina, La Resistenza taciuta, cit.
  18. Michela Ponzani, Guerra alle donne, cit.
  19. Benedetta Tobagi, La Resistenza delle Donne, cit.
  20. Benedetta Tobagi, La Resistenza delle Donne, cit.
  21. Bianca Guidetti Serra, Compagne, cit.
  22. Benedetta Tobagi, La Resistenza delle Donne, cit.
  23. Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina, La Resistenza taciuta, cit.