Divina Commedia/Inferno/Canto I
Il primo canto dell'opera funge da proemio di tutta la Commedia. Esso introduce il senso dell'intero poema (un viaggio per i tre regni degli Inferi per la redenzione di tutta l'umanità) e si svolge nella selva e poi sul pendio che conduce al colle; siamo nella notte tra il 7 e l'8 aprile 1300, o secondo altri commentatori tra il 24 e il 25 marzo 1300 (in ogni modo il giorno dell'Incarnazione).
Qui Dante incontra Virgilio, che lo accompagnerà nella visita dell'Inferno, prima tappa della sua purificazione dal peccato.
Virgilio, guida e maestro
[modifica | modifica sorgente]La scelta del poeta latino Virgilio come guida (v. 113) di Dante nel suo viaggio non è casuale. Nella concezione medievale, infatti, Virgilio era considerato l'uomo più sapiente esistito prima della Rivelazione di Cristo: egli è quindi simbolo della ragione e dell'apice che essa può raggiungere senza l'illuminazione divina. E sempre nel Medioevo, nella visione sincretistica della cultura medievale nei confronti di quella classica, Virgilio era ritenuto un profeta "inconsapevole" della venuta di Cristo, per via della IV Bucolica, nella quale egli parla della nascita di un puer che riporterà gli uomini all'età dell'uomo. Inoltre Virgilio è il cantore di Enea, ovvero il progenitore dell'Impero, una delle due istituzioni (insieme alla Chiesa) che, secondo Dante, sono indispensabili per condurre l'uomo. Infine, Virgilio è il «maestro» di «bello stilo».
Testo annotato
[modifica | modifica sorgente]Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
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- Nel mezzo del cammin...: Giunto alla metà del cammino della nostra vita umana. L'inizio del poema, in forma semplice e piana, è una indicazione di tempo. La visione dell'aldilà si presenta come un fatto storicamente datato che si svolge nel tempo. Dante indica infatti qui una data precisa, cioè i suoi 35 anni, considerati allora, «ne li perfettamente naturati», il punto medio della durata della vita (Conv. IV, XXIII 6-10); la Bibbia stessa – in accordo, del resto, alle teorie aristoteliche riprese da Alberto Magno e Tommaso d'Aquino – era all'origine di tale opinione («Gli anni della nostra vita sono 70»: Ps. 89, 10) e l'aggettivo nostra sembra discendere dal salmo al verso di Dante, dando a quel linguaggio dimesso e quotidiano una risonanza universale ed epica. L'idea della vita come cammino (che ha quindi un suo fine) riempie questo primo verso.
È l'idea di partenza del poema. Essa ha origine nella Bibbia (2 Cor. 5, 6) e Tommaso la precisa nel suo commento: «L'uomo, costituito nella condizione di questa vita terrena, si trova come in una strada per la quale deve dirigersi verso la sua patria». Dante la riprende e la svolge in un passo del Convivio, dove si ritrova quasi una parte del primo verso del poema: «così l'anima nostra, incontanente che nel novo e non mai fatto cammino di questa vita entra...»; è questo il cammino verso il bene, che l'uomo «perde per errore come le strade de la terra» (Conv. IV, XII 15-8), proprio come è accaduto all'uomo della prima terzina del poema. La data di questo viaggio dell'anima è tuttavia storica, come dichiarano più luoghi lungo le cantiche che fissano la visione al 1300 (Dante era nato nel 1265) e precisamente al venerdì santo di quell'anno. È questo del resto l'anno del grande giubileo indetto da Bonifacio VIII, certo non a caso scelto per il viaggio di conversione e salvezza. Che le prime parole del poema indichino dunque un tempo storico, appare indubbio. Ma tale tempo storico è fin dall'inizio proiettato sullo sfondo dell'eternità dal preciso ricordo biblico presente in questo primo verso: «Io dissi: 'a metà della mia vita me ne andrò alle porte degli inferi'»(Is. 38,10). Le parole del profeta – che narra in quel capitolo l'intervento salvifico di Dio per strappare un uomo alla morte – stabiliscono la seconda dimensione del racconto: sono così già posti i due piani, quello terrestre e quello celeste, sui quali si svolgerà tutto il poema al quale ha posto mano, come Dante stesso dirà, e cielo e terra (Par. XXV 2).
- nostra: con questo aggettivo il singolo personaggio Dante accomuna a sé tutta l'umanità. Scopo del poema infatti è «rimuovere chi vive in questa vita dallo stato di miseria e condurlo in stato di felicità» (Ep. XIII 39). Così Dante intraprende personalmente questo viaggio, che è di tutti gli uomini, dall'oscurità (la selva) alla luce, dal dolore alla felicità, e la sua vicenda privata, storicamente reale e databile, diventa segno dell'universale vicenda umana.
- mi ritrovai: mi ritrovai ad essere, presi coscienza di trovarmi. Di qui lo sgomento e la paura. Quando c'era entrato infatti, e fino a quel momento, non ne aveva avuto coscienza (v. 10). Questo preciso momento, in cui l'uomo si accorge del suo smarrimento (v. 3), e se ne spaventa (v. 6), è appunto l'inizio della conversione, e segna l'inizio del poema.
- per una selva oscura: per vale «per entro», mantenendo il senso latino di moto per luogo; indica quindi il camminare senza meta proprio di chi si è smarrito. La selva è l'immagine antica e immediatamente comprensibile del male e dell'errore, diffusa in tutta la letteratura cristiana, e come tale Dante stesso la usa nel Convivio: «la selva erronea di questa vita» (Conv. IV, XXIV 12). D'altra parte, nell'ambito letterario, la selva si ritrova all'entrata dell'Averno virgiliano (Aen. VI 131, 179 ecc.) e, per restare agli autori più cari a Dante, proprio lo smarrimento nella selva segna l'inizio della storia nel Tesoretto di Brunetto Latini, come di molti testi romanzi. Questa metafora abbraccia quindi il secoli di tradizione (e osserviamo fin d'ora che tale sarà il linguaggio di tutta la Commedia, sempre antichissimo, ma insieme straordinariamente nuovo). Essa significa qui, come quasi tutti hanno inteso, uno strato di peccato. La selva infatti oscura perché non vi splende il sole (v. 60), segno del bene e di Dio. La metafora luce-tenebre, di origine evangelica (Io. 1,5), si ritroverà poi come motivo conduttore per tutta la Commedia. Dante vuole indicare nella selva, come preciserà a chiare lettere più oltre nel poema (cfr. Purg. XXIII 115-20 e XXX 130-2), un reale periodo di traviamento della sua vita, che è qui lasciato nell'indeterminato, proprio perché vuol rappresentare nello stesso tempo il generale sbandamento dell'umanità.
- che: i più lo intendono come congiunzione causale (giacché, poiché), ma sembra più esatto l'altro valore proposto, di congiunzione modale («nella situazione di aver smarrito la via») che meglio corrisponde al significato indicato sopra del verbo mi ritrovai, che la congiunzione determinata. Dante vuole infatti qui descrivere la situazione in cui viene all'improvviso a trovarsi: in mezzo a una selva oscura, smarrito il cammino. Per un simile uso del che, non perfettamente definibile, cfr. VIII 64 e 110.
- la diritta via: più precisamente degli altri commentatori (che in generale danno come spiegazione: «la via della virtù»), Pietro di Dante ha penetrato il vero valore di questa espressione: l'origine dell'anima umana è il cielo, e l'anima naturalmente desidera tornare nella sua patria, cioè a Dio; altrimenti devia dalla strada diritta, cosa che l'uomo può fare, unico nella natura, grazie al libero arbitrio. Tale senso profondo della «via diritta», che porta l'uomo al suo fine, cioè a Dio – metafora anch'essa ben antica e radicata nel Vangelo – regge, come si vedrà, tutta l'invenzione del viaggio dantesco.
- era smarrita: e non perduta, notano già gli antichi commentatori, perché poteva ancora ritrovarla: «questa via...si smarrisce...perché chi vuole la può ritrovare, mentre nella presente vita stiamo» (Boccaccio). Tuttavia in questo momento essa appare ben lontana. Questo terzo verso, con la sua precisa cadenza, mantiene e conclude la linea piana dei primi due. Il «sermo humilis» (stile umile), a tutti accessibile, e proprio della Scrittura secondo S. Agostino, sembra voler intonare fin dal principio il sacro poema dell'aldilà («è di tono dimesso e umile» dirà Dante del linguaggio della Commedia in Ep. XIII 31). Ma tale linguaggio è il risultato di un'arte profonda. Si osservi come questa prima terzina imposti la situazione in modo tanto perentorio quanto semplice: prima il tempo e lo spazio – cioè le dimensioni esteriori – e infine la dimensione interiore, e tragica, che è il reale punto di partenza della storia.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
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- Ahi quanto a dir...: "quanto è duro ripetere a parole...". La prima terzina si pone con assoluta oggettività, senza alcun commento. Il commento, cioè il riflesso di quella condizione di errore e di oscurità nell'animo dell'uomo, interviene con questo verso. La forma esclamativa tornerà poi sempre nel poema – segno del vivo ricordo e partecipazione dell'autore – a sottolineare i momenti di maggior tensione drammatica.
- qual era: qual era il suo aspetto e la sua terribilità; cfr. Aen. II 274: «Ohimè, qual era!»
- dura: duro vale «difficile», «faticoso»; qui nel senso traslato, rimasto anche nell'italiano moderno, di «difficile all'animo», quindi «penoso» (cfr. III 12 e Par. XVII 59). Tale significato è precisato dal v.6: se è paurosa al solo ricordarla, tanto più penoso e difficile sarà il parlarne.
- selva selvaggia: figura retorica detta etimologica (annominatio) che ripete lo stesso tema in due parole diverse, largamente usata in tutta la poesia medievale (e ritrovabile sia nella Scrittura sia nei classici). Dante se ne serve spesso (si veda più oltre al v.36: più volte vòlto). In questo caso, il tema viene mantenuto, mentre muta il significato, in quanto selva è proprio, selvaggia invece è metaforico (Mattalia). I tre aggettivi sono disposti in crescendo: selvaggia indica la condizione disumana del luogo, aspra il suo intrico, forte infine (che nell'uso dantesco vale spesso «difficile») la difficoltà di uscirne (Buti).
- che nel pensier...: tale che solo al pensarci rinnova lo sgomento provato. La paura nasce dal ridestarsi della coscienza, che si vede intorno un tal luogo. Il verbo «rinnovare», detto di un sentimento che si ripete al ricordo, è il primo grande debito virgiliano (cfr. Aen. II 3: «tu mi chiedi di rinnovare ["renovare"] un dolore indicibile») che sarà ripreso in modo esplicito in XXXIII 4-5
Tant'è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v' ho scorte.
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- Tant'è amara...: tale condizione (la selva) è tanto amara che la morte, «ultima delle cose terribili» (Boccaccio), lo è poco di più. Si veda il passo di Conv. I, VII 4: «ciascuna cosa che da perverso ordine procede... è amara». Dante qui rovescia il paragone biblico, dove il peccato è raffigurato peggiore della morte («Trovo che amara più della morte è la donna»: Eccl. 7, 27), perché, come dice Pietro, finché si è in vita può ancora venire un rimedio da Dio. L'aggettivo «amaro», proprio del gusto, è riferito all'intelletto, che giudica amaro il vizio quando ne prende coscienza. È questo il primo esempio dell'uso pregnante e non consueto dell'aggettivo (amara infatti non è proprio detto di selva), che sarà caratterizzante di tutto lo stile della Commedia. Si osservi infine l'allitterazione tra amara e morte, già biblica, che ha lunga tradizione nella poesia medievale.
- ma: intendi: per quanto sia così duro il parlarne, tuttavia lo farò...
- per trattar: per poter trattare del bene che vi trovai (cioè la salvezza, che giunge con Virgilio), e così poter indicare a tutti la via di tale salvezza, che è l'intento del poema. E' sembrato strano che si potesse trovare un bene in una simile selva, figura del male; pure il massimo dei beni (la salvezza, la redenzione) viene all'uomo, nella teologia cristiana, proprio nella sua condizione più tragica di lontananza da Dio (si veda il Boccaccio: «per lo qual bene niuna altra cosa credo sia da intendere, se non la misericordia di Dio»). Coerentemente a tale concezione, il viaggio della Commedia, che terminerà nell'Empireo, ha il suo punto di partenza nella selva oscura.
- dirò...: parlerò prima della altre cose; allude alle fiere, che incontrerà tra poco; esse sono definite altre cose in quanto contrapposte al bene che trovò nella selva (Parodi).
Io non so ben ridir com'i' v'intrai,
tant'era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
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- pien di sonno: è il «sonno mentale» (Boccaccio) o dell'anima (come dell'anima è lo smarrimento). Il sonno è usato frequentemente nella Bibbia come figura del peccato, in quanto in esso la mente è ottenebrata, e la coscienza come addormentata; cfr. Rom.13, 11: «è ormai tempo di risvegliarvi dal sonno»; e si veda Agostino: «il sonno dell'anima è dimenticarsi del suo Dio» (Enarr. in Ps. 62, 4; Mazzoni). Sul piano filosofico, l'etica aristotelica, ripresa da San Tommaso e da Dante, non ammette che l'intelletto possa scegliere deliberatamente il male; esso lo sceglie appunto «per errore», in quanto offuscato, credendolo cioè un bene. La figura iniziale dell'uomo smarrito nella selva viene qui a completarsi, chiudendo il cerchio dell'immagine. Alla selva oscura corrisponde il sonno che ottenebra la mente. Nella terzina seguente interviene il cambiamento.
- la verace via: corrisponde alla diritta via del v. 3. Egli ha abbandonato dunque la via diritta nel momento in cui è entrato nella selva. Cfr. Purg. XXX 130: e volsi i passi suoi per via non vera; in quel canto si narrerà in modo preciso ed esteso quello che qui è appena accennato (qui infatti l'esperienza può essere quella di ogni uomo, là si tratterà della persona storica di Dante, di cui è solo allora fatto il nome). Vedi anche il già citato capitolo del Convivio (IV, XII 18): «ne la vita umana sono diversi cammini, de li quali uno è veracissimo e un altro è fallacissimo».
Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m'avea di paura il cor compunto,
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- Ma: la congiunzione avversativa introduce il tema, contrapposto alla selva e all'oscurità, del colle e del sole; entra così, nella triste condizione umana finora desritta, la possibilità della speranza.
- al piè d'un colle: il colle rischiarato dal sole rappresenta la via della virtù, una via in salita, illuminata dalla luce di Dio, che si contrappone alla valle (o selva) oscura del peccato. In realtà la selva, il colle, il sole prefigurato già qui dall'inizio, in un solo paesaggio, i tre regni che Dante visiterà nel suo viaggio. Il colle quindi, che preannuncia il monte del purgatorio, vuole figurare la via della felicità naturale dell'uomo (cfr. vv. 77-8), felicità che si raggiunge con le virtù morali e intellettuali, secondo la dottrina esposta nella Monarchìa (III, XV 7-8). Tuttavia questo senso allegorico, che sarà precisato alla fine del Purgatorio, qui è ancora velato, mantenuto nella interminatezza del colle soleggiato, che tutti intendono rappresentare la via del bene, tanto più che tale immagine è diffusa in questo significato attraverso la Scrittura: «Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo?» (Ps.23, 3).
- valle: valle è la selva del v. 2, con la quale si identifica, come si deduce da XV 50-1 (mi smarri' in una valle...); essa aggiunge a quella prima immagine il senso del luogo basso, in discesa, qui in evidente rapporto all'altezza del colle. Il termine è biblico: «in una valle di lacrime» (PS. 83, 7).
- compunto: punto, cioè colpito, afflitto; dal latino «compungere»: è vocabolo scritturale e indica sempre in Dante l'effetto di un sentimento doloroso che può essere di paura (in questo luogo), di colpa, (X 109), di pietà (VII 36).
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de' raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
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- guardai in alto: per primo l'antico commentatore Benvenuto da Imola sottolinea questo gesto, che è decisivo: l'uomo smarrito nella selva, che ha finora guardato in basso alle cose temporali, alza il capo verso le cose alte ed eterne. Il guardare in alto è proprio dell'uomo, e qui segna – dopo il mi ritrovai iniziale – il punto preciso in cui comincia il nuovo cammino. Cfr. Ps. 120, 1: «Levai i miei occhi verso i monti, da cui verrà per me un aiuto». L'altezza del colle richiama lo sguardo, e la nuova dimensione-l'altezza appunto, che è speranza e quindi salvezza-entra ormai nel verso e nella storia che qui si narra.
- le sue spalle: «la sommità del giogo» (Buti); letteralmente l'incurvatura del colle presso la sua cima.
- vestite già: ancor prima che sorga il sole, già si illuminano le cime dei monti (la metafora è virgiliana: «Qui il cielo più ampio riveste ["vestit"] i campi di luce / purpurea»: Aen. VI 640-1). L'ora mattutina indicata da questi versi è un primo segno che le cose volgeranno al bene (cfr. 41-3); quella luce sulla cima è infatti già una risposta allo sguardo che si è levato verso l'alto.
- pianeta: il sole. Secondo l'astronomia tolemaica seguita da Dante, il sole è uno dei sette pianeti che girano intorno alla terra, la quale è il centro dell'universo. Il paragone del sole con Dio è proprio di tutta la letteratura cristiana e centrale in tutta la Commedia. Cfr. già Conv. III, XII 7: «Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che'l sole». In questo modo discreto e quasi inavvertito (si vedono i raggi ma non la loro fonte) la presenza di Dio entra nel poema.
- che mena dritto: conduce per la via diritta (dritto è predicativo) – dando l'orientamento – gli uomini, ogni uomo (il pronome altrui ha in antico questo valore generico; cfr. oltre, v. 95); è evidente il richiamo alla diritta via smarrita dall'uomo che è sulla scena, che qui ritrova il suo orientamento.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pieta.
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- fu...quieta: si acquietò, si calmò.
- lago del cor: «è nel cuore una parte concava, sempre abbondante di sangue, ne la quale, secondo alcuni, abitano gli spiriti vitali...ed è quella parte ricettacolo d'ogni nostra passione» (Boccaccio).
- la notte: durante la notte; vuole indicare metaforicamente tutto il tempo del traviamento ora descritto, passato appunto nel sonno e nell'oscurità della selva. Per la contrapposizione notte-giorno, peccato-grazia, si veda almeno uno dei molti passaggi scritturali: «La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rom. 13, 12).
- pieta: affanno, tormento (tale da indurre a pietà); «ed è colore rettorico che si chiama denominazione, quando si pone lo susseguente per lo precedente», cioè l'effetto per la causa (Buti).
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l'acqua perigliosa e guata,
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- E come quei...(22-7): come colui che, uscito dal mare in tempesta (pelago), e giunto a riva, con il respiro (lena) ancora ansante per lo sforzo, si volge indietro... È la prima similitudine del poema, divisa, come molte altre, in due precise terzine: la prima rappresenta la figura, la seconda il figurato. E già l'evidenza realistica e l'intensità del significato sono quelle del Dante maggiore. Come sempre, il gesto fisico, preciso fin nei particolari – il respiro affannoso, lo sguardo intenso e atterrito (guata) – indica il gesto morale dell'uomo che guarda indietro con interno spavento all'abisso del male a cui è sfuggito.
- guata: il verbo guatare, che negli antichi equivale a «guardare», spesso in Dante, che lo usa sempre in rima, significa un guardare fisso e intenso (cfr. VI 6; Purg. V 58; ecc.).
così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
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- ch'ancor fuggiva: il corpo era fermo, ma nell'animo era ancora in fuga: «ancora scampato esser non gli parea, ma come nel pericolo fosse ancora, di fuggire si sforzava» (Boccaccio). È il punto più alto del periodo, e i due accenti (ancòr, fuggìva) lo sottolineano. Osserviamo che è già presente qui quell'acutezza di penetrazione dell'animo umano per cui si distingue il verso di Dante.
- passo: vale «luogo di passaggio», spesso con senso pregnante, di decisivo o pericoloso. Qui è riferito alla selva e corrispondente infatti, nella similitudine, all' acqua perigliosa a cui guarda il naufrago scampato. Che la selva sia un luogo mortale, si dirà nella relativa che la determina.
- che non lasciò...: che (soggetto) non lasciò mai sopravvivere alcuno (che vi restasse). Il passo è controverso. Seguiamo l'interpretazione sintattica più generalmente accettata (anche dagli antichi), che meglio sembra accordarsi con il contesto. La vita peccaminosa (la selva) finisce sempre per uccidere chi vi s'indugia (cfr.Pietro di Dante: «il quale passo non ha mai lasciato viva un'anima che in esso perseeverasse»). Quindi, uscendone, Dante è scampato alla morte (si confronti il paragone del naufrago, che solo così viene perfettamente a coincidere con il paragonato). Altri intende: che (oggetto) lasciò mai da vivo, cioè con il corpo. Ma sembra inequivocabile dal testo che da tale selva si possa, e si debba, uscire in questa vita (cfr. v. 93 in questo canto e XV 52). La stessa obiezione si può muovere a chi intende passo come «passaggio tra la selva e il colle». Da queste due ultime interpretazioni risulterebbe infatti che nessun vivo è riuscito mai a passare dalla selva al colle, cioè a compiere quel cammino di conversione che è il senso di tutta la Commedia, qui presentato in figura.
Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.
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- piaggia: indica il terreno in leggera salita tra la pianura e l'inizio della collina vera e propria. Certamente anche questa figura (la piaggia diserta) ha un suo valore metaforico, come tutto questo paesaggio, dove si svolge il cammino della vita umana. E sembra che esso si ritrovi in alcuni passi (citati dal Mazzoni, Commento, p.89) di Sant'Agostino e di Ugo di San Vittore, nei quali il deserto è appunto il mondo dove l'uomo cammina sforzandosi di salire verso il bene, secondo la figura scritturale dell'Esodo. Ne ricordiamo una soltanto: «Dalla valle del pianto dobbiamo... sempre tendere a salire verso l'alto. Questa vita mortale è infatti come un deserto» (Ugo di San Vittore, Miscellanea, 1. V, tit. 82).
- sì che'l piè fermo...: «Mostra l'usato costume di coloro che salgono, che sempre si fermano più in su quel piè che più basso rimane» (Boccaccio). Oltre a questo senso letterale, già gli antichi, a cominciare da Pietro, videro concordemente nell'immagine la ben nota metafora agostiniana del piede come affetto dell'anima (Agostino, Commenti ai Salmi 9, 15); «L'amore è il piede con cui l'anima procede» (Benvenuto). Come il corpo ha due piedi, così anche l'anima, con i quali va verso il bene o verso il male. Il piede più basso, e più saldo, rappresenterebbe quindi l'affetto alle cose terrene che ancora aggrava Dante, mentre quello che avanza – «cioè l'amore che tendeva alle cose celesti» (Benvenuto) – è ancora esistente. Recentemente il Freccero (Dante, pp. 53 sgg.), osservando che il piè fermo («pes firmior») era per gli scolastici il sinistro, e che i due piedi dell'anima sono, per Alberto Magno e altri, l'intelletto e l'affetto, intende che il piede sinistro (l'affetto) ancora volto alla terra non sia in grado di avanzare, e il pellegrino cammini quindi zoppicando per la pioggia. È molto probabile – dato il contesto – che un significato allegorico come quelli proposti, del resto simili, sia racchiuso nel verso, altrimenti gratuito e poco chiaro; significato che i contemporanei potevano agevolmente cogliere, e noi non più.
Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
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- Ed ecco...: forma d'attacco frequente in Dante (che corrisponde all'evangelico «Et ecce») per introdurre un avvenimento improvviso: una nuova e inattesa figura appare sulla scena. Nei vv. 13-30 c'è stata come una pausa di distensione: nel paesaggio solitario, il colle luminoso ispira conforto. Alcune parole – un poco queta, posata un poco – indicano tale riposo, sia pur provvisorio e incerto. Questo attacco riporta in primo piano il timore.
- l'erta: la salita del colle, alla fine della piaggia.
- una lonza: felino di pelo macchiato, come il leopardo e la pantera (3 sono gli animali con tale caratteristica, secondo Benvenuto: «lynx, pardus et panthera»). Questa lonza (in latino medievale «leuncia», francese antico «lonce») corrisponde alla «maculosa lynx» dell' Eneide (citata da Pietro) la cui pelle avvolge la compagnia di Venere (Aen.I 323), sembrando evidente il rapporto tra il pel macolato e il maculosa virgiliano. Sappiamo anche che una lonza era tenuta in gabbia a Firenze nel 1285 presso il palazzo del Comune, ed era quindi un animale familiare ai fiorentini di quel tempo, che Dante poteva qui descrivere per ricordo personale. La fiera, insieme al leone e alla lupa che appariranno tra poco, impedisce a Dante il cammino verso la salvezza. Il significato delle tre fiere è evidentemente allegorico: esse rappresentano le inclinazioni peccaminose che ostacolano l'uomo sulla via del bene; per noi, come per i più, lussuria (lonza), superbia (leone) e avarizia (lupa).
- presta: veloce; «tale affetto subito viene e subito passa nell'animo» (Buti); la lonza è rappresentata nella sua leggerezza e velocità, perché volubile e rapido è il vizio che raffigura.
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.
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- partia: allontanava.
- volto: mia vista.
- più volte vòlto: è la stessa figura retorica usata al v. 5.
Temp'era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino
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- Temp'era...: una nuova pausa di speranza, sparsa di parole dolci e luminose. Il tempo mattutino e la stagione primaverile, ambedue figure dell'inizio della vita (e sono infatti, come si riteneva, e come Dante dirà nella terzina seguente, l'ora e la stagione della creazione), inducono a sperare. Quella di Dante è appunto una ripresa della vita, dopo una stagione di morte. L'avanzare della speranza avviene per gradi, lentamente, finché prenderà corpo nella figura concreta di Virgilio.
- dal principio: complemento di tempo retto dalla preposizione da (cfr. XV 18: da sera, e più volte).
- quelle stelle: la costellazione dell'Ariete, nella quale il sole si trova all'inizio della primavera, stagione in cui si credeva fosse avvenuta la creazione del mondo (cfr. Macrobio, in Somn. Scip. I, XXI, e Brunetto Latini, Tresor I 6, 3). Essa è anche, come ricorda Pietro, la stagione della redenzione.
- quando l'amor divino...: quando Dio nella sua essenza di amore (l'amore è il solo motivo della creazione; cfr. Par. VII 64-6) mise in moto (il movimento ha appunto inizio con il tempo, cioè con il mondo) per la prima volta (di prima) i corpi celesti (quelle cose belle; cfr. XXXIV 137). Il ricordare a questo punto l'atto di puro amore che dette vita e moto ai corpi celesti, cioè a tutto l'universo visto nella sua bellezza (cose belle), dà alla scena drammatica che qui si svolge lo sfondo che le è proprio, quella dimensione di eterno amore in cui è inserito il singolo dramma di ogni uomo.
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
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- sì ch'a bene sperar...(41-43): sì che l'ora del mattino e la stagione di primavera erano motivo per me di sperar bene riguardo a quella fiera dalla pelle screziata.
- gaetta: gli antichi spiegano in genere dal provenzale «gai»: amabile, leggiadro; ma è preferibile l'interpretazione dal medio-provenzale «caiet»: screziata, macolato (che del resto ha la stessa origine dell'italiano «vaio»: spruzzato di macchie scure, dal latino «varius»), sia per il richiamo esplicita che di tutta l'espressione farà Dante stesso in XVI 108: la lonza a la pelle dipinta. Solo il pelo screziato, d'altronde, definisce la fiera, come l'espressione richiede.
l'ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.
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- ma non sì che paura...: ma non tanto forte fu quella speranza, ch'io non mi spaventassi...; la paura prende quindi il sopravvento.
- la vista che m'apparve: «infatti la sola vista di un superbo atterrisce» (Benvenuto).
Questi parea che contra me venisse
con la test'alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l'aere ne tremesse.
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- Questi parea...: la terzina rappresenta al vivo il leone nel suo atto superbo: «l'altezza della testa è l'arroganza della superbia, la rabbiosa fame è lo spietato nocimento che fa la superbia in verso il prossimo» (Buti); per la test'alta, tipica del superbo, cfr. Par. IX 50 e anche Purg. XII 70.
- che l'aere ne tremesse: che l'aria tremasse per il timore di quell'atto; tremesse è latinismo da tremere (verbo usato da Dante in Ep. VI 24).
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
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- Ed una lupa: raffigura il terzo e più grave peccato, l'avidità insaziabile dei beni di questo mondo (cfr. Purg. XX 10-2).
- che di tutte brame: che nella sua magrezza sembrava carica di tutte le bramosie umane. Gli altri due animali sono raffigurati, sia pur brevemente, nell'atto e nell'aspetto. Della lupa si indica solo la magrezza, che tuttavia riesce a esprimere, nell'intensità con cui è costruita la frase, la terribile forza presente in tutte le brame del mondo.
- e molte genti...: cfr. 1 Tim. 6, 10: «La cupidigia è infatti la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni...si sono da se stessi tormentati con molti dolori». Con queste parole si introduce il motivo, non più personale, ma pubblico e civile, dell'intera umanità afflitta da tale flagello.
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de l'altezza.
54
- mi porse tanto di gravezza: tanto di è costrutto partitivo: mi dette tanta gravezza, pesantezza, da non riuscire più a salire (v. 54). Che il peso del corpo e del peccato aggravi e tragga verso il basso l'anima, è immagine comune nella tradizione cristiana.
- vista: aspetto (o «sguardo»; quello del lupo era infatti ritenuto ipnotico: SD LIX, 1985, pp.1-14). I tre accenti su vocale chiusa (paura-uscia-vista) fanno balzare avanti il terrore provocato dalla lupa.
- ch'io perdei...: questo verso ha un andamento e un tono definito. Sembra che tra la speranza e la paura, che finora si sono alternate, la prima sia ormai irrimediabilmente sconfitta. Dei tre animali, quello che sconfigge veramente l'uomo è infatti l'ultimo. È questo il vizio più radicato e più temibile, origine di tutti gli altri secondo la Scrittura (cfr. nota al v. 51). E vedremo come per Dante esso sia alla base della rovina di tutta la comunità umana. Dietro la storia del singolo, c'è infatti la storia pubblica e politica della «hamana civilitas» che Dante vuol condurre alla felicità del disonore e del dolore che la Commedia si propone di denunciare e di risanare.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;
57
- E qual è quei...(55-60): come l'avaro, che accumula beni, e viene il momento che gli fa perdere ciò che ha acquisito, e piange e si dispera in cuor suo... Questa seconda similitudine vuole indicare lo stato d'animo di chi ha perso tutto; e segue infatti al v.54, che sembra non ammettere via d'uscita. È una delle molte similitudini che potremmo chiamare psicologiche, con cui Dante raffigura gli stati e i moti dell'animo suoi e di altri, e che accompagnano tutto il racconto della Commedia. Può darsi, come suggerisce Benvenuto, che egli abbia qui in mente alcuni «fallimenti» di ben noti mercanti fiorentini avvenuti tra il 1280 e il 1300, il cui aspetto era rimasto impresso nella sua fantasia. Il Contini (Un'idea, p.138) ha riferito questa immagine al giocatore, con rimando a Purg. VI 1-3. Ma la situazione appare ben altrimenti tragica, e del resto l'avidità insaziabile dell'avaro è il tema proprio della lupa.
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove 'l sol tace.
60
- tal: così intimamente attristato.
- sanza pace: «che non ha essa mai pace, né lascia averla ad altri» (Scartazzini); sanza è forma antica fiorentina (NTF, pp.53-7).
- là dove 'l sol tace: nella selva, dove regna l'oscurità totale. Il traslato dalla vista all'udito ('l sol tace), di origine virgiliana ("i silenzi sereni, cari alla tacita luna": Aen. II 255), è una delle veloci metafora che Dante spesso chiude in un verbo e che danno forza al suo linguaggio (cfr.V 28: d'ogne luce muto).
Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
63
- Mentre ch'i' rovinava...: a questo punto, quando tutto sembra perduto, entra in scena un elemento nuovo: l'uomo solitario in balia delle fiere tra la selva e il colle non è più solo, qualcuno si è mosso a salvarlo. E il personaggio che giunge in suo soccorso porta due novità fondamentali: la prima è la voce umana, che si leva per la prima volta e spezza l'atmosfera di sogno finora dominante; la seconda è la realtà storica, con nomi e date, che irrompe in quel mondo irreale e ne cambia l'aspetto. Con Virgilio il tempo della Commedia entra in pieno nella storia, e la visione si situa in quell'ambito particolare, di realtà databile pur sullo sfondo dell'eternità, che ne costituisce il carattere specifico e unico.
- rovinava: precipitavo; il ritornare indietro nella selva è la rovina della speranza, e quindi della vita. Cfr. Conv. IV, VII 9: «La via...de li malvagi è oscura. Elli non sanno dove rovinano», che traduce Prov. 4, 19: «via impiorum tenebrosa; nesiunt ubi corruant».
- chi...fioco: uno che, per aver taciuto per lunghi anni, sembra non aver più voce. Così intendono tutti gli antichi questa frase tanto discussa e anche noi riteniamo che sia questo il solo modo di spiegarla. Sembra infatti inaccettabile l'accusa di illogicità (Dante non può sapere che Virgilio è fioco finché non parla; il silenzio non rende fiochi ecc.), per cui tale lettura sarebbe comprensibile solo in funzione dell'allegoria. In realtà che un uomo emerso da secoli di silenzio sembri non aver fiato per parlere è una figurazione che ha una immediata comprensibilità sul piano poetico (e per gli antichi, come appare dal commento del Buti, aveva anche un fondamento scientifico), e corrisponde sia al senso letterale (Virgilio ha taciuto per secoli) sia a quello allegorico (la voce della ragione è rimasta a lungo muta nell'uomo smarrito nel peccato). L'altra spiegazione proposta, che intende fioco in senso visivo ("pallido", "scolorito": come le ombre appunto e come in Vita Nuova XXIII, Donna pietosa 54), comporta la grave difficoltà di dover interpretare metaforicamente anche l'altro elemento della frase: per lungo silenzio (che significherebbe: «per la lunga oscurità» [silenzio del sole], o «per lunga assenza»); cosa che sembra una forzatura eccessiva quanto inutile del testo. Come sempre Dante sceglie un solo elemento per caratterizzare una persona: in questo caso il fioco (e il lungo silenzio che lo precede) serve a suggerire tutto l'aspetto del personaggio che qui appare: egli affiora da un'epoca e da un luogo remoti e non ha ancora la forza di esprimersi nella parola, che dà realtà e vita concreta all'uomo.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
66
- gran diserto: la piaggia sembra allargasi infinitamente. Che il deserto rappresenti il mondo (cfr. nota al v. 29) è confermato da Purg. XI 14: per questo aspro diserto.
- Miserere: abbi pietà. Forma latina, comune nella liturgia, e in uso ancora oggi presso il popolo (è l'inizio del salmo 50, la preghiera di penitenza per eccellenza; cfr. Purg. V 24; ma si veda anche Aen. VI 117, dove Enea si rivolge alla Sibilla con questa stessa parola). Questo grido di pietà, reso più inteso dal silenzio che lo circonda, è la prima voce umana che risuona nel poema.
- ombra: cioè anima di un morto; è il termine virgiliano, usato da Dante in alternativa a spirito o anima per tutto il poema. Anche il motivo del dubbio è nell' Eneide: cfr. III 310-1, quando Andromaca scorge Enea e non sa se sia morto o vivo: «Il vero tuo aspetto mi porgi? sei tu presente veramente a me?/Sei vivo tu, progenie divina?».
- omo certo: uomo con un corpo vero e proprio, cioè vivo.
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
69
- Non omo, omo già fui: ora sono un'ombra (non uomo in carne e ossa), un uomo lo fui in altro tempo (e quindi era giustificato il dubbio di Dante al v. 66). E subito l'ombra determina nei suoi limiti geografici e storici quella sua vita umana. La precisione dei nomi e delle date ci coglie di sorpresa, in questa scena finora del tutto indeterminata. Ma è elemento essenziale del racconto dantesco: questo personaggio non è un essere astratto, una figurazione allegorica, bensì ha una sua concreta e ben individuata realtà storica. Virgilio rappresenta nella Commedia, come meglio si chiarirà in seguito, la luce della ragione umana che ha il compito di guidare gli uomini al bene, nei limiti della natura; ma assolve questa funzione simbolica senza cessare di essere se stesso, quel poeta Virgilio che nacque a Mantova e visse sotto Augusto; anzi l'assolve proprio in quanto è se stesso, il punto più alto e quasi l'emblema di quel mondo antico che giunse fin dove la ragione può condurre l'uomo senza la luce della fede, fino a presentire e come profetizzare la realtà cristiana. Questo Virgilio di Dante, quello che egli amò e predilesse, e in questa prospettiva soltanto sarà comprensibile nei vari atteggiamenti che assumerà, sempre più determinando la sua complessa realtà, lungo le prime due cantiche.
- parenti: genitori (è il senso del vocabolo latino «parentes»).
- lombardi: la Lombardia indicava nel Medioevo tutta l'Italia settentrionale in genere; al tempo di Virgilio tale denominazione (derivata da Longobardia) ovviamente moderno, senza preoccuparsi dell'anacronismo – concetto allora ignoto – come altrove chiama Franceschi i Galli (Conv. IV, V 18) e Arabi i Cartaginesi (Par. VI 49).
- mantoani per patrïa: qui si precisa il luogo nativo (Virgilio nacque ad Andes, presso Mantova) come in seguito faranno quasi tutti i personaggi che Dante incontrerà nel suo cammino; come se tale luogo-la città, punto centrale di riferimento del mondo civile dantesco-fosse per la persona il primo segno di identificazione.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
72
- sub Iulio: al tempo di Giulio Cesare, che veramente aveva allora (nel 70 a.C.) solo trent'anni e non aveva iniziato la sua vita pubblica; ma Virgilio vuol significare che nacque quando già era vivo e vicino al potere quel Cesare che doveva fondare l'impero, così importante per lui e nella concezione di Dante, come si vedrà. Era tuttavia troppo tardi – come precisa dopo – per poter dire di aver vissuto sotto il suo principato, in quanto Virgilio aveva soltanto ventisei anni quando Cesare fu ucciso, nel 44 a.C., e infatti dirà subito: vissi...sotto...Augusto.
- buono: di grande valore, eccellente; termine spesso usato in questa accezione per uomini eminenti nella vita pubblica (cfr. XXII 52,Purg. XVIII 119 e altrove).
- nel tempo de li dèi...: Virgilio morì nel 19 a.C. Il tempo storico viene definito in funzione della fede. E già Virgilio implicitamente annuncia qui il suo destino di esclusione dalla verità, che dichiarato più oltre (vv.124-6) resterà il tema fondamentale del suo personaggio e insieme di ciò che esso raffigura. Per l'espressione falsi e bugiardi cfr. Agostino, Città di Dio II 29: «dèi falsi e ingannatori».
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.
75
- Poeta fui...: Virgilio si definisce dal nome che, come Dante dirà altrove, più dura e che più onora (Purg. XXI 85). Prima ha detto omo già fui, ora precisa: poeta fui. Dante riconosce in lui prima di tutto il poeta, proprio nel momento in cui egli viene a salvarlo. In tale situazione, la salvezza non è annunciata – come potrebbe attendersi la nostra cultura moderna – dal comparire di un angelo o di un santo, ma da un poeta, e un poeta del tempo de li dèi falsi e bugiardi. Ciò deve farci riflettere sulla funzione che la poesia – e il mondo antico che a essa corrisponde – ebbe nella vita e nella storia di Dante. Il pellegrino smarrito nella selva è infatti un poeta, che ricorda il suo bello stilo come titolo alla salvezza (I 87), e tutta la storia di redenzione che qui si compie, si compie di fatto attraverso un'opera poetica.
- giusto: Enea, figlio di Anchise, che Virgilio chiama il più giusto fra gli uomini (Aen. I 544-5: «di cui nessuno più giusto ["iustor"] / né più devoto né in guerra fu più forte»). «Giusto», come nella Bibbia, indica colui che opera secondo legge divina.
- che venne di Troia: «che primo dalle spiagge di Troia / giunse...in Italia» (Aen. I 1-2).
- superbo Ilïón: riprende alla lettera un'espressione dell' Eneide: «Cadde / Ilio superba» (Aen. III 2-3), dove Ilio indica la rocca della città. Virgilio parlando cita se stesso, e ciò lo caratterizza in modo ancora più specifico della data e del luogo di nascita.
- Ilïón: l'accento tonico sull'ultima sillaba era attribuito, nel Medioevo, ai nomi di origine greca o barbara, cioè non latina.
- combusto: bruciato, incendiato; latinismo, come già parenti, forme che contribuiscono a caratterizzare la lingua di Virgilio.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch'è principio e cagion di tutta gioia?».
78
- Ma tu...: il ma iniziale, come spesso in Dante, introduce un nuovo argomento o una nuova situazione. Virgilio infatti, dopo aver parlato di se stesso, affronta il problema di Dante.
- noia: pena, tormento; senso antico di questa parola, molto più forte di quello moderno (cfr. Vita Nuova XV, Ciò che m'incontra 4: «Fuggi, se 'l perir t'è noia»); indica la condizione di chi è nella selva; per il senso e per l'uso della stessa clausola (tanta noia) cfr. Cavalcanti, Quando di morte 3 (Contini).
- dilettoso monte: il colle; dilettoso, perché è la via della felicità (cfr. nota al v. 13).
- principio e cagion: è la definizione aristotelica di felicità che ci chiarisce quindi il significato di questo colle: cfr. Aristotele, Eth. Nic. I, XVI 1102 a: «consideriamo la felicità come principio e causa di tutti i beni»; e la precisazione di Tommaso nel commento: «la felicità è il principio di tutti i beni umani». Si tratta quindi della felicità nei limiti della natura, quella che corrisponde allo stato dell'uomo nel paradiso terrestre (Mazzoni).
- di tutta gioia: se si tengono presenti i due testi sopra riportati, sembra evidente che questa espressione si debba intendere «di ogni gioia», non «di gioia perfetta, intera», che è la spiegazione più diffusa; «gioia perfetta» in Dante non può essere del resto che la visione di Dio.
«Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos'io lui con vergognosa fronte.
81
- Or se' tu quel Virgilio...(79-81): il prorompere di questa esclamazione è il primo esempio della forza drammatica della Commedia. Dante non risponde alla domanda, sembra dimenticare la sua situazione: il fatto che egli si trovi davanti quel Virgilio che tanto aveva amato prevale su tutto, e il suo grido di sorpresa e di amore risuona in quel luogo simbolico con sorprendente intensità umana. Proprio da questo carattere costante di novità e sorpresa, che corrispondono alla totale imprevedibilità della più profonda realtà umana, mai legata e costretta in uno schema prefissato, derivano l'assoluta credibilità e la forza del racconto dantesco.
- fonte...fiume(79-80): l'immagine del fiume per indicare l'eloquenza è propria di tutta la poesia classica. Si veda in particolare Donato, nel commento a Terenzio: «Omero, che è la fonte abbondantissima di ogni poetica» (cit. Pézard, Dante, p.352).
- vergognosa: dei tre significati di stupore o reverenza, pudore, e vergogna in senso moderno, propri della parola «vergogna» nel linguaggio dantesco (cfr. Conv. IV, XXV 4-10 e Purg. XXXIII 31), il primo e l'ultimo sono ambedue corrispondenti alla situazione di Dante in questi versi; tuttavia l'ultimo («paura di disonoranza per fallo commesso», Conv. IV, XXV 10) sembra qui prevalere: egli si trova davanti il venerato maestro mentre è in così penosa condizione.
- fronte: sta ad indicare tutto il volto, oppure, come dice il Buti: «con la fronte inchinata, che significa vergogna».
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m' ha fatto cercar lo tuo volume.
84
- onore e lume: onore, perché con la sua opera li onora in quanto poeti (cfr. IV 73); lume, perché è per loro luce e guida nel poetare (cfr. Purg. XXI 95-6).
- vagliami: mi valga ora a ottenere il tuo aiuto.
- lungo studio...grande amore: le due parole sono in Dante profondamente legate. Si veda Conv. II, XV 10: «studio...è applicazione de l'animo innamorato de la cosa a quella cosa» e Conv. III, XII 2-4.
- cercar: ricercare in ogni sua parte, leggere con minuziosa attenzione (cfr. Conv. I, VII 8: «chi cerca bene le scritture» e Par. XII 121-2). Dante stesso ci dirà che sapeva tutta quanta l'Eneide (XX 114).
Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m' ha fatto onore.
87
- 'l mio autore: la massima autorità per me fra tutti i poeti; cfr. Conv. IV, VI 5: «'autore'...si prende per ogni persona degna d'essere creduta e obedita»; ma l'espressione ha qui un carattere personale impossibile a tradurre. Se si tiene presente che Dante nella Commedia vuole ripetere in qualche modo l'Eneide come poema profetico (un' Eneide cristiana), questi versi acquistano un valore tutto speciale.
- tu se' solo: le tre affermazioni crescono d'intensità. L'ultima è la più forte: con quel solo già Dante scarta d'un gesto tutti i suoi contemporanei, o di poco anteriori a lui, e getta quel ponte diretto tra sé e i classici antichi, facendosene consapevole continuatore, che è alla base della sua coscienza poetica (come apparirà chiaro nel canto del Limbo, IV 100-2) e di tutta la letteratura moderna. Queste tre terzine (vv. 79-87), rette da quella prima alta esclamazione, sono come un'appassionata dichiarazione di amore, escono in un certo modo dal contesto narrativo. La storia riprende al v. 88.
- lo bello stilo: s'intende qui lo stile tragico o illustre – proprio dell'Eneide – usato da Dante nelle grandi canzoni morali e dottrinali che già gli avevano dato fama. Secondo la dottrina del De vulgari eloquentia (II, IV 5-8) tre infatti erano gli stili poetici: illustre, mediocre e umile, corrispondenti ai tre ambiti o generi letterari tragico, comico ed elegiaco: soltanto il primo era dunque adatto ad argomenti elevati (armi, amore e virtù). Esso era proprio della tragedia, termine che comprendeva sia il dramma sia l'epopea, ma Dante lo estende anche alle canzoni, genere in cui tuttavia ben pochi eccellevano, tra i quali appunto egli stesso (per un'esauriente trattazione sull'argomento si può consultare la voce stili in Enciclopedia Dantesca V, a cura di V. Mengaldo). Il senso non cambia quindi molto se, come sembra opportuno, si allarga il valore strettamente tecnico del termine a quello di linguaggio poetico in quanto capace di esprimere le più grandi realtà umane, che è il vero debito di Dante verso Virgilio, o meglio ciò in cui Dante non riconosce altri predecessori o maestri.
Vedi la bestia per cu' io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».
90
- famoso saggio: saggi o savi chiama Dante gli antichi poeti in varie occasioni (cfr. IV 110; Purg. XXIII 8; XXVII 69; XXXIII 15); i poeti erano considerati maestri di sapienza, e «saggio» era quasi un termine tecnico per indicare il poeta (cfr. Vita Nuova XX, Amore e 'l cor gentil2). Ma si tratta, come qui appare chiaro dal contesto, di quella sapienza che è guida alla virtù, cioè di un valore etico, non di un valore intellettuale. Il termine resterà poi a designare Virgilio per tutto il poema.
- le vene e i polsi: indica ogni luogo in cui batte il sangue; la coppia può essere interpretata secondo la figura retorica dell'endiadi (le vene che battono nei polsi) o rispecchiare la distinzione già nota tra vene e arterie: le vene e le arterie che battono nei polsi. Tale tremito (per cui vedi già Vita Nuova II 4) indica l'effetto di una forte emozione: «triemano le vene e' polsi quando dal sangue abbandonate sono; il che avviene quando il cuore ha paura» (Boccaccio); cfr. anche XIII 63 e Purg. XI 138.
«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo' campar d'esto loco selvaggio;
93
- tenere: l'espressione «tenere iter» (tenere il viaggio) è virgiliana (Aen. IX 377), passata nella poesia volgare già in Guittone: «Or pensa di tenere altro viaggio» (ed. Egidi 48, 12).
- altro vïaggio: altra via, altro cammino. Non cioè la via diretta al monte, il corto andar, come si dirà più oltre (II 120): la lupa impedisce tale cammino (cfr. v. 95 e II 119-20) verso la virtù e la felicità, finché almeno non venga chi possa sconfiggerla e ristabilire l'ordine provvidenziale (cfr. oltre, 101-2). All'uomo è quindi necessaria una strada più lunga, che passa attraverso la conoscenza del peccato (l'inferno) e la deliberata purificazione e distacco da esso (il purgatorio). Ma queste brevi parole sembrano racchiudere un'intuizione più profonda. Che il problema cioè della lupa e del colle, vale a dire dell'umana felicità, non sia in realtà risolubile in termini umani, qui sulla terra; ma che sono oltre la storia, nell'eternità (l'altro mondo appunto), si possa attingere veramente tale situazione.
- campar: scampare.
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;
96
- altrui: pronome indefinito generico (cfr. v. 18): non lascia che alcuno passi.
- per la sua via: per la via che essa occupa; o anche: per la via propria dell'uomo, verso la felicità (Pietro di Dante); così anche Boccaccio: «sua: non della lupa, ma di colui che andar vuole».
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che pria.
99
- che mai non empie...: «E però dice Tullio in quello di De Paradoxo: ...in nullo tempo si compie né si sazia la sete de la cupiditate» (Conv. IV, XII 6). Cfr. anche Eccl. 5, 9: «L'avaro non si sazia di denaro». Il motivo era tradizionale negli scrittori cristiani, e ampiamente svolto nella Convivio, come del resto gli altri motivi dominanti del canto. Il verso di Dante lo fissa per sempre in termini irrevocabili.
- bramosa: il forte aggettivo, usato per animali affamati anche a VI 27 e XIII 125, richiama le brame del v. 49.
Molti son li animali a cui s'ammoglia,
e più saranno ancora, infin che 'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
102
- Molti son...: molti sono gli uomini a cui questo vizio si unisce; così Dante stesso: «Tutti prendono in moglie la cupidigia» (Ep. XI 14).
- 'l veltro: cane da caccia; la figura nasce dalla convenienza col testo; trattandosi di cacciare una lupa, occorrerà un veltro. Con questa immagine Dante indica un personaggio provvidenziale, inviato da Dio a ristabilire l'ordine del mondo, che egli attende e annunzia profeticamente anche in altri luoghi del poema (cfr. Purg. XX 13-5 e XXXIII 37-45): per noi certamente un imperatore.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
105
- non ciberà: non si nutrirà di («cibare» è usato transitivamente come in Jacopone, 92, 345; cfr. Contini in PD), cioè non desidererà.
- terra né peltro: né dominio di terre, né possesso di denaro (peltro, lega metallica, sta per "moneta"); cfr. Tesoretto 30-1: «ché per neente avete / terra, oro e argento».
- ma sapïenza...: ma solo i valori supremi che sono prerogativa di Dio (sapienza, amore e virtute indicano infatti le tre persone della Trinità: sapienza il Figlio, amore lo Spirito, e virtute, cioè potenza, il Padre; cfr. III 5-6). Queste indicazioni non contraddicono all'interpretazione politica del veltro, in quanto l'imperatore è per Dante ministro – senza intermediari (Mon. III, XV 15) – dell'azione provvidenziale di Dio nella storia. E la stessa connotazione iniziale del v. 103 è conferita a Cangrande in Par. XVII 84: in non curar d'argento né affanni. Si ricordi anche che caratteristica dell'imperatore, secondo il Convivio e la Monarchia, è proprio l'assenza di ogni desiderio terreno (in quanto tutto già possiede), per cui lui solo può vincere la «cupiditas», massimo ostacolo alla giustizia.
- nazion: nascita; accezione comune del termine nei nostri scrittori fino a tutto il Trecento.
- tra feltro e feltro: questa frase è la più oscura del passo, tuttora indecifrata. Tale oscurità è deliberatamente voluta da Dante, secondo le norme di tutto il parlar profetico, e quindi ben difficile da sciogliere. Tra le molte interpretazioni si preferisce una delle più antiche, condivisa da commentatori quali Jacopo, Lana, Pietro, Buti: feltro sta per "cielo", quindi, come sempre per Dante nel poema, l'uomo che ristabilirà l'ordine terreno nascerà dal rivolgimento dei cieli.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
108
- umile Italia: riprende ancora un'espressione dell' Eneide: «vediamo l'umile Italia» (Aen. III 522-3), ma l'aggettivo è assunto qui in senso diverso. In Virgilio ha valore geografico: bassa, cioè la costa piana della penisola italica, dove approda Enea. Qui vale invece «infelice», come la «misera Italia» di Conv. IV, IX 10, di Purg. VI 85, o la «misernda Ytalia» di Ep. V 5, scritta per l'elezione di Arrigo VII, re di Germania nel 1308. Anche questa terzina, avvicinata ai testi sopra citati in cui si tratta delle misere condizioni dell'Italia senza guida dell'imperatore, e soprattutto con il suo evidente appello all'impresa di Enea, giunto per volere divino alla terra di Roma, confronta l'interpretazione del "veltro".
- Camilla, Eurialo e Turno e Niso(107-8): sono giovani eroi virgiliani (Virgilio ricorda i suoi, e stabilisce così un parallello fra quel tempo provvidenziale e questo, e, forse, fra quel poema e questo), morti tutti nel conflitto fra Troiani e Latini per la supremazia nel Lazio. Camilla, figlia del re dei Volsci, e Turno, re dei Rutuli, combattevano contro Enea; Eurialo e Niso erano due giovani amici troiani. L'alternare i nomi dei vincitori e dei vinti accomunandoli nella stessa pietà e nella stessa gloria è un tratto insieme dantesco e tipicamente virgiliano. Alla terzina precedente, di linguaggio oscuro, si contrappone la precisione storica di questa, come a dare concreta realtà alla profezia.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
là onde 'nvidia prima dipartilla.
111
- per ogne villa: villa può significare città, o località in genere (cfr. XXIII 95 e Par.XX 39).
- là onde 'nvidia...: nel luogo da cui per la prima volta (prima vale primamente, cioè al momento della tentazione di Eva) l'invidia del diavolo la mandò nel mondo, a tentare l'uomo (cfr. Sap. 2, 24: «la morte è entrata nel mondo per l'invidia del diavolo»); il diavolo ci invidia, spiega Pietro di Dante, «poiché vede che per noi è aperto il cielo, che per lui fu chiuso» (cfr. Par. IX 127-9). Altri oggi intendono: 'nvidia prima, cioè Lucifero (contrapposto al primo amore detto di Dio, in III 6 e altrove), ma sembra che il testo biblico e l'assenza dell'articolo inducano alla prima interpretazione. 112 sgg. Finita la profezia, tenuta in tono alto e con riferimenti biblici, Virgilio si rivolge con linguaggio più sommerso e discorsivo (Ond'io per lo tuo me'...) a Dante, indicandogli la via giusta da seguire, e proponendosi come guida. Che il viandante, l'"homo viator" di questa storia, non si salvi da solo, ma accetti una guida da cui andar dietro (seguir, tener dietro – vv. 113 e 136 – sono i due verbi che aprono e chiudono il passo), è l'elemento fondamentale di tutta la Commedia. La sua importanza si rivelerà sempre più in seguito (si veda per es. X 61: Da me stesso non vegno...), ma è bene sottolinearla fin da ora, nel momento decisivo in cui Dante non solo accetta, ma richiede di essere condotto: io ti richeggio...che tu mi meni (vv.130, 133). È proprio questa cosciente richiesta che dà la possibilità di cominciare il viaggio (Allor si mosse: v. 136). Questa condizione tipicamente cristiana per cui nella salvezza dell'uomo Dio fa tutto, ma l'uomo deve accettare che lo faccia, sta alla base del poema dantesco (diremmo che lo caratterizza).
Ond'io per lo tuo me' penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
114
- discerno: giudico (cfr. XII 37); "discernere" ha quasi sempre in Dante il significato di "distinguere con la vista" (una sola volta, con l'udito: Par. VIII 17); ma comporta anche quello traslato (proprio dell'uso latino) di "giudicare", come qui e in XII 37.
- e trarrotti di qui: ti porterò via di qui, quindi in salvo, attraverso un'altra strada, non terrena, come ora dirà.
- per loco etterno: l'inferno (cfr. III 8); il pugatorio infatti terminerà alla fine del mondo.
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida;
117
- disperate: la disperazione è di fatto definitoria dell'inferno (cfr. III 9) e tornerà come tema continuo della cantica.
- antichi: perché ve ne sono fin dall'inizio dell'umanità.
- la seconda morte: la prima morte è quella del corpo (che avviene quando l'anima se ne distacca);la seconda è quella dell'anima, cioè la dannazione (che avviene al momento del giudizio). Questa spiegazione si appoggia a un testo biblico ben noto: «la loro parte sarà nello stagno di fuoco, che è la seconda morte» (Apoc. 20, 14) e ad un altro testo di Dante, dove "morte seconda" ha appunto il senso di dannazione (Ep. VI 5); preciso anche il riscontro col Cantico delle creature 31: «ka la morte secunda no 'l farrà male», dove si parla del giudizio che l'anima buona affronta dopo la "morte corporale". Questa spiegazione sembra dunque preferibile all'altra: l'annullamento totale, l'annichilimento (in questo caso grida varrebbe "invoca"), spiegazione prevalente per gli antichi, che si richiama a XIII 118 (Or accorri, accorri, morte!), a III 46 (Questi non hanno speranza di morte) e a testi autorevoli cristiani. Per un motivo contestuale la si preferisce a una terza interpretazione che intende la dannazione ultima, quella che avverrà al giudizio universale (quando il corpo morirà una seconda volta), interpretazione appoggiata soprattutto a testi agostiniani (Mazzoni); sembra infatti difficile che questo verso si riferisca a qualcosa di futuro, e non allo stato presente di sofferenza che Dante appunto è chiamato a vedere, in parallelismo con lo stato di speranza delle anime del purgatorio: gli uni sono contenti nel foco, e gli altri sono dolenti per la seconda morte che ora soffrono e lamentano con le loro grida.
- grida: lamenta, piange ad alte grida, oppure: proclama, attesa con le sue grida. "Gridare" transitivo significa genericamente "dire ad alta voce", ed è determinato dal suo complemento oggetto (Scartazzini).
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
120
- color che son contenti: le anime del purgatorio, che godono pur nel fuoco della purificazione, perché sono sicure – la speranza è qui certezza (cfr. Par. XXV 67-8: «Spene», diss'io, «è uno attender certo / de la gloria futura») – di giungere alla beatitudine. Come i primi soffrono le pene della seconda morte (dolenti), così i secondi godono la speranza della beatitudine (contenti).
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
123
- A le quai...: alle quali beate genti, cioè al paradiso.
- se: questo se, come notò il Poletto, ha un senso profondo: esso indica la libertà lasciata a Dante per il viaggio nel terzo regno, che è dunque di libera scelta, mentre quello nei primi due è presentato come necessario alla salvezza (XII 87 e Purg. I 62-3). Dante è già salvo, quindi, quando giunge alla cima del purgatorio (cfr. Purg. XXVII 140: libero, dritto e sano è tuo arbitrio); la contemplazione, e la partecipazione, della realtà divina appare come un di più che viene liberamente scelto.
- anima fia...: ci sarà un'anima più degna di me di svolgere questo compito. Il motivo è spiegato nella terzina seguente. Si annuncia qui la seconda guida del poema – Beatrice – che comparirà col suo nome nel secondo canto. Fin da principio Dante indica insieme le due forze che condussero realmente la sua vita, e che egli assume quindi come perfetta verità a guide del suo viaggio – dove realtà e figura costruiscono un insolubile nodo. Per il senso allegorico, cfr. Monarchìa III, XV 7: alla fruizione di Dio «la virtù propria non può giungere, se non aiutata dalla luce divina». La "virtù" propria dell'uomo è appunto raffigurata in Virgilio, e la «luce divina» in Beatrice.
ché quello imperador che là sù regna,
perch'i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua città per me si vegna.
126
- quello imperador...: Dio, che, come dirà più oltre, impera dovunque, ma ha in cielo il suo regno in senso proprio (vv. 127). L'immagine di Dio come imperatore dell'universo, mutuata dall'universale sovranità dell'imperatore terrestre, torna più volte sia nel Convivio sia nel poema, in quanto nel pensiero di Dante le due figure appunto si corrispondono.
- perch'i' fu' ribellante...: perché io non seguii la sua legge; in quanto, vissuto prima di Cristo, Virgilio non adorò debitamente a Dio (cfr. IV 37-9); la ribellione, in questo caso, non si manifesta nel far, ma nel non far (cfr. Purg. VII 25-7). È il tema di Virgilio, e di tutto il mondo antico, escluso dolorosamente da Dio, su cui torneremo nel commento del canto IV.
- sua città: il paradiso; la figura della città (la Gerusalemme celeste), per indicare la comunione dei beati nell'eternità, è della Scrittura (cfr. Apoc. 21, 2, 10-27), e ha una ben lunga tradizione sia nel linguaggio cristiano (si ricordi soprattutto la Città di Dio di Agostino) sia nelle arti figurative medievali.
- per me: da me, complemento di agente, retto da si vegna, forma passiva impersonale: che io vada (cfr. XXVI 84: per lui...gissi). E' costrutto latino dell'uso antico (cfr. Dec. I 1, 86: «da tutti fu andato»). Il per di agente è usuale in Dante, e nell'italiano antico in genere (cfr. il francese "par").
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge!».
129
- In tutte parti: si noti la precisione del linguaggio dantesco. Come l'imperatore terrestre, che su tutto esercita il suo potere, ma è re di uno stato particolare, così Dio governa l'universo, ma regna direttamente (sanza mezzo) in paradiso, cioè con la sola legge dell'amore(cfr. Par. XXX 122).
- oh felice...: Virgilio esprime qui quasi in un sospiro il suo desiderio inappagato, che sarà il tema del canto IV, lasciando così ben comprendere quale felice sorte è riservata a colui che egli ora viene a salvare.
- cu' ivi elegge: che egli vi destina; il cui complemento oggetto è dell'uso antico.
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch'io fugga questo male e peggio,
132
- per quello Dio: la risposta ha colto il senso del v. 129: questa invocazione in nome del Dio non conosciuto in vita, ma in qualche modo presagito da Virgilio, e ora a lui noto come termine irraggiungibile di felicità a cui potrà invece giungere chi ora lo prega, ha una forza drammatica di una densità tipicamente dantesca.
- e peggio: la dannazione eterna.
che tu mi meni là dov'or dicesti,
sì ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
135
- meni: porti
- la porta di san Pietro: la porta del purgatorio, ingresso della salvezza (l'angelo che la guarda con le due chiavi in mano è infatti vicario di Pietro: Purg. IX 127 e XXI 54); è preferibile intendere così, piuttosto che, come altri antichi e moderni, la porta del paradiso, perché questo verso con il successivo – indicando l'uno il purgatorio e l'altro l'inferno – risponde alle parole precedenti: che tu mi meni là dov'or dicesti, ai luoghi cioè dove potrà condurlo Virgilio (a parte il fatto che il paradiso, come Dante lo ha concepito, non ha nessuna "porta").
- cui tu fai: che tu mi dici, mi raffiguri; cui è complemento oggetto, come al v. 129.
- mesti: richiama il dolenti del v. 116, parola con cui Virgilio ha infatti definito gli abitanti dell'inferno.
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
- Allor si mosse...: l'ultimo verso, come il primo, indica un cammino. Ma dal cammino nell'oscurità e nell'angoscia siamo qui giunti a ben altro cammino: è il viaggio della salvezza, il cammino dell'uomo verso il suo fine, che lo porterà «dalla miseria alla felicità».
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