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Filosofia della religione di Kant/Introduzione

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Il piano dell'opera filosofica

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Immanuel Kant – come attestatoci da un passo[1] della Critica della ragion pura e dalla sua Introduzione alla Logica – pensa il sistema delle sue opere del periodo critico come rispondente a quattro domande fondamentali:

  1. «Che cosa posso sapere?», a cui risponde con le sue opere di filosofia teoretica (a cui fa capo la Critica della ragion pura)
  2. «Che cosa debbo fare?», a cui risponde con la filosofia pratica (la Critica della ragion pratica)
  3. «Che cosa mi è lecito sperare?» – ovvero l'esigenza finalistica – a cui fa capo non soltanto la filosofia della religione in sé stessa, ma anche la materia della Critica del Giudizio, nell'ambito del giudizio riflettente teleologico.
  4. «Che cos'è l'uomo?», la cui risposta compete propriamente all'antropologia (ma Kant afferma che questa domanda «i primi tre problemi si riferiscono al quarto»)

«Che cosa mi è lecito sperare?»

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La filosofia della religione[2] viene da Kant suddivisa in due parti:

  • la prima, la «religione scaturente dalla semplice ragione», coincide con la dottrina della fede morale in quanto realizzazione del sommo bene (che è il fine ultimo dell'uomo). La questione qui è la valutazione dell'adeguatezza dell'uomo al suo scopo: e questa riflessione conduce alla «fede razionale» in Dio, il quale rappresenta il fondamento della speranza che il sommo bene si realizzi. La plausibilità di tale fede razionale è un argomento trasversale alle tre Critiche, ed è un presupposto necessario alla trattazione della Religione nei limiti della semplice ragione;
  • la seconda parte, la «dottrina filosofica della religione», è delineata per l'appunto nella Religione nei limiti della semplice ragione, e consiste nell'«applicazione della riflessione teleologica alla realizzazione della destinazione etica dell'uomo inteso sia come singolo che come umanità, [e riguarda] l'attuazione di quella componente del sommo bene che è in potere dell'uomo» (Cunico, op. cit.). Tale impostazione è utilizzata per due scopi:
  1. la valutazione dell'adeguatezza del singolo (ma certamente in riferimento a tutta l'umanità) alla sua meta morale (lo «scopo finale morale»), che conduce alla riflessione sul male radicale e della possibilità di un suo superamento – riflessione che però si amplia anche sulla storia (storia politica e storia etico-religiosa, perché il superamento del male non è una questione meramente individuale, ma chiama in causa l'intera umanità;
  2. la valutazione dell'adeguatezza della collettività e dell'umanità nel loro complesso alla loro meta morale, negli ambiti giuridico ed etico.

In questa sede dovremo di necessità restringere il discorso a un ambito soltanto di quelli aperti da Kant nella filosofia della religione: e sceglieremo, per la sua fondamentalità, quello del male radicale.L'assioma <cosa mi è lecito sperare> obbedisce non ad un magistero religioso precostituito, quanto al magistero della conoscenza diretta dell uomo, a l'uomo è lecito sperare in virtù di ciò che conosce e/o in ciò in cui si riconosce l'uomo stesso.

  1. I. Kant, Critica della ragion pura, III, 1ss.
  2. Per questo paragrafo, ci si è basati su: G. Cunico, Comunità etico-religiosa e chiliasmo teologico in Kant, in Immanuel Kant. Filosofia e religione, a cura di D. Venturelli e A. Pirni, Editrice Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2003, pp. 187-191