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Identità e letteratura nell'ebraismo del XX secolo/Ai bordi dell'Europa: la scena italiana

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Indice del libro
Mappa dell'Italia in ebraico
« Cristo è sceso nell'inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell'eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli. »
(Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, 1945)

Dopo duemila anni di storia di insediamento continuo, gli ebrei italiani non si possono certo dire stranieri in questa terra originariamente latina. In verità ne è elemento tanto antico e radicato quanto qualsiasi altro elemento in ambito territoriale italiano. Tuttavia, pur essendo culturalmente integrato localmente, questo gruppo di comunità ha anche prodotto un'opera poetica che risale a più di milleduecento anni fa e una cultura ebraico-giudaica generalmente distinta in tutte le sue ramificazioni. È ai margini dell'Europa, in gran parte periferica come esperienza, non svuotata così rapidamente e acutamente dall'Illuminismo — che in Italia venne conosciuto anticipatamente sotto forma di Rinascimento — né tarpata così totalmente dall'Olocausto europeo. Gli ebrei italiani erano già un numero alquanto ristretto: la cifra di 40000 anime non crebbe nel secolo tra il 1830 ed il 1930, nonostante l'espansione generale della popolazione. Tale fu l'effetto del Risorgimento, al quale gli ebrei parteciparono entusiasticamente, attraendo la popolazione ebraica verso un'identificazione con lo spirito del nuovo nazionalismo italiano.[1]

Tuttavia, fino alle guerre napoleoniche, gli ebrei italiani in tutti i vari staterelli dove era stato loro permesso di stabilirsi (per esempio, non nel Regno di Napoli), furono un elemento distinto nell'ambito territoriale, separati su base religiosa dai cattolici. Il primo ghetto fu creato a Venezia nel 1516, e l'Italia del postrinascimento vide una fuga di ebrei a causa dell'intolleranza e delle restrizioni proibitive. Per esempio, dalla metà del XVII secolo alla metà del XVIII secolo, gli ebrei di Venezia diminuirono in numero da 5000 a 1500 residenti. L'apice di tali deprivazioni fu l'"Editto sopra gli ebrei" di Pio VI del 1775, che "riassumeva in quarantaquattro clausole, una più degradante dell'altra, tutte le misure persecutorie dei suoi predecessori."[1] Tuttavia, come l'Impero Austriaco stava subendo cambiamenti, così anche succedeva per i possedimenti austriaci in Italia. Il Toleranz-Patent dell'imperatore Giuseppe II d'Asburgo-Lorena, emesso nel 1781, offriva agli ebrei dell'Impero condizioni modificate sebbene condizionali; ed in seguito, un'altra grande potenza europea, la Francia, invase l'Italia e ne occupò una parte. I "Diritti dell'uomo" della Francia rivoluzionaria furono abbracciati entusiasticamente dagli ebrei italiani, che sostennero l'invasore. Gli ebrei adottarono quindi il titolo di "cittadino" e le porte dei ghetti cominciarono a cadere (nel vero senso della parola).[1]

Dopo l'inversione di marcia degli anni 1820 e 1830, seguiti dalle rivoluzioni abortite del 1848, il Liberalismo venne intronizzato con la cristallizzazione e unificazione del nuovo Regno d'Italia sotto Vittorio Emanuele II, a partire dalla metà di quel secolo. Vari territori vennero gradualmente incorporati nel Regno, incluso quello della più grande città e dimora della maggiore comunità ebraica, Roma, nel 1867, quando fu nominata capitale dell'Italia unita.[1]

Corriere della Sera: prima pagina del giorno in cui passarono le leggi razziali, nel 1938

Da quel momento, gli ebrei furono talmente allineati con lo spirito nazionale che molti aderirono al Partito Fascista quando fu fondato nel 1919. La posizione di Mussolini fu in genere considerata non razzista e non antisemita, ma al terzo Congresso del 1921 ebbe a dichiarare: "Voglio che si sappia che per il Fascismo la questione razziale è di grande importanza. I fascisti devono fare tutto il possibile per mantenere intatta la purezza della razza, poiché è la razza che crea la storia."[1] Con l'ascesa del Fascismo la condizione degli ebrei mutò drammaticamente: le associazioni comunitarie furono rese obbligatorie nel 1930 e, dal 1936, il Fascismo si avvicinò maggiormente al Nazismo quando la Germania sostenne l'invasione dell'Abissinia da parte dell'Italia. Nel 1938 leggi razziali vennero introdotte in Italia sul modello di quelle di Norimberga: "Una delle caratteristiche più terribili della persecuzione fu la sua immediatezza. In Germania, suolo preparato da generazioni di propaganda velenosa, c'erano voluti quattro anni per ridurre gli ebrei nella condizione critica in cui ora si trovavano; in Italia lo stesso avvenne quasi in giornata."[1] L'Italia entrò in guerra quale alleato dei nazisti il 10 giugno 1940, ma dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943, la Germania, piuttosto che ritirarsi, intensificò la sua occupazione — ed iniziarono i noti avvenimenti del massacro ebraico. Nel tardo 1943 cominciarono le deportazioni della popolazione ebraica di Roma e del Norditalia verso i campi di sterminio. Tuttavia "meno di 8000 decessi possono essere comprovati tra gli ebrei che i tedeschi deportarono dall'Italia. Più di 5/6 della popolazione ebraica stimata a circa 52000 persone nel 1939, sopravvissero alla guerra."[2]

Necessariamente, la letteratura discussa in questo capitolo è quella dei sopravvissuti. Direttamente o indirettamente, si esaminerà la storia di questa antica comunità in tempi moderni, così profondamente radicata nella vita della nazione e tuttavia traumatizzata dalla consapevolezza della separazione. Qui si tratta di un prodotto totalmente italiano, erede di un patrimonio ebraico ancor più antico. Nel ventesimo secolo, l'aspetto ebraico fu culturalmente periferico sebbene storicamente decisivo. Il destino ebraico era ora un destino umano piuttosto che uno di tipo specifico etnico o religioso. L'ebraismo italiano, per misura e associazione culturale con la nazione ospitante, fu chiaramente una tendenza moderna — sebbene più ridotta di tante altre comunità ebraiche, non fu meno significativa. Non ha condiviso l'orrore totale delle altre in Europa per svariate ragioni, ma ne è stata più che segnata. E questo è quando interviene la sua specificità: parte integrale della splendida storia d'Italia, ha anche un'altra storia. La letteratura degli ebrei italiani non viene più scritta, seppur parzialmente, in ebraico ma, nella sua italianità, quale che ne sia la tematica, mantiene le precorse caratteristiche.[3]

Natalia e Leone Ginzburg

Nella seconda metà del XX secolo, i saggi impegnati non venivano molto coltivati quale genere letterario. Forse il suo posto venne preso dai commenti ed editoriali che apparivano continuamente sui quotidiani italiani, con sporadici scritti pubblicati su varie riviste. Natalia Ginzburg (1916-1991) si è affermata, oltre che per i propri romanzi e racconti, anche per i suoi commentari e articoli di fondo equilibrati e profondi su temi importanti — formulati con sicurezza e sensibilità, e destinati a perdurare nel tempo. Nei suoi saggi, particolarmente quelli raccolti col titolo Mai devi domandarmi (1970), la Ginzburg decide, dopo aver raggiunto un'età al di là delle ambizioni e dei cambiamenti d'umore, di scrivere la sue riflessioni mature su ciò che ella reputa significativo nel campo della vita, dell'arte, politica, religione, il tutto con l'impronta della sua verità.[4]

Tutto ciò che scrive emana da se stessa, dal suo interiore e dalle sue esperienze. Anche i suoi racconti hanno un carattere riflessivo. Come afferma il critico letterario Isabel Quigly nell'introduzione alla versione inglese della succitata raccolta (Never Must You Ask Me, 1973): "Tutto quello che ella scrive ha una presenza così 'inconfondibile' che è impossibile non pensare che non sia in qualche modo autobiografico."[5] Il suo racconto "La madre" ha tale carattere riflessivo, retrospettivo: I figli riflettono sulla vera natura della loro madre, molto dopo che questa è morta. Avrebbero preferito una madre di tipo diverso, più "materna", meno farfallona, più somigliante alla nonna. Invece era troppo giovane, troppo sfuggente, troppo inconsistente, troppo infelice. E, naturalmente, era stata inadeguata nel suo ruolo di madre. Era però morta prematuramente e tragicamente, commettendo suicidio dopo una relazione sbagliata.[4]

Sandro Pertini e Natalia Ginzburg, primi anni '80

Natalia Ginzburg era ebrea per metà, e ciò pare riassumere la sua condizione. Dentro e fuori, non abbastanza parte della società che descrive, desiderava ardentemente l'integrazione e la normalità; ma queste sono qualità che le vengono negate. Le sarebbe piaciuto essere come gli altri bambini, come la gente che vedeva per strada: "Mi sarebbe piaciuta una madre che, la sera, cucisse alla luce del paralume. Mia madre non cuciva, o cuciva troppo poco per i miei gusti. Mi sarebbe piaciuto sentirli parlare della Patria. Nessuno mai la menzionava. Mi sarebbe piaciuto sentirli parlare del re. Lo chiamavano un idiota. Non mi mandarono a scuola, ma mi fecero studiare a casa per paura dei germi. Mi sarebbe piaciuto che mettessero fuori del balcone una bandiera nei giorni di ricorrenza patriottica. Non avevamo bandiere."[4] Tuttavia, facendo parte del mainstream, la Ginzburg può ragionare in maniera distaccata sul valore delle cose. È determinata a non dire bugie, anche se ciò significa starsene zitti, "finché riusciamo a trovare nuove e vere parole per descrivere le cose che amiamo." Nel frattempo la parola diviene così compromessa che bisogna rinnovarla totalmente o liberarsene. Fuori passo col mondo che la circonda, l'autrice è fuori passo anche col suo tempo: "Ad essere sinceri, proprio il mio tempo non mi ispira altro che odio e noia."[4] E che può fare una che è così totalmente in contrasto forse non solo con le circostanze particolari che incontra, ma anche con la nozione della vita collettiva? Si deve cercare dentro se stessi. Questa è la sua difficoltà con la scena contemporanea; il mondo preme sull'anima singola e non dà tregua: "Dato che tutto quello che forma la vita dell'individuo è trascurato ed umiliato, e gli dei dell'esistenza collettiva sono venerati e santificati, ne consegue che il pensiero solitario non viene considerato per nulla importante." Il mondo della sensibilità viene obliterato perché è troppo doloroso.[4] L'impegno ed il lavoro devono essere ridotti nel tentativo negativo di evitare il disagio — e come nella vita, così anche nella letteratura, perché l'arte deve seguire la vita ed esemplificarla. Anche nella creatività esiste un "desiderio di evitare la fantasia, il lavoro, il dolore, lo spargimento di sangue. I romanzi ed i versi aridi e confusi che si scrivono oggi ci fanno capire che in loro non vi è traccia di vero impegno nello scriverli, ed il loro autore ci si rispecchia, con la sua aridità e confusione." Tuttavia l'opinione della Ginzburg è che la vita, il vero sostrato dell'anima umana, essenzialmente non è cambiata. Il dolore esiste ancora — è soltanto stato offuscato. L'apparato moderno del vivere, incluse le droghe, agisce da droga, cioè fondamentalmente non induce al cambiamento, ma piuttosto offusca la percezione della condizione reale. Può accadere che in questa ricerca la sgradevolezza sia stata diminuita, ma allora anche l'estasi ne è stata diminuita. Il dramma e la furia della vita e dell'amore non esistono più, ma solo un piacere meccanico, un'assenza dell'esperienza estrema. Pertanto c'è una riduzione complessiva di umanità. Le sole espressioni della libertà dell'essere umano sono quelle prodotte dalla propria confusione, il proprio uso di sostituti e ausili, invece di una confrontazione con la vita. Esiste una certa libertà implicita in questa produzione di artefatti. Tuttavia "questa libertà non è orgogliosa né gioiosa, e neppure disperata perché non ha mai avuto speranza; non ha passato né futuro perché non ha progetti né ricordi, e nel presente non cerca una felicità fragile che non saprebbe affatto usare non avendo immaginazione e memoria, ma un fulmineo senso di sopravvivenza e scelta."[4]

La Ginzburg quindi, con la sua nostalgia e la sua memoria di un altro tempo, ricorda momenti migliori, non in termini di stile di vita, ma nei termini della vita stessa. Secondo lei, ciò che abbiamo non è tanto l'esperienza quanto una serie di sensazioni. I suoi saggi aspirano allora ad andare oltre l'effimero, cercando qualcosa di permanente, verso uno standard. Desidera, forse paradossalmente, una critica e una valutazione, "un giudizio che sia chiaro, fermo, inesorabile e puro." Purtroppo non esiste oggi un vero giudizio implicito nell'atto della critica: il ruolo del critico, come quello del padre, si è esinto. "Noi stessi una volta avevamo padri, la generazione precedente, ma noi, a nostra volta, non possiamo essere padri/critici — non ci asciugheranno mai le lacrime, né assumeremo il ruolo paterno; potrebbe essere una cosa facile, ma è impossibile, inammissibile, e continueremo a strisciare e tremare nel buio."[4] Solo il giudizio è luce, o meglio, la luce produce il giudizio.

Alberto Moravia ed Elsa Morante a Capri negli anni '40

Tra gli scrittori italiani del XX secolo, Alberto Moravia (1907-1990) è forse il più famoso ed uno dei più prolifici della narrativa contemporanea.[6] A partire dagli anni '20, pubblicò una serie di racconti e romanzi, e continuò a scrivere fino alla sua morte. Si deve quindi fare una cerfnita selettiva della sua produzione, sottolineandone i temi principali, le preoccupazioni e le techniche di scrittura. Il filo delle suestorie è sempre molto vivace e teso: la tensione viene creata dal mistero della motivazione e dell'azione, e la differenza tra la motivazione apparente e l'azione trasparente. La motivazione è spiegata nella sua completezza dal narratore onnisciente, ma la trama può smentire le aspettative offerte.

La natura delle sue storie non è molto cambiata nel corso degli anni. Un'ambiguità di motivi appare già ne Gli indifferenti (1929): la trama si svolge tra una madre, Mariagrazia, la sua "amica" Lisa e la figlia di questa, Carla, e Leo, che grazie alla sua ricchezza e posizione sociale, ha un certo potere su tutte loro. La madre è la sua amante, ma Leo ora desidera evuole la figlia. Lisa è stata la sua amante molti anni prima, e ora cerca di sventare l'intento di Leo e le prospettive della famiglia. Carla vuole fuggire da una vita di dipendenza e dagli isterismi della madre, ed è quindi disposta ad accettare una sorta di offerta proveniente da Leo, ed ottenere quindi una "vita nuova". Suo fratello Michele, un debole, tenta di assumere la parte del protettore geloso e fa anche un tentativo piuttosto farsesco con Leo, interpretando fantasie campate in aria. Le ambiguità traspaiono nel riconoscimento delle intenzioni e ambizioni di ognuno: Michele evidenzia il dubbio generale rispetto al proprio caso; si preoccupa per la sua mancanza di sincerità. Pretende di sentire emozioni che non prova sinceramente. Leo potrebbe essere disposto a sposare Carla. Carla ha dei dubbi su questa nuova vita. Sua madre chiaramente vive in un mondo di fantasia totale. Lisa pretende amicizia, ma è rosa dalla gelosia. Il romanzo si conclude prima che avvenga una soluzione d'azione e un dipanamento di tutti i fili della trama.[7]

Ne La mascherata (1940), il titolo esprime questa ambiguità. Il passaggio della vita viene interpretato come una serie di travestimenti. Il gran generale e dittatore Tereso viene invitato ad una festa in maschera da una ricca duchessa in una non meglio identificata nazione del Sudamerica. Il generale desidera partecipare a tale festa perché sa che la bella marchesa Fausta sarà presente ed egli desidera averla. Ma Fausta deve sposare il servitore Doroteo, col quale ha un rapporto segreto. Mediante la giustapposizione di ambizione, motivo e denuncia, quello che era stato un piano del Capo della Polizia per inscenare un falso attentato alla vita del dittatore Tereso diventa un vero attentato con vera uccisione, ma della persona sbagliata. Il preteso matrimonio si trasforma in funerale. Il paradosso è prodotto da un piano che diventa realtà, perché la realtà ottenuta differisce in modo così palese dal piano: quella che doveva essere un'azione rivoluzionaria di Saverio, un giovane estremista entusiasta di morire per la causa del proletariato, diventa un sacrificio sacrificio di sé farsesco e futile.[7]

I due romanzi L'amore coniugale (1949) e Il disprezzo (1954) trattano del rapporto tra arte e creatività. Nel primo, il narratore in prima persona ha trovato soddisfazione e contentezza nel suo matrimonio, nutrendo per la moglie una vera passione coniugale. Tuttavia, senza un qualche motivo materiale, egli aspira ad una creatività letteraria che vada oltre l'attività di critico, che svolge con competenza ed un certo successo. All'inizio è convinto di stare creando un capolavoro, ma poi si rende conto della propria irrealtà (cioè la mancanza di nessi tra la sua opera e la sua vita coniugale). Nonostante la sua mancanza di raffinatezza, la moglie gli fa capire i difetti della storia narrata nel suo romanzo: sebbene la trama si concentri su di lei, egli non la conosce abbastanza per poter rendere la storia convincente. Anche il secondo romanzo tratta dell'incapacità da parte del marito di capire sua moglie. Nuovamente, il matrimonio è felice agli inizi, ma poi si inasprisce a causa dei successi che l'uomo riscontra nella propria attività di sceneggiatore di film. Diventa dipendente del produttore Battista, che si è invaghito della moglie. Viene fatto un parallelo con l'Odissea nella storia che lo sceneggiatore sta scrivendo: forse dovrebbe reagire come l'eroe antico, che uccise i corteggiatori di Penelope. Il rapporto è segnato dall'ambiguità, anche dopo la disastrosa morte della moglie e le proprie allucinazioni di una riconciliazione: "L'ambiguità che ha avvelenato la nostra relazione nella vita, continuò anche dopo la sua morte." Vorrebbe ritrovarla con una "rinnovata serenità".[8]

Alberto Moravia e Gina Lollobrigida, 1954

Ambiguità di motivo è alla base de Il conformista (1951). Qui l'autore disegna il ritratto di un sadico sin dall'infanzia che, a causa delle sue tendenze, inizialmente si sente un reietto, come uno troppo diverso. Ma queste tendenze possono essere imbrigliate nella volontà collettiva, con il resto del Fascismo. Così il suo sadismo viene reso non solo rispettabile, ma banale. Marcello aveva, da bambino, ucciso o creduto di uccidere un certo Live, prete spretato, poi autista, che gli aveva fatto degli approcci omosessuali. Ora però, come adulto in un contesto fascista, può uccidere rispettabilment. Dopotutto, ciò avviene in conformità col volere generale. Ama il "popolo" come astrazione, sebbene non possa sopportare il disordine confusionario dei singoli individui. Vuole essere assorbito nella totalità e anonimità del tutto. Ma l'apparente tranquillità e successo della sua carriera e vita sono scosse dall'intrusione del sentimento. Appena dopo essersi sposato, comincia a sentire un vero desiderio per la moglie del suo vecchio tutore, Quadri, uomo segnato alla morte. Come può ora capire le proprie azioni? "All'improvviso gli sembrava acutamente angosciante non sapere se stesse facendo le cose perché gli piacevano o perché si adattavano ai suoi piani." Da quel momento in poi, fino alla propria morte violenta, il dubbio lo ossessiona.[9]

Sin dal suo primo romanzo, la concentrazione narrativa di Moravia si appunta quindi sulla questione di quale sia la persona reale. Ne La ciociara (1957), l'ingenua Rosetta, così debole, così dipendente da sua madre, così modesta e buona, sembra trasformarsi totalmente dopo lo stupro violento che subisce mentre stanno scappando da una Roma lacerata dalla guerra per ritornare al villaggio materno. La madre narra gli eventi e cerca di capire tale trasformazione: "E venni a riflettere dopo, quando questa mia impressione fu purtroppo confermata, che durante quei pochi momenti di agonia, la mia povera Rosetta era improvvisamente diventata un'altra donna, sia di corpo che di mente, trasformata in una donna indurita, esperta, amareggiata, senza illusioni e senza speranze." Ma forse questo "nuovo destino" era sempre stato latente. Si capiscono veramente le persone a prima vista? Le nozioni di "bene" e "vita" subiscono modifiche: il bene deve essere messo alla prova dall'esperienza, e la vita persiste contro tutta la logica e le evenienze, come rispecchiato nel romanzo dalla risonanza dell'episodio di Lazzaro nel Nuovo Testamento.[10][7]

Gli scrittori Luigi Silori (1° da sin.), Walter Mauro (2° da sin.), Giorgio Bassani (al centro), il calciatore Roberto Bettega, il critico Giuseppe Brunamontini. Roma, 1974

Alcune delle implicazioni letterarie discusse fin qui in merito all'Ebraismo italiano sono state indirette. Il capolavoro della narrativa ebraica italiana contemporanea è Il giardino dei Finzi-Contini (1962) di Giorgio Bassani (1916-2000). Alcuni lo vedono come la sola opera in tempi recenti che trattino di aspetti ebraici sia "con l'impegno della testimonianza che con il tocco dell'artista".[11] Attraverso una focalizzazione dell'autore su una particolare famiglia e il ricordo del cimitero ebraico di Ferrara, un sostanziale segmento della storia dell'ebraismo italiano moderno viene presentata in maniera drammatica e nostalgica. La storia viene narrata in retrospetto, partendo dall'anno 1957 e ritornando indietro con la memoria dei ricordi. La "tomba monumentale dei Finzi-Contini" non è più in uso; solo uno di quella famiglia, noto al narratore, era "in verità riuscito ad ottenere quel meritato riposo". Questi era Alberto che era morto di una malattia rara nel 1942, l'anno prima delle deportazioni. La tomba "era grande, massiccia, davvero imponente: una specie di tempio tra l'antico e l'orientale, come se ne vedeva nelle scenografie dell`Aida e del Nabucco" (Giardino dei Finzi-Contini, Cap. I.1). La tomba richiama lo splendore delle aspettative di uguaglianza civile che sembrava essere stata concessa agli ebrei italiani nel 1860, quando l'Italia si stava "formando", e la prosperità della famiglia al centro della narrazione, con la sua agiata condizione sociale che scompare velocemente sotto fascismo e nazismo.[12]

Ma questo romanzo non è solo un episodio della casistica storica dell'epoca, che epitomizza il fato di un gruppo. È anche la presentazione di una famiglia molto speciale, e il romanzo cerca di caratterizzarla nel dettaglio, evidenziandone la sua particolarità. Infatti il fascino del libro deriva da questa distinzione tra gente "normale" e gente "speciale". I Finzi-Contini, nella loro aristocratica, sefardita separatezza, fanno parte della seconda categoria, sebbene il modello di aristocrazia sia più italiano che ebraico. Particolarmente speciale è la bella Micòl, così amata dal narratore, ma che non può ricambiare l'intensità della sua passione. Sono inizialmente una razza a parte nella razza: "Che cosa c'era di comune — parevano dirsi tutti e quattro — fra loro e la platea distratta, bisbigliante, italiana, che anche al Tempio, dinanzi all'Arca spalancata del Signore, continuava ad occuparsi di tutte le meschinità della vita associata, di affari, di politica, perfino di sport, ma non mai dell'anima e di Dio?" (Ibid. I, 4) Il narratore si pone, ed è posto dai Finzi-Contini, inclusa Micòl, in quel rango e categoria. Descrive la sua famiglia come la più normale possibile: "Io stesso ero appartenuto ai G.U.F. (Gruppo Universitario Fascista) fino ad ora. Infatti eravamo sempre stati gente del tutto normale, la più normale pensabile." Il massimo della normalità nel contesto italiano era l'iscrizione al partito fascista.[12]

I Finzi-Contini ne erano stati al di fuori. Sembrò quasi che, dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938, i Finzi-Contini si avvicinassero maggiormente agli altri ebrei. Dopo tutto, erano sulla stessa barca. Il "giardino" divenne un centro d'incontro tra loro, rimpiazzando i club a cui era loro proibito appartenere. Ma è l'amore reciproco tra narratore e Micòl una vera possibilità? Egli lo reputa possibile dalle cose che condividevano. Entrambi valutavano la memoria delle cose: "per me, non meno che per lei, la memoria delle cose era molto più importante del loro possesso." (In verità, il romanzo nel suo complesso è così: un quadro intenso, remoto e amato visto nella nebbia dei ricordi. Perfetto, tuttavia, ma distante). Con questo in comune, avrebbero dovuto esser capaci di amarsi. Ma Micòl rigetta questa possibilità — l'amore era impossibile per loro, come tra fratello e sorella. Ed il padre di lui lo conferma, in una rara conversazione confidenziale.[12] C'è qualcosa di differente e inottenibile sui Finzi-Contini, qualcosa che gli sfugge: "se tu sposassi una ragazza come quella, son sicuro che prima o poi finirebbe male... Sono differenti... Il proverbio dice 'Moglie e buoi dei paesi tuoi'. E nonostante le apparenze, quella ragazza non è del paese tuo." Nel senso letterale, sono dello stesso posto e ambiente, di Ferrara, entrambi ebrei. Ma oltre a ciò, si apre un inevitabile divario che deve essere rispettato. Ed egli lo accetta, accetta alla fine il decreto della distanza, sebbene ritorni ai ricordi di lei, tramite la presenza concreta del giardino dove usavano incontrarsi da bambini. Nelle parole di Micòl, "au vert paradis des amours enfantines". Il romanzo è un richiamo dell'ambiente. Non è un'interpretazione, perché il mistero permane. Ma è la presentazione di quel ricordo, della memoria. Micòl aveva sempre, sebbene prevedendo il futuro, preferito il presente "ed il passato ancor di più, il caro, dolce, compassionevole passato". Il romanzo è di quel passato e del passato che fu allora creato.[12]

Bassani è uno scrittore che evoca intense reminiscenze di episodi distanti, e poi li assoggetta alla propria analisi rigorosa. Il narratore del romanzo Dietro la porta (1964)[13] è molto critico di se stesso nel ricordarsi di un eisodio infantile. Questo è un libro sull'amicizia, e si colloca in un passato più lontano, durante l'anno 1929, al liceo. Aveva bisogno di essere amato da tutti, e in modo particolare aspirava all'amicizia del popolare Carlo Cattolica; ma aveva fatto amicizia anche col nuovo arrivato, Pulga, che tutti disdegnavano. Viene invitato da Cattolica a sentire quello che Pulga dice di lui, il narratore, a sua insaputa e dietro le sue spalle, da "dietro la porta" a casa di Cattolica stesso. Tuttavia, anche dopo aver sentito le calunnie più ignominiose, non riesce a confrontarsi col voltagabbana Pulga. Si ritorce invece sulla propria famiglia malignata. E in seguito decide, e questo è il peso della sua terribile confessione, di essersi comportato peggio del miserabile Pulga stesso: "Già allora qualcosa doveva pur dirmi che se Luciano Pulga era in grado di accettare il confronto con la verità, io no" (Dietro la porta, p. 739). Quella paralizzante codardia lo prevenne in quel momento di spalancare la porta, e lo preverrà metaforicamente per sempre. Si sarebbe sempre nascosto dietro una porta, "...duro a capire, inchiodato per nascita a un destino di separazione e di livore, la porta dietro la quale ancora una volta mi nascondevo inutile che pensassi a spalancarla. Non ci sarei riuscito, niente da fare. Né adesso, né mai" (ibid, p. 739). Questo romanzo viene presentato attraverso la percezione di un velo di memoria congelata, con la sua affermazione permanente sul presente. Scava l'essenza individuale mediante un episodio e la rispettiva narrazione. La codardia è ancor peggio del tradimento; è un'incapacità di essere se stessi veramente e completamente.[12]

Torino, 1986. Primo Levi (a destra) con Philip Roth

La linea che delimita la fantasia dal ricordo è inevitabilmente sottile. La prosa di Primo Levi (1919-1987) richiama le sue terribili e drammatiche esperienze del tempo di guerra, e la sua opera poetica le rispecchia in una forma più distillata.[14] Il titolo della sua famosa opera memorialistica, Se questo è un uomo (1947), solleva la domanda che scaturisce dall'episodio più mostruoso della storia umana. Un gruppo di persone si industriò ad obliterare l'umanità di un altro, mediante l'assoggettamento totale, il sadismo supremo e lo sterminio. Di fronte a ciò, è lecito chiedersi — primo: riuscì tale impresa? L'elemento umano fu veramente eliminato da quegli individui ridotti così? Secondo: per i sopravvissuti e per gli estranei la vita è ancora degna di essere vissuta, se tali atti possono essere compiuti? Cosa è che rende la vita possibile e degna di esser vissuta contro tale brutalità?[14]

Primo Levi subì sulla propria pelle questa esperienza estrema. Come partigiano italiano, venne catturato dalla milizia fascista alla fine del 1943. Poi, nel febbraio dell'anno seguente, fu deportato con altri ebrei ad Auschwitz. Descrive la realizzazione dei campi in termini epigrammatici — la distruzione di un uomo. Come si può registrare questo con parole? "Allora, per la prima volta diventiamo consapevoli che il nostro linguaggio manca delle parole per esprimere questa offesa, la distruzione di un uomo".[15] Non l'uccisione di un uomo, che è facile da eseguire e da registrare, ma la distruzione di un elemento umano nell'individuo, che deve essere il risultato di pianificazione e impegno prolungato nell'eseguirla, e richiede tensione e precisione estreme nella descrizione. Il libro di Levi tenta di registrare tutto ciò, la dottrina positiva di come essere, rimanere e mai dimenticare di essere un uomo. Gli viene inoltre ricordato di essere ebreo, con un fato particolare e una dimensione umana extra: "Ci radunammo in gruppo di fronte alla loro porta, e provammo dentro di noi uno scoramento che ci era nuovo, il dolore antico di un popolo che non ha terra, l'afflizione senza speranza dell'esodo che viene rinnovato ogni secolo." L'esperienza ebraica è un esodo costante. E tuttavia, al suo nadir, nel momento della disperazione, la disperazione è sospesa: "Prima o poi nella vita ognuno scopre che la felicità perfetta è irrealizzabile, ma ci sono alcuni che si fermano a considerare l'antitesi, che anche l'infelicità perfetta è ugualmente inottenibile. Gli ostacoli che prevengono la realizzazione di entrambi questi stati estremi sono della stessa natura; derivano dalla nostra condizione umana che si oppone a tutto quello che è infinito." La disperazione è assoluta, ma il temperamento umano si aggiusta in un equilibrio, trovando sì una compromissione della perfezione totale, ma anche possibilità in circostanze insolite. Un fatto inconfutabile è che dei quarantacinque passeggeri deportati nel suo carro, solo quattro sopravviveranno. Ed il suo fu il più fortunato di tutti i carri![14]

Quale è lo scopo di trascrivere questo terrore desolante? "In verità, siamo convinti che nessuna esperienza umana sia senza significato o immeritevole di analisi, e che valori fondamentali, anche se non sono positivi, possano essere dedotti da questo mondo particolare che stiamo descrivendo." Ognuno è disperatamente e ferocemente solo in questa lotta inverosimile per la sopravvivenza. In tale lotta si distinguono due categorie: i salvati e i sommersi. Circostanze estreme hanno ridotto i primi ad una razza rara, segnata da salute, tenacità e astuzia. I tedeschi ebbero il loro successo; riuscirono a distruggere l'elemento umano: "Distruggere un uomo è difficile, quasi difficile quanto crearlo; non è stato facile, né veloce, ma voi tedeschi ci siete riusciti. Eccoci qui, docili sotto i vostri occhi; dall'esterno non avete niente più da temere; niente atti di violenza, niente parole di sfida, neanche uno sguardo di giudizio." La liberazione dai tedeschi, l'evacuazione dai campi, marcano infine il lento ma distinto ripristino dell'uomo. Per esempio, il pane viene ora condiviso, mentre "soltanto il giorno prima un tale evento sarebbe stato inconcepibile." La legge del Lager diceva: "mangia il tuo pane, e se puoi quello del tuo vicino", e non lasciava spazio alla gratitudine. Ma ora il Lager era estinto.

È tuttavia il seguito del succitato libro, La tregua (1963), che descrive il processo di liberazione ed il ritorno a casa nei particolari. La liberazione fu così avvincente ed improvvisa, ed il ritorno così lento, doloroso, colmo di delusione. Sulla strada verso Katowice, al narrante viene consigliato dal suo avvocato interprete di nascondere ancora la propria ebraicità — "c'est mieux pour vous. La guerre n'est pas finie." L'Europa era in rovina, sebbene fosse una sorta di casa "protetta da una civiltà che era nostra." Era permeata da "un male irreparabile e definitivo che era presente ovunque, annidandosi come una cancrena negli intestini dell'Europa e del mondo." Ci sarebbe mai più stata normalità in queste vite logore?[16]

Nella poesia Shema, scritta agli inzi dell'anno dopo la guerra, Levi invia un messaggio agli "altri", cioè coloro che non hanno provato questo orrore, descrivendo questa situazione. Lo Shema è la preghiera fondamentale dell'ebreo tradizionale, che afferma l'unità di Dio. È presa da Deuteronomio 6:4, dove Mosè esorta il suo popolo ad osservare i comandamenti di Dio in ogni momento. Una nuova preghiera viene creata dal poeta.[17] Considerate se questo è un uomo Che lavora nel fango Che non conosce pace Che lotta per mezzo pane Che muore per un sì o per un no... Vi comando queste parole Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi: Ripetetele ai vostri figli O vi si sfaccia la casa, La malattia vi impedisca, I vostri nati torcano il viso da voi.[18]

Come Israele è ammonito di ricordarsi delle parole dei comandamenti in tutti i momenti del giorno e di ripeterle ai propri figli, così i nostri fortunati contemporanei sono esortati a considerare la domanda posta. Il messaggio biblico naturalmente è stato secolarizzato. È il poeta che esprime le istruzioni invece di Mosè, e il peso del suo messaggio viene dall'uomo e non da Dio. Tuttavia il messaggio è quello di meditare sulla natura dell'uomo. Se non possiamo prender nota di un altro, noi non verremo notati. Diventiamo non-uomini. C'è qui un'eco del Nuovo Testamento, che ci chiede di considerare se questo è un uomo, ecce homoEccovi l'Uomo (Giov. 19:5). Guardate com'è ridotto l'uomo per mano di altri uomini. Sono forse queste le componenti di Cristo il redentore? Ma anche il linguaggio cristiano è stato secolarizzato. L'italiano dopo tutto è la lingua dell'Umanesimo come anche quella della chiesa latina. Ed in questa poesia italiana composta da uno scrittore ebreo, siamo riportati all'esecuzione di un Messia; è un momento parallelo all'affermazione centrale della fede ebraica.[14]

La narrativa discussa in questo capitolo è tanto diversa quanto la letteratura stessa. Non è letteratura ebraica nel senso normale dell'essere specificamente ebrea, scritta forse nella sua propria lingua, trattando di temi ebraici, problemi della comunità, e così via.[19] Ancor meno tratta delle più vaste materie — come la storia ebraica, l'esistenza contemporanea degli ebrei e la posizione dello Stato di Israele nell'ambito del popolo ebraico e del mondo nel suo complesso. Ci sono alcune eccezioni, come le poesie intitolate Amo Israele (1969) di Anna Maria Caredio (1927-2012) che, come lei stessa affermò, si riconvertì all'Ebraismo dei propri antenati prima che fossero cristianizzati. Queste poesie sono frutto di vari viaggi in Israele e chiedono perdono dei peccati cristiani, come nella poesia Yom Kippur di una cristiana:

Figlia di Sion
Solo tu puoi perdonare, tu che soffri
Trasforma i nomi
di Roma, Varsavia, Auschwitz
In gigli intrecciati d'incenso

Ma sono poesie che testimoniano con gioia anche di una nazione ebraica rediviva:[20]

Non si riuscirà mai a rievocare tutto il sangue e la sofferenza di Israele,
Ma ora i cieli hanno alti arcobaleni
Perché Israele è viva.

La difficoltà di definire l'elemento ebraico è quindi da evidenziarsi particolarmente in merito della narrativa italiana. Il critico Giorgio Romano parla di "esempi specifici della trattazione di temi ebraici, in opere di scrittori ebrei". Continua dicendo che la definizione di quale esattamente sia l'elemento ebraico nell'opera di uno scrittore o romanziere è estremamente difficile. Alcuni vedono l'introspezione ed il pessimismo come l'elemento caratteristico; altri il morso della satira e l'umorismo (sebbene l'umorismo — come disse Umberto Saba — sia "la forma suprema della generosità"); e altri ancora il tipo di comportamento che contesta le banalità e sfata le nozioni comunemente diffuse.[21] Sebbene la difficoltà di definizione sia pienamente comprensibile, i termini dell'analisi non portano oltre tale limitazione. Ogni utilizzo solleva la domanda, e per tale ragione qui tendiamo ad evitare la definizione completamente, finanche a non imporre le restrizione di includere un soggetto ebraico palese. In vari modi, abbiamo visto lo scrittore ebreo affrontare una larga gamma di temi in racconti, poesie, saggi, memorie e romanzi, che abbiamo provato ad accettare nei termini dell'opera stessa. E quindi i soggetti sono stati illuminati, come tutto il materiale ne è illuminato, dalla più grande letteratura.[21]

Ciò nondimeno, si deve notare che la scena presentata dallo scrittore, anche quando deriva da un destino e condizione specificamente ebraici, è generalmente condotta in termini di umanità nel suo complesso. Primo Levi si preoccupa dell'immagine di "uomo" (come fa la diarista Liana Millu, che ebbe un'esperienza simile). I Finzi-Contini sono separati dagli altri ebrei, e hanno una loro speciale tradizione ebraica che deriva dall'a scendenza e lealtà spagnole (quindi sefardite). Ma il loro contegno aristocratico è di tipo universale, basato su un modello locale. La letteratura ebraica italiana è stata un prodotto prevalentemente italiano a partire dalla scomparsa della tradizione ebraica nei primi anni del XX secolo. Queste qualificazioni devono essere sottolineate: sebbene essa nuoti in entrambe le correnti, queste correnti sono di tipo diverso.[22]

Allora ricordiamo en passant i seguenti scrittori italiani (non meno significativi):

  1. 1,0 1,1 1,2 1,3 1,4 1,5 Per i dettagli demografici e storici dell'ebraismo italiano, cfr. Centro di Documentalia Ebraica Contemporanea, Gli Ebrei in Italia, nr. 2, Milano, 1962; si vedano anche Sergio Della Pergola, Anatomia dell'ebraismo italiano. Caratteristiche demografiche, economiche, sociali, religiose e politiche di una minoranza, Roma: Crasucci, 1976; Attilio Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino: Einaudi, 1963; Shlomo Simonsohn, The Jews of Italy: Antiquity, Brill Academic Publ., 2014; ed il classico Cecil Roth, The History of the Jews in Italy, Jewish Publication Society of America, 1946.
  2. Gerald Reitlinger, Final Solution: Attempt to Exterminate the Jews of Europe, 1939-45, Vallentine Mitchell & Co., ed. rived. 1968. Cfr. anche Martin Gilbert, The Holocaust, HarperCollins, 1989; Raul Hillberg, The Destruction of the European Jews, Holmes & Meier Publishers, ediz. minore, 1986.
  3. Laura Quercioli Mincer, Patrie dei superstiti. Letteratura ebraica del dopoguerra in Italia e in Polonia, Lithos,2010; si veda anche Roberto Bonfil & Maria Mayer (curatori), Italia : studi e ricerche sulla cultura e sulla letteratura degli ebrei d'Italia, Vol. 1 Nr. 1, Universita Ebraica Gerusalemme - Istituto di lingue e letterature, 1976.
  4. 4,0 4,1 4,2 4,3 4,4 4,5 4,6 Scheda biografica di Natalia Ginzburg, su italiadonna.it. Natalia Levi nacque a Palermo il 14 luglio del 1916, da un padre medico rinomato e da Livia Tanzi. Tornata a Torino, città originaria della sua famiglia, all'età di tre anni, fu circondata da un'atmosfera specificatamente intellettuale e anti-fascista, e fece l'abitudine ai continui controlli della polizia e persino all'imprigionamento, che toccò diversi membri della famiglia Levi. Questo periodo fu brillantemente sintetizzato dalla scrittrice nel suo romanzo Lessico famigliare (1963), con il quale vinse il premio Strega. Sposatasi nel 1938 con l'intellettruale di Odessa, Leone Ginzburg, tra il 1943 e il 1944, i Ginzburg presero parte a diverse attività di editoria clandestina (a causa del fascismo e delle leggi razziali) ed al loro ritorno a Roma, Leone fu arrestato e condotto in prigione, dove morì per tortura, senza poter rivedere la moglie ed i tre figli. Natalia passò il suo tempo con i figli e, nel 1945, tornò a Torino, dove lavorò come assistente editore per l'Einaudi. Il frutto di questo periodo difficile fu il romanzo breve È stato così, pubblicato nel 1947. Nel 1952, si sposò con il professore di inglese, Gabriele Baldini e si spostò a Roma. Nello stesso anno, pubblicò Tutti i nostri ieri, la sua impresa letteraria più lunga ed ambiziosa. Nel 1957, uscì Valentino, e il romanzo breve Sagittario. Nel 1961, infine, pubblicò Le voci della sera, un ritorno alla saga familiare di Tutti i nostri ieri. Il secondo marito morì nel 1969 e, l'anno successivo, Natalia pubblicò Mai devi domandarmi, una divertente analisi del suo carattere. Tra il 1974 e il 1977, uscirono Vita immaginaria (1974), e Famiglia (1977). Negli anni '80, la scrittrice si dedicò alla politica e fu eletta alla Camera dei Deputati, con il PCI, sia nel 1983, che nel 1987. Nella sua attività parlamentare, la scrittrice si batté in diverse cause umanitarie, come l'abbassamento del costo del pane, l'assistenza ai bambini palestinesi, la persecuzione legale nei casi di stupro, ed infine insistette per una riforma delle leggi per l'adozione. Nel frattempo pubblicò anche una biografia di casa Manzoni, La famiglia Manzoni (1983), uno studio sul poeta fiorentino Sandro Penna, ed un romanzo caotico dal titolo La città è la casa (1984).Cfr. Nadia Castronuovo, Natalia Ginzburg. Jewishness as Moral Identity, Troubador Publishing, 2010; Maja Pflug, Natalia Ginzburg: Eine Biographie, Wagenbach Klaus Gmbh, 2011. Per gli stralci, si vedano Opere, volume 1 (1986), prefazione di Cesare Garboli, "Meridiani" Mondadori (contiene La strada che va in città - È stato così - Velentino - Sagittario - Le voci della sera - Le piccole virtù - Lessico famigliare e alcune commedie); e Opere, volume 2 (1987), ed. "Meridiani" Mondadori (contiene: Mai devi domandarmi - Paese di mare - Caro Michele - Vita immaginaria - Famiglia - La famiglia Manzoni - La città e la casa e scritti sparsi).
  5. Introduzione di Isabel Quigly alla trad. ingl. di Mai devi domandarmi (Never Must You Ask Me) del 1973.
  6. Alberto Moravia, pseudonimo di Alberto Pincherle (Roma, 28 novembre 1907 – Roma, 26 settembre 1990), è stato uno scrittore, giornalista, saggista, reporter di viaggio e drammaturgo italiano. Considerato uno dei più importanti romanzieri del XX secolo, ha esplorato nelle sue opere i temi della sessualità moderna, dell'alienazione sociale e dell'esistenzialismo. Salì alla ribalta nel 1929 con il romanzo Gli indifferenti, e pubblicò nella sua lunga carriera più di trenta romanzi. I temi centrali dell'opera di Moravia sono l'aridità morale, l'ipocrisia della vita contemporanea e la sostanziale incapacità degli uomini di raggiungere la felicità nei modi tradizionali. La sua scrittura è rinomata per lo stile semplice e austero, caratterizzato dall'uso di un vocabolario comune inserito in una sintassi elegante ed elaborata. Cfr. ASSOCIAZIONE FONDO ALBERTO MORAVIA e Wikipedia, s.v. "Alberto Moravia".
  7. 7,0 7,1 7,2 René de Ceccatty, Alberto Moravia, Flammarion, 2010, s.v. e passim.
  8. Alberto Moravia, Il disprezzo, Bompiani, 1954. Il romanzo è stato portato sul grande schermo da Jean-Luc Godard nel film omonimo del 1963 con Brigitte Bardot e Michel Piccoli.
  9. Alberto Moravia, Il conformista, Bompiani, 1951. Nel 1970, ne è stato tratto un film omonimo diretto da Bernardo Bertolucci.
  10. Alberto Moravia, La ciociara, Bompiani, 1957. Il romanzo è stato portato sul grande schermo nell'omonimo film di Vittorio De Sica del 1960.
  11. Attilio Milano, Storia degli ebrei in Italia, Einaudi, 1963/1992, s.v. "Bassani", e passim.
  12. 12,0 12,1 12,2 12,3 12,4 Bassani è al centro di una vasta bibliografia, tra cui Massimo Grillandi, Invito alla lettura di Giorgio Bassani, Ugo Mursia Editore, 1984; per il testo che segue si vedano soprattutto Giorgio Varanini, Bassani narratore, poeta, saggista, Mucchi, 1991; Adriano Bon, Come leggere "Il giardino dei Finzi-Contini" di Giorgio Bassani, Ugo Mursia Editore, 1994; Andrea Guiati, L'invenzione poetica. Ferrara e l'opera di Giorgio Bassani, Metauro, 2001; Alberto Toni, Con Bassani verso Ferrara, Unicopli, 2001; Walter Moretti, Da Dante a Bassani. Studi sulla tradizione letteraria ferrarese e altro, Le Lettere, 2002. Esaustiva è la bibliografia pubblicata da Portia Prebys, Giorgio Bassani: bibliografia sulle opere e sulla vita, Centro Editoriale Toscano, 2002.
  13. Dietro la porta, in Il Romanzo di Ferrara, Oscar Mondadori, 2 voll., 2009.
  14. 14,0 14,1 14,2 14,3 Tutte le opere di Primo Levi sono state raccolte in una collana a lui dedicata, Opere: I, Se questo è un uomo; La tregua; Il sistema periodico; I sommersi e i salvati; II, Romanzi e poesie; III, Racconti e saggi, Torino, Einaudi, 1987-1990. Quanto alla critica letteraria sullo scrittore, i saggi sono numerosi e in molte lingue; in italiano cfr. Roberto Mauro, Primo Levi: il dialogo è interminabile, Casa Editrice Giuntina, 2009; Ferdinando Camon, Conversazione con Primo Levi, Milano, Garzanti, 1991; Gabriella Poli e Giorgio Calcagno, Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e conversazioni con Primo Levi, Milano, Mursia, 1992; Conversazioni e interviste 1963-1987, Torino, Einaudi, 1997; R.Levi Montalcini, Senz'olio controvento, Laterza, 1996.
  15. Tutti gli stralci sono presi da Se questo è un uomo, in Opere ("Biblioteca dell'Orsa" n. 6), Einaudi, 1987.
  16. Si veda anche Liana Millu, Il fumo di Birkenau, Giuntina, 1995; Elie Wiesel, La notte, Giuntina, 1980, 21ma ed. 1995.
  17. Roberto Mauro, Primo Levi: il dialogo è interminabile, Giuntina, 2009, pp. 18-19.
  18. Incipit di Se questo è un uomo, poi inserita nella raccolta Ad ora incerta, Garzanti, 1984.
  19. Attilio Milano, Storia degli ebrei in Italia, Einaudi, 1963, loc. cit.
  20. Anna Maria Caredio, Amo Israele, Lorenzioni & Fabiani, 1969.
  21. 21,0 21,1 [http://www.jstor.org/discover/10.2307/41431089?uid=3738032&uid=2&uid=4&sid=21104839205941 Giorgio Romano, "The Jewish Novel in Italy", European Judaism, 1970, Vol. 4, nr. 2, 1970, pp. 27-34.
  22. H. Schirman, Mivhar Lashirah Laivrit beitalyah, Berlino, rist. 1984 (in ebr.)