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Storia della letteratura italiana/La corte di Lorenzo il Magnifico

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Storia della letteratura italiana
Storia della letteratura italiana
  1. Dalle origini al XIV secolo
  2. Umanesimo e Rinascimento
  3. Controriforma e Barocco
  4. Arcadia e Illuminismo
  5. Età napoleonica e Romanticismo
  6. L'Italia post-unitaria
  7. Prima metà del Novecento
  8. Dal secondo dopoguerra a oggi
Bibliografia

Nel 1469 Lorenzo de' Medici detto il Magnifico succede al padre Piero nell'amministrazione di Firenze. Sotto la sua guida la città conosce un periodo di splendore e accresce la sua importanza artistico-letteraria (lo stesso Lorenzo è autore di svariati componimenti). Il suo sforzo di affinare e ripulire la lingua toscana fondandola sui canoni poetici due e trecenteschi culmina nella Raccolta Aragonense, un'antologia della lirica in lingua toscana i cui maggiori esponenti sono Cavalcanti, Dante e Petrarca. È inoltre mecenate per molti artisti che si riuniscono alla sua corte.

Lorenzo de' Medici, tra politica e letteratura

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Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Medici.
Lorenzo de' Medici ritratto da Agnolo Bronzino. 1555-1565, Firenze, Galleria degli Uffizi

Nel 1464 muore Cosimo de' Medici, che per un trentennio (dal 1434) aveva di fatto ricoperto la carica signore della città, e pochi anni dopo, nel 1469, scompare anche il suo successore, il figlio Piero. Il potere passa quindi al figlio di quest'ultimo, Lorenzo (Firenze, 1º gennaio 1449 – Careggi, 8 aprile 1492), che fino alla sua morte guiderà Firenze seguendo l'esempio del nonno Cosimo. Nonostante Lorenzo aspiri a portare avanti una politica di equilibrio e armonia, sul modello ideale dell'Atene classica, il suo governo coincide con un periodo particolarmente turbolento. La città è attraversata da tensioni, che impediscono di realizzare il sogno di equilibrio coltivato dal signore e dalla sua cerchia. Il momento più difficile è la congiura ordita dalla famiglia dei Pazzi con il sostegno del papa, che il 28 aprile 1478 costa la vita al fratello minore di Lorenzo, Giuliano. Alla congiura segue una dura repressione, che rafforza il potere di Lorenzo, rendendolo quasi assoluto. Negli ultimi anni della sua signoria, però, la predicazione del domenicano Gerolamo Savonarola diffonde nuove inquietudini che, poco dopo la scomparsa di Lorenzo, spazzeranno via il sogno di questa "novella Atene".

Firenze ha un ruolo centrale nella vita politica e culturale della penisola italiana nella seconda metà del Quattrocento. Lorenzo tesse una sapiente rete di relazioni diplomatiche con gli altri stati regionali e accresce il prestigio della città come centro culturale di livello europeo. A Firenze si raccolgono artisti, letterati e umanisti impegnati nello studio della cultura greca classica. Viene inoltre fondata una scuola filosofica che si rifà al pensiero di Platone e al platonismo, e che ha in Marsilio Ficino il suo animatore e massimo esponente. Lorenzo però sostiene anche la tradizione municipale e la letteratura in volgare, che attorno al 1470 rifiorisce e si confronta con la nuova cultura umanistica.[1]

Lo stesso Lorenzo de' Medici coltiva diversi interessi, tra cui la letteratura. Questa sua passione era già fiorita quando, poco più che ventenne, aveva ereditato il potere dal padre, e per tutto il corso della sua vita si dedicherà a comporre poesia. Lorenzo non si limita quindi a proteggere artisti e letterati: poeta egli stesso, è consapevole del significato e della portata della cultura che promuove. La sua produzione letteraria è varia e dimostra grande capacità di spaziare tra diversi stili e generi.[2]

I componimenti di Lorenzo sono però di difficile collocazione cronologica, anche perché l'autore è più volte ritornato sugli stessi testi. Un'edizione, peraltro incompleta, delle sue Poesie volgari è stata pubblicata solo nel 1554. In una prima fase, che inizia prima della presa del potere e si prolunga fino all'inizio degli anni settanta, la sua produzione segue due direzioni: una lirica ispirata a Petrarca e una poesia comico-burlesca, influenzata dall'amicizia con Pulci. A questa fase risale il poemetto Nencia da Barberino, che riprende il modello della satira del villano. L'interesse per le poesie ludiche diminuisce negli anni settanta per l'influsso della filosofia di Ficino, come si può notare nelle Orazioni e nel poemetto l'Altercazione. A partire dal 1473 lavora anche a un Commento sopra alcuni dei suoi sonetti con il quale, prendendo a modello Dante, vuole spiegare il significato delle sue Rime. A questi si affiancano altri componimenti di difficile datazione, come le ecloghe Corinto e Amori di Venere e di Marte, in cui è evidente l'influsso di Poliziano e del suo classicismo volgare.

Verso la fine della sua vita, anche Lorenzo risente delle inquietudini religiose dovute alla predicazione di Savonarola. Si dedica quindi ad alcune opere di letteratura religiosa popolare, componendo alcune laude, tra cui la Rappresentazione di Giovanni e Paolo. La produzione più celebre di Lorenzo è però legata ai canti carnascialeschi, un genere letterario legato ai festeggiamenti del carnevale. Tra questi si ricorda la Canzone di Bacco, con la sua famosa ripresa[3]

« Quant'è bella giovinezza
che si fugge tuttavia »

Il mecenatismo

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Lorenzo de' Medici raccolse attorno a sé una vera e propria "brigata", un gruppo di poeti e umanisti dediti alla letteratura in volgare. Uno di questi è Angelo Ambrogini detto il Poliziano. Il soprannome è dovuto al suo paese d'origine, Montepulciano, che lascia nel 1464, a soli dieci anni, per andare a studiare greco e latino a Firenze. Alla corte di Lorenzo il Magnifico in qualità precettore dei figli del signore, è stimato come l'intellettuale più prestigioso ed esemplare. La sua produzione poetica, sia latina sia volgare, è caratterizzata da un costante confronto tra modelli classici e medievali, ora distillati in complesse e ricercate espressioni (docta varietas), ora sovrapposti in giochi verbali dominati dalla sensualità della parola libera. L'opera in volgare più famosa del Poliziano, seppur incompiuta, sono le Stanze per la giostra, poemetto celebrativo della vittoria di Giuliano de' Medici alla giostra del 1475. Quest'ultimo viene trasfigurato nel giovane Iulio, che da "brutale" cacciatore è trasformato dall'amore per Simonetta, secondo una concezione neoplatonica della bellezza riportata in auge da Marsilio Ficino. Poliziano muore nel 1494 a Firenze, dove, tornato da un breve soggiorno nell'Italia settentrionale in cui aveva composto la Fabula di Orfeo, si dedicava alla carriera accademica.

Più estroversa è invece la figura del fiorentino Luigi Pulci: nato nel 1432, entra alla corte medicea nel 1460. Qui il suo temperamento bizzarro, scherzoso e irriverente viene dapprima apprezzato, ma diventa poi motivo d'emarginazione all'avvento della nuova visione culturale portata da Ficino. Stesso trattamento gli sarà riservato dagli altri signori dai quali cercherà protezione. Muore a Padova nel 1484, seppellito come eretico in terra sconsacrata. Il suo stampo bonario, materialista e antireligioso si imprimerà in tutte le sue opere e nei suoi personaggi.

Giovanni Pico della Mirandola ritratto da Cristofano dell'Altissimo

Tra i membri più in vista c'è anche Giovanni Pico della Mirandola (Mirandola, 24 febbraio 1463 – Firenze, 17 novembre 1494). Matematico, filosofo di formazione aristotelica, nato nella nobile famiglia dei signori di Mirandola, si stabilisce nella Firenze laurenziana nel 1486. A lui si deve l'introduzione dello studio della cabala nella filosofia occidentale. Riteneva inoltre che fosse possibile stabilire alcune verità generali, sulle quali tutti i dotti avrebbero potuto concordare. A questo scopo nel 1486 elabora novecento tesi, che vengono stampate a Roma e che avrebbero dovuto essere discusse durante un convegno, che poi non si è mai tenuto. Il convegno si sarebbe dovuto aprire con la celebre Oratio de hominis dignitate (1486), nella quale riprende alcuni temi del neoplatonismo e dell'ermetismo, ed espone un'originale concezione della libertà umana, secondo la quale l'uomo è l'unico animale a non essere predeterminato. Queste sue tesi verranno in seguito condannate dalla Chiesa. Pico continuerà però nel tentativo di trovare una concordia tra tutte le filosofie e tutte le religioni. Negli ultimi anni della sua breve esistenza si accosta a Savonarola, diventando egli stesso un domenicano. Questa vicinanza è forse alla causa della sua morte, probabilmente avvenuta per avvelenamento, nel giorno dell'ingresso di Carlo VIII a Firenze.[4]

La scuola neoplatonica di Firenze

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Marsilio Ficino, dettaglio della scena dell'Annuncio dell'angelo a Zaccaria di Domenico Ghirlandaio. Cappella Tornabuoni, Santa Maria Novella, Firenze

Durante la signoria dei Medici a Firenze l'attenzione degli intellettuali si sposta dalle tematiche civili a quelle metafisiche. Massima espressione di questo mutamento è la filosofia platonica di Marsilio Ficino (Figline Valdarno, 19 ottobre 1433 – Careggi, 1º ottobre 1499).

Già Petrarca e i primi umanisti avevano visto Platone come un'alternativa ai complessi sistemi metafisici delle filosofie aristoteliche medievali. Gli umanisti della seconda metà del Quattrocento ricavano invece dal filosofo ateniese una visione generale dell'universo, riprendendo inoltre Plotino, la tradizione neoplatonica che dall'antichità era sopravvissuta durante il Medioevo, e altre concezioni di provenienza orientale. Decisivo è l'incontro con gli studiosi greci dell'epoca, e in particolare con Giorgio Gemisto detto Pletone (Costantinopoli, 1355 circa – Mistra, 1452), che aveva fondato una religione neoplatonica e aveva soggiornato a Firenze nel 1439.

I risultati di questi nuovi interessi vengono raccolti da Marsilio Ficino, che tradurrà in latino le opere di Platone e altri scritti neoplatonici, tra cui i testi ermetici. Ficino inoltre vuole fare del platonismo un modello di vita per tutti coloro che partecipavano al circolo di Lorenzo de' Medici. Il suo obiettivo è riunire in una pia philosophia le tradizioni filosofiche e religiose dell'antichità, che considerava concordanti con il cristianesimo. Nella sua opera principale, la Theologia platonica de immortalitate animae, afferma che l'anima dell'uomo può sfuggire alla desolazione solo comunicando, attraverso la contemplazione, con l'elemento divino presente nella natura. L'uomo posseduto dall'amore finisce per identificarsi con l'amore divino; la natura può essere dominata dall'uomo, animale perfetto, attraverso la magia e l'astrologia, strumenti che gli consentono di inserirsi nel flusso armonioso delle cose.[5]

  1. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 215-216.
  2. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 221-222.
  3. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 222-224.
  4. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 231.
  5. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 216-217.