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Storia della letteratura italiana/Luigi Pirandello

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Storia della letteratura italiana
Storia della letteratura italiana

Il periodo tra Otto e Novecento è caratterizzato dal processo di sfaldamento dell'io e dalla crisi dell'idea di realtà ordinata e unitaria propugnata dal Positivismo. Questo trova in Luigi Pirandello uno dei più acuti interpreti. Per Pirandello la società incanala la vita verso modelli artificiosi, è "un'enorme pupazzata", nella quale ognuno porta una maschera e recita una sua parte.

La giovinezza

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Luigi Pirandello nel 1934

Luigi Pirandello nacque il 28 giugno 1867 a Girgenti (che sarebbe diventata Agrigento durante il ventennio fascista). La sua era un'agiata famiglia borghese, di tradizioni garibaldine, e il padre era direttore di alcune miniere di zolfo. Terminato il liceo frequentò l'università di Palermo, poi la facoltà di lettere a Roma. Successivamente, a causa di dissapori con uno dei suoi docenti, si trasferì nell'ateneo di Bonn, dove nel 1891 ottenne una laurea in filologia romanza con una tesi intitolata Suoni e sviluppo di suoni nel dialetto di Girgenti. Intanto, in questi anni Pirandello si era già dedicato alle prime prove letterarie, componendo alcune poesie e una tragedia. Il soggiorno in Germania gli permise poi di conoscere la cultura tedesca e in particolare gli autori romantici, che influenzarono profondamente la sua opera e le sue teorie sull'umorismo.

Grazie a un assegno concessogli dal padre, nel 1892 si stabilì a Roma per occuparti unicamente di letteratura. Entrò nell'ambiente culturale romano, soprattutto grazie ai conterranei Ugo Fleres e Luigi Capuana. Al 1893 risale il suo primo romanzo, L'esclusa (pubblicato però nel 1901) e al 1894 una prima raccolta di racconti, Amori senza amore. Sempre nel 1894 aveva sposato a Girgenti Maria Antonietta Portulano; i coniugi andarono poi a vivere a Roma. Dal 1897 divenne supplente di lingua italiana presso l'Istituto Superiore di Magistero di Roma, e dal 1908 fu docente di ruolo. Pubblicò intanto saggi e articoli su varie riviste, tra cui il Marzocco, che contava fra i suoi collaboratori anche Pascoli e D'Annunzio, e scrisse la sua prima commedia, Il nibbio (1896), che sarebbe poi stata ripresa e ripubblicata con il titolo Se non così (1915).[1]

Le difficoltà economiche

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Nel 1903 un allagamento danneggiò la miniera di zolfo del padre, in cui erano stato investito l'intero patrimonio della famiglia, compresa la dote della moglie di Pirandello. Alla notizia del disastro economico la salute mentale della donna, già fragile, collassò. La convivenza con Maria Antonietta, sprofondata nella follia e patologicamente gelosa, divenne per lo scrittore un tormento. In questo è possibile vedere il germe della concezione pirandelliana dell'istituto familiare, considerato come una "trappola" soffocante.

Per integrare il magro stipendio da professore, Pirandello dovette incrementare la produzione di novelle e romanzi da destinare all'editoria, che fra il 1904 e il 1915 si fece copiosa; scrisse anche soggetti per film. Come accadde a Svevo e ad altri scrittori, dunque, anche Pirandello dovette sperimentare la declassazione sociale, il passaggio dall'agio borghese a una condizione piccolo borghese, fenomeno tipico della situazione sociale del tempo, e in particolare della condizione intellettuale.

Questo fatto fornì allo scrittore lo spunto per rappresentare il grigiore opprimente della vita piccolo borghese, che fu trattato in tante novelle; non solo, ma acuì anche il suo rifiuto irrazionalistico e "anarchico" di un meccanismo sociale che conduceva all'alienazione, sentito come una "trappola" immensa in cui l'uomo si dibatte senza scampo, nel tentativo di tornare alla spontaneità originaria della vita. Le novelle, pubblicate su giornali e riviste, furono poi raccolte dallo scrittore stesso in vari volumi, ottenendo un buon successo di pubblico e una scarsa attenzione da parte della critica, che lo considerava un umorista di non grande rilevanza, quasi un autore commerciale.[2]

Pirandello e il teatro

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Pirandello nel 1930 con l'attrice Marta Abba

Il primo contatto di Pirandello con il mondo del teatro risale al 1910, quando la compagnia di Nino Martoglio, a Roma, rappresentò i due atti unici Lumìe di Sicilia e La morsa. La sua produzione teatrale si intensificò dal 1915, quando venne messa in scena a Milano, dalla compagnia di Marco Praga, la prima commedia in tre atti, Se non così. Da quel momento Pirandello divenne uno scrittore prevalentemente teatrale, anche se mai abbandonò la narrativa. Drammi come Pensaci, Giacomino!, Liolà, Così è (se vi pare), Il berretto a sonagli, Il piacere dell'onestà, Il giuoco delle parti, scritti e fatti rappresentare tra il 1916 e il 1918, modificavano profondamente il linguaggio della scena del tempo e suscitarono nel pubblico e nella critica reazioni di sconcerto.

Sullo sfondo si muoveva la prima guerra mondiale. Patriota, Pirandello aveva accolto favorevolmente l'intervento, ritenendolo una sorta di compimento del processo risorgimentale non portato a termine. La guerra ebbe però per lui conseguenze dolorose: il figlio Stefano fu fatto prigioniero dagli Austriaci e, essendo vano ogni tentativo per farlo liberare, la malattia della moglie si aggravò al punto da rendere necessario il suo internamento in una casa di cura, dove rimase fino alla morte.

Il teatro pirandelliano conobbe il successo di pubblico a partire dal 1920. Al 1921 risalgono i Sei personaggi in cerca d'autore, che rivoluzionarono il linguaggio teatrale al punto da suscitare dapprima reazioni addirittura furibonde, ma incontrando poi un successo trionfale, anche all'estero. In conseguenza di ciò, Pirandello poté abbandonare la vita piccolo borghese del professore, lasciando la cattedra nel 1922 e dedicandosi integralmente al teatro, seguendo le compagnie nelle loro tournée e seguendo gli allestimenti dei suoi testi. Dal 1925 assunse la direzione del Teatro d'Arte a Roma. Ebbe una relazione sentimentale, ma platonica, con una giovane attrice della compagnia, Marta Abba, per la quale scrisse diversi drammi.[2]

Le relazioni col fascismo

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Fu anche il finanziamento dello Stato a permettere a Pirandello l'esperienza del teatro d'arte. Lo scrittore nel 1924, subito dopo il delitto Matteotti, si era iscritto al Partito Fascista, allo scopo di ottenere appoggi dal regime. L'adesione al fascismo ebbe però caratteri ambigui e difficilmente classificabili. Se da un lato il suo conservatorismo politico e sociale lo spingeva a vedere nel regime di Mussolini una garanzia d'ordine, dall'altro, invece, vi vedeva una genuina forza che spazzava via le forme soffocanti e posticce di vita sociale dell'Italia postunitaria.

Si rese presto conto, però, del carattere formale e fasullo del regime, della pomposità ridondante dei suoi riti ufficiali e, sia pure evitando ogni forma di dissenso, accentuò il distacco, che mascherava un sottile disprezzo. La critica alle istituzioni sociali e delle maschere che esse imponevano non poteva certo risparmiare il regime fascista, che esemplificava magnificamente la falsità del vivere sociale.

Nei suoi ultimi anni, lo scrittore curò particolarmente la pubblicazione delle sue opere, in numerosi volumi: le novelle erano raccolte in Novelle per un anno, i testi drammatici in Maschere nude. Ricevette il premio Nobel per la Letteratura nel 1934. S'interessava anche del cinema (anche se consapevole della minaccia che costituiva per la vita del teatro) e seguiva gli adattamenti delle sue opere per il grande schermo. Mentre assisteva, a Cinecittà, alle riprese di un film basato dal suo romanzo Il fu Mattia Pascal, si ammalò di polmonite, che lo portò alla morte il 10 dicembre 1936. Lasciò incompiuto un ultimo testo teatrale, I giganti della montagna, in cui culminava una nuova fase della sua produzione teatrale, quella dei "miti".[3]

Il "perpetuo movimento vitale"

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Pirandello nel 1906

Alla base della visione del mondo pirandelliana è una concezione vitalistica, affine a quella delle contemporanee filosofie di Bergson e Georg Simmel. Tutta la realtà è vita, intesa come eterno divenire, "perpetuo movimento vitale", incessante trasformazione delle cose da uno stato all'altro, un "flusso continuo, incandescente, indistinto". Tutto ciò che si stacca da questo "flusso" e assume una forma individuale si irrigidisce, si rapprende, inizia a morire.

Questo vale anche per l'identità personale dell'uomo; noi facciamo indissolubilmente e indistintamente parte dell' "universale ed eterno fluire" della "vita", ma tendiamo a cristallizzarci in forme individuali, a irrigidirci in una realtà che noi stessi ci imponiamo, in una personalità che ci sforziamo di rendere coerente e unitaria. Questa personalità non è altro che un'illusione e scaturisce dalla soggettività con cui guardiamo il mondo, che ci isola come in un cono di luce e ci separa, fittiziamente, dal resto della vita, che resta al buio (è questa la "filosofia del lanternino" di cui si parla ne Il fu Mattia Pascal). E se noi stessi ci fissiamo in forme, anche gli altri, attraverso la loro prospettiva particolare, ci attribuiscono forme diverse. Non siamo uno per noi stessi e per gli altri, come crediamo; siamo tanti individui diversi, che cambiano a seconda della visione di chi guarda (tema affrontato in particolare in Uno, nessuno e centomila). Ad esempio, un individuo può essere convinto di essere un onesto lavoratore e contemporaneamente essere visto dagli altri come un individuo disonesto e senza scrupoli, o anche viceversa.

Queste "forme" altro non sono che costruzioni fittizie, "maschere" che ci imponiamo da noi e che ci sono imposte dal contesto sociale. Dietro queste maschere, però, non c'è un volto definito e immutabile; piuttosto si potrebbe dire che non c'è nessuno. Vi è un fluire incoerente e indistinto di stati in perenne trasformazione e trasmutazione, per cui un istante più tardi non siamo più chi eravamo l'istante prima. Pirandello conobbe le teorie dello psicologo Alfred Binet e vi si appassionò: era convinto che nell'uomo coesistessero più persone, ignote a lui stesso, che possono emergere inaspettatamente. Inevitabile fu quindi la serrata critica al concetto di identità personale, di "io", cui si appellava la coscienza comune e che informava una lunga tradizione filosofica.[4]

La critica dell'idea di realtà oggettiva e del soggetto

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Nella civiltà novecentesca l'idea di una realtà interamente conoscibile e gestibile dalla ragione è ormai entrata in crisi. La realtà non è più oggettiva, organica, interpretabile in maniera univoca attraverso schemi razionali; allo stesso modo, anche il soggetto che interpreta tale realtà non è più un soggetto "forte", unitario, indiscutibile punto di riferimento in ogni rapporto con la realtà. L'io non è più "io": si disgrega, si sfalda, si smarrisce, perde i propri confini e abbandona ogni certezza.[4]

Questo processo di smaterializzazione dell'io risente delle trasformazioni in atto nella società contemporanea, pervasa da forze che tendono proprio alla disgregazione, e non all'unitarietà. Si affermano tendenze spersonalizzanti: l'affermarsi del capitale monopolistico annulla l'iniziativa individuale e spersonalizza il lavoratore dissolvendolo in grandi sistemi produttivi anonimi; il singolo, anche per l'avvento dei macchinari industriali e del lavoro in fabbrica, è ridotto a una minuscola rotella di un immenso ingranaggio; la nascita di mastodontici apparati burocratici, che producono sull'individuo un effetto analogo; la formazione delle grandi metropoli moderne, in cui ogni relazione personale viene meno e l'esistenza sprofonda nell'anonimato.

Tutti questi fenomeni conducono al tramonto dell'idea classica dell'individuo faber fortunae suae, dalla personalità inconfondibile e definita, che aveva fino ad allora costituito la base della mentalità della borghesia ottocentesca nel momento della sua ascesa. Inizialmente, questo nuovo mondo induce a un secco rifiuto della realtà oggettiva e alla chiusura nella propria soggettività, ma poi è la stessa soggettività a sfaldarsi irrimediabilmente. L'io si frantuma in una serie di stati incoerenti. Pirandello coglie e interpreta acutamente tutti questi fenomeni, tanto nella filosofia come nelle opere letterarie. È la presa di coscienza della propria inconsistenza a suscitare sgomento e dolore nei personaggi pirandelliani, che si vedono oppressi da un senso di solitudine tremenda, ridotti a essere "nessuno", privi di una propria definita identità. Viceversa, l'individuo soffre anche a vedersi circoscritto in "forme" che gli altri calano su di lui per identificarlo, forme in cui non si riconosce. Così, l'uomo può solo esaminarsi dall'esterno, "vedersi vivere". È come sdoppiato nel compiere gli atti quotidiani che la sua "maschera" gli impone, che gli appaiono privi di ogni senso.[5]

La vita sociale: una "enorme pupazzata"

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La vita sociale è sentita come un carcere (a questo proposito il critico Giovanni Macchia ha parlato della condizione tipica dei personaggi pirandelliani come di una "stanza della tortura"), in cui l'individuo può solo dibattersi invano. La crudeltà che domina i rapporti sociali, al di sotto dei formalismi e delle buone maniere, è acutamente percepita dallo scrittore. La società gli appare quindi come una "enorme pupazzata", una costruzione artificiosa che separa l'uomo dalla realtà, dalla "vita", lo impoverisce e lo irrigidisce, lo destina a una morte prematura, anche se apparentemente continua a vivere.

C'è un rifiuto delle forme della vita sociale a pervadere tutta l'opera pirandelliana, degli istituti, dei ruoli che impone; conseguentemente, vi si scorge anche un bisogno disperato di autenticità, di spontaneità. La vita stessa di Pirandello si svolge in questa società, in questo perbenismo esteriore, ma egli è in realtà fondamentalmente un anarchico, insofferente alle costrizioni della società, contro cui scaglia una critica impietosa. Le convenzioni e le finzioni su cui la vita si fonda, le "maschere" che costringe a indossare, vengono irrise e disgregate, tanto nella sua opera narrativa quanto nei suoi romanzi.

Nello specifico, Pirandello scaglia la sua critica distruttiva sull'Italia giolittiana e postbellica: soprattutto nelle novelle e nei romanzi si mette corrosivamente in ridicolo la condizione piccolo-borghese e la sua angustia opprimente, mentre l'opera teatrale preferisce concentrarsi su ambienti alto-borghesi. L'istituto che rappresenta la "trappola", la "forma" per eccellenza è la famiglia. L'atmosfera soffocante dell'ambiente familiare con il suo grigiore, le sue recondite tensioni, gli odi, i rancori, le ipocrisie e le menzogne, mescolati ad affetti sotterranei e viscerali, vengono magistralmente ritratti.

La seconda grande "trappola" è quella economica, data dalla condizione sociale e dal lavoro, almeno a livello piccolo-borghese. Una condizione di vita misera e stentata opprime gli eroi pirandelliani, costretti a lavori monotoni e frustranti, all'ubbidienza cieca a un'organizzazione gerarchica oppressiva. Non esiste una via d'uscita storica da questa condizione: il suo pessimismo totale non gli lascia immaginare forme di società diverse. Anzi, è proprio la società in quanto tale che è condannabile, perché imprigiona e reprime il movimento vitale. La sua feroce critica resta perciò tutta pars destruens, senza proporre alternative e ideologicamente accompagnandosi a posizioni marcatamente conservatrici, quasi reazionarie.[5]

Il rifiuto della socialità

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Per Pirandello la società borghese a lui contemporanea è una "trappola" mortificante non a causa di un processo storico, ma come manifestazione di una condizione universale, assoluta. L'unica via di relativa salvezza possibile è la fuga nell'irrazionale, nell'immaginazione che apre la strada che porta a un "altrove" di fantasia, come per l'impiegato Belluca di Il treno ha fischiato, che sopporta l'oppressione del suo lavoro di contabile e della famiglia da mantenere sognando paesi lontani. Ci si può anche rifugiare nella follia, strumento di protesta per eccellenza contro le forme della vita sociale, l'arma che rivela l'inconsistenza di convenzioni e rituali, riducendoli all'assurdo (si pensi all' Enrico IV o a Uno, nessuno e centomila).

L'eroe che rifiuta la socialità è il "forestiere della vita", colui che "ha capito il giuoco": avendo compreso il carattere assurdo e fittizio della vita, se ne esclude isolandosi e guardando vivere gli altri da una superiore consapevolezza, rifiutando decisamente la sua "parte", osservando con irrisione e pietà gli altri, imprigionati nella "trappola".

È sempre questo che Pirandello definisce "filosofia del lontano", che consiste nel contemplare la realtà come da un'infinita distanza, sottoponendola perciò a uno straniamento e rivelando l'inconsistenza e l'assurdità di tutto ciò che si considera "normale". In questa condizione di eroe isolato dalla realtà si proietta la condizione di Pirandello come intellettuale, che rifiuta l'impegno politico attivo perseguito da altri intellettuali del primo Novecento (pur subendone l'influenza) e, nel suo pessimismo assoluto, riserva per sé solo un ruolo contemplativo, di lucida contemplazione del reale.[6]

La molteplicità del reale e il relativismo conoscitivo

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Il vitalismo di Pirandello ha delle conseguenze anche sul piano conoscitivo. Una realtà confusa, magmatica, in perpetuo divenire, non può essere fissata in schemi e moduli definiti, totalizzanti. Ogni immagine globale che pretenda di sistemarla organicamente e onnicomprensivamente non è che una proiezione soggettiva. Non esiste una prospettiva privilegiata da cui osservare un reale che è caotico, polivalente, multiforme; le prospettive sono anzi infinite ed equivalenti.

È dunque un radicale relativismo conoscitivo a caratterizzare la visione pirandelliana, escludendo la possibilità di una realtà oggettiva fissata a priori, una volta per tutte. La verità di ciascuno è diversa, in quanto nasce dalla maniera soggettiva di vedere e intendere le cose. Ne consegue un'inevitabile incomunicabilità tra gli uomini: non è possibile che essi si intendano, perché la realtà a cui ciascuno si riferisce è la propria realtà e non sa, né può sapere, quale e come sia la realtà dell'interlocutore. Nelle parole si proietta il proprio mondo soggettivo, inconoscibile per chiunque altro. Questo senso di incomunicabilità accresce la solitudine dell'individuo, che si scopre "nessuno"; la possibilità di veri rapporti sociali è definitivamente in crisi e il carattere fittizio di quelli convenzionali è svelato senza pietà.

Il relativismo conoscitivo e il soggettivismo assoluto collegano Pirandello al clima culturale europeo del primo Novecento, in cui vengono definitivamente meno le certezze che erano state del Positivismo e del Razionalismo. La posizione pirandelliana, in questo contesto, viene quindi abitualmente fatta rientrare nell'ambito del decadentismo. Considerando però quest'ultima categoria nell'accezione più stretta e ritenendo il decadentismo come una seconda fase del clima culturale romantico, per vari aspetti lo scrittore ne appare al di fuori.

Alla base del decadentismo vi è un sostanziale misticismo, imperniato sulla fiducia in un ordine misterioso e superiore che unisca tutte le realtà, compresi gli individui, in un'intricata rete di "corrispondenze" che collegano l'io e il mondo in una totalità; in momenti privilegiati, dunque, uno slancio mistico può portare il soggetto a cogliere l'essenza ultima della realtà. Se si possono ravvisare simili tendenze nell'opera pirandelliana (si veda, per esempio, l'estasi di Ciàula alla scoperta della luce lunare), è anche vero che esse entrano in conflitto con tendenze opposte: la realtà, nella visione umoristica dello scrittore, si sfalda in innumerevoli frammenti privi di senso complessivo. Preclusa la possibilità stessa di un'essenza ultima, non resta che prendere atto dell'incoerenza e insensatezza del reale.

Quanto si è detto finora colloca Pirandello già oltre il decadentismo, in un clima tipicamente novecentesco. Così accade anche per la crisi dell'io. Il decadentismo, come già il Romanticismo, nella fuga da una realtà storica negativa giungeva alla gelosa chiusura nella propria soggettività, ponendo l'io al centro del mondo (o, meglio, identificava sostanzialmente il mondo con l'io). Per Pirandello l'io si frantuma anch'esso in frammenti incoerenti, rendendo impossibile qualsiasi assolutizzazione. L'esperienza del reale non ha più un centro, il soggetto diviene "nessuno" (è da notare, tuttavia, che questo vale per il Pirandello della fase centrale, mentre l'ultimo Pirandello, nella fase dei "miti", riaccoglierà istanze misticheggianti).[7]

L'"umorismo"

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Un testo fondamentale per comprendere la poetica pirandelliana è il saggio L'umorismo, risalente al 1908. Il volume è diviso in due parti: nella prima, di taglio storico, l'autore passa in rassegna varie manifestazioni dell'arte umoristica; nella seconda, più teorica, Pirandello definisce il concetto di "umorismo".

Pirandello sostiene che l'opera d'arte scaturisce dal "libero movimento della vita interiore". Nel momento in cui viene concepita l'opera, la riflessione rimane nascosta, invisibile, ed è quasi una forma del sentimento. Per quanto concerne l'opera umoristica, invece, la riflessione è manifesta e slegata dal sentimento: di qui nasce il "sentimento del contrario", che nell'ottica pirandelliana è il tratto caratterizzante dell'umorismo. Nel suo scritto propone l'esempio di una vecchia signora con i capelli tinti e tutta imbellettata, che dà l'impressione dell'esatto contrario di ciò che una vecchia signora dovrebbe essere. In questo "avvertimento del contrario" risiede il comico. Ma subentra poi la riflessione, a suggerire che quella signora forse si vergogna di girare così conciata e lo fa solo perché si illude di poter conservare l'amore del marito più giovane: se è così, non si può più solo ridere, dall'"avvertimento del contrario" si passa al "sentimento del contrario", cioè all'atteggiamento umoristico.

Attraverso la riflessione nell'arte umoristica si arriva a cogliere il carattere molteplice e contraddittorio del reale, permette di guardarlo da diverse prospettive contemporaneamente. Cogliendo il ridicolo di una persona, infatti, se ne coglie contemporaneamente anche la sofferenza, a cui si può guardare con pietà. Viceversa, se ci si trova di fronte al serio e al tragico, la riflessione non può che svelare anche il ridicolo. In una realtà multiforme e caotica, tragico e comico non vanno mai disgiunti, e il comico è come l'ombra inseparabile dal corpo del tragico.[8]

L'arte novecentesca: una definizione

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Sebbene nel saggio di Pirandello si affermi che l'umorismo è presente nella letteratura di tutti i tempi, la definizione che ne viene proposta si adatta perfettamente all'arte contemporanea, prodotta della crisi novecentesca. È un'arte riflessa, mai disgiunta dalla lucida consapevolezza di se stessa, che si strania nel suo prodursi, si sdoppia, contempla se stessa, non viene mai a coincidere con una prospettiva univoca, ma deve scrutare sempre l'oggetto anche dal punto di vista opposto. Con una metafora musicale, Pirandello la definisce un'arte "fuori di chiave", cioè disarmonica e turbata da dissonanze, in cui ogni pensiero nasce insieme al suo opposto; lo scrittore continuamente crea e insieme critica e scompagina ciò che ha creato. È un'arte che non costruisce immagini armoniche, non rappresenta un mondo unitario e ordinato; al contrario, tende a scomporre, a disgregare, a portare alla luce stridori, incoerenze, contrasti.

Quest'arte è l'arte moderna per eccellenza, perché riflette la consapevolezza di un mondo non più ordinato e unitario, ma frantumato in molteplici prospettive, fra le quali non ne esiste una privilegiata, privo di punti di riferimento fissi. C'è solo ambiguità e contraddizione lacerante. È un'arte eminentemente critica, impietosa nel dissolvere luoghi comuni e abitudini di pensiero consolidate, che costringe a osservare la realtà da prospettive inedite e stranianti, capaci di scardinare comodi sistemi di certezze. Questa è però anche una definizione della stessa poetica pirandelliana. Le sue opere, novelle, romanzi e drammi (eccettuando forse l'ultima produzione, i "miti"), sono tutti testi "umoristici", in cui esiste un connubio indissolubile di tragico e comico, di riso e serietà, da cui non emerge alcuna visione unitaria e ordinata della realtà, ma la percezione di un mondo frantumato, polivalente, tendente all'assurdo.[8]

Dalla giovinezza alla maturità, Pirandello compose varie poesie negli anni che vanno dal 1883 al 1912. Nei suoi componimenti, tuttavia, prende le distanze dalle correnti poetiche che avevano caratterizzato la scena letteraria tra la seconda metà dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, come il simbolismo, il futurismo e il crepuscolarismo. Diversamente da questi movimenti, Pirandello conserva le strutture metriche e i moduli espressivi della tradizione e risente, soprattutto nella prima fase, dell'influenza di Carducci.

Nella prima raccolta, intitolata Mal giocondo (1889), si rammarica dell'impossibilità del suo sogno di armonia di ascendenza classica, che si scontra con la scienze moderna che disgrega ogni cosa. L'opera però si chiude con un invito ad abbandonarsi fiduciosi alla Natura. Pasqua di Gea (1891) riprende il tema pagano dell'armonia in chiave carducciana, ma usa anche toni malinconici e insiste sull'inutilità della vita. Le Elegie renane (1895) riprendono le Elegie romane di Goethe, mentre spunti stranianti e umoristici compaiono nella Zampogna (1901), che risente in parte dell'influenza di Pascoli (anche se resterà estraneo al simbolismo e alla poetica delle corrispondenze). Nell'ultima raccolta, Fuori di chiave (1912), viene precisato l'umorismo tipico dell'autore, con il quale ribalta lo statuto lirico della poesia. Affiorano inoltre temi che Pirandello affronta nella sua narrativa, come la pluralità dell'io e la fine dell'antropocentrismo.[9]

Particolarmente importanti nella produzione pirandelliana sono le novelle. Lo scrittore ne compose moltissime, e da subito si preoccupò di raccoglierle in volumi. I primi furono Amori senza amore (1894), Beffe della morte e della vita (in due serie, del 1902 e 1903), Quand'ero matto (1903), a cui ne seguirono molti altri fino al 1919. Nel 1922 progettò di riunire tutte le sue novelle in un'unica raccolta in ventiquattro volumi, intitolata Novelle per un anno. Di questi ne furono pubblicati quattordici mentre l'autore era in vita, e un ultimo intitolato Una giornata si aggiunse postumo nel 1936.

Nella raccolta non è riconoscibile un ordine tematico, ma le novelle sembrano messe una in seguito all'altra senza una struttura organica. Questo rispecchia la concezione pirandelliana del mondo come di qualcosa di disgregato nei diversi aspetti frammentari, in cui non è possibile raggiungere un senso comprensivo. È però possibile distinguere le novelle ambientate nella Sicilia contadina da quelle che descrivono ambienti della piccola borghesia. Le prime possono ricordare le atmosfere delle novelle veriste, ma in realtà dimostrano una sensibilità completamente diversa. Pirandello si avvicina al decadentismo riprendendo il fondo mitico e folkloristico della Sicilia: i suoi racconti si fondano quindi su archetipi come la luna o la Terra Madre. Queste figure archetipe, tuttavia, sono deformate grottescamente dalla carica umoristica dell'autore. Le vicende non hanno più un riferimento sociale, ma descrivono casi paradossali e assurdi.

Le novelle cosiddette "romane" si collocano sulla stessa linea. Qui vengono mostrate varie figure umane piccolo-borghesi, la cui condizione è meschina e frustrata. Pirandello però non ha nemmeno qui intenti di critica sociale: queste figure grigie e tristi sono una metafora di una condizione esistenziale, quella del flusso vitale che viene imprigionato entro forme convenzionali. La "trappola" per questi personaggi può essere, a seconda dei casi, una famiglia opprimente oppure un lavoro alienante; questi sono tuttavia metafore di una "trappola" metafisica che frena e ingabbia la vita. Lo scrittore si sofferma poi sui limiti imposti dalle convenzioni sociali, mostrando feroci sentimenti antiborghesi. Pirandello rifiuta in modo anarchico ogni struttura sociale organizzata, che frena l'espressione spontanea della vita. Per i prigionieri di questa trappola non c'è una vera e propria via d'uscita, e la loro sofferenza finisce per sfociare in accessi di follia o gesti inconsulti, oppure per portare a una fuga verso un altrove, o ancora per indurre il protagonista a estraniarsi dalla vita.

Anche nelle novelle, come nelle altre opere, Pirandello ricorre al suo umorismo, deformando grottescamente le situazioni e i personaggi, fino al limite dell'assurdo e dell'inverosimiglianza. Le vicende non sono governate dal rapporto causa-effetto, come nella narrativa naturalista, ma piuttosto soggiacciono al caso e non è possibile intravedervi nessun disegno coerente. Secondo il "sentimento del contrario", il riso che scaturisce da queste situazioni è sempre accompagnato da un senso di pietà per una umanità dolente e sofferente. D'altra parte, le figure proposte da Pirandello sono anche una carrellata di ossessioni e angosce, che portano alla luce i recessi ignorati della psiche umana. Caricando espressionisticamente le maschere che ciascuno indossa, viene distrutta l'idea di "personalità coerente" e vengono mostrate piuttosto le personalità nascoste in ciascun individuo. Queste irrompono sulla scena nei momenti più impensati e per le motivazioni più futili, con gesti inconsulti e folli.[10]

I primi romanzi

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I primi tentativi di Pirandello con il genere del romanzo sono abbastanza precoci: già nel 1893, a ventisei anni, scrisse il suo primo romanzo, Marta Ajala, che però sarebbe stato pubblicato solo nel 1901 con il titolo L'esclusa. Uscito a puntante nelle appendici della Tribuna, sarebbe poi stato pubblicato in volume unico nel 1908 e nel 1927 ne sarebbe uscita una seconda redazione.[11]

L'opera, ambientata in Sicilia, racconta la storia di una donna accusata di adulterio e cacciata di casa. Innocente, può accedere nuovamente al focolare domestico dopo avere commesso per davvero un adulterio. L'esclusa presenta ancora le caratteristiche tipiche della narrativa naturalistica, sia per quanto riguarda l'ambientazione provinciale sia per la narrazione in terza persona, con largo uso del discorso indiretto libero. Parimenti, è di ascendenza naturalistica anche il tema della donna intelligente e sensibile che si scontra con l'arcaica morale della società di provincia. Tuttavia, diversamente dalle opere dei veristi, qui il fatto scatenante l'evento narrato non è oggettivo, ma puramente soggettivo: Marta è innocente, e l'adulterio di cui viene accusata è solo apparente (i parenti sono indotti a crederlo dopo avere trovato le lettere dello spasimante). La fatalità deterministica viene quindi innescata da un fatto la cui realtà è solo soggettiva, una convinzione errata che si insinua nelle menti del marito e dell'intera comunità. Il romanzo ha inoltre una struttura a chiasmo, che sottolinea come le azioni degli uomini siano assurde e grottesche, tanto da provocare conseguenze opposte da quelle previste. Al determinismo dei veristi e dei naturalisti, secondo cui gli eventi dovevano concatenarsi secondo un nesso di causa/effetto, Pirandello oppone polemicamente il gioco imprevedibile del caso.[12]

Lo stesso tema è al centro del secondo romanzo di Pirandello, Il turno (1895), nel quale il protagonista attende il proprio turno per sposare l'amata, dopo che sono morti i suoi due precedenti mariti. Qui però il "gioco del caso" diventa occasione per un divertimento comico, dai risvolti grotteschi.

Il fu Mattia Pascal

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Un fotogramma dal film Il fu Mattia Pascal (1937) diretto da Pierre Chenal. Pirandello partecipò attivamente a questo film ispirato al suo romanzo, e fu durante le riprese che si contrasse la polmonite che lo avrebbe ucciso nel dicembre 1936

L'opera che però diede a Pirandello la fama come romanziere è Il fu Mattia Pascal, pubblicato a puntate nel 1904 sulla Nuova Antologia. Qui l'impostazione è ormai lontana dall'ambito del naturalismo e del verismo. Il protagonista Mattia Pascal, un piccolo borghese costretto a sopportare una famiglia odiosa e imprigionato in una misera condizione sociale, ha la possibilità di uscirne per un caso fortuito: una vincita al casinò e il ritrovamento del cadavere di un annegato, che viene scambiato per lui. Ormai dato per morto, Mattia Pascal cerca però di costruirsi una nuova identità. Assume il nome di Adriano Meis e si trasferisce a Roma, ma rimane nuovamente invischiato nelle costrizioni sociali da cui si era liberato con la sua presunta morte. Il suo attaccamento alla vita sociale e l'impossibilità di parteciparvi a causa della sua identità fasulla lo inducono, alla fine, a tornare al paese natio per riprendere a essere "Mattia Pascal". Scopre però che la moglie si è risposata e che si è formata una nuova famiglia. Si adatta quindi alla sua nuova condizione di "forestiere della vita", che invece di vivere osserva gli altri dall'esterno, sapendo di non essere nessuno.

Pirandello concentra nel Fu Mattia Pascal vari motivi che caratterizzano la sua produzione. Uno di questi è il tema della vita sociale e familiare come una "trappola" che imprigiona il flusso vitale. C'è però anche la critica all'identità individuale, vista come una maschera che ciascuno è costretto a indossare e che nasconde in realtà una serie di istinti diversi e in continuo divenire. Chi ha capito questo "gioco" non può fare altro quindi che estraniarsi. Pirandello però sperimenta per la prima volta anche la sua poetica dell'umorismo, che sarà teorizzata in un saggio solo quattro anni più tardi. Il gioco del caso distorce la realtà, che viene ridotta a un meccanismo assurdo, bizzarro e grottesco; dietro a questo, però, c'è la sofferenza che prova il protagonista sia quando è imprigionato nella trappola delle convenzioni sociali, sia quando ne è liberato. Da qui nasce il "sentimento del contrario": nella vicenda narrata, tragico e comico sono inestricabilmente uniti.[13]

Sul piano narrativo, Pirandello abbandona la terza persona tipica delle opere naturalistiche per un narratore autodiegetico: è lo stesso protagonista, Mattia Pascal, a raccontare in prima persona la vicenda, scrivendo la sua esperienza in un memoriale. La narrazione, inoltre, non è focalizzata sull'io del narratore (che avendo vissuto i fatti li conosce di già), ma sull'io narrato, cioè sull'io del personaggio che rivive i fatti. Gli eventi sono narrati da una prospettiva soggettiva, quindi mutevole, parziale e di fatto inattendibile, che contribusice, insieme al gioco del caso, a dare un senso di relatività. In un'epoca in cui è crollata ogni certezza in una realtà ordinata, anche scrivere un romanzo tradizionale è impossibile; la narrazione diventa a sua volta una riflessione sulla narrazione ("metanarrativa"). Questo viene esplicitato fin dalla prefazione, in cui il narratore Mattia Pascal scarta tutti i modelli romanzeschi precedenti, avvertendo che i fatti saranno narrati in un ordine puramente convenzionale e che l'intreccio ha una sua organicità solo a causa di una "distrazione" dello scrittore.[14]

I vecchi e i giovani e Suo marito

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Il quarto romanzo di Pirandello, I vecchi e i giovani, segna un ritorno ai canoni naturalistici. Scritto tra il 1906 e il 1909, fu pubblicato a puntate sulla Rassegna contemporanea nel 1909 e poi raccolto in volume nel 1913. La struttura è quella del romanzo storico, e la vicenda è ambientata in Sicilia tra il 1892 e il 1893, negli anni della rivolta socialista dei fasci siciliani e lo scandalo della Banca Romana, che rischiava di avere ripercussioni sul neonato governo nazionale italiano. Protagonisti sono i Lauretano, una nobile famiglia di Girgenti, di cui vengono mostrate due generazioni a confronto: da un lato i vecchi che hanno fatto il Risorgimento e vedono crollare i loro ideali a causa della corruzione, dall'altra i giovani che non sanno quale indirizzo dare alla propria esistenza. Per entrambe le generazioni, la loro azione si conclude con un fallimento. Nella visione disincantata e pessimistica di Pirandello, la storia è un movimento insensato che torna sempre su se stesso. Diventa così centrale il personaggio del vecchio don Cosmo Lauretano, che incarna la figura, tanto cara a Pirandello, del filosofo che ha "capito il gioco" e se ne estrania, limitandosi a osservare la vita da lontano. A lui gli ideali patriottici, così come le conquiste della modernità e le ideologie politiche, appaiono come vane illusioni che ognuno si crea per vivere. Ritorna quindi anche qui l'umorismo pirandelliano e il quadro storico, ricostruito con attenzione, finisce quindi per dissolversi nel caotico fluire della vita.[15]

Di minore importanza è il successivo romanzo, Suo marito, scritto nel 1909 e pubblicato nel 1911. Al centro dell'opera c'è il contrasto tra Silvia Roncella, giovane scrittrice giunta a Roma dalla provincia, e suo marito Giustino Boggiòlo: mentre la prima incarna la spontaneità istintiva tipica della produzione artistica, il secondo è attento unicamente agli aspetti economici e si interessa all'attività letteraria della donna solo per amministrarne i guadagni. Questi due punti di vista inconciliabili sono resti dall'alternanza della focalizzazione su uno e l'altro dei personaggi. L'incomprensione tra i due comincia, tuttavia, porterà alla rottura finale. Sullo sfondo, Pirandello rappresenta in modo satirico gli ambienti intellettuali romani.[15]

Quaderni di Serafino Gubbio operatore

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Nel 1915 compare a puntate sulla Nuova Antologia un altro romanzo, intitolato Si gira..., che sarà raccolto in volume l'anno successivo; nel 1925 sarà poi riveduto e ripubblicato con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Pirandello ritorna qui alla narrazione in prima persona e il protagonista, Serafino Gubbio, incarna ancora una volta la figura del filosofo estraniato dalla vita che contempla l'affannarsi degli uomini dietro vane illusioni. Il suo lavoro di operatore della macchina da presa è a sua volta una metafora di questo distacco.[16]

Da un lato Pirandello attinge alla sua esperienza diretta in ambito cinematografico, dall'altro affronta uno dei temi centrali della modernità, il trionfo della macchina. Lo scrittore si dimostra diffidente e ostile nei confronti delle macchine, un'ostilità che è collegabile alla sua insofferenza per i vincoli della vita sociale: la macchina infatti non fa altro che rendere ancora più meccanica la vita degli uomini. La macchina da presa, in particolare, fissa per sempre un'azione in un fotogramma, congelando quindi il fluire della vita e generando un senso di angoscia. Questo sentimento è generato anche dal processo di mercificazione che caratterizza la società moderne. L'industria nega ogni sentimento e trasforma in merce qualsiasi cosa. Questo è evidente nel mondo dell'industria culturale e in particolare del cinema, che fissa la vita degli uomini in schemi fissi (cioè negli intrecci usati nei film).[16]

Anche la trama sembra riprendere uno dei soggetti tipici del cinema di consumo dell'epoca: l'attrice russa Varia Nestoroff viene uccisa sul set da un innamorato geloso, l'attore Aldo Nutti, che mentre si gira una scena con una tigre spara alla donna invece che alla belva, venendo a sua volta sbranato dall'animale. Serafino Gubbio per lo choc rimane muto e continua a girare la manovella della macchina da presa, riprendendo la disgrazia. Anche in questo caso è riconoscibile il procedimento umoristico già visto nelle altre opere. Al fondo di questa vicenda romanzesca c'è un nucleo di sofferenza e, come nelle altre opere di questo periodo, la vicenda è ridotta a un semplice meccanismo. Questo genera un effetto di straniamento, che viene reso dalla scelta di raccontare la storia attraverso una serie di scene successive. Il mutismo in cui cade Serafino Gubbio è inoltre una metafora della condizione dell'artista, che non può interpretare gli avvenimenti della realtà, ma solo passarli in rassegna.[16]

Uno, nessuno e centomila

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A partire dalla seconda metà degli anni dieci, Pirandello si dedica quasi esclusivamente al teatro. In questo periodo, però, lavora ancora a un ultimo romanzo, Uno, nessuno e centomila, iniziato già nel 1909 ma terminato solo negli anni venti. Sarà pubblicato a puntate sulla Fiera letteraria tra il 1925 e il 1926, quindi uscirà in volume nel 1926. L'autore ritorna sul tema della crisi dell'identità individuale, che già era stata al centro del Fu Mattia Pascal.[16]

Vitangelo Moscarda, il protagonista, si accorge per caso che le persone che gli stanno intorno hanno di lui una visione diversa da quella che lui ha di se stesso. Scopre così di non essere "uno", come ha sempre creduto, bensì di essere "centomila" - tante quante le prospettive da cui lo guardano - e quindi di non essere "nessuno". In questo modo saltano tutte le sue certezze e Vitangelo attraversa un periodo di crisi, dovuta all'orrore di avere scoperto di non essere nessuno. Si propone quindi di eliminare tutte le immagini che gli altri si sono fatti di lui, in modo da essere "uno per tutti". Per raggiungere questo scopo mette in atto una serie di azioni dissennate, che minano la sua agiatezza economica. Ferito alla fine dal un'amica di sua moglie, colta da un accesso di follia, impiega i suoi ultimi beni per fondare un ospizio per i poveri, dove si fa ricoverare. Resta così isolato e si estrania dalla vita sociale.

Vitangelo guarisce dalla sua ossessione allontanandosi dalla società: rinuncia a ogni identità e si abbandona al flusso della vita. Smette di fissarsi in una "forma" per rinascere in ogni nuovo istante e identificarsi con ogni cosa che incontra, come alberi e nuvole. Viene qui portata alle estreme conseguenze la critica dell'identità, ma diversamente dal Fu Mattia Pascal la mancanza di identità si trasforma in una cosa positiva e liberatoria. Questo abbandono alla vita è tuttavia interpretabile come un segno dell'irrazionalismo misticheggiante che Pirandello abbaracciò nell'ultima fase della sua produzione.

Allo stesso modo, è portata all'estremo anche la disgregazione della forma romanzesca. La realtà viene qui mostrata allo stato puro nella forma di un ininterrotto monologo. La narrazione dei fatti si dissolve nelle digressioni e nelle divagazioni della voce narrante, che nella prima metà del libro dà voce a un suo rovello interiore che ruota attorno al tema dell'identità dell'individuo. Il narratore si rivolge sempre a un ipotetico ascoltatore, che a un certo punto fa la sua comparsa fisica all'interno della storia. La seconda parte del romanzo tuttavia non riporta gli eventi in modo lineare. Al contrario, ogni concatenazione logica salta e i fatti trovano una loro coerenza solo nella follia del protagonista.[17]

Pirandello a Parigi per la messa in scena di Sei personaggi in cerca d'autore (aprile 1926)

Pirandello inizia giovanissimo a scrivere testi teatrali, ma solo dal 1910 porterà le sue opere in scena. I suoi drammi riscossero grande successo e rivoluzionarono il teatro italiano.

Le origini del teatro pirandelliano

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Fin dalla prima giovinezza Pirandello dimostrò una spiccata passione per il teatro, tanto che già nel 1892 pubblicò il suo primo dramma, l'atto unico Perché. Negli stessi anni elaborò altri due drammi, L'epilogo e Il nibbio. La prima rappresentazione di una sua opera avrebbe però avuto luogo solo nel 1910, quando due atti unici, La morsa e Lumìe di Sicilia, furono portate sulla scena dalla compagnia di Nino Martoglio a Roma. Un nuovo atto unico, Il dovere del medico, fu scritto nel 1911 e messa in scena nel 1913. La vera e propria affermazione sulla scena nazionale avvenne però a Milano nel 1915 con il dramma Se non così... (nato da una rielaborazione del Nibbio). Il successo lo portò a occuparsi sempre più di teatro, fino quasi ad abbandonare la narrativa.

Pirandello sconvolse gli schemi del teatro borghese con la sua ironia dissacrante, che a sua volta è espressione il medesimo disagio a cui aveva dato voce nelle novelle e nei romanzi. Tra il 1916 e il 1920 scrisse vari drammi in lingua italiana, in cui prestava enorme attenzione ai meccanismi scenici e al rapporto tra realtà e apparenza. La psicologia dei personaggi non è unitaria, ma è scomposta in diverse "maschere", cioè in forme paradossali tra di loro contrapposte. Il teatro diventa quindi una rappresentazione di come la vita stessa sia segnata dalla finzione: in ogni individuo c'è una duplicità, dovuta allo sguardo che gli altri proiettano su lui. Le maschere si scontrano tra di loro in una lotta continua, mossi dall'ansia di giustificare le proprie azioni. Si impegnano quindi in puntigliose dispute dialettiche, durante le quali scavano nelle pieghe dei rapporti umani con una sottogliezza estrema e ossessiva.[18]

Quello di Pirandello è quindi un teatro del "grottesco", definizione che può essere utilizzata anche per altri autori attivi negli anni della prima guerra mondiale. I drammi mescolano tragico e comico, e ricorrendo a elementi realistici portano sulla scena i rapporti che caratterizzano la vita piccolo-borghese. I personaggi, nella loro aggressività, sono come delle marionette che si spartiscono i ruoli sulla scena allo scopo di affermare, alla fine, la più assoluta insensatezza.

Molti drammi pirandelliani ruotano attorno a complicazioni familiari. In genere, lo schema di partenza è quello del triangolo, dal quale si sviluppano relazioni deviate e paradossali. I personaggi sono divisi tra i loro sentimenti e il ruolo che invece è loro richiesto dalla società e dalla loro posizione all'interno della famiglia. Tra gli esempi più riusciti si possono citare Pensaci Giacomino! (1916), Così è (se vi pare) (1917), Il piacere dell'onestà (1917), Ma non è una cosa seria (1918), L'uomo, la bestia e la virtù (1919). Il dramma più importante di questa fase è però Il giuoco delle parti (1918). La prospettiva del grottesco finisce però per stemperarsi nei drammi del 1920, come Tutto per bene, Come prima, meglio di prima, La signora Morli, una e due.

Oltre alle opere in italiano, Pirandello si dedicò attivamente anche al teatro in siciliano. Il dialetto gli dava la possibilità di giocare sulle forme liguistiche e di attingere direttamente al folklore, portando all'estremo le possibilità comiche e grottesche. I personaggi sono caratterizzati da singolari manie, e l'unico modo che hanno per comunicare tra di loro è ricorrere all'assurdo. Tra i drammi di questo tipo si ricordano 'A birritta cu 'i ciancianeddi (poi riproposta in italiano con il titolo Il berretto a sonagli), La patente, 'A giarra (poi La giara).[19]

Il "teatro nel teatro"

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Se in una prima fase aveva giocato con le strutture del teatro borghese, Pirandello portò all'estremo il meccanismo della scomposizione con il dramma Sei personaggi in cerca d'autore (scritta tra il 1919 e il 1920, e rappresentata nel 1921). L'opera, uno dei vertici del teatro novecentesco, nasce da una reazione dell'autore alle convenzioni della vita teatrale, che l'autore in quegli anni aveva conosciuto in prima persona. Mentre una compagnia di attori sta provando Il giuoco delle parti, compare sulla scena un gruppo di sei fantasmi, i membri di una famiglia che l'autore aveva immaginato come personaggi di un dramma, ma che poi erano stati messi da parte. I sei personaggi chiedono quindi al capocomico di mettere in scena la vicenda che hanno vissuto ma che nessun attore ha mai interpretato. Dopo varie insistenze, i fantasmi vengono assecondati; iniziano quindi a raccontare i loro ricordi ed entrano in contrasto con gli attori che cercano di trasporli sulla scena. Ripercorrono così vari eventi traumatici della loro squallida esistenza, che si ripetono uguali a se stessi all'infinito, ma in modi diversi a seconda dei personaggi, suscitando a seconda dei casi sensazioni di strazio, vergogna, aggressività.[20]

Da un lato c'è quindi il teatro con la sua finzione e le sue forme vuote, dall'altro la vita autentica dei sei personaggi, nella quale si ripete il senso di angoscia per le colpe commesse e non emendabili. Ma la vita "autentica" non può essere rappresentata sulla scena in un flusso continuo: il dramma si deve presentare per forza in una forma frantumata. L'irrompere della vita sulla scena distrugge il testo e lo spazio teatrale: alla fine i personaggi scompaiono, ma non si tratta di una conclusione, bensì di una sospensione che lascia l'opera aperta. Lo spazio teatrale è squarciato e gli attori rimangono estraniati. Il contrasto tra vita e teatro si ripresenta però anche nell'opposizione tra l'ossessione per la sincerità dimostrata dai personaggi e il rischio che la loro vicenda, rappresentata dagli attori, finisca per sottostare alle leggi della finzione tipiche del teatro.[21]

Tutto questo meccanismo dà luogo a una espansione del teatro nel teatro. Le strutture drammatiche tradizionali vengono scomposte in modo critico e razionale, una prospettiva che Pirandello segue anche in Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1930). Questi due drammi, insieme a Sei personaggi in cerca d'autore, formeranno la trilogia detta appunto "del teatro nel teatro", tutta giocata sui conflitti tra gli elementi del teatro. L'interesse di Pirandello per la scomposizione avrà grande influenza sul teatro di quegli anni, e aprirà la strada alle sperimentazioni dell'avanguardia.[22]

Tragedia e mito

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Dopo avere portato all'estremo il suo interesse per la scomposizione in Sei personaggi in cerca d'autore, Pirandello sentì la necessità di creare forme stabili, in grado di contenere una vita autentica ed eterna. Nei nuovi drammi fecero quindi la loro comparsa personaggi tragici, dalle personalità difficili e tormentate. A questi si affiancò la ricerca di una nuova intensità drammatica e del senso profondo nascosto dietro alle maschere. Vengono poi abbandonati gli ambienti piccolo-borghesi in favore di quelli dell'alta borghesia, mentre la scomposizione delle forme teatrali lascia spazio a una sublimazione tragica. Pirandello imbocca quindi la strada della "tragedia borghese".[22]

In Enrico IV e Vestire gli ignudi, entrambe del 1922, la ricerca di un senso tragico si scontra e soccombe di fronte alla meschinità dei rapporti sociali. La prima è solo in apparenza un dramma storico: in realtà il protagonista è un folle che, caduto da cavallo durante una rievocazione storica, pensa di essere davvero l'imperatore medievale che impersonava. Rinsavito dopo dodici anni, si scontra con i suoi amici e nemici di un tempo, una situazione che alla fine lo condanna a ripiombare nella pazzia. Il personaggio di Enrico IV può vivere nella sua serietà tragica solo all'interno del ridicolo mondo di follia in cui si trova, e questo mondo sublime della storia finisce per scontrarsi con la volgarità della quotidianità borghese.[23]

In Vestire gli ignudi la protagonista è invece Ersilia Drei, una donna che dopo un tentativo di suicidio viene accolta in casa da uno scrittore. Deve però subire l'aggressività degli altri personaggi che vogliono scoprire le ragioni del suo gesto, e per sfuggire a questo confronto e mantenere la dignità che le era data dal mancato suicidio, si avvelena morendo nuda e sola.

Negli ultimi drammi troviamo ancora personaggi dell'alta borghesia che si interrogano sul senso dell'esistenza e sulla necessità di affermare una vita autentica, nonostante le convenzioni sociali. Questo però si traduce in effetti artificiosi ed esteriori, in indagini sul contrasto tra la lucidità della coscienza e l'inconscio, in ragionamenti contorti. Per questa ultima fase si parla quindi di pirandellismo, di ripetizione delle forme che avevano caratterizzato la produzione precedente dell'autore. Tra le ultime opere si possono citare La vita che ti diedi (1923), Diana e la Tuda (1926), L'amica delle mogli (1926) e Trovarsi (1932).[24]

Negli stessi anni in cui scrisse questi drammi, Pirandello cercò anche di realizzare un nuovo grande spettacolo in grado di riproporre valori universali. Immaginò quindi nuovi meccanismi mitici, che alterano i rapporti con la realtà e richiamano elementi provenienti dall'ambito del meraviglioso e del leggendario. Il risultato è però un teatro ricco di complicazioni, dietro alle quali si rivela il proposito di trasmettere una serie di valori che dovrebbero una espressione piena della coscienza del presente. Nei due "miti" La nuova colonia (1928) e Lazzaro (1929) questa edificazione ideologica appare evidente in tutta la sua ridondanza.

L'ultima e più interessante opera di questo periodo è I giganti della montagna, a cui Pirandello lavorò per tutto il 1930 ma che non completò mai. L'autore, ricorrendo a una complessa struttura mitica, riprende una serie di immagini arcaiche tratte dalla sua infanzia per interrogarsi sulla condizione dell'arte nel presente. Significati allegorici e simbolici vengono proposti continuamente, e sfumano in un'atmosfera indistinta, che non può essere afferrata.[25]

  1. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 99.
  2. 2,0 2,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 100.
  3. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 100-101.
  4. 4,0 4,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 101.
  5. 5,0 5,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 102.
  6. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 102-103.
  7. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 103-104.
  8. 8,0 8,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 104.
  9. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 105.
  10. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 105-106.
  11. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 106.
  12. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 106-107.
  13. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 107.
  14. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 107-108.
  15. 15,0 15,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 108.
  16. 16,0 16,1 16,2 16,3 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 109.
  17. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Svevo e Pirandello, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 110.
  18. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 931.
  19. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 932.
  20. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 933.
  21. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 933-934.
  22. 22,0 22,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 934.
  23. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 934-935.
  24. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 935.
  25. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 935-936.

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