Ebraicità del Cristo incarnato/Ricerca

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"Christus Consolator" di Carl Heinrich Bloch, ca. 1860

Breve storia della ricerca[modifica]

Il mio obiettivo principale in questa sezione dell’Introduzione è dimostrare come, per gran parte della storia della ricerca su questo argomento, il Nuovo Testamento e in particolare i primi studiosi cristiani abbiano affrontato le loro ricerche sulla nozione di "incarnazione divina" attraverso una lente esclusivamente cristiana. Tali studiosi hanno sollevato domande su come e quando sia sorta la nozione dell'Incarnazione nella storia e nella teologia cristiane. Il mio approccio metodologico differisce radicalmente da ciò, in quanto io esploro invece come le prime descrizioni di Gesù come parola divina fatta carne facessero parte di una più ampia conversazione nell'antichità ebraica su come il divino potesse incarnarsi sulla terra. Piuttosto che concentrarmi su dottrine teologiche successive, offro letture ravvicinate della letteratura ebraica esistente, basate sulle mie stesse traduzioni, al fine di esaminare ciò che stava effettivamente accadendo nell'antichità ebraica in termini di questa suprema interazione divinità-uomo da circa fine tardo I secolo p.e.v. fino all'inizio del II secolo e.v.

Inizi dello studio critico[modifica]

Diciannovesimo secolo: iniziano le indagini critiche[modifica]

Un marcato cambiamento si verificò nella ricerca relativa all'incarnazione di Dio sulla terra, sulla scia dell'Illuminismo del diciannovesimo secolo, quando gli studiosi iniziarono per la prima volta a indagare criticamente sulle origini storiche della dottrina dell'Incarnazione. Incoraggiati dall'Illuminismo e assorbiti dal fervore del positivismo intellettuale, questi studiosi applicarono metodi storico-critici al loro studio e credettero che la sola ragione umana fosse sufficiente a garantire la certezza dei loro risultati. A titolo di esempio, presumibilmente nella prima opera di questo tipo, il teologo tedesco Ferdinand C. Baur rivoluzionò lo studio dell'incarnazione insistendo sul fatto che – come tutto il primo cristianesimo – poteva essere compreso correttamente nel contesto di un'indagine storica critica.[1] Per dimostrare questo punto, Baur applicò una lente hegeliana al suo studio su questo argomento per suggerire che si potevano trovare intimazioni dell'incarnazione sia nella religione naturale pagana sia nel teismo ebraico. Baur sosteneva che mentre la religione naturale pagana descriveva Dio come infine equivalente al mondo materiale, il teismo ebraico presentava Dio come un creatore trascendente, completamente separato dal mondo materiale. La lotta tra questi due poli dell'immanenza di Dio, da un lato, e la trascendenza di Dio, dall'altro, raggiunse l'apice nell'Incarnazione, in cui Dio riconciliava questi due poli di influenza in un atto salvifico senza precedenti. Di conseguenza, Baur immaginava il cristianesimo, e in particolare l'idea dell'incarnazione, come il climax evolutivo di tutte le religioni.

Alcuni anni dopo, altri studiosi di fine XIX secolo, come Adolf von Harnack e Robert L. Ottley, adottarono un approccio critico simile, sebbene questa metodologia li portò a conclusioni diverse da quelle di Baur. Per Harnack, lo sviluppo del dogma cristiano – e la nozione di incarnazione, in particolare – non nacque da una lotta tra due forze opposte, ma piuttosto avvenne solo attraverso la progressiva ellenizzazione del Vangelo.[2] Riguardo alla nozione di incarnazione in particolare, Harnack sosteneva che i primi cristiani compresero la dottrina del logos del Vangelo di Giovanni attraverso la loro precedente comprensione della filosofia greca.[3] In questo modo, Harnack scarta l'influenza che il filosofo ebreo ellenistico, Filone di Alessandria, poteva aver giocato.

Per Ottley invece, non fu la metafisica greca o il teismo ebraico, ma la stessa Scrittura a fornire la chiave per rivelare le origini di questa dottrina.[4] Ottley identifica tutte le frequenti intimazioni dell'Incarnazione sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento. Dall'Antico Testamento, per lui tutto, dalle teofanie divine alle presentazioni teomorfiche dell'uomo forniscono "la più alta dottrina della natura di Dio finora raggiunta dall'umanità, e le più chiare anticipazioni di un'ulteriore automanifestazione".[5] Allo stesso modo, dal Nuovo Testamento, tutto – dalla coscienza stessa di Gesù riguardo alla propria incarnazione, al modo in cui varie epistole applicano indifferentemente il titolo κύριος a Dio e Cristo, e in particolare la risurrezione – gli fornisce "l'assicurazione finale che sotto il velo della carne mortale l'eterno Figlio di Dio Stesso aveva tabernacolato tra gli uomini".[6] Nonostante le sue metodologie critiche, Ottley e gli altri studiosi che ho evidenziato iniziarono con l'ipotesi implicita che l'intero Nuovo Testamento testimoniasse quest'ultima nozione cristiana di Gesù come Dio incarnato; di conseguenza, il campo di applicazione del loro lavoro venne in definitiva limitato da un tacito pregiudizio che sottilmente, sebbene non consapevolmente, fu alla base di tutta la loro ricerca.

Ricerca del XX secolo: enfasi sulle basi del Nuovo Testamento[modifica]

All'inizio del ventesimo secolo, tuttavia, l'agenda esplicita di numerosi studiosi cristiani era quella di dimostrare che la dottrina dell'Incarnazione era già inequivocabilmente incorporata nell'intero corpus del Nuovo Testamento.[7] Gli sforzi collettivi di questi studiosi identificarono un gruppo di testi biblici chiave – compresi ma non limitati a Filippesi 2:6-11, Colossesi 1:15-20, 1 Corinzi 15:44-49, Galati 4:4-7, Romani 8:3 e Giovanni 1:1-14 – che sostenevano o provavano che Gesù stesso pensava di essere la divinaparola di Dio incarnata, o che già i primi cristiani credevano nell'Incarnazione. Due caratteristiche principali caratterizzarono il lavoro di questi studiosi. In primo luogo, mentre conducevano strette letture esegetiche di testi scritturali chiave, non sempre applicavano la stessa attenzione al più ampio ambiente religioso e culturale di quel tempo. Pertanto, in tale processo spesso misero da parte importanti interessi sociologici o storici. In secondo luogo, sebbene tentassero di condurre indagini critiche, molti avevano chiari legami e fedeltà ecclesiastiche; in effetti, alcuni dei loro studi assunsero persino la forma iniziale di omelie o servirono come base per il curriculum teologico di futuri sacerdoti. Un esempio di spicco di questo approccio si trova nel lavoro dello studioso britannico Edwin Hamilton Gifford, che cercò di dimostrare come Filippesi 2:5-11 fosse testimone della nozione di Incarnazione. Per provare il suo caso, si mosse lentamente, parola per parola, riga per riga e versetto per versetto attraverso questa intera pericope per dimostrare come e perché l'apostolo Paolo avesse usato consapevolmente certe parole e giri di parole per dimostrare ai suoi lettori che Gesù era sia pienamente divino e sia pienamente umano. In un certo senso questo approccio non era nuovo, poiché aveva antecedenti antichi nei primi Padri della Chiesa. Né era acritico, poiché i metodi storico-critici avevano da tempo permeato l'intera disciplina. Ma la sfida della modernità e le conseguenze che ne derivano aumentarono notevolmente l'urgenza delle ricerche di questi studiosi per dimostrare che la dottrina dell'Incarnazione era già incorporata nei primi documenti del Nuovo Testamento.

Una notevole eccezione a questa tendenza di vedere l'intero Nuovo Testamento come testimonianza della successiva dottrina cristiana dell'Incarnazione sorge nel lavoro dello studioso americano Charles A. Briggs.[8] Come altri studiosi della sua generazione con mentalità ecclesiastica, Briggs tentò di accoppiare metodologie critiche moderne con letture analitiche del testo biblico. Tuttavia, in una serie di sermoni in sei parti, fece una mossa senza precedenti suggerendo che l'idea dell'incarnazione si era evoluta gradualmente nel corso di tutto il Nuovo Testamento. Così per Briggs, "non era nella cerchia dei Dodici che apparve per la prima volta la dottrina della divinità di Cristo", ma piuttosto tramite il progressivo dispiegarsi del pensiero dell'apostolo Paolo nelle sue varie epistole.[9] Poiché i dodici discepoli conoscenvano intimamente il Gesù umano e Paolo no, era difficile per i primi ma più facile per il secondo iniziare a sviluppare un linguaggio incarnazionale. Dopo aver esaminato attentamente il corpus paolino, Briggs traccia quindi l'ulteriore sviluppo di questa dottrina dalle pastorali, dall'epistola agli ebrei, al Vangelo di Giovanni e infine alle epistole giovannee. Conclude che fu solo nel corpus giovanneo che questa dottrina raggiunse il suo apogeo.

Altri studi del XX secolo: ricerca sulla letteratura del Secondo Tempio[modifica]

Più o meno nello stesso periodo in cui questi studiosi del ventesimo secolo continuavano le loro ricerche per determinare il punto in cui la dottrina dell'Incarnazione era sorta per la prima volta nel Nuovo Testamento, emersero altri due gruppi di studiosi. Questi gruppi impiegarono intenzionalmente la letteratura ebraica del Secondo Tempio per rispondere a domande relative allo studio dell'incarnazione. Il primo gruppo di studiosi si chiedeva come i primi cristiani avessero potuto pensare a Gesù come divino all'interno della matrice del monoteismo ebraico. La loro domanda era, per molti aspetti, esattamente l'opposto di quella dell'incarnazione, sebbene intimamente collegata ad essa. Invece di chiedere come un'entità divina potesse diventare umana, si chiesero come un essere umano (Gesù) potesse diventare divino nel contesto del monoteismo ebraico.

Apparentemente nella prima opera del suo genere, lo studioso protestante tedesco e teologo Wilhelm Bousset investigò proprio questa domanda.[10] Bousset attinse a Filone e ad altre forme di letteratura ebraica, come gli Apocrypha e Pseudepigrapha, per distinguere tra "ebraismo palestinese" e "ebraismo ellenistico". Mentre il primo conservava il "monoteismo incontaminato ed esclusivo" dell'Antico Testamento, il secondo rappresentava una forma "aberrante" di religione. Bousset identificò tre fattori principali che avevano corrotto l'ebraismo ellenistico: il "crescente interesse per gli angeli"; l'emergere del "dualismo" e la conseguente attenzione alla "demonologia"; e l'affermazione di attributi divini come λόγος (parola) e σοφία (sapienza). Queste influenze corruttive, sosteneva Bousset, emersero in un contesto ebraico diasporico perché questi ebrei, influenzati dalla filosofia greca e dalla cultura ellenistica, consideravano sempre più Dio come trascendente e completamente rimosso dal mondo materiale. Di conseguenza, queste figure intermedie emersero nell'ideologia dell'ebraismo ellenistico come un modo per colmare il divario tra Dio e il reame umano. La presenza di queste figure indebolì il rigido monoteismo dell'Antico Testamento, e quindi fu da questa forma ellenizzata di ebraismo che emerse il cristianesimo e la sua fede nella divinità di Gesù.

In netto contrasto con Bousset, che supponeva che il Dio della letteratura apocalittica ed ellenistica fosse remoto, lo studioso britannico Henry J. Wicks sostenne che questi testi apocalittici ed ellenistici descrivono "un Dio che è in contatto non mediato con la Sua creazione".[11] La linea ininterrotta della preghiera tra gli umani e Dio servì come uno dei principali esempi di Wick a sostegno di questo argomento. Per Wicks, l'unica eccezione a questa regola era nata dal corpus della letteratura enochica. Wicks sostenne che in "1 Enoch 1-36;72–82" e "due possibili interpolazioni" in "Enoch slavo", i testi presentano un "Dio distante" o una "teologia di tale forte predestinazione che Dio non è più necessario ad interagire o attuare un cambiamento nell'umanità."[12] A parte questi testi, attraverso l'accumulo di queste prove, Wicks suggerì implicitamente una forte e vibrante convinzione monoteistica ebraica durante tutto il periodo del Secondo Tempio e una tensione tra credenza nell'onnipotenza di Dio e credenza nell'accessibilità di Dio. Tuttavia, nonostante queste discrepanze tra Bousset e Wicks, entrambi pensavano che fosse solo in una forma ellenizzata di ebraismo che sarebbe potuta emergere la credenza nella divinità di Gesù.

Il secondo gruppo di studiosi si chiese come la letteratura ebraica del Secondo Tempio potesse far luce sulle origini e sullo sviluppo iniziale della dottrina cristiana dell'Incarnazione. Nell'affrontare questa domanda, tali opere segnarono una svolta significativa nello studio dell'Incarnazione perché illuminavano la misura in cui i processi dell'Incarnazione, e della cristologia primitiva in senso più ampio, dipendevano dall'ebraismo. Vediamo il più notevole esempio di questa tendenza nel lavoro pionieristico dello studioso ebreo americano Harry Austryn Wolfson,[13] il primo studioso ebreo americano a trascorrere tutta la sua carriera in un'istituzione della Ivy League. Il lavoro di Wolfson conteneva un'impressionante concentrazione interdisciplinare. Per quanto riguarda l'Incarnazione, in particolare, Wolfson sosteneva che Paolo, Giovanni e i primi Padri della chiesa dipendevano tutti da "elementi presi in prestito dalle attuali credenze ebraiche" riguardo al modo in cui articolavano ed esprimevano l'identità di Gesù.[14] Tuttavia egli vedeva la più chiara affinità tra l'antico ambiente dell'ebraismo del Secondo Tempio e ciò che accade nel Vangelo di Giovanni, poiché affermava: "Non esattamente un allontanamento da Filone, ma solo un'aggiunta a lui è la dottrina dell'Incarnazione, poiché nella sua formulazione definitiva l'Incarnazione divenne una nuova fase nella storia del Logos filonico: un Logos reso immanente in un uomo dopo essere stato immanente nel mondo."[15] In effetti, per Wolfson, il "Logos incarnato del cristianesimo" e il "Logos immanente di Filone" sono simili tra loro.[16] "Nel primo", ha scritto, "il Logos è in un uomo; nel secondo, il Logos è nel mondo".[17] Come risultato di questa logica, Wolfson sorprendentemente non ha visto lo scrittore del Vangelo di Giovanni come avesse fatto qualcosa di completamente nuovo, ma piuttosto come avesse semplicemente esteso la logica di Filone. Fu solo negli scritti dei primi Padri della chiesa, sosteneva Wolfson, che emersero sia una chiara dipendenza da Filone sia una deviazione più radicale dal pensiero di Filone; di conseguenza, fu solo nella tarda antichità che emerse una chiara separazione del pensiero tra i rabbini e i primi Padri della chiesa nella loro concezione di Dio.

La polemica sull'incarnazione scoppiata nel 1977[modifica]

Nel 1977, la pubblicazione di The Myth of God Incarnate curata da John Hick, suscitò un'aspra polemica in Inghilterra, cosa mai vista prima.[18] Come nota la prefazione al suo sequel, Incarnation and Myth: The Debate Continues,

« [Il libro] provocò recensioni ostili nella maggior parte della stampa religiosa e secolare; la risposta venne dopo sei settimane con The Truth of God Incarnate, e successivamente con God Incarnate; vendette trentamila copie nei primi otto mesi, ventiquattromila in Gran Bretagna; e il Consiglio Evangelico della Church of England (Truth, error, and discipline in the church) fece una richiesta affinché i cinque autori anglicani si dimettessero.[19] »

Come è alquanto chiaro dalla descrizione di cui sopra, questa serie di saggi altamente controversa toccava un argomento delicato e, di conseguenza, accese un intenso dibattito. Ciò si verificò per due motivi principali. Innanzitutto, molti lettori popolari non si accorsero del doppio significato del titolo del libro. Un mito, secondo la definizione stabilita dalla corporazione degli studiosi biblici, può avere due significati molto diversi, ma correlati. Da un lato, un mito è "una storia di significato profondo, mediante la quale gli uomini guidano le loro vite".[20] Dall'altro, un mito è una "fiaba, non vera".[21] Poiché la stragrande maggioranza dei i lettori non accademici che avevano preso in mano questo libro ipotizzavano che il titolo affermasse la seconda e non la prima definizione, il libro fu immediatamente percepito come più provocatorio di quanto nessuno degli autori che avevano contribuito avesse previsto. In secondo luogo, il libro era nato dall'esigenza espressa di ciascuno degli autori contribuenti di conciliare l'esclusività associata all'articolazione tradizionale dell'incarnazione nella tradizione cristiana con la scena religiosa pluralistica in Inghilterra. Di conseguenza, arrivarono alla conclusione che per loro "Gesù era (come viene presentato in Atti 2:22) ‘uomo accreditato da Dio’ per un ruolo speciale nell'ambito del proposito divino, e che la successiva concezione di lui come Dio incarnato, la Seconda Persona della Santissima Trinità che vive una vita umana, è un modo mitologico o poetico di esprimere il suo significato per noi."[22] Poiché molti, se non tutti i contribuenti al volume, avevano connessioni ecclesiastiche, il volume indubbiamente creò molto scalpore tra i sostenitori della fede cristiana.

La pubblicazione di The Myth of God Incarnate ha rappresentato un momento fondamentale nello studio dell'incarnazione perché ciascuno degli autori contribuenti ipotizzò che la dottrina dell'incarnazione fosse completamente estranea al Nuovo Testamento e invece sostenne che l'insegnamento era diventato un dogma ufficiale della chiesa solo dopo un lungo periodo di contrasti nella chiesa primitiva. In effetti, in un'altra pubblicazione, l'editore, John Hick, arrivò persino a dire che l'incarnazione fosse "un dogma che Gesù stesso avrebbe probabilmente considerato blasfemo".[23] Di conseguenza, e non inaspettatamente, dopo la pubblicazione di questi libri, polemiche sorsero sia all'interno che all'esterno dei circoli accademici perché gli autori avevano scosso le basi stesse della fede cristiana.

Stato attuale della ricerca[modifica]

Argomenti sostenuti da specialisti neotestamentari[modifica]

Dopo l'intensa controversia su The Myth of God Incarnate, negli ultimi anni ci sono stati tre modi principali in cui gli studiosi hanno risposto o continuato a indagare sulle idee associate all'incarnazione di Dio in forma umana. In primo luogo, principalmente gli studiosi neotestamentari hanno cercato di dimostrare che l'idea di Gesù come Dio incarnato – o più specificamente la nozione di "alta cristologia" o che la figura di Gesù era anche Dio – era già incorporata nei primi documenti del Nuovo Testamento. Questi specialisti non stavano esplorando la questione dell'incarnazione per se, ma piuttosto stavano tentando di chiedere quando i primi seguaci di Gesù iniziarono a concepire Gesù come Dio. I principali sostenitori di questa tendenza, che collocano presto questo sviluppo, includono Larry Hurtado, Richard Bauckham, John e Adela Yarbro Collins e Bart Ehrman, sebbene ciascuno lo faccia con mezzi diversi.

Larry Hurtado, ad esempio, afferma che la primissima adorazione di Gesù da parte dei suoi seguaci fosse un'innovazione unica e davvero straordinaria che avrebbe potuto verificarsi solo se i primi cristiani o seguaci di Gesù, che erano essi stessi ebrei, concepivano Gesù come Dio. Hurtado sviluppa la sua tesi attorno a due foci principali. Primo: dopo aver esaminato la più ampia gamma di letteratura ebraica del Secondo Tempio, afferma che la tradizione religiosa ebraica includeva il concetto di "agenzia divina", in cui una "figura di agente principale" era situata direttamente da Dio.[24] Secondo: impiegando prove dal Vangeli canonici e corpus paolino, sostiene che l'esperienza religiosa dei primi cristiani aveva prodotto una "mutazione distintiva" di questo aspetto dell'antica credenza ebraica; vale a dire, i primi cristiani iniziarono ad adorare e venerare "il principale agente di Dio", Gesù, come il loro signore risorto.[25] I vincoli del monoteismo ebraico richiedevano che solo Dio dovesse essere adorato, mentre il culto di Gesù indicava che questi primi cristiani pensavano a Gesù anche come Dio.

Allo stesso modo, anche Richard Bauckham sostiene che tutti i documenti del Nuovo Testamento articolano fin dall'inizio la cristologia più alta possibile, sebbene si discosti da Hurtado su alcuni punti importanti.[26] Per cominciare, suggerisce che le "tendenze recenti" che tentano di "trovare un modello per la cristologia nelle figure intermedie semi-divine nel primo ebraismo sono in gran parte sbagliate".[27] In alternativa, propone che un approccio migliore a questa questione sia quello di concentrarsi su "chi è l'unico Dio, piuttosto che su cosa sia la divinità".[28] Per lui, "il primo ebraismo aveva modi chiari e coerenti per caratterizzare l'identità unica del Dio Uno e distinguere così assolutamente l'unico Dio da tutte le altre realtà".[29] Per Bauckham, l'identità unica di Dio include quattro componenti chiave.[30] Primo, Dio ha un nome, Yahweh, che distingue Dio da tutti gli altri dei. Secondo, Yahweh è il Dio che ha portato Israele fuori dall'Egitto. Terzo, Yahweh è il "solo creatore di tutte le cose", e in quarto luogo, Yahweh è il "signore sovrano" di tutte le cose.[31] Di conseguenza, Bauckham suggerisce che quando "la cristologia del Nuovo Testamento viene letta tenendo presente questo contesto teologico ebraico, diventa chiaro che, sin dai primi inizi post-pasquali della cristologia in poi, i primi cristiani includevano Gesù, precisamente e senza ambiguità, all'interno dell'identità unica del Dio Uno di Israele".[32] Pertanto, per Bauckham, non si sviluppa una comprensione di Gesù come Dio, poiché "la più alta cristologia possibile – l'inclusione di Gesù nell'unica divina identità – era centrale per la fede della chiesa primitiva addirittura prima che uno qualsiasi degli scritti del Nuovo Testamento fosse scritto, poiché si verifica in tutti loro."[33] Sotto molti aspetti, sia Hurtado che Bauckham stanno arrivando a qualcosa di importante. L'osservazione stessa che a un certo punto i cristiani adorassero Gesù e lo includessero nell'identità divina aveva di certo implicazioni per il modo in cui i cristiani pensavano a Dio.[34] Tuttavia, lo scarto da parte di Hurtado di altre figure, come Enoch, che furono venerate nel periodo del Secondo Tempio,[35] e la necessità di Bauckham di separare il pensiero paleocristiano dai potenziali legami con l'ebraismo in quel periodo, rende entrambi gli argomenti difficili da sostenere pienamente.

Parimenti, John Collins e Adela Yarbro Collins sostengono che la prima interpretazione cristiana di Gesù come divino sorse da un contesto ebraico, ma giungono a questa conclusione attraverso un percorso diverso.[36] Per loro, Gesù fu considerato divino a causa della sua presentazione come re messianico, o Figlio di Dio. Rintracciando le prove dell'ideologia reale nell'antico Vicino Oriente fino alla sua appropriazione nel Nuovo Testamento, sostengono che esisteva una credenza di lunga data nella divinità del re, in particolare che sorse prima nell'ambiente egiziano, ma poi trasposto nel contesto ebraico, specialmente conservato tramite la traduzione greca della Bibbia ebraica da parte dei Settanta (Septuaginta). Di conseguenza, piuttosto che essere uno sviluppo tardivo, possibile solo all'interno di un ambiente gentile o pagano, i Collins sostengono che lo sfondo di una comprensione di Gesù come "preesistente e divino" era già presente in un ambiente ebraico.[37]

Impiegando una metodologia simile, ma in netto contrasto con le conclusioni di Hurtado, Bauckham e Collins, anche lo studioso britannico neotestamentario James Dunn ha reinvestito le prove del Nuovo Testamento attraverso una lettura stretta ed esegetica dei testi pertinenti. Ha concluso che la comprensione di Gesù come divino avvenne relativamente tardi, verso la fine I secolo/inizi II secolo e.v. Alla fine, dal suo lavoro emergono due idee rivoluzionarie. In primo luogo, Dunn dimostra quanto fosse diffusa la "Teologia di Adamo" nel periodo del Secondo Tempio e usa questa intuizione per dimostrare che l'apostolo Paolo impiegò la retorica adamica per creare un'antitesi tra il primo Adamo (l'Adamo della Genesi) e l'ultimo Adamo (Gesù di Nazaret).[38] Di conseguenza, per Dunn, la comprensione di un Cristo preesistente, anche incarnato, non è sorta con l'apostolo Paolo. Piuttosto, fu uno sviluppo successivo. In secondo luogo, Dunn sostiene che è solo quando raggiungiamo il corpus giovanneo, e in particolare Giovanni 1:14, che abbiamo le prime prove inequivocabili delle origini dell'incarnazione nel Nuovo Testamento.[39] Il lavoro fondamentale di Dunn su questo argomento ha attratto molte critiche da parte di altri specialisti del settore, in particolare in relazione al primo punto supra, con molti dubbi sul fatto che la sua tesi sulla teologia di Adamo sia praticabile. Tuttavia, il suo lavoro ha anche spinto molti – tra cui Hurtado, Bauckham e Collins – a riconsiderare quando e da quale contesto l'idea di Gesù come divino emerse per la prima volta tra i seguaci di Gesù.

Enfasi sulla biforcazione di Dio da parte degli specialisti di Secondo Tempio e Rabbinismo[modifica]

Un certo numero di studiosi, per lo più specialisti in ebraismo del Secondo Tempio o in Rabbinismo, hanno chiarito come la presenza di figure intermedie divine in questa letteratura potrebbe intimare una biforcazione del concetto ebraico di Dio durante il sorgere del cristianesimo. A titolo di esempio, Alan Segal nel suo innovativo lavoro che ha stimolato molte ricerche e dibattiti successivi sostiene che le radici dell'eresia che i Rabbini etichettarono come "due potenze in cielo" derivano dalle prime teofanie bibliche, come Daniele 7:9, che rappresentava Dio come un uomo o che vedeva YHWH come un angelo. Di conseguenza, Segal suggerisce che i rabbini non solo combatterono duramente contro il cristianesimo e lo gnosticismo perché erano stati concepiti come forme di questa eresia, ma impiegarono anche testi probatori chiave, come Deuteronomio 6;32, Esodo 20 e Isaia 44, per impegnarsi in una forte polemica. In particolare, "ogniqualvolta una seconda figura, o nel Pentateuco o in Daniele,, poteva essere identificata come figura angelica quasi divina o indipendente, i rabbini la confutavano animatamente".[40] Pertanto, Segal afferma, sebbene esistesse una credenza in più di un agente divino in cielo nel più ampio ambiente sociale e culturale dell'ebraismo del Secondo Tempio, i rabbini si sforzarono di rendere eretica questa tradizione teologica.

Gli studi di Christopher Rowland e Margaret Barker sostengono una simile biforcazione nella comprensione di Dio. Rispetto al primo, confrontando le teofanie divine trovate in Ezechiele 1:26, da un lato, con Ezechiele 8:2, Daniele 7:9-13, Daniele 10:5-10, Apocalisse 1:13-17 e Apoc. Ab. 11.2–4, dall'altro, Rowland suggerisce che alcuni ebrei del Secondo Tempio potrebbero aver concepito i modi in cui gli attributi divini di Dio potevano essere trasferiti su un agente angelico principale come anche l'inverso di questo fenomeno.[41] In effetti, in molti di questi casi, come dimostra Rowland, il trono divino di Dio è condiviso con un'altra figura, che sia la Gloria di Dio, come figlio dell'Uomo, Cristo, o che sia l'angelo Yahoel — in modo che consenta a quelle altre figure di servire come agenti divini per conto di Dio. Rispetto al secondo, Margaret Barker sostiene che le tradizioni politeiste dell'antico Israele non si sono mai completamente estinte, ma si sono invece ricostituite in modo modificato nel cristianesimo.[42] In particolare, Barker suggerisce che la divisione trinitaria tra Padre, Figlio (Logos), e Spirito (Sofia) probabilmente ebbe i suoi precursori nell'antico Israele, in cui El Elyon (Dio l'Altissimo) si distingueva da Yahweh (suo figlio). Nel mezzo, Barker spiega come le figure angeliche intermedie, come il Figlio dell'Uomo, ma anche, e soprattutto, figure come Sofia e Logos, servirono da condotti per preservare questa tradizione. Le opere di Filone d'Alessandria, e in particolare le sue discussioni su Sofia e Logos, forniscono il nucleo centrale della sua argomentazione: "Filone mostra oltre ogni dubbio che l'ebraismo del primo secolo cristiano riconobbe un secondo Dio".[43] Facendo luce sulla predominanza di queste figure intermedie divine nell'ebraismo del Secondo Tempio, entrambi questi studiosi dimostrarono la complessità delle credenze ebraiche su Dio in quel periodo.

Il lavoro di questi studiosi ha stimolato molte discussioni e dibattiti, ma ci volle una conferenza internazionale presso l'Università di St. Andrews sulle origini storiche del culto di Gesù nel 1998 per chiarire una serie complessa di problemi in relazione alla potenziale connessione tra le figure intermedie divine della Letteratura del Secondo Tempio e la questione del monoteismo ebraico e delle origini cristiane.[44] In particolare, all'inizio del volume derivato da questa conferenza, uno dei redattori, James Davila, identifica cinque tipi primari di figure mediatrici dalla Letteratura del Secondo Tempio che in qualche modo mediavano tra Dio e il reame umano: 1) "Attributi Divini Personificati", come il Logos o Sofia di Filone; 2) "Patriarchi glorificati", come Enoch, Mosè e Giacobbe; 3) "Angeli Principali (Arcangeli)", come Gabriele, Michele o persino il Metatron di 3 Enoch; 4) "Profeti Carismatici" e "Aspiranti Reali", e infine, 5) "Figure Ideali", come il re davidico, il Profeta Mosaico e il Sommo sacerdote aronnide.[45] Chiaramente, la letteratura ebraica in quel momento era piena di diversi tipi di figure che, in un modo o nell'altro, avevano un ruolo mediatorio. Di conseguenza, usando questa rubrica come trampolino, i vari altri autori che contribuirono a questo volume antologico cercarono di mostrare, sia attraverso l'indagine di un particolare testo, una determinata figura o una combinazione dei due, come queste figure divine mediatiche in qualche modo prefigurarono o anticiparono il ruolo mediatico di Gesù o la sua divinità. In questo modo, questi studiosi sostenevano quindi che la presenza di queste divine figure mediatiche nell'ebraismo del Secondo Tempio costituiva un precursore degli sviluppi che si sarebbero verificati nel cristianesimo stesso.

Daniel Boyarin è lo studioso che, negli ultimi anni, è stato molto attivo nel promuovere lo studio su una possibile comprensione binaria di Dio nell'ebraismo precristiano. Nella sua recente monografia The Jewish Gospels, Boyarin sostiene che una tradizione del "divino Messia" fosse già presente nella diversità del pensiero ebraico durante il periodo del Secondo Tempio.[46] Per raccogliere supporto alla sua posizione, Boyarin indaga sulla figura enigmatica del "Figlio di Uomo" trovato in Daniele 7, la letteratura enochica e il Vangelo di Marco. Conclude che all'inizio del I secolo e.v., alcuni ambienti ebraici avevano già sviluppato un'alta cristologia. Inoltre, nel suo articolo, "Enoch, Ezra, and the Jewishness of ‘High Christology’", fa un argomento simile, ma aggiunge anche una discussione significativa di 15.[47] In questo lavoro, afferma che "almeno fin da Daniele e quasi sicuramente prima, in Israele c'era stata una tradizione che vedeva Dio duplicato nella forma di un vecchio e di una figura più giovane simile a uomo, che condividevano il trono divino (o piuttosto, condividevano due troni uguali)".[48] Sebbene in Daniele 7 e 4 Esdra, egli sostenga, questa "seconda figura divina antropomorfa è stata ‘soppressa’" in una certa misura, nelle Similitudini di Enoch si può vedere appieno la natura binaria delle idee ebraiche su Dio del Secondo Tempio.[49] Di conseguenza, Boyarin conclude che entrambe le opere dimostrano che la nozione di "Alta Cristologia" era in realtà ebraica e che la nozione di un Messia divino incarnato era già presente nell'ebraismo del Secondo Tempio prima che Gesù entrasse in scena.

Recente enfasi sul Corpo di Dio nella Bibbia ebraica e nella tradizione rabbinica[modifica]

Un certo numero di studiosi della Bibbia ebraica e del Rabbinismo hanno iniziato a dedicare attenzione all'importanza del corpo di Dio sia nell'antico Israele sia nella tradizione ebraica in sviluppo. Sebbene non sia lo scopo principale dei loro studi, una delle conseguenze relative al loro lavoro è stata quella di dimostrare che l'idea dell'incarnazione di Dio era parte integrante sia delle antiche tradizioni israelite che delle prime tradizioni ebraiche. Per fare ciò, questi studiosi hanno dovuto lottare contro due comuni idee erronee: in primo luogo, in opposizione al presupposto che l'ebraismo abbia un carattere assolutamente non antropomorfo, hanno cercato di dimostrare i vari modi in cui, sia nella fase israelita antica che nelle prime fasi dell'ebraismo rabbinico, "Dio è rappresentato in forma umana, come essere umano, corporeo, consustanziale in emozioni e virtù, allo stesso modo nell'azione e nel modo di agire".[50] In secondo luogo, in risposta alla stragrande maggioranza dei pensatori cristiani nel corso dei secoli, hanno dovuto smantellare l'idea che l'incarnazione di Dio fosse un fenomeno unico al solo cristianesimo.

Rispetto alla Bibbia ebraica, l'argomento del corpo di Dio, come anche la relativa nozione delle varie rappresentazioni antropomorfe di Dio contenute al suo interno, ha suscitato negli ultimi anni una vera proliferazione di studi.[51] Di particolare nota è l'opera di Benjamin Sommer.[52] Sebbene gli studiosi abbiano da tempo notato come il Dio della Bibbia ebraica sia spesso raffigurato in modi antropomorfi,[53] Sommer complica questa idea suggerendo che, per alcuni nell'antico Israele, la corporeità del Dio di Israele rifletteva le antiche concezioni del Vicino Oriente sulla "fluidità e molteplicità divina".[54] Questa fluidità permise agli dei, e in particolare al Dio di Israele, di manifestarsi come "sé frammentati", in grado di trovarsi contemporaneamente in molti luoghi diversi. Di conseguenza, sostiene Sommer, il Dio di Israele non aveva un solo corpo, ma molti corpi.

Allo stesso modo, Mark Smith complica l'interpretazione tradizionale del corpo di Dio nella Bibbia ebraica, suggerendo che il corpo di Dio si manifesta in questi testi in tre modi principali.[55] Nella prima serie di testi, come Genesi 2-3,18,23, Dio assume un corpo "naturale", descritto in modo antropomorfo.[56] I testi presentano Dio che svolge compiti tipicamente associati agli esseri umani, come coltivare un giardino, offrire ospitalità ai visitatori e lottare fisicamente con Giacobbe. Nella seconda serie di testi, che includono Esodo 24,33-34 e Isaia 6, Dio ha un "corpo sovrumano" o "corpo liturgico".[57] Qui Dio è raffigurato con un corpo "di dimensioni sovrumane",[58] la cui gloria si riempie l'intero Tempio, o è molto più grande di un tipico essere umano. Nell'ultima serie di testi, che includono Isaia 66 ed Ezechiele 1, il corpo di Dio diventa un fenomeno "cosmico" o "mistico".[59] Questa categoria successiva prefigura in molti modi il passaggio alla comprensione trascendente e cosmica di Dio presente in successivi testi greco-romani. Sebbene sia Sommer che Smith complichino l'interpretazione tradizionale del corpo di Dio nella Bibbia ebraica, il loro lavoro sottolinea il predominio di Dio come essere corporeo in tutto questo corpus di scritti e ha stimolato molte discussioni e dibattiti su potenziali punti di dialogo con il cristianesimo.

Per quanto riguarda la tradizione rabbinica, sebbene l'idea fosse stata anticipata precedentemente nell'opera di Joshua Abelson, Jacob Neusner ha riacceso l'interesse per la questione se la nozione di personificazione di Dio, che egli descrive specificamente come "incarnazione", potesse avere un posto anche nella tradizione ebraica.[60] In particolare, in opposizione a coloro che suggeriscono che le idee incarnazionali sorsero esclusivamente all'interno del cristianesimo, Neusner sostiene che un fenomeno simile appare anche in quelli che descrive come i documenti "formativi" dell'ebraismo rabbinico, e traccia lo sviluppo di questo fenomeno in tre fasi principali.[61] In primo luogo, esamina le prove della Mishnah, Tosefta e Trattato Avot; secondo, esplora lo Yerushalmi, la Genesi e il Levitico Rabbah e il Pesikta de-Rav Kahana; e infine, indaga sul Bavli. Nell'analisi, Neusner traccia un processo graduale, sebbene non sempre lineare, in base al quale ogni testo successivo presenta Dio in maniera sempre più corporea. Questo processo, per Neusner, culmina nel Bavli, dove la precedente "incarnazione della Torah" diventa la piena "incarnazione di Dio" nella persona del saggio.[62] In particolare, Neusner suggerisce che il Bavli presenta una "storia davvero sorprendente" ", che descrive Dio come il Saggio ideale, pienamente incarnato negli aspetti fisici, emotivi e sociali dell'umanità.[63]

Anche Elliot Wolfson e Yair Lorberbaum hanno esplorato la connessione tra l'incarnazione di Dio nell'uomo e l'ebraismo.[64] Wolfson, ad esempio, esplora fonti rabbiniche e suggerisce che "l'incarnazione di Dio nell'ebraismo non è semplicemente una questione retorica".[65] Invece, per lui, "implica una investitura ontologica vissuta concretamente, sebbene nell'immaginazione umana".[66] In particolare, fu attraverso gli atti liturgici della preghiera e dello studio della Torah, sostiene Wolfson, che i rabbini suggerirono che la forma di Dio fosse "resa accessibile".[67] Tramite entrambe queste attività, "il corpo immaginifico di Dio assume forma incarnata", in particolare nella forma del saggio rabbinico.[68] La tesi centrale di Lorberbaum è che, secondo i rabbini, il concetto di imago dei dal libro della Genesi suggerisce che esiste una presenza tangibile del divino all'interno di ogni essere umano. Questo concetto ha un impatto su due aree della halakhah: la pena di morte e la procreazione. Poiché gli esseri umani sono rappresentazioni fisiche di Dio, l'esecuzione equivale al deicidio. Al contrario, i rabbini incoraggiano fortemente la procreazione perché aumenta la manifestazione fisica di Dio nel mondo. Inoltre, poiché gli esseri umani sono stati creati nell'"immagine" del divino, essi, come gli idoli del mondo pagano, funzionano in modo tale da attirare la presenza di Dio in se stessi, offuscando i confini tra i due e "materializzando" la presenza divina sulla terra.

L'opera pioneristica di tutti questi studiosi ha rivelato come gli impulsi dell'incarnazione di Dio fossero profondamente radicati nella tradizione israeliana dal tempo dell'antico Israele a quello dei rabbini. Fino ad ora, tuttavia, nessuno studio ha fornito un'analisi sostenuta di queste tendenze all'interno della tradizione condivisa del'ebraismo del Secondo Tempio da cui sono emerse entrambe le religioni.[69] In tal modo, la mia ricerca dimostra come la nozione di incarnazione di Dio presenti un inaspettato punto di convergenza tra quelle che solo più tardi diventeranno note come la religione dell'ebraismo e la religione del cristianesimo. Inoltre, apre nuovi punti di contatto per il dialogo ebraico-cristiano, anche ai giorni nostri.

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Biografie cristologiche.
  1. La più completa indagine di Ferdinand Christian Baur sull'Incarnazione avviene nel suo Die christliche Lehre von der Dreieinigkeit und Menschwerdung Gottes in ihrer geschichtlichen Entwicklung, 3 voll. (Tübingen: Osiander, 1841–43), ma precursori di questa linea di pensiero nella sua opera possono trovarsi anche nelle sue monografie sullo Gnosticismo. Si veda, ad esempio, Die christliche Gnosis oder die christliche Religions-Philosophie in ihrer geschichtlichen Entwicklung (Tübingen: Osiander, 1835) e Die christliche Lehre von der Versöhnung in ihrer geschichtlichen Entwicklung von der ältesten Zeit bis auf die neueste (Tübingen: Osiander, 1838).
  2. Adolf von Harnack, History of Dogma, trad. (EN) N. Buchanan (Boston: Little, Brown, & Company, 1905); trad. da Lehrbuch der Dogmengeschichte, III ediz. (Freiburg: Mohr Siebeck, 1886-90, 3 voll).
  3. Per ulteriori informazioni, si veda Harnack, History of Dogma, 208.
  4. Robert L. Ottley, The Doctrine of the Incarnation, IV ediz. riv. (Londra: Methuen, 1908).
  5. Ottley, Doctrine of the Incarnation, 39.
  6. Ottley, Doctrine of the Incarnation, 83.
  7. Per esempi chiave, si vedano: Edwin Hamilton Gifford, The Incarnation: A Study of Philippians 2:5-11 (New York: Dodd, Mead, & Co., 1897); Francis Ferrier, What is the Incarnation?, trad. (EN) Edward Sillem (New York: Hawthorn Books, 1962), trad. da L’incarnation (Parigi: Cerf, 1960); George S. Hendry, The Gospel of the Incarnation (Philadelphia: Westminster Press, 1958); Jacques Liébaert, L’incarnation: Des origines au concile de Chalcédoine (Parigi: Éditions du Cerf, 1966).
  8. Charles A. Briggs, The Incarnation of the Lord: A Series of Sermons Tracing the Unfolding of the Doctrine of the Incarnation in the New Testament (New York: Charles Scribner’s, 1902).
  9. Briggs, Incarnation of the Lord, 183.
  10. Wilhelm Bousset, Kyrios Christos: A History of the Belief in Christ from the Beginnings of Christianity to Irenaeus, trad. (EN) John E. Steely, con introd. di Larry W. Hurtado (Waco: Baylor University Press, 2013); trad. da Kyrios Christos: Geschichte des Christusglaubens von den Anfängen des Christentums bis Irenaeus (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1921). Sebbene l'opera di Bousset influenzasse l'intera successiva generazione di studiosi, recenti scoperte archeologiche hanno reso insostenibile la sua netta dicotomia tra "ebraismo palestinese" e "ebraismo ellenistico". Ora invece gli studiosi insistono che le conquiste di Alessandro Magno e la sua promulgazione della cultura greca influenzò tutti gli aspetti dell'ebraismo del Secondo Tempio. Si vedano: Elias Bickerman, The Jews in the Greek Age (Cambridge: Harvard University Press, 1988); Victor Tcherikover, Hellenistic Civilization and the Jews, trad. (EN) S. Applebaum (Philadelphia: Jewish Publication Society of American, 1959); Martin Hengel, Judaism and Hellenism: Studies in their Encounter in Palestine during the Early Hellenistic Period, trad. (EN) J. Bowden; 2 voll. (Philadelphia: Fortress Press, 1974).
  11. Henry J. Wicks, The Doctrine of God in the Jewish Apocryphal and Apocalyptic Literature (Londra: Hunter & Longhurst, 1915), 124.
  12. Wicks, Doctrine of God, 124–127.
  13. Harry Austryn Wolfson, The Philosophy of the Church Fathers: Faith, Trinity, and Incarnation. II ediz. (Cambridge: Harvard University Press, 1964).
  14. Wolfson, Philosophy of the Church Fathers, 156.
  15. Wolfson, Philosophy of the Church Fathers, viii.
  16. Wolfson, Philosophy of the Church Fathers, 365.
  17. Wolfson, Philosophy of the Church Fathers, 365–366.
  18. John Hick, cur., The Myth of God Incarnate (Philadelphia: Westminster Press, 1977). Per confutazioni dell'argomentazione centrale di questo volume, che furono pubblicate nel corso dello stesso hanno del libro curato da Hicks, si vedano Michael Green, cur. The Truth of God Incarnate (Grand Rapids: Eerdmans, 1977) e George Carey, God Incarnate: Meeting the Contemporary Challenges to a Classic Christian Doctrine (Downers Grove: Intervarsity Press, 1978).
  19. Michael Goulder, cur., Incarnation and Myth: The Debate Continues (Grand Rapids: Eerdmans, 1979), vii.
  20. Goulder, Incarnation and Myth: The Debate Continues, vii.
  21. Goulder, Incarnation and Myth: The Debate Continues, vii.
  22. Hick, The Myth of God Incarnate, ix, mio corsivo.
  23. John Hick, The Metaphor of God Incarnate: Christology in a Pluralistic Age, II ediz. (Louisville: Westminster John Knox Press, 2006), 185.
  24. Hurtado, One God, One Lord, 17–39.
  25. Hurtado, One God, One Lord, 2, 12, 93–124; Hurtado, How on Earth, 153–54, 178. Altrove la descrive comeuna "forma variante" piuttosto che una "mutazione", cfr. Hurtado, Lord Jesus Christ, 50, n. 70.
  26. Bauckham, God Crucifiedviii; idem, The Theology of the Book of Revelation (Cambridge, UK: Cambridge University Press, 1993), 58–59.
  27. Jesus and the God of Israel, ix; idem, God Crucified, vii.
  28. Richard Bauckham, "Monotheism and Christology in Hebrews 1", in Early Jewish and Christian Monotheism (curr. Loren T. Stuckenbruck e Wendy E.S. North; Londra: T & T Clark, 2004): 167–185, qui citato a 167; idem, God Crucified, viii; idem, Jesus and the God of Israel; x, 6–7, 30–31; idem, "Throne of God", 44–45.
  29. La citazione è da Bauckham, God Crucified, vii. Si veda anche Bauckham, "Throne of God", 44–45.
  30. Bauckham, Jesus and the God of Israel, 7–11.
  31. Per una maggiore enfasi di Bauckham sulle altre due componenti dell'identità di Dio, cioè che Egli è il solo creatore e solo signore dell'universo, si vedano Jesus and the God of Israel, 9–11, 18; idem, "Throne of God", 45–48; idem, "Monotheism and Christology in Hebrews 1", 167.
  32. Citazione da Bauckham, God Crucified, vii. Si veda anche Bauckham, Jesus and the God of Israel, 3–4, 18–21.
  33. Bauckham, Jesus and the God of Israel, 19.
  34. Questo è il punto centrale dell'opera di Hurtado. Per una discussione simile in Bauckham, cfr. anche Richard Bauckham, "The Worship of Jesus in Apocalyptic Christianity", NTS 27 (1980–81): 322–341, partic. 322, 335.
  35. Ezechiele 1:26, per esempio, descrive uno "come forma umana (כמראה אדם)" che veniva adorato. I En. 48:5; 62:6-9 (cfr. I En. 46:5; 52:4) presenta il Figlio dell'Uomo che viene adorato. Parimenti, quando descrive la creazione dell'uomo, Filone, Opif. 83 nota che tutto il resto della creazione, "appena lo videro lo [ammirarono] e lo [adorarono]." Inoltre, LA. 12–16 presenta gli angeli che adorano Adamo dopo la sua creazione, ma descrive il diavolo che si rifiuta di farlo. Si veda Crispin Fletcher-Louis, "The Worship of Divine Humanity as God’s Image and the Worship of Jesus", in The Jewish Roots of Christological Monotheism, curr. Carey Newman, James Davila, e Gladys Lewis (Leiden: Brill, 1999), 115.
  36. Adela Yarbro Collins e John J. Collins, King and Messiah as Son of God: Divine, Human, and Angelic Messianic Figures in Biblical and Related Literature (Grand Rapids: Eerdmans, 2008).
  37. Collins and Collins, King and Messiah, xiv.
  38. Dunn, Christology in the Making, 65–128.
  39. Dunn, Christology in the Making, xiii.
  40. Alan Segal, Two Powers in Heaven: Early Rabbinic Reports about Christianity and Gnosticism (Leiden: Brill, 1977), 51–52. In una pubblicazione successiva, Segal in modo simile sottolinea come, nel primo secolo "molti, molti ebrei erano disposti ad ammettere che certi comuni esseri umani fossero divini" e come "molti ebrei... pensavano che Dio potesse essere diviso in due figure differenti, una vecchia e una giovane (Dan. 7:9–13)." Si veda "Outlining the Question: From Christ to God", in Jews & Christians Speak of Jesus, cur. Arthur E. Zannoni (Minneapolis: Fortress Press, 1994), 125–135, partic. 133.
  41. Christopher Rowland, The Open Heaven: A Study of Apocalyptic in Judaism and Early Christianity (Londra: SPCK, 1982), partic. 94–113. Si veda anche Jarl E. Fossum, The Name of God and the Angel of the Lord, WUNT 36 (Tübingen, Mohr Siebeck, 1985).
  42. Margaret Barker, The Great Angel (Londra: SPCK, 1992).
  43. Barker, Great Angel, 131.
  44. Carey C. Newman, James R. Davila, e Gladys S. Lewis, curr. The Jewish Roots of Christological Monotheism. Papers from the St. Andrews Conference on the Historical Origins of the Worship of Jesus (Leiden: Brill, 1999).
  45. James Davila, "Of Methodology, Monotheism, and Metatron: Introductory Reflections on Divine Mediators and the Origins of the Worship of Jesus", in The Jewish Roots of Christological Monotheism, curr. Carey C. Newman, James R. Davila, e Gladys S. Lewis (Leiden: Brill, 1999), 3–18.
  46. Daniel Boyarin, The Jewish Gospels: The Story of the Jewish Christ (New York: New Press, 2012).Sebbene sia basato sulla tradizione rabbinica, anche il lavoro di Rachel Neis è qui istruttivo. Mediante un'analisi di Hekalot Rabbati, una raccolta di antiche tradizioni mistiche ebraiche, Neis esplora le immagini di un "iconico Giacobbe divino", la cui immagine appare sul trono di Dio e che si impegna in una "coreografia oculare" con Dio in modo tale che questo evento in cielo è parallelo a una pari liturgia nella sinagoga sulla terra. Ciò che sorprende in questo testo è che Dio venera e adora l'iconica rappresentazione di Giacobbe/Israele, a mio avviso elevando la rappresentazione di Giacobbe/Israele a una sorta di status divino.Si veda Rachel Neis, "Embracing Icons: The Face of Jacob on the Throne of God", Images 1 (2007): 36–54.
  47. Daniel Boyarin, "Enoch, Ezra, and the Jewishness of ‘High Christology’" in Fourth Ezra and Second Baruch: Reconstruction after the Fall. Supplements to the Journal for the Study of Judaism, vol. 164; curr. Matthias Henze e Gabriele Boccaccini (Leiden & Boston: Brill, 2013): 337–361.
  48. Boyarin, "Enoch, Ezra, and the Jewishness of ‘High Christology,’" 337.
  49. Boyarin, "Enoch, Ezra, and the Jewishness of ‘High Christology,’" 337.
  50. Neusner, Incarnation of God, 4.
  51. Oltre alle opere di Benjamin Sommer e Mark S. Smith discusse nel testo supra, altri articoli e monografie includone, int. al., Knafl, Forming God, 72–157; Hamori, "When Gods Were Men"; idem, "Divine Embodiment in the Hebrew Bible", 161–183; Neis, The Sense of Sight, 18–81.
  52. Sommer, The Bodies of God, 1–11, 38–57, 124–143.
  53. Alcuni testi nella Bibbia ebraica, per esempio, rappresentano Dio in termini antropomorfici, con Dio che agisce in modi simili agli umani (cfr. Genesi 3:8, Esodo 15; 2 Samuele 22; Isaia 6:1-3; Salmi 18,132:13,135:21 Salmi 18), o con concreti attributi umani, come dita e facciae (cfr. Esodo 31:18, Salmi 8:3; Esodo 24:10-12), o anche con emozioni umani di ira, gioia e rabbia. Si veda Moshe Reiss, "Adam: Created in the Image and Likeness of God", Jewish Biblical Quarterly 39.3 (2011): 181–186, part. 184.
  54. Sommer, The Bodies of God, 10.
  55. Smith, "Three Bodies of God", 471–488.
  56. Smith, "Three Bodies of God", 473.
  57. Smith, "Three Bodies of God", 478.
  58. Smith, "Three Bodies of God", 479, 480.
  59. Smith, "Three Bodies of God", 482
  60. Neusner, Incarnation of God, 1, 2, 4, 5, 6, 201, 202, 229, offre esempi in cui Neusner usa il termine "incarnazione", sebbene la parola ricorra diverse volte in tutto il libro. Si veda anche Joshua Abelson, The Immanence of God in Rabbinic Literature (Londra: Macmillan, 1912).
  61. Neusner, Incarnation of God, 2.
  62. Neusner, Incarnation of God, 202 e 201 rispettivamente.
  63. Neusner, Incarnation of God, 201–230, partic. 229.
  64. Ho citato il lavoro di Wolfson e Lorberbaum in questo rispetto, ma anche degno di nota e quello di Neis, The Sense of Sight, 18–81 e David Aaron, "Shedding Light on God’s Body in Rabbinic Midrashim: Reflections on the Theory of a Luminous Adam", HTR 90.3 (1997): 299–314.
  65. Wolfson, "Judaism and Incarnation", 240.
  66. Wolfson, "Judaism and Incarnation", 240–241. Da sottolineare che Wolfson pone comunque questa personificazione nel "reame dell'immaginario".
  67. Wolfson, "Judaism and Incarnation", 247.
  68. Wolfson, "Judaism and Incarnation", 253.
  69. 97 Per quanto ne so, l'unica potenziale eccezione a questa regola sorge nei saggi di Alan Segal, "Pre-existence and Incarnation: A Response to Dunn and Holiday", Semeia, vol. 30 (1984): 83–95; idem, "The Incarnation: The Jewish Milieu", in The Incarnation, cur. Stephen Davis, Daniel Kendall e Gerald O’Collins (Oxford: Oxford University Press, 2002), 116–139. Questi scritti, tuttavia, sono stati solo delle incursioni iniziali su questo argomento e non un'analisi sostenuta di questo periodo nella storia ebraica in relazione alla questione dell'incarnazione di Dio in forma umana.