Non c'è alcun altro/Dio Redime

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Indice del libro


"Ritratto di rabbino con tallit", di Isidor Kaufmann (ca.1900)
"Ritratto di rabbino con tallit", di Isidor Kaufmann (ca.1900)
« Ma io so che il mio Redentore vive! »
(Giobbe 19:25)
Rotolo della Torah su pergamena
Rotolo della Torah su pergamena


Redimere è salvare[modifica]

Redimere significa riscattare o salvare. L'affermazione che Dio redime, ha redento e redimerà ancora Israele e tutta l'umanità significa che Dio ha salvato e salverà o riscatterà — ma da cosa?

Nelle fonti ebraiche, la prima risposta a tale domanda fu il riscatto del popolo ebraico dalla schiavitù in Egitto; questo fu l'evento fondativo della storia ebraica. La manifestazione originale del riscatto da parte di Dio fu a nome del popolo ebraico; il suo scopo fu nazionale. Tuttavia, poiché qualsiasi evento della storia ebraica veniva interpretato come avesse anche una dimensione religiosa, e dato che gli ebrei credevano che fu proprio Dio che aveva redento il popolo ebraico dall'oppressione, tale redenzione fu compresa sia come un'affermazione religiosa e sia come un'affermazione nazionale. In poche parole, non c'è distinzione tra dimensione nazionale/politica della storia ebraica e la sua dimensione religiosa. Alla fine, perché il Dio di Israele era il Dio di tutta l'umanità, la potenza redentiva di Dio acquisì presto una dimensione universale. Dio era, almeno potenzialmente, il redentore di tutta l'umanità — anzi, del mondo nel suo insieme.

L'Esodo dall'Egitto servì da prologo alla sempiterna alleanza di Dio con Israele, in seguito confermata sul Monte Sinai. Le parole d'apertura di tale dichiarazione pattizia in Esodo 20 identifica il Dio che ora stipula l'alleanza quale "il Signore, il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù" (20:2). Segue un sottinteso "Pertanto", ed il resto della Torah scorre da tale identificazione iniziale. L'Esodo ed il Sinai furono in realtà un singolo evento trasformativo che creò sia il popolo ebraico sia l'ebraismo come lo conosciamo oggi.

Agli ebrei viene comandato di ricordare il giorno della loro partenza dal "paese d'Egitto" ogni giorno delle loro vite (Deuteronomio 16:3), ecco perché il tema appare nel terzo paragrafo della liturgia dello Shema (Numeri 15:37-41), che gli ebrei recitano almeno due volte al giorno, mattina e sera. Le parole conclusive della benedizione di Redenzione, che seguono la recitazione dello Shema così come le benedizioni della Creazione e della Rivelazione lo precedono, lodano Dio "Che ha redento Israele".

Da storia a escatologia[modifica]

Nella tradizione postbiblica, l'atto religioso, politico e nazionale di Dio nel riscattare Israele dalla schiavitù diventa la garanzia del Suo ripetuto riscattare Israele da tutti i suoi futuri travagli. Non inaspettatamente, tale garanzia appare esplicitamente in questo testo dalla haggadah di Pesach, la liturgia che si usa durante il seder pasquale, la celebrazione domestica dell'Esodo. La sua fonte deriva dal decimo capitolo di Mishnah Pesachim, che delinea i rituali e le liturgie che devono essere osservate alla vigilia di Pesach.

Lo scopo principale di questa celebrazione è quello di raccontare la storia di Esodo. Quando i nostri figli o i nostri ospiti chiedono perché osserviamo Pesach, noi dobbiamo spiegar loro: "È a causa di quanto ha fatto il Signore per me, quando sono uscito dall'Egitto" (Esodo 13:8). La Mishnah non è affatto esplicita sui dettagli precisi di come dobbiamo raccontare la storia, ma fa una stipulazione: dobbiamo "iniziare con la disgrazia e finire con la gloria" (10:4). Più colloquialmente, dobbiamo iniziare con le cattive notizie e finire con le buone notizie. L’haggadah di Pesach che usiamo oggigiorno, che risale ai primi del nono secolo e.v., evidenzia varie versioni di cattive natizie: la schiavitù egiziana, l'idolatria dei progenitori di Abramo, e la persecuzione di Giacobbe per mano di suo zio, Laban. È unanime riguardo alle buone notizie: la redenzione dall'Egitto.

La Mishnah (10:6) stipula anche che si debba concludere il racconto della storia con questa benedizione — soprannominata, appropriatamente, Geulah, o benedizione della Redenzione: "Benedetto sei Tu Dio, Signore dell'universo, che ci hai redento e hai redento i nostri antenati dall'Egitto, e ci hai permesso di giungere a questa notte in cui mangiamo pane azzimo ed erbe amare.".

Due punti sono degni di nota in questa dichiarazione. Primo, la redenzione dall'Egitto non fu semplicemente un evento del passato, non soltanto storia; è anche contemporaneo, un evento del presente. Non solo furono redenti i nostri avi, ma anche noi stessi, come anche tutte le generazioni di ebrei. L'Esodo non accadde allora; accade oggi, ogni giorno, anche a noi. Una pari affermazione vien fatta da tutte le culture in merito a grandi eventi trasformativi delle rispettive storie. Tali eventi rimangono in un presente perpetuo. Per esempio, durante la domenica di Pasqua i cristiani non dicono "Cristo risorse!" ma piuttosto "Cristo è risorto!" Questa asserzione non è falsa. I grandi eventi nella vita di una comunità mantengono una risonanza perpetua, continuativa. Rimangono eternamente presenti.[1]

Secondo, la Mishnah identifica gli autori del testo con Rabbi Tarfon, un rabbino della metà del II secolo e.v.[2] A quel tempo, il popolo ebraico stava nuovamente soffrendo in un periodo di oppressione, questa volta per mano dell'impero romano. Gerusalemme ed il Secondo Tempio erano stati distrutti (nel 70 e.v.) e gli ebrei avevano iniziato a disperdersi in esilio. La Mishnah, allora, non è soddisfatta della dichiarazione di Rabbi Tarfon e quindi suggerisce un'aggiunta a nome del suo coetaneo, Rabbi Akiva (10:6):

« Pertanto, O Signore nostro Dio e Dio dei nostri avi, portaci in pace alle altre feste e festività, mentre gioiamo nel ricostruire la Tua città [Gerusalemme] e nella Tua adorazione; ed ivi, possiamo noi [nuovamente] consumare i sacrifici e le offerte di Pesach... [Allora] canteremo una nuova canzone per Te, per la nostra redenzione e per la nostra liberazione. Benedetto sei Tu che hai redento Israele. »

Oggigiorno noi recitiamo entrambi i testi in successione. La memoria storica della liberazione iniziale da parte di Dio diventa la base di una supplica per un'ulteriore liberazione divina dall'oppressione, originalmente nel tempo di Akiva ed ora nel nostro tempo. In verità, la prima liberazione serva da paradigma per le successive – o più precisamente, le assicura. Da notare l'uso della parola "Pertanto", che introduce la preghiera di Rabbi Akiva; connette la redenzione passata con quella futura, poiché siamo dolorosamente consapevoli che, nel tempo storico, l'oppressione, in un modo o nell'altro, sarà sempre tra noi. Il passo finale nell'evoluzione della dottrina della redenzione divina è l'attesa di un atto ultimo di liberazione che distruggerà tutti i tipi di oppressione, questa volta per sempre.

Il potere redentivo di Dio è il fulcro dell'escatologia (dal greco ἔσχατος eschatos = ultimo e -λόγος logos = "studio di", "discorso") ebraica, il termine onnicomprensivo per l'insieme di insegnamenti che descrive gli eventi che accadranno alla fine dei giorni, al culmine della storia come tale. L'escatologia ebraica è un corpo complesso e fantasioso di insegnamenti che pretende di discutere di avvenimenti che nessun occhio umano ha mai visto. Nella sua forma completa, risalente al periodo talmudico, descrive eventi che avverranno su tre dimensione: una dimensione universale (eventi che influenzeranno l'intero cosmo), una dimensione nazionale (che influenzerà il popolo ebraico) e una dimensione individuale (che influenzerà ciascuna persona individuale). In un modo o nell'altro, ciascuno di questi scenari descrive Dio quale iniziatore del dramma. Tutte le escatologie derivano da un impulso comune: il senso che le cose come stanno ora sono profondamente imperfette. Gli scenari redentivi poi procedono a descrivere come, alla fine dei tempi Dio trasformerà l'imperfetto nel perfetto. Tutti parlano di Dio che salva, riscatta e libera le persone o, alla fine, il cosmo nel suo complesso, da uno stato imperfetto.[3]

Dio redime il mondo[modifica]

Nella dimensione universale, lo stato imperfetto delle cose è un mondo dove ingiustizia, guerre, oppressione e mali sociali di tutti i tipi governano le relazioni umane. Alla fine dei giorni, Dio abolirà tutto ciò e creerà un nuovo ordine mondiale in cui pace, giustizia e misericordia pervaderà tutti i rapporti umani. L'idolatria sarà abolita e tutte le nazioni del mondo riconosceranno il Dio di Israele come loro Dio.

Tale è la più antica dichiarazione dell'escatologia ebraica e la sua forza persiste a tutt'oggi. È l'impulso che ispira ogni movimento che ci confronta, i nostri governi e le nostre strutture sociali, a migliorare la condizione degli oppressi tra noi. È implicita in uno dei temi centrali di tutta la letteratura profetica, la critica profetica mordente dei mali sociali. La sua prima affermazione risiede infatti nella letteratura profetica — per esempio, in questa memorabile visione del profeta del sesto secolo p.e.v. i cui scritti sono inclusi nel Libro di Isaia, recitata appropriatamente come lettura profetica durante il giorno di digiuno dello Yom Kippur. Il profeta descrive il "digiuno" che Dio veramente desidera sopra tutti. Dio parla:

« Non è piuttosto questo il digiuno che voglio:
sciogliere le catene inique...
rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo?
Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato,
nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne? »
(Isaia 58:6-7)

Nella visdione del primo capitolo del Libro di Isaia, proprio il primo capitolo nella collezione di scritti profetici, Dio parla nuovamente:

« Lavatevi, purificatevi,
togliete il male delle vostre azioni
dalla mia vista.
Cessate di fare il male,
imparate a fare il bene,
ricercate la giustizia,
soccorrete l'oppresso,
rendete giustizia all'orfano,
difendete la causa della vedova. »
(Isaia 1:16-17)

Questi son o i difetti che pervadono la nostra struttura sociale e che richiedono redenzione. Pertanto, nel capitolo che segue – la giustapposizione non è fortuita – appare la nobile visione profetica di un'età ideale futura. Una società che incorpora la visione morale del profeta condurrà il mondo verso un'età in cui il peggiore di tutti i mali, la guerra, scomparirà.

« Alla fine dei giorni,
il Monte del Tempio del Signore
sarà eretto sulla cima dei monti...
Verranno molti popoli e diranno:
«Venite, saliamo sul Monte del Signore,
al Tempio del Dio di Giacobbe,
perché ci indichi le Sue vie
e possiamo camminare per i Suoi sentieri».
Poiché da Sion uscirà la legge
e da Gerusalemme la parola del Signore.
Egli sarà giudice fra le genti
e sarà arbitro fra molti popoli.
Forgeranno le loro spade in vomeri,
le loro lance in falci;
un popolo non alzerà più la spada
contro un altro popolo,
non si eserciteranno più nell'arte della guerra. »
(Isaia 2:2-4)

Riflettendo su questo passo, Heschel ebbe a dire: "Nessun altro pensatore in tutta l'antichità ha mai sognato un'età in cui non ci sarebbe più stata guerra." Tale visione continua ad esercitare il suo potere ai nostri giorni.[4]

Dio redime Israele[modifica]

La dimensione nazionale dell'escatologia ebraica si estende al tema della redenzione di Israele dall'Egitto: Dio ancora una volta salverà Israele dall'oppressione di nazioni straniere e Israele ritornerà alla propria terra, libera dal giogo dell'esilio e come padrone del proprio destino. Gerusalemme ed il Tempio saranno ricostruiti ed il culto sacrificale sarà ripristinato. Israele insoltre insegnerà alle nazioni ad adorare il Dio di Israele.

Una delle prime asserzioni di questo tema appare nella letteratura profetica, questa volta nel Libro di Geremia. Geremia viene comunemente indicato come un profeta della condanna, della distruzione, ma la sua opera include una profezia sorprendente di consolazione che segue all'imminente distruzione (appunto) di Gerusalemme:

« Poiché dice il Signore...:
Ecco li riconduco dal paese del settentrione
e li raduno all'estremità della terra;
fra di essi sono il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente;
ritorneranno qui in gran folla...
Non è forse Efraim un figlio caro per Me,
un Mio fanciullo prediletto?
Infatti dopo averlo minacciato,
Me ne ricordo sempre più vivamente.
Per questo le Mie viscere si commuovono per lui,
provo per lui profonda tenerezza. »
(Geremia 31:7-20)

L'evoluzione susseguente di questa dimensione nazionale dell'escatologia ebraica è molto più complicata di quella universale. Il Tempio di Gerusalemme fu distrutto nel 586 p.e.v., pochi anni dopo la profezia di Geremia, e Israele fu esiliato a Babilonia, ma la profezia di redenzione di Geremia venne presto realizzata. Israele infatti ritornò da quell'esilio, ma il Tempio e Gerusalemme furono di nuovo distrutti, secoli dopo, dai romani. Una volta ancora Israele provò l'esilio, e tale esperienza esilica durò fino ai nostri tempi, quando fu ristabilito uno stato ebraico indipendente nel 1948. Gli ebrei che interpretano la storia ebraica moderna in termini religiosi vedono questo avvenimento come l'inizio di un rinnovato processo di redenzione. In tale spirito, la preghiera per lo Stato di Israele, recitata in molte sinagoghe di questi tempi, chiede che Dio benedica lo Stato di Israele, "prima fioritura della nostra redenzione". Ma ebrei laici contemporanei, americani o israeliani, insieme agli ebrei religiosi ultraortodossi che non riconoscono lo stato moderno di Israele come adempimento della volontà di Dio, non recitano tale preghiera.[5]

Dio redime dalla morte[modifica]

Infine, riguardo alla dimensione individuale, Dio salverà gli esseri umani dal difetto ultimo che pervade l'esistenza umana: la morte. I corpi umani risorgeranno dalle loro tombe e si riuniranno con le proprie anime. Così ricostituiti, come eravamo una volta sulla terra, tutta l'umanità verrà davanti a Dio in giudizio. La morte stessa morirà per mano di Dio, la cui sovranità e potenza saranno allora definitive.

Questo aspetto finale dell'escatologia ebraica fu l'ultima as entrare nel pensiero ebraico. In gran parte della Bibbia, la morte veniva concepita come finale. Solo nel mezzo del secondo secolo p.e.v. troviamo un testo biblico che proponga che Dio farà risorgere i morti dalle tombe: "Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna" (Daniele 12:2). La dottrina della risurrezione fisica venne canonizzata nella liturgia ebraica nella seconda benedizione della amidah, che loda Dio come Colui "che risorgerà i morti" o "dà vita ai morti". Nell'età moderna, molti ebrei hanno trovato ripugnante questa dottrina, Libri di preghiera riformati, per esempio, sostituiscono queste parole con la frase più neutrale "che dà vita a tutte le cose" oppure "fonte di vita".

Chad Gadya, cantato da Yosef Elbaz, Gerusalemme 19 aprile 1973. Cantato in aramaico e in arabo marocchino

Al posto della dottrina della risurrezione fisica, molti ebrei moderni hanno abbracciato una dottrina ebraica ugualmente antica che si originò nella filosofia greca, la dottrina dell'immortalità dell'anima. Alla morte, le nostre anime lasciano il corpo e si uniscono a Dio; ciò costituisce l'immortalità umana.[6]

Per quanto riguarda la morte finale della morte, tale tema emerge nella strofa conclusiva (Versetto 10) dell'inno pasquale Chad Gadya ("Un solo capretto"), che conclude il seder di Pesach. In questa strofa, il Santo Benedetto viene rappresentato che distrugge l'Angelo della Morte. La potenza di Dio rimarrà quindi incontestata, anche dalla morte.[7]
Vediamone l'intero testo:

Italiano
UN CAPRETTO
Traslitterazione dell'ebraico
Chad Gadya
Traslitterazione dell'aramaico
ħad gadyā
Aramaico
חַד גַּדְיָא
Versetto 1:
Un capretto, un capretto: Chad gadya, chad gadya, ħaḏ gaḏyā, ħaḏ gaḏyā, חַד גַּדְיָא, חַד גַּדְיָא
Che mio padre comprò per due zuzim.[8] dizabin abah bitrei zuzei. dəzabbīn abbā biṯrē zūzē. דְּזַבִּין אַבָּא בִּתְרֵי זוּזֵי
Versetto 2:
Un capretto, un capretto: Chad gadya, chad gadya, ħaḏ gaḏyā, ħaḏ gaḏyā, חַד גַּדְיָא, חַד גַּדְיָא
Venne il gatto e mangiò il capretto, ve-ata shunra ve-akhlah le-gadya wəʔāṯā šūnrā wəʔāḵlā ləgaḏyā וְאָתָא שׁוּנְרָא, וְאָכְלָה לְגַדְיָא
Che mio padre aveva comprato per due zuzim. dizabin abba bitrei zuzei. dəzabbīn abbā biṯrē zūzē. דְּזַבִּין אַבָּא בִּתְרֵי זוּזֵי
Versetto 3:
Un capretto, un capretto: Chad gadya, chad gadya, ħaḏ gaḏyā, ħaḏ gaḏyā, חַד גַּדְיָא, חַד גַּדְיָא
Venne il cane e morsicò il gatto, che aveva mangiato il capretto, ve-ata kalba ve-nashakh le-shunra, de-akhlah le-gadya wəʔāṯā ḵalbā wənāšaḵ ləšūnrā, dəʔāḵlā ləgaḏyā וְאָתָא כַלְבָּא ,וְנָשַׁךְ לְשׁוּנְרָא, דְּאָכְלָה לְגַדְיָא
Che mio padre aveva comprato per due zuzim. dizabin abba bitrei zuzei. dəzabbīn abbā biṯrē zūzē. דְּזַבִּין אַבָּא בִּתְרֵי זוּזֵי
Versetto 4:
Un capretto, un capretto: Chad gadya, chad gadya, ħaḏ gaḏyā, ħaḏ gaḏyā, חַד גַּדְיָא, חַד גַּדְיָא
Venne il bastone e picchiò il cane, ve-ata chutra, ve-hikkah le-khalba wəʔāṯā ħūṭrā, wəhikkā ləḵalbā וְאָתָא חוּטְרָא, וְהִכָּה לְכַלְבָּא
che aveva morsicato il gatto, che aveva mangiato il capretto, de-nashakh le-shunra, de-akhlah le-gadya dənāšaḵ ləšūnrā, dəʔāḵlā ləgāḏyā דְּנָשַׁךְ לְשׁוּנְרָא, דְּאָכְלָה לְגַדְיָא
Che mio padre aveva comprato per due zuzim. dizabin abba bitrei zuzei. dəzabbīn abbā biṯrē zūzē. דְּזַבִּין אַבָּא בִּתְרֵי זוּזֵי
Versetto 5:
Un capretto, un capretto: Chad gadya, chad gadya, ħaḏ gaḏyā, ħaḏ gaḏyā, חַד גַּדְיָא, חַד גַּדְיָא
Venne il fuoco e bruciò il bastone, ve-ata nura, ve-saraf le-chutra wəʔāṯā nūrā, wəśārap̄ ləħūṭrā וְאָתָא נוּרָא, וְשָׂרַף לְחוּטְרָא
che aveva picchiato il cane, che aveva morsicato il gatto, che aveva mangiato il capretto, de-hikkah le-khalba, de-nashakh le-shunra, de-akhlah le-gadya dəhikkā ləḵalbā, dənāšaḵ ləšūnrā, dəʔāḵlā ləgāḏyā דְּהִכָּה לְכַלְבָּא ,דְּנָשַׁךְ לְשׁוּנְרָא, דְּאָכְלָה לְגַדְיָא
Che mio padre aveva comprato per due zuzim. dizabin abba bitrei zuzei. dəzabbīn abbā biṯrē zūzē. דְּזַבִּין אַבָּא בִּתְרֵי זוּזֵי
Versetto 6:
Un capretto, un capretto: Chad gadya, chad gadya, ħaḏ gaḏyā, ħaḏ gaḏyā, חַד גַּדְיָא, חַד גַּדְיָא
Venne l'acqua e spense il fuoco, ve-ata maya, ve-khavah le-nura wəʔāṯā mayyā, wəḵāḇā lənūrā וְאָתָא מַיָּא, וְכָבָה לְנוּרָא
che aveva bruciato il bastone, che aveva picchiato il cane, de-saraf le-chutra, de-hikkah le-khalba dəšārap̄ ləħūṭrā, dəħikkā ləḵalbā דְּשָׂרַף לְחוּטְרָא ,דְּהִכָּה לְכַלְבָּא
che aveva morsicato il gatto, che aveva mangiato il capretto, de-nashakh le-shunra, de-akhlah le-gadya dənāšaḵ ləšūnrā, dəʔāḵlā ləgāḏyā דְּנָשַׁךְ לְשׁוּנְרָא, דְּאָכְלָה לְגַדְיָא
Che mio padre aveva comprato per due zuzim. dizabin abba bitrei zuzei. dəzabbīn abbā biṯrē zūzē. דְּזַבִּין אַבָּא בִּתְרֵי זוּזֵי
Versetto 7:
Un capretto, un capretto: Chad gadya, chad gadya, ħaḏ gaḏyā, ħaḏ gaḏyā, חַד גַּדְיָא, חַד גַּדְיָא
Venne il bue e bevve l'acqua, ve-ata tora, ve-shatah le-maya wəʔāṯā tōrā, wəšāṯā ləmayyā וְאָתָא תוֹרָא, וְשָׁתָה לְמַיָּא
che aveva spento il fuoco, che aveva bruciato il bastone, de-khavah le-nura, de-saraf le-chutra dəḵāḇā lənūrā, dəšārap̄ ləħūṭrā דְּכָבָה לְנוּרָא ,דְּשָׂרַף לְחוּטְרָא
che aveva picchiato il cane, che aveva morsicato il gatto, che aveva mangiato il capretto, de-hikkah le-khalba, de-nashakh le-shunra, de-akhlah le-gadya dəhikkā ləḵalbā, dənāšaḵ ləšūnrā, dəʔāḵlā ləgāḏyā דהִכָּה לְכַלְבָּא, דְּנָשַׁךְ לְשׁוּנְרָא, דְּאָכְלָה לְגַדְיָא
Che mio padre aveva comprato per due zuzim. dizabin abba bitrei zuzei. dəzabbīn abbā biṯrē zūzē. דְּזַבִּין אַבָּא בִּתְרֵי זוּזֵי
Versetto 8:
Un capretto, un capretto: Chad gadya, chad gadya, ħaḏ gaḏyā, ħaḏ gaḏyā, חַד גַּדְיָא, חַד גַּדְיָא
Venne il macellaio (Shochet) e ammazzò il bue, ve-ata ha-shochet, ve-shachat le-tora wəʔāṯā hašōħēṭ, wəšāħaṯ ləṯōrā וְאָתָא הַשּׁוֹחֵט, וְשָׁחַט לְתוֹרָא
che aveva bevuto l'acqua, che aveva spento il fuoco, de-shatah le-maya, de-khavah le-nura dəšāṯā ləmayyā, dəḵāḇā lənūrā דְּשָׁתָה לְמַיָּא ,דְּכָבָה לְנוּרָא
che aveva bruciato il bastone, che aveva picchiato il cane, de-saraf le-chutra, de-hikkah le-khalba dəšārap̄ ləħūṭrā, dəhikkā ləḵalbā דְּשָׂרַף לְחוּטְרָא, דְּהִכָּה לְכַלְבָּא
che aveva morsicato il gatto, che aveva mangiato il capretto, de-nashakh le-shunra, de-akhlah le-gadya dənāšaḵ ləšūnrā, dəʔāḵlā ləgāḏyā דְּנָשַׁךְ לְשׁוּנְרָא, דְּאָכְלָה לְגַדְיָא
Che mio padre aveva comprato per due zuzim. dizabin abba bitrei zuzei. dəzabbīn abbā biṯrē zūzē. דְּזַבִּין אַבָּא בִּתְרֵי זוּזֵי
Versetto 9:
Un capretto, un capretto: Chad gadya, chad gadya, ħaḏ gaḏyā, ħaḏ gaḏyā, חַד גַּדְיָא, חַד גַּדְיָא
Venne l'angelo della morte e uccise il macellaio, ve-ata mal'akh ha-mavet, ve-shachat le-shochet wəʔāṯā malʔaḵ hammāweṯ, wəšāħaṭ ləšōħēṭ וְאָתָא מַלְאַךְ הַמָּוֶת, וְשָׁחַט לְשׁוֹחֵט
che aveva ammazzato il bue, che aveva bevuto l'acqua, de-shachat le-tora, de-shatah le-maya dəšāħaṭ ləṯōrā, dəšāṯā ləmayyā דְּשָׁחַט לְתוֹרָא, דְּשָׁתָה לְמַיָּא
che aveva spento il fuoco, che aveva bruciato il bastone, de-khavah le-nura, de-saraf le-chutra dəḵāḇā lənūrā, dəšārap̄ ləħūṭrā דְּכָבָה לְנוּרָא, דְּשָׂרַף לְחוּטְרָא
che aveva picchiato il cane, che aveva morsicato il gatto, che aveva mangiato il capretto, de hikkah le-khalba, de-nashakh le-shunra, de-akhlah le-gadya dəhikkā ləḵalbā, dənāšaḵ ləšūnrā, dəʔāḵlā ləgāḏyā דְּהִכָּה לְכַלְבָּא, דְּנָשַׁךְ לְשׁוּנְרָא, דְּאָכְלָה לְגַדְיָא
Che mio padre aveva comprato per due zuzim. dizabin abba bitrei zuzei. dəzabbīn abbā biṯrē zūzē. דְּזַבִּין אַבָּא בִּתְרֵי זוּזֵי
Versetto 10:
Un capretto, un capretto: Chad gadya, chad gadya, ħaḏ gaḏyā, ħaḏ gaḏyā, חַד גַּדְיָא, חַד גַּדְיָא
Poi venne Il Santo, Che Egli Sia Benedetto, ve-ata ha-Kadosh Baruch Hu wəʔāṯā haqqadōš bārūḵ hū וְאָתָא הַקָּדוֹשׁ בָּרוּךְ הוּא
e distrusse l'angelo della morte, che aveva ucciso il macellaio, ve-shachat le-mal'akh ha-mavet, de-shachat le-shochet wəšāħaṭ ləmalʔaḵ hammāweṯ, dəšāħaṭ ləšōħēṭ וְשָׁחַט לְמַלְאַךְ הַמָּוֶת ,דְּשָׁחַט לְשׁוֹחֵט
che aveva ammazzato il bue, che aveva bevuto l'acqua, de-shachat le-tora, de-shatah le-maya dəšāħaṭ ləṯōrā, dəšāṯā ləmayyā דְּשָׁחַט לְתוֹרָא, דְּשָׁתָה לְמַיָּא
che aveva spento il fuoco, che aveva bruciato il bastone, de-khavah le-nura, de-saraf le-chutra dəḵāḇā lənūrā, dəšārap̄ ləħūṭrā דְּכָבָה לְנוּרָא, דְּשָׂרַף לְחוּטְרָא
che aveva picchiato il cane, che aveva morsicato il gatto, che aveva mangiato il capretto, de-hikkah le-khalba, de-nashakh le-shunra, de-akhlah le-gadya dəhikkā ləḵalbā, dənāšaḵ ləšūnrā, dəʔāḵlā ləgāḏyā דְּהִכָּה לְכַלְבָּא ,דְּנָשַׁךְ לְשׁוּנְרָא, דְּאָכְלָה לְגַדְיָא
Che mio padre aveva comprato per due zuzim. dizabin abba bitrei zuzei. dəzabbīn abbā biṯrē zūzē. דְּזַבִּין אַבָּא בִּתְרֵי זוּזֵי


Questo intero dramma escatologico dovrà accadere sotto l'egida di un re umano particolarmente dotato o, in altre tradizioni, un essere divino o semidivino che poi chiamato Messiah (in ebraico mashiach מָשִׁיחַ, o "unto", perché in antichità, e ancor oggi, i sovrani sono incoronati ungendoli con olio). È Dio che, nel Suo tempo, manderà il Messiah. Fino a quel momento, non ci rimane altro che aspettare la sua venuta.

Ci siamo ora spostati molto al di là del senso nazionale stretto, originale, della redenzione. Tutte le escatologie sono intrinsecamente espressioni mitiche — metafore complesse, immaginative, che ci portano molto oltre la nostra esperienza umana quotidiana, oltre ciò che non potremo mai sperare di vedere coi nostri occhi. Come per tutti i grandi miti, il loro scopo è di aiutarci ad infondere nelle nostre vite il tipo di significato che non possiamo mai pretendere di ottenere tramite la sola ragione. A questo punto, il tema della redenzione diventa profondamente religioso nel significato più intenso di tale termine; si confronta con il problema persistente posto dall'esistenza umana, il senso che le nostre vite ed il mondo che abitiamo sono, in qualche modo profondo, imperfetti. Tutte le escatologie sono visioni di un'età del cosmo nel contesto del caos che pervade la vita umana mentre la viviamo qui e ora. Impongono ordine sull'anarchia, significato sull'insensatezza. Se Dio è veramente Dio, allora questo Dio deve avere un potere redentivo.

Il mondo non è ancora redento[modifica]

Che Dio sia un Dio redentore testimonia la Sua potenza, ma tale potenza redentiva è stranamente ambigua, poiché se la potenza redentiva di Dio sarà manifesta solo alla fine dei giorni, allora l'implicazione inevitabile è che qui ed ora la potenza di Dio non è completamente manifesta. Il versetto conclusivo del profeta Zaccaria (14:9) con cui concludiamo ogni servizio di culto ebraico formale e che abbiamo studiato a lungo nel capitolo 1, ha qui un' implicazione importante. Il contesto è una descrizione vivida del "giorno del Signore", una caratterizzazione profetica comune per l'età che segnerà il culmine della storia conosciuta. La visione è apocalittica: le strutture familiari della natura saranno capovolte; non ci sarà né luce solare né chiaro di luna, soltanto un giorno continuo; Dio farà guerra contro le nazioni malvagie e le distruggerà con flagelli. Tutti i sopravvissuti faranno un pellegrinaggio a Gerusalemme per adorare il Dio di Israele. E poi "il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto il suo nome", o come riportano altre traduzioni, in quel giorno "il Signore soltanto sarà adorato e invocato col Suo vero nome."

Tutto ciò succederà "in quel giorno", ma quel giorno non è ancora arrivato. Al tempo in cui fu fatta la profezia – Zaccaria visse nel sesto secolo p.e.v. – la maggioranza degli Israeliti vivevano ancora in Persia, e sebbene Gerusalemme ed il Tempio iniziavano ad essere ricostruiti, i morti non erano ancora risorti, né "soltanto" Dio era adorato da tutte le nazioni della terra. Né altri accadimenti profetizzati a lungo e che dovevano caratterizzare l'età ideale, erano ancora avvenuti. Né sono avvenuti nel nostro tempo presente, quando continuiamo a recitare questo versetto giornalmente.

Confrontiamo qui la stessa ambiguità che abbiamo visto in tutto questo nostro studio. In teoria, la potenza di Dio è assoluta; in pratica, ben lungi dall'esserlo. Alla fine dei giorni, la potenza di Dio sarà manifesta; oggi però, nel tempo storico, rimane tenue. Dio potrà anche essere un Dio redentore, ma la piena manifestazione di tale redenzione sta nel futuro indefinito.

L'ambiguità è riflessa dalle varie forme in cui appare la parola ebraica di "redentore", goel, nella liturgia. Riesaminiamo le parole finali delle due benedizioni redentrici che abbiamo studiato supra, quella che segue la recitazione dello Shema e quella che conclude la narrazione di Pesach: in entrambe, la parola appare nel tempo verbale passato – ga`al, tradotto "ha redento" – e si riferisce alla redenzione divina di Israele dalla schiavitù egiziana. C'è inoltre una benedizione di redenzione nella amidah giornaliera e lì appare nel tempo presente, goel, tradotto "Redentore di Israele" o "Che redime Israele". In questo contesto, il significato sembra asserire che, sebbene Dio possa non essere in procinto di redimere Israele qui e ora, Dio ha comunque il potere di redimere Israele. In pari vena, la seconda benedizione della amidah parla di Dio, "Che porta un redentore ai figli dei figli [d'Israele]". Di nuovo il verbo è al tempo presente.

Da notare anche i riferimenti a un Dio che "fa risorgere" o "dà vita ai morti", uno degli avvenimenti centrali del dramma escatologico ebraico classico. Di nuovo il verbo è al presente, anche se tale risurrezione non è ancora avvenuta. Perché l'autore di questa benedizione non ha usato il tempo futuro del termine? Ancora una volta l'implicazione sembra essere che Dio ha il potere di far risorgere i morti, anche se non l'ha ancora fatto. Perché no?

Abbiamo sottolineato questa palese ambiguità nella nostra discussione precedente di Dio come creatore e rivelatore. Come in quelle due altre dimensioni del rapporto di Dio con l'umanità, Egli non opera da solo. Dio fa conto sull'umanità per la piena manifestazione della Sua potenza. Nel tempo storico, Dio e umanità sono consociati nella redenzione, come nella creazione e nella rivelazione.[9]

Insieme nella redenzione[modifica]

Per approfondire, vedi Cabala lurianica.
Ein Sof e Tzimtzum (ebraico: צמצום ṣimṣūm "contrazione" o "restringimento"). Dio ha contratto la Sua luce infinita per permettere uno spazio concettuale, in cui un mondo indipendente potesse esistere

L'espressione più sorprendente di tale tema può riscontrarsi negli insegnamenti del mistico del XVI secolo Rabbi Isaac Luria. Luria, che visse e insegnò nella città di Safed in Palestina a seguito dell'espulsione degli ebrei dalla Spagna, alla fine del quindicesimo secolo, intrecciò antiche tradizioni rabbiniche e mistiche in un mito alquanto originale di redenzione per una generazione di ebrei che avevano una volta ancora provato l'amara realtà dell'esilio e del trauma nazionale. Questi ebrei si confrontavano, nella maniera più cruda possibile, col fatto che il mondo che abitavano era profondamente imperfetto. Dove stava pertanto la potenza redentrice di Dio?

La risposta di Luria, troppo complessa per esporla qui nei particolari, si concentra sulla concezione che sin dall'inizio, l'intera creazione di Dio era imperfetta. Dio aveva creato il mondo per emanazione dal Suo stesso essere, per così dire, da una "sostanza divina" originale. Tale emanazione era destinata ad essere contenuta nei "vasi" che Dio aveva creato in modo che il mondo creato sarebbe emerso ordinato e strutturato. Tuttavia, quei vasi non erano abbastanza robusti da soddisfare il loro ruolo assegnato. Si spaccarono in un evento catastrofico primordiale, e le scintille dell'impulso creativo di Dio vennero sparse per tutto il cosmo. Questo spargimento di scintille divine spiega la presenza di tutto il male nel mondo, sia male naturale che male storico. In effetti, il mondo nacque imperfetto; emerse proprio dalle mani di Dio.[10]

L'implicazione di questo mito della creazione è che Dio è responsabile del male nel mondo, ma la teoria di Luria è ancor più radicale. Poiché la creazione avvenne come emanazione dall'essere stesso di Dio, il mondo creato, con tutti i suoi difetti, è allo stesso tempo una parte intrinseca di Dio. Pertanto, le imperfezioni del mondo sono contemporaneamente imperfezioni di Dio. Il mondo è infranto e infranto è Dio.

Luria postulò che ci fossero due aspetti di Dio: Dio nella Sua essenza intrinseca, che Luria soprannominò Ein Sof אֵין סוֹף‎ (letteralmente, "Infinità" o "Senza Fine"), il Dio trascendente o nascosto; e la Shekhinah שְׁכִינָה (letteralmente, "Presenza"), Dio immanente, manifesto o presente nella creazione. In quella catastrofe primordiale, questi due aspetti di Dio vennero spezzati. Luria chiamò tale dislocazione nell'essere di Dio "l'Esilio della Shekhinah". Se Israele è in esilio, in esilio è anche Dio.[11]

Riparare il mondo[modifica]

"La Shekhinah entra nel Tabernacolo". Nell'ebraismo tradizionale, contrariamente a quanto accade nella cultura cristiana, la divinità non viene impersonificata in immagini visive[12]

A questo mito della creazione Luria poi aggiunse un mito della redenzione. Il mondo necessita di essere aggiustato o rip[arato e così anche Dio. La responsabilità di riparare il mondo viene assegnata a Israele, ed i mezzi per farlo sono le mitzvot, i comandi di Dio a Israele. Ogni mitzvah (מצווה) compiuta da un ebreo, accompagnata dalla giusta concentrazione interiore, è redentrice, un atto di riparazione del mondo. Poiché il mondo e Dio insieme formano un unico sistema cosmico, quando ripariamo il mondo ripariamo anche la scissione in Dio. Usando un'altra metafora, il cosmo intero è una vasca gigantesca. Gettando un sasso in un angolo della vasca, le ondulazioni che ne conseguono hanno un effetto sull'intera vasca. Il mondo materiale in cui viviamo non è altro che il bordo più estremo di questa vasca cosmica. Eseguire un semplice comando influenza l'intero sistema, Dio incluso.

Il termine ebraico per quello che chiamiamo "concentrazione interiore" è kavanah. I mistici lurianici composero brevi attestazioni liturgiche, chiamate kavanot (plurale di kavanah), da recitarsi prima dell'osservanza dei comandamenti onde assicurare che questi comandi verranno eseguiti col giusto intento — vale a dire, la riparazione della scissione in Dio; recitare le parole di queste brevi preghiere serve a concentrare i nostri pensieri. Prima di indossare il tallit (lo scialle che gli ebrei si mettono durante la preghiera), per esempio, gli ebrei devono dire: "Pe amore dell'unificazione del Santo Benedetto con la Sua Shekhinah, con tremito e amore, per unificare il nome Yod Heh con Vav Heh in perfetta unità, nel nome di tutto Israele."

Questa è un'affermazione incredibile. Innanzitutto, "Santo Benedetto" (nell'originale aramaico, Kudshah Brikh Hu, o in ebraico, Kadosh Barukh Hu) è uno dei nomi tradizionali di Dio. Nel pensiero cabalistico diventa sinonimo di quello che abbiamo chiamato Ein Sof, "Infinità", Dio nella Sua essenza, il Dio trascendente o nascosto. Shekhinah è la presenza di Dio nella creazione. Ora sono divisi, ma stiamo per osservare un comandamento che riparerà o sistemerà tale scissione e unificherà Dio.

Man mano che il testo continua, a tale responsabilità vien data una sempre maggiore enfasi. Le quattro lettere ebraiche Yod, Heh, Vav, Heh formano il Tetragramma, il nome impronunciabile di Dio a quattro lettere, usualmente reso YHWH o YHVH (come in "Yahweh" o "Geova"). La scissione nella natura di Dio è riflessa dalla scissione tra le prime due lettere e le ultime due del nome di Dio. Eseguendo il comando di indossare il tallit, ora con il giusto intento e concentrazione interiore, aiutiamo a riunificare il nome di Dio e, simbolicamente, i Suoi due aspetti.[13]

La conclusione è inevitabile. Non solo gli ebrei si consociano a Dio nel redimere il mondo, ma sono a Lyui consociati per redimerLo. Anche Dio necessita di redenzione. Non c'è attestazione più potente della dipendenza di Dio sull'umanità.

Mettiamo ora questo mito di redenzione nel suo contesto storico. In modo molto diretto, gli ebrei avevano appena provato, ancora una volta, la piena realtà di un mondo profondamente guasto. In tale contesto, Luria li fornisce prima con un modico di consolazione: siete in esilio,, ma lo è anche Dio. Poi, li fornisce delle risorse per riparare il mondo e Dio. Queste risorse sono subito disponibili: sono le responsabilità comuni, quotidiane, di ogni ebreo, i comandamenti divini, come indossare il tallit. Prova dell'efficacia del mito è il fatto che, nel giro di poche generazioni portò ad uno degli avvenimenti più traumatici della storia ebraica, il movimento messianico centrato su Sabbatai Zevi.

Sabbatai Zevi ritratto secondo un testimone oculare, Smirne, 1666

Sabbatai Zevi (1626-1676) fu un ebreo turco che si proclamò Messiah, infiammò il popolo ebraico con la sua visione che la molto bramata fine dei giorni era finalmente arrivata e che la redenzione era prossima, poi si convertì all'islam e fece ricadere gli ebrei nella più misera disperazione — disperazione che afflisse parecchie generazioni prima di essere superata. La storia di questo Messiah fallito è lunga e complessa.[14] Ciò che è per noi importante qui è la sua testimonianza implicita dell'efficacia del mito redentore di Luria: gli ebrei erano totalmente pronti a credere che la loro opera di riparare il mondo aveva raggiunto il suo scopo. Che poi Sabbatai Zevi si dimostrò essere un falso messiah è un'altra storia. Il tallone d'Achille in tutti i miti di redenzione è il rischio che possano essere falsificati dalla storia. Miti di questo tipo sono efficaci fintanto che rimangono visioni o sogni, sempre appena fuori portata. Ma quando diventano così concreti da essere a portata di mano, inevitabilmente deludono. La redenzione è sempre dietro l'angolo. Il fine principale della visione non è tanto quello di presagire fatti che avverranno quanto di rendere sopportabile il presente. Il mito della redenzione deve rimanere un sogno differito.

Il termine ebraico che Luria usò per "riparazione" o "restaurazione" del mondo, fu tikkun. Il termine ha ottenuto una rinnovata popolarità ai nostri giorni nella frase tikkun olam תיקון עולם‎ — letteralmente, "riparare il mondo". È usato per caratterizzare le attività sociali e politiche intraprese da gruppi ebraici che hanno lo scopo generale di rendere il mondo un posto migliore. Il termine stesso è antico. Appare originalmente nella Mishnah, in cui è usato per giustificare una serie di promulgazioni legali che furono emesse per il benessere pubblico — letteralmente, "per riparare il mondo". Per fare un esempio, Mishnah Gittin 4:3 insegna: "Hillel decretò il probozol al fine di riparare il mondo". Secondo Deuteronomio 15:1-3, ogni settimo anno, o anno sabbatico, tutti i debiti sono estinti. Tuttavia, la Bibbia ci ammonisce anche a non evitare, man mano che si avvicina l'anno sabbatico, di imprestare soldi ai poveri (15:9-11). Ad eludere tale eventualità Hillel, maestro rabbinico del primo secolo e.v., promulgò una procedura per cui alla vigilia del settimo anno il creditore può fare una dichiarazione davanti alla corte rabbinica che protegga i suoi prestiti dalla legge di estinzione. Tale dichiarazione venne chiamata probozol (dal greco "davanti alla corte"). Lo scopo della dichiarazione, allora, era ampiamente redentore; era destinato a garantire la disponibilità di prestiti per i poveri.

La frase si ritrova in un altro brano rabbinico, lo stesso paragrafo conclusivo del servizio di culto ebraico giornaliero che termina con la profezia di Zaccaria citato supra. Il paragrafo inizia con queste parole:

« Noi speriamo in Te, Signore nostro Dio, che presto vedremo il Tuo splendore, quando spazzerai via l'idolatria cosicché i falsi dèi saranno completamente distrutti, quando Tu riparerai il mondo sotto la Tua sovranità, dimodoché tutta l'umanità invocherà il Tuo nome. »

Anche tale testo, insieme al suo paragrafo d'apertura, risale al periodo rabbinico; fu composto come introduzione alla recitazione dei passi che proclamano la sovranità di Dio, parte del musaf ("preghiera addizionale") delle Grandi Festività — un servizio aggiuntivo del culto giornaliero mattutino durante il Sabbath e le festività. Qui, è Dio che col tempo "riparerà" il mondo. Nel caso del probozol di Hillel, agiamo per perfezionare il mondo. L'uso del termine da parte di Luria ci porta ben oltre questi riferimenti antecedenti. Ora riparare il mondo produce anche una riparazione nell'essere stesso di Dio.[15]

La Potenza che salva[modifica]

Per Mordecai Kaplan la redenzione definisce Dio. Kaplan non era molto entusiasta del misticismo ebraico. Era un pensatore troppo realista e razionale. Tuttavia, bisogna notare due aspetti del suo pensiero. Primo, la definizione caratteristica di Dio secondo Kaplan è che Dio è la potenza che dà salvezza. Secondo, bisogna ricordarsi che Kaplan era un teologo naturalista. Dio non è un essere situato in un qualche reame soprannaturale. Kaplan metteva Dio, questo impulso salvifico, precisamente nel mondo, nelle persone, nella natura e nella storia.

Ecco una delle sue molte definizioni di salvezza:

« L'uomo, una volta che sono soddisfatti i suoi bisogni fisiologici, inizia a sentire la necessità di superare tratti caratteriali come l'arroganza, l'autoindulgenza, l'invidia, lo sfruttamento e l'odio, o di mettere sotto controllo le forze aggressive della sua natura. Ciò costituisce il vero destino dell'uomo. Lì sta la sua salvezza.[16] »

Kaplan caratterizza il passo successivo della sua argomentazione con "non un salto nel buio":

« Il passo successivo è di concludere che il cosmo è costituito in modo tale da permettere all'uomo di soddisfare la suprema necessità umana della propria natura... Il fatto che il cosmo possieda le risorse e l'uomo le abilità – che sono esse stesse parte di quelle risorse – di permettergli di adempiere al suo destino come essere umano, o di ottenere la salvezza, è la Divinità del cosmo. »

Il mondo intero – letteralmente, tutto ciò che è – è pervaso da una potenza fondamentale, una forza, o impulso che Kaplan paragona alla forza magnetica e che spinge tutte le cose ad ottenere perfezione. Tale potenza è Dio; non è causata da Dio; è Dio. Questo Dio viene il più immediatamente sentito dentro di noi – dentro i nostri cuori, le nostre menti ed il nostro comportamento – proprio in quei momenti in cui ci sforziamo di bandire "quelle forze aggressive" della nostra natura. Vero, tale potenza esiste al di fuori di noi, dove serve a complementare gli sforzi umani, ma senza i nostri sforzi non c'è salvezza. Il mondo ci fornisce le risorse per conquistare le malattie, ma senza gli scienziati che elaborino tali risorse, non si troveranno mai le cure. La somiglianza col mito mistico di Luria è sconcertante.

I paralleli tra Luria e Kaplan vanno ancor più in profondità, poiché nel tempo presente, nella storia, la potenza redentrice di Dio secondo Kaplan non è ancora completamente manifesta. Il Dio di Kaplan non è onnipotente. Anche se il mondo è infuso di questa potenza che dà salvezza, altre potenze sono attive nel mondo: impulsi contro-salvifici, le potenze del caos e dell'anarchia. Abbiamo sì scoperto una cura contro la poliomielite, ma per l'AIDS? Anche il Dio di Kaplan necessita di redenzione. E di nuovo, è l'umanità che può aiutare ad ottenere la redenzione di Dio.

Rimaniamo con l'inevitabile conclusione che l'immagine di Dio presentata dalle fonti ebraiche è molto differente dall'immagine popolare convenzionale. Eravamo formati a credere che Dio avesse tutto sotto controllo, ma non è così, dicono le nostre fonti. In teoria potrebbe essere vero, ma in pratica non lo è. Il Dio che sentiamo è un Dio che necessita dell'umanità per raggiungere i Suoi fini. Questo è un Dio frustrato, che sogna dell'umanità e del mondo, che è respinto ma ritorna, ancora e ancora, con anelito infinito, chiedendoci aiuto per realizzare i Suoi fini ed i nostri. E questo è certo il più grande tributo di Dio nei nostri confronti.

Note[modifica]

  1. "From Medievaland Modern Theories Of Revelation By Elliot N. Dorff", Adath-shalom.ca. Consultato 31 agosto 2019.
  2. Famosa la sua frase, che tengo sempre in mente:

    (IT)
    « Non sta a te completare l'opera, ma non sei libero di sottrartene. »

    (He)
    « לא עליך כל המלאכה לגמור, ולא אתה בן חורין ליבטל »
    (R. Tarfon, Pirkei Avot, II.21.)

  3. (EN) Eschatology, in Jewish Encyclopedia, New York, Funk & Wagnalls, 1901-1906.
  4. Abraham Joshua Heschel, Die Prophetie, The Polish Academy of Sciences, 1936; The Prophets, Harper and Row, 1962; Il Messaggio dei Profeti, Borla, 1981 - ad hoc.
  5. Si veda, int. al., Nosson Sherman, The Complete ArtScroll Siddur, Mesorah Publications, 1984, passim.
  6. Per questa sezione ed una visione completa degli insegnamenti ebraici sulla vita dopo la morte si vedano: George W.E. Nickelsburg, Resurrection, Immortality, and Eternal Life in Intertestamental Judaism, Harvard University Press, 1972; Simcha Paull Raphael, Jewish Views of the Afterlife, Jason Aronson, 1994; Neil Gillman, The Death of Death: Resurrection and Immortality in Jewish Thought, Jewish Lights, 1997; Eugene B. Borowitz, Liberal Judaism, Union of American Hebrew Congragations, 1984.
  7. Per il testo e rispettivo commentario si vedano (EN): The Jewish Encyclopedia (1906, NY) vol. 8 p. 190 s.v. "Had Gadya"; Birnbaum, Philip, The Birnbaum Haggadah (1976, NY, Hebrew Publ'g Co.) p. 156 ("phrased in the simplest style of Aramaic-Hebrew"); similmente, Birnbaum, Philip, Encyclopedia of Jewish Concepts (1975, NY, Hebrew Publ'g Co.) p. 203, s.v. Had Gadya; Cohen, Jeffrey M., 1001 Questions and Answers on Pesach (1996, NJ, Jason Aronson Inc.) p. 173 ("a variation of a popular German folk song, .... its Aramaic is faulty,..."); Guggenheimer, Heinrich, The Scholar's Haggadah (1995, NJ, Jason Aronson Inc.) p. 390 ("questionable Aramaic"); Glatzer, Nahum N., The Schocken Passover Haggadah (1996, NY, Schocken Books) p. 119 ("written in poor Aramaic with a scattering of Hebrew words...."). Mia è la traduzione italiana.
  8. Zuz (זוז; pl. zuzzim זוזים) era un'antica moneta d'argento ebraica coniata durante la rivolta di Bar Kochba, ma anche il nome ebraico di vari tipi di monete d'argento non ebraiche, usate prima e dopo la rivolta. Cfr. David Instone-Brewer, 2007. Traditions of the Rabbis from the Era of the New Testament, 2007, 20.
  9. Jacob Neusner, The Foundations of the Theology of Judaism, cit., 118-132.
  10. Eliahu Klein, Kabbalah of Creation: The Mysticism of Isaac Luria, Founder of Modern Kabbalah, North Atlantic Books, 2005.
  11. Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, trad. di Guido Russo: Il Saggiatore, 1965; poi: Il melangolo, 1982; poi: Einaudi, 1993 (con introduzione di Giulio Busi).
  12. Illustrazione da The Bible and Its Story Taught by One Thousand Picture Lessons, Charles F. Horne & Julius A. Bewer (curatori), 1908.
  13. La formula è onnipresente nei libri di preghiera che seguono il rito lurianico, ma meno frequente in altri libri di preghiera. L'esempio notato nel testo si trova in Rabbi Nosson Sherman, The Complete ArtScroll Siddur, cit. 4.
  14. Per uno studio approfondito del movimento sabbatiano, si veda Gershom S. Scholem, Sabbatai Zevi: The Mystical Messiah, Princeton University Press, 1973.
  15. (He) תלמוד ירושלמי - מסכת כלאיים, פרק ט, su mechon-mamre.org., cfr. Yitzhak Buxbaum The Life and Teachings of Hillel, Jason Aronson, 2008,304-310.
  16. Qui e nel resto della sezione, si veda Mordecai Kaplan, op. cit., 83-85.