Saeculum Mirabilis/Capitolo 3

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Indice del libro
Albert Einstein in conferenza, 1940

Pacifismo[modifica]

Una questione di priorità[modifica]

L'argomento di questo Capitolo è il pacifismo, ma non può essere considerato separatamente dalle altre convinzioni politiche di Einstein. Einstein si definiva un pacifista, anzi un "militant pacifist", ma il pacifismo non prevaleva su tutti gli altri suoi valori politici.1 Quali erano i suoi valori politici e come si combinavano? Le risposte complete a queste domande devono attendere le analisi contenute nei Capitoli successivi, ma possiamo iniziare osservando gli ingredienti di base del sistema di valori einsteiniani.

Einstein era così evidentemente un uomo di principi che è naturale presumere una coerenza tra i valori che apportò in politica. Non solo, ci deve essere, ne siamo certi, uno o più principi fondamentali alla base della gamma delle sue opinioni. Tuttavia, i tentativi da parte di biografi e storici di stabilire cosa siano, generano una notevole serie di principi candidati. La maggior parte degli analisti non si accontenta di un principio fondamentale, sapendo che Einstein non è così facile da catturare ed etichettare. Rowe e Schulmann propongono che, "alongside [a] steadfast commitment to human freedoms, two central themes define his lifelong search for means to advance his moral purpose, and to our mind, these constitute the heart of his political legacy: internationalism and cultural Zionism".2 Per Rowe e Schulmann, ci sono infatti tre valori fondamentali — impegno per la libertà, internazionalismo e sionismo culturale — che sono avvolti da un più ampio "moral purpose". Il biografo Walter Isaacson è molto meno prescrittivo:

« Einstein’s pacifism, world federalism, and aversion to nationalism were part of a political outlook that also included a passion for social justice, a sympathy for underdogs, an antipathy toward racism and a predilection toward socialism. But during the 1930s, as in the past, his wariness of authority, his fealty to individualism, and his fondness for personal freedom made him resist the dogmas of Bolshevism and Communism.3 »

Otto Nathan, editore della raccolta più completa degli scritti di Einstein sulla politica, affermò sulla base dei molti anni "during which I enjoyed his friendship that, except for his devotion to science, no cause was more important or closer to his heart than the determination that the institution of war be forever abolished". Asserì inoltre che Einstein era "by nature an internationalist" e citò lo stesso Einstein affermando: "the greatest of all causes [was] good will among men and peace on earth".4 Ofer Ashkenazi è più conciso: "Individual freedom’ is Einstein’s fundamental principle".5

Questo è solo un assaggio dei molti sforzi per cogliere l'essenza delle opinioni politiche di Einstein. Certo, le categorie impiegate dai vari analisti non sono sempre commisurate tra loro. Alcune sono principi di base, alcune sono punti su un'agenda politica e altre si trovano nel mezzo. Né si escludono a vicenda. Si potrebbe sostenere che, ad esempio, la scelta di Rowe e Schulmann dell'"internationalism" contenga o presupponga un impegno per la pace, così come la "individual freedom" di Ashkenazi può portare, attraverso una catena di argomentazioni basate sull'idea che la guerra e il potere statale sono nemici della libertà, all'antinazionalismo e alla pace. C'è, quindi, meno variazione tra le diverse risposte di quanto sembri. È anche evidente che, oltre alle ovvie differenze di enfasi – in modo più evidente il mettere in primo piano il sionismo culturale da parte di Rowe e Schulmann – cogliere un valore come fondamento per tutti gli altri significa stringere troppo il cerchio. Lascia troppe cose fuori. L'estremità opposta dello spettro analitico è il lungo elenco di principi e cause politiche di Isaacson, che cerca la completezza a costo di qualsiasi senso di priorità o addirittura di relazioni tra di loro. La difficoltà sorge in parte perché Einstein non si è mai proposto di definire le sue opinioni politiche in modo sistematico. Il suo saggio "The World As I See It" delinea una filosofia generale della vita ma difficilmente una filosofia politica. Su alcune questioni e in alcuni momenti dichiara le sue opinioni in modo chiaro e con una certa ampiezza. Ciò include le sue opinioni sulla Prima Guerra Mondiale, il sionismo e il socialismo. Queste dichiarazioni, tuttavia, come tutte le sue espressioni pubbliche di opinione, erano pièce occasionali soggette a un grado maggiore o minore di revisione nel tempo.

Come, allora, dovrebbero essere caratterizzate le opinioni politiche di Einstein? In primo luogo, ci sono forti somiglianze familiari tra le sue opinioni sull'ampia gamma di questioni che affrontò, che ricadono collettivamente sotto il titolo di liberalismo con la "l" minuscola. Non solo vi sono tra loro connessioni logiche del tipo già indicato, ma tendevano ad attrarre lo stesso tipo di individui. Parte della risposta alla questione della coerenza va quindi cercata nella compagnia ideologica che intratteneva, anzi nella "liberal international" vagamente costituita discussa in precedenza. In secondo luogo, e strettamente correlata al primo punto, la politica di Einstein era in parte reattiva agli eventi. Sebbene Einstein arrivasse agli eventi con determinate predisposizioni e principi, non ne era rigidamente vincolato; si sentiva libero di interpretarli alla luce delle realtà mutevoli. Questa è un'altra ragione per cercare indizi sulle opinioni di Einstein al di là dello stesso Einstein. In terzo luogo, si può avere un'idea delle sue priorità osservando la frequenza delle sue dichiarazioni su argomenti particolari, e su questo punto spiccano sicuramente la pace e l'abolizione della guerra. In quarto luogo, è importante essere attenti alla misura in cui oscillava tra l'adesione a un principio e il sostegno pragmatico all'una o all'altra causa politica. In certi momenti era opportuno basarsi sui principi, perché cedere avrebbe significato sacrificare del tutto la causa. Lo vedremo nel caso del suo pacifismo fino al 1933. In altri momenti, ergersi sul principio quando le circostanze mutavano radicalmente poteva avere l'effetto opposto di minare una causa particolare, l'esempio più evidente è ancora una volta il suo cambiamento di opinione sul pacifismo, di cui si parlerà nelle prossime pagine. Un altro è l'istituzione dello Stato di Israele e in effetti delle nazioni postcoloniali in Africa. Insistere sull'antinazionalismo come principio assoluto in quei casi avrebbe significato minare il suo impegno per il "cultural nationalism", incluso il sionismo, per non parlare del principio di autodeterminazione. A questo proposito Einstein non era affatto insolito in quanto riconosceva implicitamente che un singolo principio portato all'estremo poteva essere tanto pericoloso e controproducente quanto un'azione intrapresa del tutto senza principio sulla base della pura convenienza. Einstein si trova spesso a barcamenarsi pericolosamente tra l'adesione a un principio e il riconoscimento della realtà, e in diverse occasioni ciò diede luogo ad accuse di tradimento. La verità è che Einstein era in parte idealista, in parte pragmatico. Gli ideali per lui erano stazioni intermedie sulla strada per un mondo migliore, non cose da adorare fine a se stesse. Da nessuna parte queste tensioni sono più evidenti che sul tema del pacifismo.

Cittadinanza, Nazione e Stato[modifica]

Scriveva Einstein nel 1929: "My pacifism is an instinctive feeling, a feeling that possesses me; the thought of murdering another human being is abhorrent to me...My attitude is not the result of an intellectual theory but is caused by a deep antipathy to every kind of cruelty and hatred".6 Questo atteggiamento era evidentemente stabilito sin dall'infanzia. Non condivideva la solita passione dei ragazzini per i soldatini e i giochi di guerra. All'età di 7 o 8 anni, guardando una parata di soldati e sentendosi dire che avrebbe potuto fare lo stesso tra qualche anno, si dice che abbia detto: "‘When I grow up I don’t want to be one of those poor people."7 Sotto questo aspetto Einstein non era al passo con la sua nazione. Il militarismo nella Germania degli anni 1880 si estendeva ben oltre l'esercito all'intera società, compreso il sistema educativo con le sue esercitazioni e la sua rigida disciplina. Einstein, che era già in qualche modo isolato in virtù della sua ebraicità – l'antisemitismo era prevalente sia tra gli insegnanti che tra gli alunni – trovava la scuola generalmente opprimente e alienante, almeno a posteriori.8 L'importanza della sua prima esperienza educativa sembra essere stata quella di cementare l'associazione nella sua mente tra la violenza e l'esercizio dell'autorità. Qualunque fossero le sue origini nella composizione emotiva di Einstein, il suo pacifismo divenne inseparabile dalle idee sulla cittadinanza e lo stato, e lo stato della Germania in particolare.

Nessun tema nella vita di Einstein è più chiaro o coerente del suo odio per il nazionalismo e la politica di potere che lo accompagnava. Dal momento in cui lasciò la Germania per la Svizzera fino al giorno della sua morte, considerò il nazionalismo la principale causa della guerra e la guerra la principale causa della miseria umana. La prospettiva di Einstein sul resto del mondo fu informata fin dall'inizio dalla sua assenza di sentimento nazionale, e questo in un momento in cui il nazionalismo nella sua nativa Germania era quasi una religione. Nonostante la lunga storia della cultura germanica, lo stato nazionale tedesco era giovane, creato nel 1871 solo otto anni prima della nascita di Einstein. Negli ultimi due decenni dell'Ottocento, la Germania appena unificata divenne una potenza economica e militare, sempre più disposta ad affermarsi sulla scena internazionale alla ricerca di un ruolo internazionale consono al suo crescente senso di potere.9 Einstein sembrava tagliato da una stoffa completamente diversa. "The state of which I am a citizen plays not the slightest role in my emotional life", scrisse Einstein in un saggio del 1915, "I consider affiliation with a state to be a business matter, not unlike one’s relationship to life insurance".10 Questo veniva scritto nello stato di forte pressione della guerra mondiale, ma il senso di nazionalità notevolmente freddo e riluttante di Einstein era già ben radicato. Era in fondo una questione di temperamento. Era schivo ad accettare i dettami dell'autorità in un paese in cui l'autorità era molto apprezzata. La sua ragione per lasciare la Germania a 16 anni era in parte perché i suoi genitori si erano trasferiti in Italia a causa del fallimento dell'azienda elettrica di suo padre, ma anche a causa dell'odio per il sistema educativo autoritario tedesco. La prospettiva del servizio militare, che avrebbe dovuto svolgere se fosse rimasto in Germania oltre il suo diciassettesimo compleanno, era un ulteriore incentivo alla partenza.11

Una conseguenza del trasferimento di Einstein in Svizzera nel 1896 e del suo ripudio della cittadinanza tedesca fu che diventò tecnicamente apolide fino a quando non gli fu concessa la cittadinanza svizzera cinque anni dopo, quando prese un posto presso l'Ufficio Brevetti, ente pubblico che richiedeva la cittadinanza svizzera come condizione d'impiego. Le indicazioni sono che, di tutte le cittadinanze che ha tenuto nel corso della sua vita (compresa quella tedesca ancora una volta quando assunse un incarico a Berlino che comportava il requisito della cittadinanza, e americana dopo diversi anni di esilio lì), quella svizzera rimase la più apprezzata, poiché la Svizzera era libera dai valori e dagli impegni che spingevano la maggior parte delle altre nazioni alle guerre. Come abbiamo visto nel Capitolo 1, fino all'assegnazione del Premio Nobel nel 1922, esisteva un'ambiguità sulla sua cittadinanza tedesca sin dal suo arrivo a Berlino nel 1914 e, anche quando fu chiarita, allora acconsentì al rinnovo di tale cittadinanza tedesca solo a condizione che potsse conservare quella svizzera.12

In breve, la cittadinanza formale e l'amore per la patria contavano ben poco per Einstein, e sotto questo aspetto non era in sintonia non solo con la Germania ma anche con alcuni dei suoi contemporanei pacifisti. L'opposizione alla Prima Guerra Mondiale e persino alla guerra stessa di per sé non significava esattamente la stessa cosa per coloro che assumevano tali posizioni. Romain Rolland era forse il più vicino a Einstein nella sua libertà dal sentimento nazionale. Rolland trascorse l'intera Prima Guerra Mondiale in Svizzera, tornando in Francia nel 1918 ma poi stabilendosi definitivamente in Svizzera nel 1922, disgustato dalla "political and intellectual reaction ruling in France" sulla scia della guerra.13 Intellettualmente, tuttavia, Rolland rimase molto più strettamente legato alla Francia di quanto non lo fosse Einstein alla Germania, una conseguenza in parte della differenza tra la pratica della letteratura, con le sue basi nelle lingue e nelle culture nazionali, e quella della scienza, il cui linguaggio è internazionale. Bertrand Russell era per molti aspetti la controparte britannica di Einstein nella sua implacabile opposizione alla guerra ma, nonostante la sua convinzione che la passione del nazionalismo fosse distruttiva per la pace, Russell fu, come ebbe a dire, "tortured by patriotism". I successi dei tedeschi prima della prima battaglia della Marna, osservò nella sua autobiografia, "were horrible to me. I desired the defeat of Germany as ardently as any retired colonel. Love of England is very nearly the strongest emotion I possess, and in appearing to set it aside at such a moment, I was making a very difficult renunciation".14 Russell trovò possibile separare i suoi sentimenti per il paese dal suo odio della politica di governo. Einstein non era incline a separare il patriottismo dal nazionalismo alla maniera di Russell e sembrava immune da entrambe le emozioni.

Albert Schweitzer era quasi alla fine del suo primo anno in Africa quando scoppiò la guerra. In quanto cittadino tedesco residente in una colonia francese, fu inizialmente posto agli arresti domiciliari, ma successivamente gli fu permesso di riprendere l'attività medica e successivamente di tornare in Europa, dove fu internato fino alla fine del 1917. Piuttosto che assumere una posizione pubblica sulla guerra, che nelle circostanze avrebbe potuto procurargli più guai, fece ricorso a profonde riflessioni sullo stato della civiltà che aveva dato origine alla guerra. A prima vista, era a parecchia distanza dalla posizione adottata da Einstein.15 Schweitzer, tuttavia, aveva questo in comune con Einstein: detestava il nazionalismo, che a suo avviso era responsabile del crollo catastrofico della civiltà europea nel 1914. Nel libro che scaturì dalle sue riflessioni in tempo di guerra, Schweitzer scrisse: "Nationalism is an ignoble patriotism exaggerated till it has lost all meaning..."16 Schweitzer nacque in Alsazia, la cui complicata storia poteva aver contribuito a immunizzarlo contro il nazionalismo, poiché la regione era passata in numerose occasioni tra il controllo tedesco e quello francese. In quest'ultima svolta della storia, iniziò la guerra come tedesco e la concluse come francese — inoltre era sempre stato ugualmente a suo agio nelle lingue tedesca e francese. Per una via molto diversa, Schweitzer condivise così l'emancipazione di Einstein dai sentimenti nazionalisti.

Un confronto di tipo diverso è fornito da Thomas Mann. Mann era un fervente nazionalista tedesco durante la Prima Guerra Mondiale e non avrebbe potuto essere più lontano da Einstein, ma l'attaccamento di Mann alla Germania rimase fondamentale per il suo essere molto tempo dopo aver condiviso il destino di Einstein come esule dal Reich di Hitler. Sebbene nessuno dei due fosse tornato a vivere in Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale, i loro rapporti con la Germania furono in netto contrasto. Einstein negò ogni legame e rifiutò fermamente tutti gli inviti a visitare il paese o ad accettarne gli onori, mentre Mann, pur rifiutando urgenti suppliche di stabilirvisi definitivamente dopo la guerra, fece visite nel 1949 e nel 1955. Più importante, tuttavia, fu la coltivazione da parte di Mann del ruolo di successore di Goethe e incarnazione dell'essenza della cultura tedesca, un'autoidentificazione che precedette a lungo il Terzo Reich e il suo esilio, ma che divenne particolarmente importante allora. Con l'avvento del Terzo Reich, Mann fu elevato, ai suoi occhi e a molti altri, allo status di salvatore della vera cultura tedesca in un'epoca in cui la Germania stessa era incline all'autodistruzione.17 Einstein non aveva una simile associazione con la Germania, ai suoi occhi o a quelli degli altri, anche perché la scienza, rispetto alla letteratura, occupava un reame al di là della cultura nazionale, un reame in cui Einstein si sentiva particolarmente a suo agio. Oltre a ciò, tuttavia, gli istinti antiautoritari di Einstein, come abbiamo visto, lo rendevano quasi immune a sentimenti nazionalistici per la Germania.

Quale che fosse la posizione assunta dagli individui nei confronti dell'esplosione delle passioni nazionali in tempo di guerra, tutti erano soggetti alla stessa dinamica storica, che andava nella direzione di un inasprimento della nazionalità e della cittadinanza. Come ha notoriamente notato lo storico britannico A. J. P. Taylor: "Until August 1914 a sensible law-abiding Englishman could pass through life and hardly notice the existence of the state, beyond the post office and the policeman... He had no official number or identity card. He could travel abroad or leave his country for ever without a passport or any sort of official position." Tutto questo cambiò, notava Taylor, a partire dalla Prima Guerra Mondiale: "The mass of the people became, for the first time, active citizens. The state established a hold over its citizens which, though relaxed in peacetime, was never to be removed and which the Second World War was again to increase".18 Fu un fenomeno di portata europea. Lo scrittore austriaco Stefan Zweig osservò in modo simile nella sua evocativa autobiografia The World of Yesterday: "Before 1914 the earth had belonged to all. People went where they wished and stayed as long as they pleased. There were no permits no visas, and it always gives me pleasure to astonish the young by telling them that before 1914 I travelled from Europe to India and America without passport and without having ever seen one... Nationalism emerged to agitate the world only after the war, and the first visible phenomenon which this intellectual epidemic of our century brought about was xenophobia."19 Einstein era chiaramente in contrasto con la tendenza all'esclusività nazionale, tuttavia riconosceva e apprezzava le differenze culturali tra i popoli e persino, se opportunamente espresso, l'impulso all'autodeterminazione nazionale manifestato non solo nel sionismo ma anche nei popoli coloniali in cerca di indipendenza (entrambi trattati in un Capitolo successivo). In breve, la posizione antinazionalista di Einstein fu qualificata dal suo riconoscimento dell'individualità dei popoli, proprio come egli sostenne sempre l'individualità delle persone. Il suo non era un vuoto cosmopolitismo. Tipicamente, Einstein si fermò dal assumere posizioni irrigidite a cui si potesse dare un'etichetta politica. Nella misura in cui era un nazionalista, lo era principalmente nella sfera della cultura.

La stessa fluidità o elusività era evidente nel suo atteggiamento nei confronti del potere dello stato sui cittadini. In linea con il suo disgusto per il nazionalismo militante, egli era istintivamente scettico nei confronti del potere statale, ma la sua posizione doveva essere distinta sia dall'anarchismo che dal libertarismo. Pur condividendo la loro sfiducia nei confronti del potere, non si avvicinò mai a sostenere l'abolizione dello stato e nemmeno lo stato minimo dei libertari. Scrisse: "States are not organized merely for the purpose of waging wars... They constitute local organizations which attempt to find solutions to highly important economic and cultural problems". Lo Stato aveva un ruolo; era semplicemente, come disse in un articolo pubblicato sul New York Times nei primi anni ’30, che "the state is made for man, not man for the state".20 Il punto è importante, perché illustra una forza moderatrice o autoequilibrante nella visione politica di Einstein. Einstein si oppose all'autorità arbitraria ma non a tutta l'autorità a tutti gli effetti. Ciò dimostra anche quali fossero le priorità di Einstein. Per lui il grande nemico era la guerra e i sentimenti nazionali che la guidavano, non il governo stesso. Di qui la sua dichiarazione sul governo mondiale, fatta più tardi nella sua vita durante la campagna per il controllo delle armi nucleari, in cui ammetteva che il governo mondiale non era una difesa contro la tirannia: "It is a protection against the threat of destruction; and existence, after all, must have priority".21 Einstein non avrebbe mai aderito alla dottrina "better dead than Red".

La posizione sfumata di Einstein sul potere statale ha un impatto sul corso del suo pacifismo, in quanto egli dimostrò una preoccupazione simile nel fare distinzioni basate sulla necessità di stabilire priorità. Il grande cambiamento nelle sue opinioni dei primi anni ’30, che sarà discusso più avanti in questo Capitolo, sembrò un'apostasia ai suoi compagni pacifisti, ma è comprensibile nel contesto delle sue opinioni più ampie.

La Prima Guerra Mondiale e le sue conseguenze[modifica]

All'inizio della Prima Guerra Mondiale il pacifismo era una posizione marginale e poco comprensibile ai più. Quando Einstein firmò il Manifesto to Europeans nel 1914, andava contro il senso dell'opinione generale, e rimase al sicuro da attacchi nei successivi quattro anni in gran parte perché tenne la testa bassa. Uno dei motivi era che credeva che le attività pacifiste non avessero ulteriori scopi pratici; era anche dell'opinione, forse più provocatoria del suo pacifismo, che il miglior risultato della guerra sarebbe stato una sconfitta tedesca.22 Un altro motivo per evitare la pubblicità fu che per parte di questo periodo egli fu intensamente impegnato nel lavoro sulla Teoria della Relatività Generale, che fu completata e pubblicata nel novembre 1915. Nel 1917 soffrì anche di una grave malattia. Di conseguenza, durante la guerra la sua attività politica si limitò a partecipare alle riunioni del Bund Neues Vaterland (New Fatherland League), un'organizzazione pacifista i cui membri provenivano da una serie di professioni d'élite. Il Bund produsse una serie di proposte pubbliche, inclusa una petizione al Reichstag che chiedeva un dibattito pubblico sugli obiettivi di guerra tedeschi, che fece precipitare su di lui l'ira del governo. Le attività dell'organizzazione furono sospese per ordine governativo all'inizio del 1916. Oltre alla sua associazione con le campagne del Bund, Einstein mantenne corrispondenza con persone che la pensavano allo stesso modo, come Romain Rolland, che incontrò in Svizzera nel 1916. Rolland riferì nel suo diario che "Einstein is incredibly outspoken in his opinion about Germany... No other German acts and speaks with a similar sense of freedom". Rolland notò anche: "Einstein hopes for an Allied victory".23 Non fece tali ammissioni ad amici tedeschi, ma le sue lettere mostravano che era continuamente e attivamente interessato in privato a proposte di pace sia per la situazione di guerra immediata che a lungo termine. Al suo vecchio amico Heinrich Zangger inviò lo schema di un'organizzazione internazionale che anticipasse alcune caratteristiche della Società delle Nazioni. In una lettera al matematico David Hilbert suggerì di produrre un libro contenente una serie di "testimonials to internationalism from those who by virtue of their intellectual accomplishments have achieved great prestige among their colleagues in the entire civilized world". Con parole che ripeterà molte volte negli anni a venire, contenendo la sua cara idea della "salutary moral influence of intellectuals", scrisse: "This responsibility, from which they may not shrink, consists of making an open declaration that may serve as support and consolation for those who in their lonely existence have not yet abandoned their faith in moral progress".24 Non venne fuori nulla da tale idea, poiché si riteneva che i tempi fossero troppo infiammatori perché potesse essere accolta come qualcosa di diverso da una mossa politica che sarebbe stata rapidamente soppressa o messa da parte.

Alla fine della guerra, e certamente una volta che la riflessione ebbe inizio, la posizione di Einstein si era avvicinata alla corrente principale, non a causa di un cambiamento nelle sue opinioni, ma perché dopo gli orrori della guerra la pace era diventata un'aspirazione universale. Il crollo dell'Impero tedesco, segnalato dall'abdicazione forzata del Kaiser, e l'istituzione di un nuovo governo guidato dai socialdemocratici, costituirono una rivoluzione nella politica e nella società tedesca con un corrispondente sconvolgimento negli atteggiamenti verso guerra e pace. Il desiderio di pace era internazionale e portava opinioni un tempo marginali al centro del dibattito politico in tutte le nazioni belligeranti. Anche se il numero dei pacifisti rigorosamente concepiti rimase esiguo, per il decennio successivo alla guerra Einstein e gran parte del pensiero pubblico andarono nella stessa direzione generale. Il fatto era semplicemente che egli stava andando più veloce e più lontano. Il pacifismo si attaccò alla marea dell'internazionalismo che per un po' prese d'assalto il mondo.

Il fulcro più ovvio dell'internazionalismo era la Società delle Nazioni, un'idea che aveva profonde radici storiche ma le cui manifestazioni recenti avevano principalmente origini britanniche.25 Quale che fosse la sua origine, tuttavia, essa era associata nella mente pubblica agli Stati Uniti, poiché fu su insistenza del presidente Woodrow Wilson che l'impegno per una Società delle Nazioni fu incorporato nel Trattato di Versailles. Solo così, credevano Wilson e i suoi compagni internazionalisti, si poteva contenere l'orgia di rivalità nazionali che aveva portato alla guerra. Einstein riponeva grande fiducia nell'abilità di statista di Wilson e nel settembre 1919 scrisse a Hedwig Born di credere nel potenziale della Lega. Il pericolo maggiore per il suo sviluppo futuro era "a withdrawal by the Americans; one only hopes that Wilson will be able to prevent it".26 Alla fine, gli Stati Uniti non aderirono, ma Einstein fu giustificato nel pensare che senza l'ostinata energia di Wilson la Lega non avrebbe potuto vedere la luce del giorno. Negli scritti e nei discorsi durante tutto il periodo tra le due guerre Einstein si riferì a Wilson in termini entusiastici.27 Ma non così in riferimento alla Lega stessa che, dopo l'entusiasmo iniziale per il suo potenziale "to put an end to anarchy in international relations",28 divenne una grave delusione per Einstein. Ciò che trovava più scoraggiante non era la mancanza di un potere reale dietro la Lega, ma che, "by its silence and its actions, the league functions as a tool of those nations which, at this stage of history, happen to be the dominant powers".29 Ripeteva questo ritornello per tutto il periodo tra le due guerre e oltre, nell'era dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Né la Lega né l'ONU incarnavano un'autentica resa della sovranità nazionale, che da sola, secondo lui, poteva imporre un punto di vista genuinamente sovranazionale. Nella stessa lettera a Hedwig Born già citata, Einstein diceva che, anche se gli esseri umani fossero difficili da cambiare, doveva però essere possibile cambiare le istituzioni delle relazioni internazionali in modo da prevenire il disordine, "even if it were to mean sacrificing the independence of various countries".30

Il funzionamento della Società delle Nazioni divenne una questione pratica per Einstein in quanto nel 1922 fu invitato, insieme ad altri eminenti scienziati e intellettuali, a far parte della Società delle Nazioni CIC. Il suo scopo era quello di promuovere legami culturali, educativi e accademici tra gli stati membri della Lega, una causa vicina al cuore di Einstein per ragioni pratiche oltre che idealistiche. Per lui era un articolo di fede che il progresso della scienza dipendesse da uno scambio di idee senza restrizioni oltre i confini nazionali. Più in generale, il CIC era concepito come un elemento costitutivo della pace internazionale, riunendo individui di tutti i paesi belligeranti su una base di uguaglianza. Tuttavia, Einstein aveva un rapporto problematico con il Comitato, che rispecchiava i suoi più ampi dubbi sulla stessa Società delle Nazioni. Alcuni dei problemi sorsero da questioni su cui Einstein aveva scarso controllo, derivanti dalle complessità delle relazioni franco-tedesche all'indomani della guerra. Alcuni funzionari francesi erano sospettosi di avere un tedesco nel Comitato. Da parte sua, Einstein temeva di non essere in grado di rappresentare la Germania, non solo perché dubitava di essere abbastanza tedesco, ma perché come ebreo si sentiva vulnerabile all'ondata di antisemitismo che seguì la guerra, manifestatasi in modo molto tragico nell'assassinio del suo amico, il Ministro degli Esteri tedesco Walter Rathenau. In una lettera del 1922 in occasione di una temporanea dimissione dal Commitato, scriveva: "I must admit that I have no desire to represent those who would not vote for me as their delegate and with whom I do not agree on the issues likely to come under consideration".31 Aveva inoltre dubbi su quello che vedeva come il predominio degli interessi nazionali, specialmente francesi, nel Comitato, guidato com'era dall'eminente filosofo francese Henri Bergson. Inoltre, la sede del Comitato era a Parigi. Gli sforzi di Marie Curie e di un membro britannico del Comitato, Gilbert Murray, per calmare le sue paure furono del tutto ignorati da Einstein. I membri del CIC, affermava Murray, "were not intended to represent national points of view but were simply individuals chosen for their own qualifications from various nations". Einstein non era convinto; anche se non rappresentanti nazionali in quanto tali, rispondeva, i singoli membri sarebbero indubbiamente venuti a formare legami "psychological" tra il Comitato e le singole nazioni.32 In ultimo Einstein tornò al CIC, ma simili impulsive dimissioni avvennero nuovamente l'anno successivo per protestare contro la rioccupazione francese della Ruhr. Anche queste dimissioni furono revocate nell'ambito di un anno. Ammise in una lettera a un collega membro del CIC che la sua decisione di dimettersi era dovuta più a un momentaneo stato d'animo di sconforto piuttosto che a una ponderata riflessione. I suoi corrispondenti rimasero rispettosi, ma furono chiaramente irritati dalle esitazioni di Einstein.33

Un grosso problema per Einstein era la dipendenza della Lega dagli stati nazione e dall'intero apparato di sovranità che sosteneva il sistema internazionale esistente. La Lega, scrisse in un giornale pacifista tedesco nel 1923 motivando le sue seconde dimissioni, "appears unwilling to stand up to anything perpetrated by the currently powerful group of states, no matter how brutal... The League of Nations, as it functions at present, fails not only to embody the ideal of an international organization, but actually discredits it."34 Ebbe inoltre una disputa intellettuale sulla natura del tempo con Henri Bergson, che si ripercosse sulla loro attività nel Comitato.35 Questi fattori erano indubbiamente molto irritanti, ma si insinua il sospetto che il problema di Einstein riguardasse in parte il lavoro stesso del Comitato, che egli intraprendeva solo di rado. Era sempre incline a risentirsi per le distrazioni dal suo lavoro scientifico e accettava incarichi di Comitato solo quando erano vicini al cuore dei suoi interessi. Anche allora c'erano dei limiti alla sua capacità di resistenza, dal momento che era caratterialmente inadatto ai compromessi e al lavoro burocratico che accompagnavano i comitati. Più attraenti furono le campagne sui fondamenti, inclusa la mossa per rendere fuorilegge la guerra stessa, e la relativa campagna contro la coscrizione militare, che catturò l'immaginazione dei pacifisti radicali durante la fine degli anni ’20 e l'inizio degli anni ’30.

Guerra fuorilegge: il Patto Briand-Kellogg e il pacifismo internazionale[modifica]

La campagna degli anni ’20 per bandire la guerra fu fatta su misura per Einstein, che ora era in grado di far conoscere le sue opinioni. Verso la metà degli anni ’20 era richiesto per una varietà di scopi: scientifici, politici o semplicemente come celebrità degna di nota. Da oscuro oppositore della Prima Guerra Mondiale, qualunque fosse la sua posizione nella comunità scientifica, dopo la prova sperimentale della Teoria della Relatività nel 1919 divenne oggetto dell'attenzione globale. Le visite negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Giappone e in Palestina nel 1921 e nel 1922 amplificarono enormemente la sua capacità di raggiungere l'opinione pubblica. Un'indicazione sorprendente del suo status elevato fu la sua apparizione a una manifestazione annuale "No More War" a Berlino il 1° agosto 1922. Fino a 200 000 persone parteciparono a queste manifestazioni negli anni immediatamente successivi alla guerra, indicando un appetito in Germania di cambiamento radicale dopo la disastrosa fine della guerra. Einstein non tenne un discorso ma fu fatto sfilare in macchina, forse per motivi di sicurezza, proprio poche settimane dopo l'assassinio di Walter Rathenau.36 La sua sola presenza fu sufficiente per elevare il profilo dell'evento e della causa.

Questa dimostrazione era locale, ma le attività più caratteristiche di Einstein dall'inizio degli anni ’20 in poi, specialmente nel campo dell'attivismo contro la guerra, furono globali. La sua lealtà era per la maggior parte verso organizzazioni transnazionali e cause globali.37 Negli anni ’20 non c'era simbolo più grande dell'attività di pace internazionale del movimento per bandire la guerra, il cui significato derivava in parte dal fatto che era stato adottato dai politici convenzionali e trasformato in legge. Nella sua natura apparentemente assoluta e radicale, era il tipo di proposta normalmente associata a pensatori radicali e utopici. Il filosofo americano John Dewey, uno dei primi sostenitori del movimento "outlawry of war" e un energico attivista a suo favore, non aveva dubbi sul suo significato:

« If it is considered that for many centuries war has been the recognized means of settling disputes between nations, that it is one of the oldest of all historic institutions and that the minds of statesmen and diplomats as well as of the military have become adjusted to war as the ultimate juridical method of settlement, the change that has been effected in the legal status of war in a short period of ten years is striking.38 »

Nel 1928 il Patto Kellog-Briand per la rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale, promosso da Francia e Stati Uniti, ottenne ben presto le firme della maggior parte dei governi nazionali del mondo. Le origini del Patto risiedono nella complessa intersezione delle esigenze francesi e americane: la necessità della Francia di scoraggiare una possibile aggressione tedesca e il desiderio dell'America di essere vista come leader internazionale, data la sua non appartenenza alla Società delle Nazioni. Originariamente concepito dal ministro degli Esteri francese Aristide Briand come un trattato bilaterale con gli Stati Uniti, il suo campo di applicazione venne esteso su scala globale in gran parte grazie agli sforzi di un energico movimento di "outlawry of war" negli Stati Uniti, che si era sviluppato sulla scia di la guerra. La sua pressione, combinata con l'atteggiamento comprensivo del segretario di Stato americano Frank Kellog, un avvocato con una notevole esperienza internazionale che era stato ambasciatore degli Stati Uniti in Gran Bretagna nei primi anni ’20, trasformò quello che avrebbe potuto essere un pezzo convenzionale di diplomazia internazionale in una dichiarazione di intenti globale potenzialmente rivoluzionaria. Le sue due clausole principali (la terza è procedurale) erano di una semplicità disarmante:

Article I: The High Contracting Parties solemnly declare in the names of their respective peoples that they condemn recourse to war for the solution of international controversies, and renounce it, as an instrument of national policy in their relations with one another.

Article II: The High Contracting Parties agree that the settlement or solution of all disputes or conflicts of whatever nature or whatever origin they may be, which may arise among them, shall never be sought except by pacific means.39

Infatti, a ben vedere, diventa chiaro che il patto fu accuratamente concepito per soddisfare una molteplicità di punti di vista. Faceva appello a internazionalisti, pacifisti e non pacifisti allo stesso modo, che avevano apprezzato l'impegno dei governi di tutti i tipi per risolvere l'unico difetto più evidente del sistema internazionale degli Stati: la sua propensione al conflitto. Per gli internazionalisti americani che deploravano la non appartenenza dell'America alla Società delle Nazioni, fu un vantaggio particolare. Ma il patto piaceva anche agli isolazionisti, non da ultimo ancora una volta negli Stati Uniti, che lo vedevano come una garanzia contro il coinvolgimento in conflitti stranieri. Senza guerre non ci sarebbe stato bisogno di pericolose e costose avventure all'estero. Il fatto che il patto non contenesse alcuna disposizione esecutiva fu determinante per la sua accettazione da parte di molti, felici di sostenere un fine così nobile ma felici anche di non essere tenuti a metterlo in pratica. Pertanto, un ampio consenso sull'obiettivo di bandire la guerra non significava un accordo su come doveva essere ottenuto. Era e rimase una dichiarazione di principio. In effetti, molti che non si sarebbero definiti pacifisti erano disposti a sostenere il principio ineccepibile che le controversie politiche internazionali dovessero essere risolte con i negoziati piuttosto che con la guerra. Il Senato degli Stati Uniti, che aveva bocciato il Trattato di Versailles nel 1919, approvò il Patto Kellog-Briand con ottantacinque voti contro uno. Il Trattato di Versailles avrebbe vincolato gli Stati Uniti all'adesione alla Società delle Nazioni e quindi a una "entangling alliance" contro la quale i Padri Fondatori dell'America avevano così severamente messo in guardia, mentre il Patto Kellog-Briand non li impegnava di fatto a nulla.40 Alla fin fine, il patto non fece alcuna differenza pratica per il comportamento degli stati, e molti lo videro per questo motivo come nient'altro che un futile esempio di gesto politico. Alcuni storici, con vedute lungimiranti, l'hanno considerato più positivamente come un passo verso la delegittimazione della guerra come strumento di politica e in tal senso significativo e prezioso "as a tool to shift the normative basis of international relations".41

Per Einstein e per i contemporanei che condividevano le sue opinioni pacifiste, il patto rappresentava una sfida. Il suo apparente radicalismo era estremamente attraente. Il patto affermava che la guerra era esclusa in via extragiudiziale e che il negoziato era l'unico strumento legittimo per risolvere i conflitti tra le nazioni. Tuttavia, Einstein non fu impressionato dalle generali dichiarazioni di intenti che lasciavano intatte le istituzioni che generavano le guerre. In termini pratici, non era più efficace dell'altro principale sforzo di questo periodo per affrontare gli effetti distruttivi della guerra: l'idea di "humanity in war", ovvero l'istituzione di regole di condotta in tempo di guerra, come proposto dalla Prima Convenzione di Ginevra del 1864 e aggiornata nel 1906 e nel 1929. Quest'ultimo aggiornamento si riferiva specificamente al trattamento dei prigionieri. Nel gennaio 1928 Einstein osservò: "It seems to me an utterly futile task to prescribe rules and limitations for the conduct of war. War is not a game; hence one cannot wage war by rules as one would in playing games. Our fight must be directed against war itself".42 In questo, Einstein era d'accordo con quelli dell'ala radicale dell'internazionalismo, compreso il gruppo guidato da H. G. Wells, che produsse il trattato The Idea of a League of Nations (1919).Scrissero: "The idea of ‘laws of war’, made ultimately for the persistence of war as an institution".43

Il Patto Kellog-Briand prometteva molto di più, ma evidentemente non era sufficiente. Tuttavia, nei discorsi e negli scritti Einstein continuò a invocare il patto come un modo per smascherare l'ipocrisia dei governi, che avrebbero votato per bandire la guerra ma non i mezzi per condurla. Fondamentali tra questi mezzi erano i soldati. Disse: "How can we (as in the Kellog Pact) outlaw war and at the same time hand over the individual unprotected to the war machinery of the state"? Se vogliamo seriamente promuovere l'internazionalismo e contrastare il "national chauvinism", non dobbiamo anche combattere l'addestramento militare universale?44 Entro la metà degli anni ’20, per quanto riguardava Einstein, l'opposizione alla coscrizione era diventata la prova del nove per l'impegno nel pacifismo. Nel 1926 fu firmatario di un Manifesto contro la coscrizione, firmato anche da Gandhi, Rolland, Russell e Wells, seguito da un altro nel 1928. Più tardi, nello stesso anno, inviò un messaggio alla sezione britannica di War Resisters' International, che rafforzò ulteriormente l'attacco alle leggi sulla coscrizione incoraggiando i singoli coscritti a rifiutarsi di prestare servizio. Il suo messaggio diceva:

« I am convinced that the international movement to refuse participation in any kind of war service is one of the most encouraging developments of our time. Every thoughtful, well-meaning and conscientious human being should assume, in time of peace, the solemn and unconditional obligation not to participate in any war, for any reason, or to lend support of any kind, whether direct or indirect.45 »

Nell'ottobre 1930 il Joint Peace Council con sede a Vienna emise un nuovo manifesto contro la coscrizione e l'addestramento militare dei giovani, attirando una schiera stellare di firme internazionali, tra cui, insieme a Einstein, Freud, Thomas Mann, Wells, Russell, Dewey, Rolland, la scrittrice e riformatrice americana Jane Addams, Rabindranath Tagore, Upton Sinclair, Stefan Zweig e molti altri. Com'era diventato quasi rituale in questa fase, il manifesto sottolineava la contraddizione tra i governi che aderiscono al Patto Kellog-Briand e "the maintenance and extension of military training of youth".46

Nel dicembre dello stesso anno, in un discorso estemporaneo tenuto a New York, Einstein riferì ai media di tutto il mondo una frase che per diversi anni lo rese un eroe tra i pacifisti ma lo bollò come radicale sovversivo agli occhi di molti altri. A coloro che affermavano che la resistenza al servizio militare avrebbe portato semplicemente alla prigione, Einstein rispondeva: "Even if only two per cent of those assigned to perform military service should announce their refusal to fight... they would not dare send such a large number of people to jail".47 "Two per cent" divenne un grido di battaglia per molti pacifisti negli Stati Uniti e altrove, specialmente i giovani, che indossavano distintivi che mostravano la nuova formula pacifista di Einstein.48 Com'era prevedibile, attirò anche molte critiche da parte di coloro che credevano che minassero l'autorità dello stato e la preparazione militare. Tuttavia, forse le reazioni più significative arrivarono da importanti alleati intellettuali come Bertrand Russell e Romain Rolland. Queste furono espresse privatamente a corrispondenti diversi da Einstein e contenevano messaggi che senza dubbio Einstein non sarebbe stato lieto di ascoltare. Russell accolse con favore l'intervento di Einstein, ma in modo caratteristico diede il suo commento polemico alla questione e alla partecipazione di Einstein. In una lettera a H. Runham Brown, leader di War Resisters' International, Russell scrisse: "Einstein’s pronouncement on the duty of Pacifists to refuse every kind of military service has my most hearty agreement, and I am very glad that the leading intellect of our age should have pronounced himself so clearly and so uncompromisingly on this issue". D'altra parte, Russell però dubitava che le azioni di alcuni pacifisti avrebbero ottenuto qualcosa di più di un effetto simbolico: "A more effective form of war resistance would be strikes among munitions workers", aggiungendo che "on the whole I expect more from international agreements than from the actions of individual pacifists". Rolland si distanziò maggiormente da Einstein e, scrivendo a Stefan Zweig due anni dopo il discorso di Einstein, quando Einstein aveva già ripudiato la sua posizione anti-coscrizione, Rolland disse:

« ...his declaration in favour of a refusal to serve in the armed forces made in America two years ago was absurd and reckless... To believe and to make young people believe that their refusal to serve could bring war to a halt betrays a criminal naivety: for it is all too obvious that war would still go on, over the bodies of the martyrs! »

Rolland aggiunse di aver scritto a Einstein ma di non aver avuto risposta.50

Disarmo[modifica]

Accanto alle campagne contro la coscrizione e la guerra stessa correvano gli sforzi nel periodo tra le due guerre per ridurre gli armamenti, spaziando dalla difesa del disarmo totale tra i gruppi di pressione radicali a programmi attentamente strutturati di limitazione degli armamenti che i governi erano disposti a contemplare. Nel 1921-1922 le principali potenze si erano riunite a Washington, su invito dell'America, per cercare di sedare un'incipiente corsa agli armamenti navali e per affrontare altre fonti di tensione internazionale, specialmente in Estremo Oriente. L'incontro produsse un trattato storico che non solo specificava i limiti al numero di navi da guerra capitali tra le principali potenze navali secondo rapporti che riflettono le loro dimensioni e lo status internazionale, ma portava anche all'eliminazione di alcune navi già costruite o in costruzione. Ancora una volta, come con il patto "outlawry of war", mancavano i poteri esecutivi, rendendo facile per i critici deridere gli accordi che alla fine non riuscirono a fermare un'altra guerra, ma i negoziati stabilirono precedenti per futuri sforzi per il controllo degli armamenti.51 Ulteriori conferenze navali seguirono nel 1927 e nel 1930 e oltre. Tali sforzi per limitare le armi fornirono anche un punto focale per i gruppi pacifisti, che organizzarono campagne attorno a queste conferenze. La conferenza sul disarmo iniziata a Ginevra nel 1932 fu preparata tanto dai gruppi pacifisti quanto dagli organizzatori della conferenza. Einstein scrisse una serie di articoli in preparazione alla conferenza che promuovevano collettivamente il suo messaggio secondo cui "the Disarmament Conference comes as a final chance... of preserving the best that civilized humanity has produced".52 Einstein ripeteva anche il suo mantra secondo cui nessuna posta valeva la candela se non limitava la sovranità delle nazioni, la sola che potesse garantire un'azione collettiva efficace: "If we do not agree to limit the sovereignty of individual states and if, at the same time, all States do not guarantee to take common action against any one of them that openly or surreptitiously violates a decision of the World Court, we cannot escape from a situation of general anarchy and menace."53

La differenza in questo caso era, però, che Einstein finì per andare lui stesso a Ginevra e rubare almeno per un breve periodo il palcoscenico ai negoziatori. L'idea gli venne quando si trovava in Inghilterra nell'estate del 1932 per tenere una conferenza a Oxford. A questo punto la Conferenza di Ginevra si era irrimediabilmente impantanata in controversie sulle definizioni (ad esempio, cosa costituissero le "defensive weapons") e arcane discussioni sui numeri consentiti di diverse categorie di armi. Lord Ponsonby, un parlamentare britannico e leader pacifista, convinse Einstein ad accompagnarlo a Ginevra e cercare di aiutare a rimettere a fuoco i negoziati. A Ginevra tennero una conferenza stampa in cui posero sul tavolo le loro massime richieste: disarmo completo entro cinque anni e un fermo impegno per il Protocollo di Ginevra, che bandiva l'aggressione. Documento di stretta parentela al Kellog-Briand, il protocollo precedette questo Patto di quattro anni ma non era mai stato ratificato. Avrebbe impegnato tutti i paesi a sottoporre le loro controversie con altre nazioni all'arbitrato. A tale riguardo, in realtà andava oltre il Patto Kellog-Briand, che si limitava, nella sua seconda clausola, a invitare i firmatari a concordare che i disaccordi dovevano essere risolti con "pacific means". Le opinioni divergono sull'impatto dell'intervento di Einstein e Ponsonby a Ginevra. Un resoconto francese, che includeva osservazioni critiche di Romain Rolland sulla "impracticality" di Einstein al di fuori della sfera della fisica, lo descrisse come uno spettacolo secondario di scarse conseguenze. Altri rimasero colpiti dal timore reverenziale che la presenza di Einstein era in grado di ispirare anche tra i giornalisti incalliti. Fu riferito: "All eyes were turned towards Einstein... Where he was the world was... In the pressroom the newspapermen stood aside at a respectful distance. They did not crowd him, shout at him or hurl questions at him. It was the first real sensation these people had had since they had come to Geneva..."54 Misurare l'impatto politico di tali eventi è molto difficile. L'effetto Einstein era sicuramente quello di dare alle sue cause scelte l'ossigeno della pubblicità, che non avrebbe garantito il successo ma avrebbe aiutato a mantenere i problemi all'ordine del giorno. In questo caso particolare, un accordo tra le parti alla conferenza era improbabile, date le differenze inconciliabili tra Francia e Germania sulla dimensione e la natura delle reciproche forze. In tali circostanze la posizione pacifista sarebbe sempre stata marginale. In ogni caso, un anno dopo, con Hitler ormai al potere, la Germania si ritirò dalla conferenza e dalla Società delle Nazioni, preludio alla rimilitarizzazione della Germania. Non è difficile capire come il sedicente pacifismo "militante" di Einstein lo avrebbe presto messo a serio rischio in una Germania che si avviava verso la rinascita del militarismo sotto i nazisti.

Di nuovo Einstein–Freud[modifica]

Albert Einstein
Sigmund Freud

Alcuni mesi prima della sua effettiva decisione di lasciare la Germania – tecnicamente si trattava di una decisione di non tornare, dato che si trovava negli Stati Uniti quando Hitler salì al potere nel gennaio 1933 – Einstein si impegnò in un'altra avventura pacifista di alto profilo, anche se in questo caso nella forma di un pubblico scambio di lettere piuttosto che di un discorso politico. Come abbiamo visto nel Capitolo 2, ad Einstein fu chiesto dalla Società delle Nazioni di invitare un noto personaggio a scambiare opinioni con lui su un argomento di grande importanza internazionale. Einstein scelse la domanda "Why War?" e scelse Sigmund Freud come suo corrispondente. La lettera iniziale di Einstein andava ben oltre la politica della guerra e del pacifismo, per considerare l'intera gamma delle relazioni internazionali e il modo in cui le sue attuali strutture e basi psicologiche servivano a rafforzare la nativa "lust for hatred and destruction" dell'uomo.55 Queste emozioni potevano essere controllate e persino modificate per impedire loro di provocare un tale caos? Questa fu la sfida che lanciò a Freud, che rispose molto più a lungo e, nonostante si definisse un collega pacifista, con un po' più ambivalenza di Einstein riguardo alla possibilità di controllare gli istinti distruttivi.

Lo scambio è di grande interesse per molte ragioni. L'abbiamo già esaminato dalla prospettiva del modo di pensare di Einstein sulla politica rispetto alla scienza. Ora ci interessa che mostri un livello di pensiero non presente nella maggior parte degli altri scritti di Einstein contro la guerra, che erano principalmente documenti di propaganda a cui aveva sottoscritto ma non aveva stilato lui stesso. Questo sondò più a fondo. Cominciò con quello che ammetteva essere "the superficial (i.e., administrative) aspect of the problem: the setting up by international consent, of a legislative and judicial body to settle every conflict arising between nations". Per Einstein questo era il livello "superficial", perché, osservava, in quanto "immune from nationalist bias", non poteva vedere alcuna obiezione all'adozione della "the unconditional surrender by every nation, in a certain measure, of its liberty of action — its sovereignty that is to say". Vedeva poco da perdere nella resa della sovranità e molto da guadagnare nell'istituzione di regole e organizzazioni internazionali per la risoluzione delle controversie. Il vero problema, proseguì, consisteva nel combattere i fattori che paralizzavano gli sforzi in questa direzione, aggravati com'erano dal dominio degli stati da parte di cricche e classi che vedevano nella guerra un mezzo per promuovere i propri interessi. Quindi il problema era in parte politico, ma era anche profondamente psicologico. Le classi dominanti erano riuscite a suscitare il popolo ad azioni sanguinarie e persino a sacrificare la propria vita solo perché "man has within him a lust for hatred and destruction". Per questo rivolgeva le sue domande a Freud.56

Dopo la lunga risposta di Freud, al di là di un apprezzabile scambio di lettere private in cui ognuno ringraziava l'altro per il proprio contributo, la conversazione sulla guerra di fatto cessò. Si potrebbe immaginare in alcune circostanze che un tale scambio potesse avviare un dialogo prolungato, ma sembra che per Einstein, nonostante il riconoscimento dei pericolosi istinti dell'uomo, l'approccio psicologico fosse un vicolo cieco in quanto non vi era alcuna via ovvia dal "lust for hatred and destruction" fino agli altopiani assolati dei suoi desiderati "fruitful modes of action".57 In effetti, non sorprende che la risposta di Freud a Einstein complicò le dimensioni psicologiche, scavò la fossa più in profondità, rendendo ancora più difficile vedere come potesse risultarne un'azione politica. Per Einstein dover riconoscere tutte le implicazioni delle teorie di Freud avrebbe rischiato di minare l'energia alla base della sua attività politica. Lo scambio epistolare è un'illustrazione di ciò che può accadere quando intellettuali globali in campi molto diversi passano dall'essere co-firmatari di manifesti e petizioni — dove sono tenuti solo ad accettare dichiarazioni di principio — all'impegnarsi tra loro intellettualmente. Senza dubbio a volte può funzionare magnificamente, ma riesce solo esporre i loro diversi stati d'animo. A Freud era ben chiaro l'abisso intellettuale che lo divideva da Einstein ben prima del dialogo pubblico. Nel 1929 gli era stata inviata la trascrizione di un'intervista con Einstein condotta dal poeta e giornalista George Sylvester Viereck. In esso Einstein aveva discusso di Freud e della psicoanalisi, il che spinse Freud a riflettere: "I was already aware of Einstein’s stance on psychoanalysis. Several years ago I had a long conversation with him in which I found to my amusement that he understands no more about psychology than I do about mathematics... When Einstein praises my style and skill in presentation it shows only what a well-meaning man he is..." Al termine del dialogo, Freud fu in qualche modo altero nei confronti della "tedious and sterile so-called discussion with Einstein".58 In verità, come abbiamo visto nel Capitolo 2, Einstein e Freud avevano obiettivi molto diversi in vista: quello di Einstein nel trovare modi per fermare la guerra e quello di Freud nel capire scientificamente perché la ricerca fosse così difficile. C'è un'altra ragione per la relativa mancanza di risonanza dello scambio, sia nelle loro vite che nel resto del mondo. Quando le lettere furono pubblicate l'anno successivo con il titolo Why War?, Hitler era salito al potere e il dibattito sulla guerra tra i pacifisti stava per cambiare radicalmente. Einstein ebbe un ruolo significativo nei drammi che seguirono.

Ripensare il pacifismo[modifica]

Il più ampio involucro politico in cui era contenuto l'impegno etico di Einstein nei confronti del pacifismo è di grande importanza per spiegare il cambiamento delle sue opinioni sulla guerra e sul militarismo mentre il nazismo si radicava in Germania. Einstein non fu mai sostenitore di un singolo problema o di un singolo principio. Il pacifismo, per quanto vicino al nucleo del suo sistema di valori, non componeva l'intero nucleo. Perseguire il pacifismo a scapito, per esempio, della libertà individuale rischiava di minare non solo la libertà stessa, ma anche la capacità di rispondere alle sfide delle mutevoli realtà politiche. È una verità ovvia tra i filosofi del liberalismo che le scelte etiche il più delle volte siano tra vari beni piuttosto che tra il bene e il male per la buona ragione che, come osservava Isaiah Berlin, "human goals are many, not all of them commensurable, and in perpetual rivalry with one another".59 Le difficoltà di Einstein negli anni ’30 con il principio del pacifismo sono un chiaro esempio del dilemma liberale descritto da Berlin.

Già nel 1933 il suo pensiero si stava spostando da una posizione di assoluto pacifismo, ovvero la difesa del rifiuto di combattere in qualsiasi circostanza, verso l'idea che le circostanze potessero richiedere la formazione di una forza di polizia internazionale per contenere le minacce alla pace da parte di stati aggressivi. Propose questa idea alla War Resisters' International, la quale rispose che, per quanto degne di considerazione potessero essere le opinioni di Einstein, dovevano essere respinte perché compromettevano la "our extreme view" e "our strength lies in our uncompromising attitude".60 Einstein, fu però trafitto dal "German military danger",61 che lo portò apertamente a rompere i ranghi con i pacifisti assoluti sulla questione della resistenza alla coscrizione. Inoltre, l'idea di una forza di polizia internazionale passò in secondo piano man mano che si manifestava l'immediatezza della crisi. I governi nazionali potevano e dovevano difendersi dall'aggressione. In risposta ad Alfred Nahon, un pacifista francese residente in Belgio, che aveva chiesto a Einstein di intervenire a favore di due obiettori di coscienza belgi imprigionati, Einstein disse che il contesto era cambiato radicalmente a seguito dell'emergere di una Germania che "obviously pushing toward war with all available means". Date le circostanze, il Belgio e la Francia, che erano le due nazioni più direttamente a rischio, dovevano fare affidamento sulle rispettive forze armate per la difesa. Scrisse: "Were I a Belgian, I should not, in the present circumstances, refuse military service; rather I should enter such service cheerfully in the belief that I would thereby be helping to save European civilization." Aggiunse una dichiarazione che indicava di sapere che il suo messaggio sarebbe stato impopolare tra i compagni pacifisti, tra i quali ha comunque continuava ad annoverarsi: "This does not mean that I am renouncing the principle for which I have stood heretofore. I have no greater hope than that the time may not be far off when refusal of military service will once again be an effective method of serving the cause of human progress."62

La reputazione di Einstein tra i pacifisti fu seriamente danneggiata quando questa lettera fu pubblicata in Francia, un'eventualità che Lord Ponsonby era stato ansioso di evitare. In effetti, scrisse a Einstein che era sicuro che il suo cambiamento di opinione fosse temporaneo e che in ogni caso le sue opinioni non avrebbero dovuto essere rese pubbliche "at least until you have given the matter mature consideration". Aggiunse che "should your views be made known, you can be sure that every chauvinist, militarist and arms merchant would delight in ridiculing our pacifist position".63 In risposta Einstein ripeté i sentimenti espressi nella sua lettera ad Alfred Nahon, solo con più enfasi. E tuonò:

« Can you possibly be unaware of the fact that Germany is feverishly rearming and that the whole population is being indoctrinated and drilled for war?... I loathe all armies and any kind of violence; yet I am firmly convinced that, in the present world situation, these hateful weapons offer the only effective protection. I am certain that, if you yourself held today a responsible high office in the French Government, you would feel obligated to change your views in the face of the prevailing danger.64 »

Per tutta l'estate e l'autunno del 1933 Einstein fu bombardato da lettere di corrispondenti arrabbiati e sconcertati, mentre i giornali di tutta Europa e degli Stati Uniti discutevano di quella che alcuni pacifisti chiamavano la "apostasy" di Einstein. Forse la reazione più acuta arrivò in una nota di diario privato dello scrittore e pacifista francese Romain Rolland:

« Such weakness of spirit is indeed unimaginable in a great scientist, who should weigh and express his statements carefully before putting them in circulation... It is a joke, a kind of intellectual game, to advocate the idea at a time when no risks are involved; on the other hand, one has assumed a particularly serious responsibility for having indoctrinated blind and confident youth without sufficient consideration of all implications. It is quite clear to me that Einstein, a genius in his scientific field, is weak, indecisive, and inconsistent outside it.66 »

Quasi a confermare il giudizio di Rolland sulla presunta scarsità della giustificazione da parte di Einstein per il cambiamento di posizione, a un pacifista costernato che non riusciva a credere ai resoconti pubblicati delle opinioni di Einstein, Einstein scrisse: "...antimilitarists were justified in refusing military service as long as the majority of the nations of Europe were intent on peace. This no longer holds true."67

Tanta attenzione è stata focalizzata sul senso di tradimento generato dal cambiamento di opinione di Einstein, in particolare riguardo al suo scambio di lettere con Alfred Nahon, che il successivo cambiamento di opinione di Nahon è stato trascurato. Nella sua prima risposta al rifiuto di Einstein di avallare la sua protesta personale contro la coscrizione, Nahon espresse la sua profonda disillusione: "Your letter has pained me greatly... With all respect for your genius, dear Einstein, and with the prudence demanded by my age as well as my faculty of reason, I cry betrayal..." e concludeva "It is with great sadness that I leave you".68 Nove mesi dopo, tuttavia, Nahon scrisse di nuovo a Einstein in termini molto diversi. Dopo una lunga riflessione, che la lettera di Einstein gli aveva ispirato, Nahon "had taken the firm and loyal decision to submit to the military authorities on the 3 April 1934, a delay of four months following the order to report for duty". Ora era in prigione in attesa di un tribunale militare. Poteva Einstein scrivere al tribunale affermando i termini in cui gli aveva scritto per provare al tribunale che il suo cambiamento di opinione aveva una solida base? E concluse: "I hope that you have confidence in my sincerity when I tell you that you opened my eyes and that I am grateful to you for this..."69 Se mai Einstein avesse seriamente sperato che le sue parole potessero esercitare "a salutary moral influence", questo è stato sicuramente un ottimo esempio, anche se solo su un individuo.

Ci fu davvero un cambiamento fondamentale nel pacifismo di Einstein o il cambiamento può essere spiegato in modi che sollevano Einstein dalle accuse mosse contro di lui dai suoi contemporanei pacifisti e da alcuni biografi?70 La risposta alla prima domanda non può essere semplice: si possono infatti dare risposte diverse a seconda del quadro di riferimento adottato. Dal punto di vista di Einstein non ci fu alcun cambiamento fondamentale nella sua posizione. Ciò che era in discussione era sempre la questione più ampia di come fermare la guerra, non la tattica di resistere alla coscrizione. Il fatto che il suo mutato punto di vista sulla tattica avrebbe dovuto significare accettare che a volte poteva essere necessario entrare in guerra per ragioni difensive non viziava, a suo avviso, l'obiettivo più ampio di cercare una ristrutturazione delle relazioni internazionali al fine di bandire la guerra. Quella era probabilmente la sua priorità di prim'ordine. Era abbastanza realista da vedere che il crescente militarismo della Germania rendeva inutile la tattica della resistenza alla coscrizione, poiché in Germania e in molti altri paesi la resistenza sarebbe stata sommariamente schiacciata. Laddove l'azione a livello di stato-nazione era inutile, l'attenzione doveva essere focalizzata al livello internazionale, e su questo punto Einstein fu coerente dal momento in cui nel 1914 si pronunciò per la prima volta su questioni pubbliche fino al giorno della sua morte. In poche parole, Einstein resisteva all'essere legato a una posizione moralmente assoluta, ma guardava più positivamente ai principi e alle organizzazioni internazionaliste come all'arena principale in cui i problemi apparentemente intrattabili della guerra potevano essere risolti. È concepibile che, riflettendoci, Einstein avrebbe concordato con la valutazione di Bertrand Russell della proposta del "two per cent" — che era un'espressione di principio attraente e potente ma che tuttavia nel complesso ci si poteva aspettare di più dagli accordi internazionali che dalle azioni dei singoli pacifisti.

L'argomento non può fermarsi qui, tuttavia, poiché la retorica di Einstein potrebbe facilmente, su questo come su altri argomenti, essere interpretata come implicante un'adesione incrollabile al principio. La sua caratteristica forma di espressione su questioni pubbliche era la breve dichiarazione, non l'argomentazione analitica, e la firma di manifesti e petizioni invitava l'associazione con ferme posizioni politiche che in realtà non erano poi così ferme. In quale altro modo gli intellettuali potevano esercitare una "salutary moral influence"? Articoli accademici, documenti di posizione dettagliati e simili erano difficilmente progettati per raggiungere l'arena pubblica. Dato il suo profilo globale e la forza morale delle sue affermazioni, c'era da aspettarsi che alcune persone in cerca di rassicurazione e sostegno nella loro posizione di principio seguissero le sue parole alla lettera. Sulla questione specifica del rifiuto di prestare servizio nelle forze armate, quella che poteva essere una questione tattica per Einstein, poteva avere un significato assoluto per gli individui che la intraprendevano in quanto la "tactic" era un valore fondamentale, che tra l'altro poteva portarli in prigione. Non era di nessun conforto per tali individui sapere che c'era in realtà un fine più alto in vista e che, date le mutate circostanze, il loro sacrificio era o accidentale o non necessario nel più ampio schema delle cose. Romain Rolland fu aspro riguardo al cambiamento di Einstein: "Today he makes a U-turn and betrays the war resisters with the same casualness [Leichtfertigkeit] with which he supported them yesterday."71

C'è, tuttavia, un'ulteriore dimensione nella posizione di Einstein su questo tema che serve a spiegare il suo cambiamento di opinione: il suo atteggiamento nei confronti della Germania. L'intera storia personale di Einstein di disgusto per la vena autoritaria nella società tedesca lo portava ad un odio della Germania di Hitler. Negli anni immediatamente precedenti l'assunzione del potere da parte di Hitler, Einstein aveva continuato a nutrire la speranza che la Germania potesse resistere all'estremismo dei nazisti. Nell'autunno del 1931 scrisse persino al cancelliere del Reich Brüning richiedendo un colloquio per parlare di questioni politiche. Questa idea fu educatamente respinta, dato l'affollato programma del cancelliere, anche se Einstein fu invitato dal segretario del cancelliere a presentare i suoi pensieri su carta. La relativa lettera di Einstein al cancelliere non esiste, ma una bozza di note sui rapporti franco-tedeschi sembra contenere la sostanza di ciò di cui voleva parlare. Nella sua risposta, il segretario del cancelliere notò che la preoccupazione di Einstein per la necessità della cooperazione franco-tedesca era una politica con cui il cancelliere era pienamente d'accordo.72 Lo scambio evidentemente produsse poca sostanza, ma è importante per ciò che rivela sull'ottimismo einsteiniano in questa fase che la sua voce potesse avere un certo peso con i leader politici. Era un periodo in cui credeva ancora che la messa al bando della guerra e il disarmo radicale fossero obiettivi politici plausibili. Tale ottimismo presto scomparve. Al tempo della sua "apostasia" dal pacifismo, Hitler era salito al potere e le sue prime mosse verso la dittatura personale e il riarmo confermarono le peggiori paure di Einstein. A Max Born scrisse nel maggio 1933: "you know, I think, that I have never had a particularly favourable opinion of the Germans (morally or political speaking). But I must confess that the degree of their brutality and cowardice came as something of a surprise to me".73 Per quanto riguardava Einstein, in tali circostanze il pacifismo militante o assoluto poteva significare solo acquiescenza.

Il pacifismo non era l'unico valore di Einstein. Doveva essere compatibile con altre parti del suo sistema di valori; in questo caso doveva, per così dire, correre di pari passo con la sua conoscenza ed esperienza della Germania e del pericolo che ora rappresentava per la pace in generale. Per molti dei suoi contemporanei pacifisti, o il carattere del regime tedesco era irrilevante per la loro posizione, perché il loro pacifismo era una questione di assoluta coscienza morale, oppure erano in grado di respingere l'idea di un pericolo tedesco, o forse entrambe le cose. Un esempio di quest'ultima posizione è l'affermazione di Lord Ponsonby fatta nel 1940 secondo cui, se la Gran Bretagna non avesse fatto guerra alla Germania, Hitler "would have been gone by now".74 La verità è che la posizione di Einstein non era insolita tra gli intellettuali che abbracciarono il pacifismo sia durante o dopo la Prima Guerra Mondiale ma cambiarono posizione di fronte alla Germania di Hitler. Questi includono Russell, Rolland e molti altri. La differenza con Einstein era l'alto profilo e la natura enfatica del suo cambiamento, alla base del quale c'era la conoscenza dell'autoritarismo tedesco da parte di un insider.

Conclusione[modifica]

Per quanto riguarda la questione delle priorità che ha aperto questo Capitolo, la traiettoria del pacifismo di Einstein rafforza la conclusione che non esiste un'unica premessa fondamentale tra i valori di Einstein o, piuttosto, che l'impegno di Einstein era sempre per un gruppo o un circolo virtuoso di valori. Fintanto che si rafforzavano a vicenda, il circolo poteva operare per portare un miglioramento generale. Il nuovo stato della Germania, tuttavia, rese il pacifismo non solo improduttivo ma pericoloso nella misura in cui minò non solo il pacifismo ma l'intero circolo dei valori: pace, internazionalismo, libertà individuale e il resto. Il fatto che minacciasse direttamente anche gli ebrei non era l'ultima delle considerazioni di Einstein. A tale questione ci rivolgiamo ora.

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Note[modifica]

(Note e riferimenti a fine libro)

Per approfondire, vedi Serie delle interpretazioni, Serie dei sentimenti e Serie letteratura moderna.