Reminiscenze trascorse/Capitolo 1

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Firma di Proust
Firma di Proust

Marcel Proust con Robert de Flers e Lucien Daudet, ca. 1896

Tesori nascosti: le memorie di Proust[modifica]

Alla ricerca del tempo perduto, copertina dell'edizione italiana
Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Marcel Proust e Alla ricerca del tempo perduto.
Les lieux que nous avons connus n’appartiennent pas qu’au monde de l’espace
où nous les situons pour plus de facilité. Ils n’étaient qu’une mince tranche au milieu
d’impressions contiguës qui formaient notre vie d’alors; le souvenir
d’une certaine image n’est que le regret d’un certain instant;
et les maisons, les routes, les avenues, sont fugitives,
hélas! comme les années.
—Marcel Proust, Du côté de chez Swann (1913)

I[modifica]

Per approfondire, vedi Involuntary memory (Memoria involontaria).

Nessun autore modernista rappresenta il progetto di recupero della memoria infantile in modo più centrale di Marcel Proust. Proust ha reso famosa la nozione di memoria involontaria, l'idea che un segnale presente, se duplica fortuitamente una sensazione passata, può riportare alla memoria ampi campioni del passato dalla nostra mente, per dirla con le sue parole, "inconscia". Un odore, un sapore, un suono, un movimento del corpo, un tocco, possono evocarci o trasportarci indietro in un momento precedente che avevamo dimenticato da tempo. Secondo Proust, questi momenti sono accompagnati da una grande felicità. In effetti, un sentimento di felicità è il primo segno che un momento del genere è imminente.[1] Il narratore di Proust in À la recherche du temps perdu (Alla ricerca del tempo perduto) giudica il piacere che gli danno "the only genuine and fruitful pleasure that I had known".[2] Egli suggerisce che la rivelazione della memoria involontaria lo abbia ispirato a creare un'opera d'arte autobiografica fornendogli l'intuizione che il suo lavoro artistico consisterà nello sviluppare, come negativi, la sua vita passata così come si trova dentro di lui. La prima parte del primo volume di À la recherche du temps perdu (Du côté de chez Swann [Dalla parte di Swann]), intitolata "Combray I", si sviluppa su un'esperienza cruciale di memoria involontaria innescata dal gusto di un oggetto, il sapore di una madeleine intinta nel tè ai fiori di tiglio. Il gusto del dolcetto riporta alla mente del narratore i ricordi in gran parte dimenticati della sua infanzia a Combray. Di conseguenza, una seconda sezione di "Combray" lunga circa 140 pagine, è dedicata all'infanzia del narratore. Questa seconda sezione di "Combray", il racconto dei ricordi dell'infanzia del narratore, mette in pratica le connessioni tra memoria involontaria, oggetti materiali e metafora di cui Proust scriverà esplicitamente nell'ultimo volume della sua opera in sette volumi, Le Temps retrouvé (Il tempo ritrovato).

La "memoria involontaria" di Proust è stata al centro di numerosi commentari. Sono state portate alla luce le sue presunte fonti nella psicologia e nella filosofia della fine del XIX secolo, sono state indagate le motivazioni di Proust per farne la base della sua estetica, e la credibilità del fenomeno stesso è stata esaminata attentamente. Più ci allontaniamo dall'epoca di Proust e più crediamo, con la psicoanalisi e la psicologia, che la memoria sia costruttiva, più diventa difficile da digerire la teoria di Proust. La critica odierna ne è incredula: sembra un atto di malafede, un autoillusione, un trasparente tentativo di ancorare in qualcosa l'opera d'arte autonoma e la pretesa di genialità originaria.[3]

Antoine Compagnon nel 2015

In questo clima di sospetto, i critici hanno anche sostenuto che l'opera di Proust non riesce a essere all'altezza del proprio programma estetico, che Proust collega strettamente alla memoria involontaria, nel senso che la memoria involontaria è una chiave per le essenze, le leggi e le idee che il narratore ritiene che sia compito dello scrittore rivelare. Sin dal lavoro di Genette della metà degli anni Sessanta, il suo testo è stato accusato di non riuscire a mettere in pratica ciò che predica, a mantenere ciò che promette, a sostenere la sua filosofia con i suoi esempi. Lo stesso Genette asserisce che esiste un “counterpoint of contrary movements” al mito del "Paradise Lost", “the final ecstasy of Reminiscence, and the revelation of the Essences”, contrappunto che si genera da esperienze appartenenti al periodo della Fall into Time, cioè della vita vissuta.[4] Compagnon in Proust entre deux siècles sostiene che il romanzo traccia una traiettoria sperimentale che non era affatto circoscritta dal tradizionale pensiero estetico di Proust. Secondo Compagnon, Proust era orgoglioso dell'unità che è riuscito a dare al suo romanzo, delle “leggi” che aveva scoperto, ma ciò che in realtà compie nel romanzo è realizzare le “intermittenze del cuore” (titolo generale provvisorio di Proust per l'opera era "Les Intermittences du coeur", titolo che mantenne per una sezione di Sodome et Gomorrhe), e dell'arte in "a broken temporality of creation".[5] La legge della reminiscenza tenta semplicemente di mascherare "an aesthetic of infinite intermittencies, of inappreciable differences, so as to make the book appeal to idealists, vitalists, and organicists".[6] Compagnon nota inoltre che Proust promette di guardare da vicino l'inconscio della persona che era, ma in realtà dà di sé un'immagine indulgente, nascondendo che era un decadente, sadico, omosessuale e snob.[7] Rainer Warning, infine, afferma che il romanzo di Proust non soddisfa il suo programma di “totalizing memory”[8] ma semioticamente sovverte la pretesa di recupero della memoria attraverso la scrittura e la riscrittura, integrando anziché rappresentando. Egli sostiene che la teoria della memoria involontaria faceva parte della prima concezione del romanzo, risalente al 1909, quando Proust non sapeva quale direzione avrebbe preso il suo progetto, e che già in À l'ombre des jeunes filles en fleurs si intromette uno stile imitativo dell'impressionismo che è in contrasto con la premessa di riconquistare il passato una volta per tutte.[9] Come Terdiman, egli sottolinea che la teoria della memoria involontaria di Proust si trova in contraddizione, poiché i ricordi involontari di Albertine nella mente del protagonista proustiano sono dolorosi e traumatici, non gioiosi come vorrebbe la teoria della memoria involontaria.[10]

Certamente il progetto di Proust non può essere preso interamente nei termini esposti dallo stesso Proust nel suo ultimo volume pubblicato postumo, Le Temps retrouvé. In effetti, la teoria che il suo narratore elabora lì porta con sé una nuova serie di problemi. Come sosterrò più avanti, c’è un punto debole logico nella sua transizione dalla teoria della memoria involontaria alla teoria estetica. Certamente anche l'intero romanzo, in particolare i tre volumi contenenti la storia di Albertine che furono aggiunte tardive al piano originale (La Prisonnière, Albertine disparue e Sodome et Gomorrhe) e fecero gonfiare il romanzo nel mezzo, non sta sotto il segno della memoria involontaria, anche se questi volumi registrano episodi di memoria involontaria. Sarebbe piuttosto sorprendente se un'opera di tale lunghezza, scritta in così tanti anni, rimanesse tenacemente fedele alla sua concezione originaria. Tuttavia i critici che affermano che Proust non realizza il suo progetto gli attribuiscono, per la memoria involontaria, un ruolo più importante di quello che egli stesso le attribuisce. Proust non dice mai che la memoria involontaria fornirà l'intero materiale del romanzo. Al contrario, il narratore afferma in Le Temps retrouvé che "quelle impressioni che ci vengono trasmesse fuori del tempo dalle essenze che sono comuni alle sensazioni del passato e del presente... sono... troppo rare perché un'opera d'arte sia costruita esclusivamente a partire da esse" (“ces impressions que nous apporte hors du temps l'essence commune aux feelings du passé et du présent... sont... trop rares pour que l'oeuvre d 'art puisse être composée seulement avec elles”).[11] La memoria involontaria è il catalizzatore, la rivelazione; segue un duro lavoro nella camera oscura della mente. Ciò significa disfare gli inganni che "la vanità (l’amour-propre) e la passione e l'intelletto, e anche l'abitudine" hanno operato sulle nostre impressioni, ritornare nelle profondità dove "ciò che è realmente esistito giace sconosciuto in noi" e usare il proprio intelletto per sviluppare i “negativi” che si trovano lì.[12] In effetti, è solo per "Combray II" che il narratore avanza una pretesa di memoria involontaria che potrebbe essere interpretata come “totalizzante”, in quanto afferma che la madeleine riporta "tout Combray" – "l’intera Combray". Per quanto riguarda il fenomeno della memoria involontaria in sé, le scoperte contemporanee delle neuroscienze tendono a sostenere Proust.[13]

In ogni caso, qui mi interessano proprio le parti del romanzo che Proust scrisse per primo, con sezioni redatte dal 1909 al 1911: soprattutto le sezioni "Combray" di Du côté de chez Swann (pubblicato nel 1913), ma anche con le parti complementari di Le Temps retrouvé dove il narratore elabora la teoria della memoria involontaria e dell'arte. Proust insisteva che questi fossero stati scritti contemporaneamente a "Combray". Secondo Compagnon, nelle bozze di "Combray" del 1909 Proust integrerà il commentario filosofico e teorico subito dopo le relative reminiscenze e trasferirà questo materiale nelle bozze del volume finale solo nel 1911.[14] Commenterò quindi parti di À la recherche du temps perdu che presenta una concezione quanto più unitaria si possa trovare nel romanzo: parti scritte molto prima che Proust cominciasse ad allontanarsi dal suo piano originale e ad aggiungere volumi che inizialmente non aveva previsto. Per prima cosa (nella Sezione II) esaminerò come il pensiero di Proust sulla memoria involontaria e sull'arte si sviluppa da Jean Santeuil a À la recherche du temps perdu. Mostrerò come l'oggetto materiale entra nella teoria della memoria e ancora la teoria dell'arte fornendo supporto alla tecnica preferita di Proust, la metafora. Poi (nelle Sezioni III e IV) esaminerò le strategie e le tecniche di Proust in "Combray II", concentrandomi sul suo brillante impiego di metafore per rendere il mondo del bambino che il suo narratore pretende di recuperare attraverso la memoria involontaria. Infine (in V), commenterò l'importanza delle cose e dei luoghi per Proust.

II[modifica]

La classe di filosofia al Liceo Condorcet (1888-1889). Marcel è il primo a sinistra in seconda fila

La genesi di À la recherche du temps perdu è nota. Poco più che ventenne Proust scrisse un lungo e frammentario romanzo autobiografico, Jean Santeuil. Abbandonò Jean Santeuil nel 1899, ma temi, personaggi e scene di questi primi lavori riappaiono in À la recherche du temps perdu. Nel 1908 progettò un libro sulle sue idee riguardo all'arte e alla critica che doveva essere concepito come un attacco all'eminente critico letterario Sainte-Beuve. Esitava tra lo scrivere un saggio e una conversazione con sua madre su Sainte-Beuve. Quest'ultima si trasformò gradualmente nel suo romanzo À la recherche du temps perdu. In questa Sezione mi propongo di ripercorrere come Proust abbia sviluppato e riconfigurato le sue idee sulla memoria e l'arte da Jean Santeuil alla Recherche in modo tale che la memoria infantile arrivasse a occupare una posizione privilegiata nel romanzo pubblicato.

La nozione di memoria involontaria risale a Jean Santeuil. Un confronto tra Jean Santeuil e À la recherche du temps perdu mostra che Proust aveva avuto l’idea della memoria involontaria molto prima di ideare la sua serie finale di tecniche per rappresentare tali ricordi. La teoria dell'immaginazione, il concetto di essenza e l'importanza della memoria per la creatività artistica sono tutti presenti in Jean Santeuil. Ma ci sono anche cambiamenti significativi tra Jean Santeuil e À la recherche du temps perdu. In particolare, agli oggetti materiali viene assegnato un nuovo importante ruolo, e la prima esperienza narrata di memoria involontaria del narratore proustiano riporta all'infanzia.

In Jean Santeuil il narratore in prima persona racconta come, di fronte al Lago di Ginevra, si ricordò improvvisamente della sua vita in Bretagna, che gli apparve "in tutto il suo fascino e bellezza" (“charmante et belle”).[15] Commenta ampiamente il meccanismo con cui viene provocata questa memoria e l'effetto che produce. Egli scrive che un'impressione sensoriale identica o molto simile nel presente può riportare al passato. L'esperienza è gioiosa. È gioiosa, innanzitutto, perché impegna l'immaginazione, che, secondo Proust, non può lavorare sulla realtà immediata, né sulla realtà passata ricordata deliberatamente, ma “si libra solo sulla realtà passata raggiunta e custodita nella realtà ora presente”. (“flotte seulement autour de la réalité passée qui se trouve prise dans une réalité présente”).[16] In secondo luogo, in un'analisi più filosofica, porta gioia perché l'immaginazione contempla un oggetto eterno, una “essenza”. Questa contemplazione solleva l'io fuori dal tempo e gli dà un senso di eternità.

Proust incorporò una versione ampliata di queste stesse idee in Le Temps retrouvé. Il narratore continua a insistere, come in Jean Santeuil, nel dire che trova la realtà deludente perché la sua troppa vicinanza, la sua presenza, non gli permette di esercitare la sua immaginazione: "My imagination, which was the only organ that I possessed for the enjoyment of beauty, could not apply itself to it [reality], in virtue of that ineluctable law which ordains that we can only imagine what is absent".[17] Questo disgusto per la realtà direttamente percepita e questo entusiasmo per ciò che è assente e che quindi impegna l'immaginazione è un pregiudizio fermo di Proust che emerge in contesti diversi, ma sempre con la stessa portata. In "Combray" sta dietro alla preferenza del bambino per la lettura piuttosto che per l'esperienza diretta della realtà, perché, secondo il narratore, la coscienza ha sempre interposto una barriera tra lui come soggetto e il mondo reale.[18] Nello stesso senso, secondo il narratore di Le Temps retrouvé, "Real life, life at last laid bare and illuminated — the only life in consequence which can be said to be really lived — is literature".[19] Il senso di fondo della sua dichiarazione è che "the true paradises are the paradises that we have lost".[20] Un paradiso attuale ci sovrasta troppo da vicino per essere apprezzato e quindi, per definizione, non è un paradiso. Solo in retrospettiva, da lontano, assume un'aura paradisiaca. L'idea che l'immaginazione si risveglia in assenza dell'oggetto è il fondamento della teoria della creatività del narratore. Il primo successo del piccolo Marcel come scrittore è ispirato dalla visione di tre campanili in loro assenza, il che rende questo episodio dei campanili un evento della memoria, un prototipo degli accessi di memoria involontaria che, secondo il narratore, ispirano À la recherche du temps perdu.

Quando il narratore proustiano afferma di preferire il ricordo rispetto al vivere, la lettura rispetto all'esperienza, l'assenza rispetto alla presenza, non sta semplicemente mostrando un'impertinenza estetista, o un godendersi il paradosso in se stesso. Ripete i suoi pregiudizi troppo spesso e con troppa coerenza per essere sospettato di dire cose del genere solo per effetto. Inoltre, non sta semplicemente invocando il paradigma familiare del desiderio, secondo cui desideriamo solo ciò che non abbiamo, o secondo cui la perdita genera apprezzamento, secondo cui “la morte è la madre della bellezza”,[21] sebbene queste formule psicologiche risuonino nella sua dichiarazione radicale e peculiare e sono articolate altrove nel romanzo. Sostenendo che l'esperienza diretta distrae troppo e che un maggiore senso della realtà si ottiene immaginando – o attraverso il medium della letteratura – non sta ammettendo una disabilità o una limitazione, ma, piuttosto, sta gettando le basi per un formula di empowerment personale. Nonostante egli dipenda dal caso per la memoria involontaria, i momenti che la memoria involontaria gli offre sono la chiave per mettere in moto un progetto artistico altamente autonomo. La gioia che prova quando ha questi riconoscimenti è la gioia dell'annunciazione. Usa il vocabolario della rinascita, del vero sé, del celeste.[22] Il sottotesto è che è autosufficiente nella sua solitudine. All'età di ventitré anni Proust attraversò una fase in cui era ossessionato da Emerson.[23] La fiducia in se stessi di Emerson riecheggia nel modo in cui il narratore ottiene i suoi più grandi poteri quando è solo. I momenti di memoria involontaria, le intuizioni sulla natura delle cose, sono esperienze intensamente intime che, sebbene alla fine giunga alla conclusione che tali momenti possono essere vissuti anche in contesti sociali, condivide principalmente solo con se stesso. Inoltre, in Le Temps retrouvé, si assicura che, spunti a parte, tutto stia dentro di lui. La creazione dell'opera d'arte comporta lo scandagliare le proprie profondità nella solitudine.[24] Si rende conto che deve limitare il contatto con il mondo, che gli dà un'esperienza immediata, per creare.[25] Questa non è una formula universale per la creatività, ma è una formula che piace a Proust, in quanto trasforma la solitudine imposta all'invalido in una condizione abilitante per l'arte. Suggerisce che la dipendenza fisica dagli altri può essere controbilanciata da un'autosufficienza intellettuale sostenuta dalla solitudine.

La seconda ragione della gioia del narratore e del relativo senso di certezza enunciati in Jean Santeuil – perché la sua immaginazione contempla un'essenza eterna – è ribadita con enfasi in Le Temps retrouvé. Il narratore sottolinea quanto gli episodi di memoria involontaria lo collochino in un ambiente “fuori dal tempo” dove può godere “dell'essenza delle cose”. Afferma infatti che la sua paura della morte svanisce perché è catturato dall'eternità dell'attimo: "This explained why it was that my anxiety on the subject of my death had ceased at the moment when I had unconsciously recognised the taste of the little madeleine, since the being which at that moment I had been was an extra-temporal being".[26] Per l'istante in cui dura, poi, la memoria involontaria lo rende immortale.

In Le Temps retrouvé Proust espande e drammatizza la sua presentazione dell'esperienza della memoria involontaria oltre ciò che ha scritto al riguardo in Jean Santeuil. Egli mette in scena la chiarezza allucinatoria con cui ci sopraggiunge il senso di un momento passato, o meglio di uno stato di cose passato (poiché ciò che viene resuscitato è principalmente un'esperienza durativa o iterativa).[27] La sensazione che sperimenta, la sensazione che viene chiamata in essere dal segnale, non è un doppio di quella passata, ma, dice il narratore, la sensazione passata “stessa” (453; 267). Questa “sensazione stessa” cerca immediatamente di creare attorno a sé il vecchio luogo, i suoi vecchi dintorni. Proust descrive vividamente come il vecchio paese lotta con l'attuale contesto per la supremazia e come alla fine perda sempre. La sensazione del narratore di trovarsi nel vecchio luogo, come la sala da pranzo di Balbec, in un momento strettamente circoscritto come l'ora prima del tramonto, è schiacciante. Utilizzando il pronome in prima persona plurale per suggerire una legge generale, afferma che queste "resurrezioni totali" del passato costringono i nostri occhi a vedere la vecchia scena e le nostre narici a percepirne l'odore, forzano la nostra volontà a fare scelte nel suo contesto e la nostra persona a credere di trovarsi effettivamente in quell'ambiente o almeno a vacillare tra questo e l'ambiente attuale. Ma non appena ci orientiamo, afferma, il momento svanisce.

La natura magica del momento della memoria involontaria è tanto più notevole perché Proust era ben consapevole dei tradimenti della memoria. “So much for the value of testimonies and memory!” esclama sprezzante il narratore quando Françoise è pronta a giurare erroneamente che Saint-Loup non indossava la sua croix de guerre quando li visitò.[28] Proust sapeva che si può contare sulla memoria per riscrivere e distorcere il passato. La nostra immagine delle persone si evolve “au gré de notre oubli”.[29] Sapeva che la memoria è vassalla del presente.[30] L'oblio delle persone e le distorsioni della memoria, che Proust chiama l'opera del Tempo, sono un tema nell'ultima parte di Le Temps retrouvé (552; 419). I momenti di memoria magica costituiscono un'eccezione a questa regola generale. Ciò che consente loro di rivendicare questo fragile status è, a quanto pare, il loro totale oblio e la totale disconnessione dalle nostre preoccupazioni attuali, combinate con il fatto che non possiamo accedervi a nostro piacimento. Proust insisteva sul fatto che non possono essere preparate, organizzate o controllate (457, 497; 274, 333). Devono essere puramente fortuite. "Their essential character was that I was not free to choose them, that such as they were they were given to me" (457; 274). Le riflessioni del narratore sul perché sia importante non rileggere costantemente le vecchie edizioni supportano l'idea che la riconquista del passato debba comportare un incontro casuale con il segnale. "“I know very well how easily these images, deposited by the mind, can be effaced by the mind" (466; 288): nuovi incontri con vecchi oggetti sovrascrivono la memoria originaria e ne minano l'integrità. In breve, Proust è d'accordo con i teorici moderni – fino a un certo punto. Ma pensa di aver trovato con la memoria involontaria qualcosa di magico che trascende la legge generale che la memoria riscrive.

In Jean Santeuil Proust crea una connessione diretta tra memoria involontaria e creatività artistica. A suo avviso la memoria accende l'immaginazione dell'artista: "Those are the happy hours of the poet’s life, the hours when chance places upon his path a sensation that encloses within itself a past that permits his imagination to become acquainted with a past it never knew".[31] In À la recherche du temps perdu la memoria involontaria assume un'importanza cruciale nel divenire dell'artista. Le esperienze di memoria involontaria del protagonista — ci viene raccontato nell'ultimo volume — sono responsabili della decisione di realizzare il suo desiderio da tempo abbandonato di diventare uno scrittore e di iniziare a scrivere un libro, sia che si tratti del romanzo che il lettore ha appena letto, come hanno tradizionalmente sostenuto i critici, o un lavoro completamente diverso, come è stato recentemente proposto.[32] La riflessione che altri scrittori — Chateaubriand, Nerval e Baudelaire — basano le loro opere sulla reminiscenza e sulla sensazione trasposta, incoraggia il protagonista a pensare di essere sulla strada giusta.

Nella teoria dell'arte esposta in Le Temps retrouvé, Proust articola la sua concezione della sua missione poetica e si esprime su come uno scrittore possa realizzare al meglio tale concezione. Questa ampia riflessione è in gran parte il resoconto che il narratore fa del corso dei pensieri del protagonista, ma a volte il narratore, che almeno per convenzione è un passo più vicino al suo creatore, parla con la sua propria voce. Si basa su un concetto nuovo che non era presente in Jean Santeuil: l'oggetto materiale. In À la recherche du temps perdu l'oggetto materiale assume rilievo su diversi piani: nella teoria della memoria involontaria, nella descrizione di Proust di ciò che comporta l'arte dello scrittore, e nell'effettiva pratica poetica di "Combray".

Quando Proust introduce in "Combray" la memoria involontaria, attribuisce all'oggetto materiale un ruolo chiave. Mentre in Jean Santeuil sottolinea l'identità tra una sensazione presente e una passata, in À la recherche du temps perdu sottolinea l'importanza degli oggetti (objets) o delle cose (choses) nel riportare il passato. La nozione che l'oggetto materiale è custode del passato emerge già nel Carnet de 1908, dove Proust annotava: "Cult of the physical object that is a living trace under which there is the breath of the past".[33] In "Combray" scrive poi: "The past is hidden... in some material object (in the sensation which that material object will give us)".[34] Nel paragrafo precedente a questo cita con approvazione una credenza celtica: "I feel that there is much to be said for the Celtic belief that the souls of those whom we have lost are held captive in some inferior being, in an animal, in a plant, in some inanimate object, and thus effectively lost to us until the day (which to many never comes) when we happen to pass by the tree or to obtain possession of the object which forms their prison. Then they start and tremble, they call us by our name, and as soon as we have recognised their voice the spell is broken" (43–44; 47). Dove Proust abbia trovato questo affascinante frammento di tradizione (se davvero lo ha trovato) non è chiaro, ma tale particolare versione dell'idea che gli oggetti nascondono il passato richiama, con la menzione degli alberi, la prima strofa del famoso sonetto di Baudelaire “Correspondences”:

« La Nature est un Temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L'homme y passe à travers des forêts de Symboles
Qui l'observent avec des awares familiers. »
(Charles Baudelaire, Oeuvres complètes, 1975)

La discussione di Proust sul ruolo dell'oggetto materiale in "Combray" costituisce il prologo dell'episodio della madeleine magica. Anche la madeleine è una novità in À la recherche du temps perdu; non ha paralleli in Jean Santeuil. La madeleine è, ovviamente, un oggetto materiale, anche se sul punto di dissolversi nel gusto: il gusto della madeleine, inzuppata nel tè, evoca notoriamente “the whole of Combray and its surroundings” (47; 51).

In Le Temps retrouvé Proust riprende l'idea che gli oggetti materiali sono pieni di significati nascosti – significati che hanno a che fare, per così dire, con le avventure passate degli oggetti. Dopo aver raccontato la caterva sorprendente di impressioni sensoriali fortuite che lo riportavano al passato mentre si dirigeva verso il ricevimento dei Guermantes, il narratore allude all'idea mistica che gli oggetti conservano qualcosa di chi le osserva: "Certain people, whose minds are prone to mystery, like to believe that objects retain something of the eyes which have looked at them, that old buildings and pictures appear to us not as they originally were but beneath a perceptible veil (voile sensible) woven for them over the centuries by the love and contemplation of millions of admirers".[35] Si è tentati di ipotizzare che questo brano possa essere stato all'origine del famoso concetto di oggetto d'arte auratico di Benjamin, soprattutto perché lo cita nel suo saggio “Über einige Motive bei Baudelaire” (“Su alcuni motivi in Baudelaire”).[36] Il narratore proustiano, tuttavia, dichiara che l'idea è una chimera valida solo in un senso, cioè che l'oggetto è importante per noi, perché è capace di riportarci il nostro sé passato. Prosegue: "This fantasy, if you transpose it into the domain of what is for each one of us the sole reality, the domain of his own sensibility, becomes the truth. In that sense and in that sense alone..., a thing which we have looked at in the past brings back to us, if we see it again, not only the eyes with which we looked at it but all the images with which at the time those eyes were filed. For things — and among them a book in a red binding — as soon as we have perceived them are transformed within us into something immaterial, something of the same nature as all our preoccupations and sensations of that particular time, with which, indissolubly, they blend." Secondo questa spiegazione, l'oggetto materiale assorbe i nostri processi mentali quando si trova nelle nostre vicinanze. Diventa così la testimonianza immutabile di uno stato dell'essere che ci siamo lasciati alle spalle da tempo, la rappresentazione concreta di pensieri ed emozioni superati. Quando lo incontriamo di nuovo, è capace di evocare in noi il nostro stato d'animo passato. Questo è come dire che ricordiamo attraverso le cose. Proust non invoca le leggi dell'associazione delle idee - formula la sua proposizione in termini puramente poetici, non tecnici - ma sembra evidente che il trasferimento dei processi mentali alle cose che descrive è un esempio di spostamento della memoria e avviene a causa della vicinanza (contiguità) della persona alla cosa.

Ritratto di George Sand, di Thomas Sully (1826)

“Un libro con la rilegatura rossa” è l'esempio di Proust. L'immagine richiama quella simile nella poesia di Rilke “Erinnerung” (Memoria), dove la presenza fisica dei libri stimola le fantasticherie e riporta un ricordo di cruciale importanza al "du" a cui Rilke si rivolge. Rilke lascia all'immaginazione del lettore il perché la presenza dei libri sia importante per il recupero della memoria. Il narratore proustiano, al contrario, identifica il libro che trova nella biblioteca di Guermantes come François le Champi di George Sand. Si tratta di un libro che la madre del narratore gli ha letto da bambino e che per lui è carico di importanti associazioni. In un precedente articolo, “Journées de lecture”, pubblicato con il titolo “Sur la lecture” nel 1905, Proust insisteva sullo straordinario potere dei libri di evocare ricordi. Egli sostiene che i libri risvegliano in noi la memoria non di ciò che è in essi, ma delle circostanze in cui li leggiamo. Sostenere questa argomentazione sui libri sembra controintuitivo, dal momento che un lettore è presumibilmente assorbito dal suo libro e quindi disattento a ciò che lo circonda. Ma forse è questo il punto di Proust: la disattenzione favorisce la ritenzione. Così Benjamin, che richiama l'affermazione di Freud secondo cui ciò che lascia una traccia di memoria non diventa cosciente, interpreta la “mémoire involontaire” di Proust nel suo saggio “Über einige Motive bei Baudelaire”. In questo senso, le tante ore piacevoli trascorse leggendo il libro permettono all'ambientazione di entrare nella memoria proprio perché non le prestiamo attenzione. Ma nel caso di François le Champi, un libro che è stato personalmente significativo per il narratore, sembra più probabile che l'importanza emotiva del libro abbia fatto sì che l'ambiente circostante si fissasse nella sua memoria e che la sua esperienza rientri nella categoria del potenziamento della memoria dovuto ad eventi emotivamente consequenziali documentati dagli psicologi contemporanei. In un'analisi affascinante, Julia Kristeva mostra che la madeleine aveva per Proust un significato sovradeterminato: suggeriva l'amore.[37] È necessaria poca analisi per affermare che gli altri oggetti materiali che riportano il protagonista al passato, come i biancospini che rimandano all'infanzia in À l'ombre des jeunes filles en fleurs e questo libro dalla rilegatura rossa, sono carichi di emozione.

Le “cose” aiutano a spostare la nozione proustiana di “essenze” verso una teoria della costruzione dell'opera d'arte. Il filo del pensiero narrante qui è elaborato e sarà necessario seguirlo attentamente. Nella teoria della creazione artistica che presenta in Le Temps retrouvé, egli invoca le cose (“choses”) nel contesto della sua discussione sull'essenza, ma sempre nella frase “essence des chooses”. Quindi potrebbe non significare necessariamente solo oggetti materiali, ma potrebbe concepibilmente significare anche stati più generali. Come già notato, il senso del narratore riguardo alla coincidenza tra passato e presente, a cui danno origine le impressioni sensoriali fortuite, risveglia in lui un senso di atemporalità. Egli attribuisce questo senso di atemporalità a un attributo della “chose”, la sua “essenza permanente” che, solitamente nascosta, si rivela (“l’essenza permanente e abitualmente nascosta delle cose”).[38] Egli sostiene che l'io che rinasce in lui durante questi momenti privilegiati, cioè l'io liberato dall'ordine del tempo, si nutre di queste essenze. Il narratore è qui intento a convertire la gioia passeggera suscitata dalla memoria involontaria in gioia duratura che porterebbe la realizzazione della sua prima ambizione: la creazione di un'opera d'arte. Si affretta verso una formulazione della sua teoria dell'arte. Tuttavia, bisogna ammettere che lo fa in un modo che ricorda l'attraversamento di un ruscello profondo e rapido saltando da una pietra traballante all'altra. In primo luogo, come si è visto, egli passa dai sentimenti estatici del sé che sperimenta la memoria involontaria all'idea delle “essenze delle cose” – forse perché sembra un argomento più degno, più pesante, più filosofico su cui fondare un'estetica seria. discussione. Nascoste nelle impressioni, nei ricordi e nelle sensazioni, egli prosegue, ci sono “leggi e idee”, che è compito dello scrittore scoprire: "The task was to interpret the given sensations as signs of so many laws and ideas, by trying to think — that is to say, to draw forth from the shadow — what I had merely felt, by trying to convert it into its spiritual equivalent. And this method, which seemed to me the sole method, what was it but the creation of a work of art?" (457; 273). L'“Essenza” è la pietra più scivolosa. Dapprima il narratore la usa per designare la comunanza tra passato e presente (450; 273), come fa Proust in Jean Santeuil, una comunanza che è essa stessa “fuori dal tempo”. Allora diventa "l'essenza permanente delle cose" (451; 264). Quindi, nella frase sopra citata, “essenza” sembra trasformarsi nel concetto di “leggi e idee”. Più avanti nel testo il narratore parlerà dell'"essenza del passato" che le cose contengono (464; 2264). E infine il narratore ritorna al suo concetto originale, “le essenze comuni alle sensazioni del passato e del presente” (477; 303). Ci vuole una grande dose di immaginazione empatica per trasformare l'“essenza”, come fa Deleuze, nella pietra angolare stabile dell'edificio artistico di Proust.

Il passo finale nel percorso del narratore verso la formulazione di una teoria dell'arte è il passaggio dal legame tra memoria, cose ed essenze, a una nuova equazione che lascia fuori la memoria. È semplicemente la sensazione che qualcosa sia “nascosto” nelle cose che costituirà la base dell'arte. Il narratore proustiano è governato dal fascino del mistero e dal desiderio di scoprire ciò che è nascosto. Per lui l'ovvio è banale, il nascosto e inaccessibile è vero. Così, "in another fashion certain obscure impressions, already even at Combray on the Guermantes way, had solicited my attention in a fashion somewhat similar to these reminiscences, except that they concealed within them not a sensation dating from an earlier time, but a new truth" (mio corsivo).[39] Il narratore ricorda poi gli oggetti di Combray che gli davano il senso di geroglifici in attesa di essere decifrati. Gli oggetti che enumera sono infatti oggetti materiali: una nuvola, un triangolo, una guglia di chiesa, un fiore, una pietra (457; 273). Nelle sezioni successive a “Combray”, il romanzo proustiano si occupa meno di oggetti che di psicologia e società, e quindi ci si chiede se ciò che Proust chiama “objet matériel” nel suo volume finale (457; 273) non sia la sua abbreviazione per tutti i tipi di stati di cose, un caso più semplice che usa a scopo illustrativo. Eppure il testo stesso di “Combray”, come il resoconto di Le Temps retrouvé, è molto incentrato sugli oggetti materiali.

Nel racconto di Proust su come il suo protagonista diventa artista, gli oggetti che lo colpiscono come “segni” di qualcosa di nascosto gli sembrano simili a oggetti che innescano ricordi involontari.[40] Entrambi producono un sentimento di felicità (445; 255–256), entrambi esigono di essere interpretati (457; 273). Ritiene importanti nella genesi dell'opera d'arte sia gli accessi della memoria involontaria che la decifrazione dei “segni” degli oggetti. Ma nonostante Proust stabilisca un'ampia equivalenza tra i due e non riconosca alcuna differenza significativa tra loro, è quest'ultimo e solo quest'ultimo che conduce a un metodo artistico. Proust chiama questo metodo "metafora".

Alcune pagine dopo, il narratore formula, come in una parentesi nel contesto di una polemica contro il realismo, la sua tanto citata teoria della tecnica: "La vérité ne commencera qu’au moment où l’écrivain prendra deux objets différents, posera leur rapport, . . . et les enfermera dans les anneaux nécessaires d’un beau style. Même, ainsi que la vie, quand en rapprochant une qualité commune à deux sensations, il dégagera leur essence commune en les réunissant l’une et l’autre pour les soustraire aux contingences du temps, dans une métaphore".[41] La metafora è infatti la tecnica dominante di Proust nella realizzazione dell'intera Recherche. La metafora implica discernere una comunanza, o per usare un termine tecnico, il tertium comparationis, tra due cose. Quando Proust parla di discernere un “qualcosa” nascosto dietro un “segno”-oggetto, è facile vedere che i due sono legati da un tale “tertium”. In una delle bozze di “Combray” Proust chiarisce che la sua ricerca sull'essenza del fior di biancospino si sarebbe risolta trovandone la giusta metafora (R I: 862). Così Proust scrive in “Combray” che ciò che si nasconde dietro i campanili è "qualcosa di analogo a una bella frase".[42]

Al contrario, è difficile vedere come la metafora possa rappresentare l'esperienza di recupero del passato attraverso la memoria involontaria. In effetti Proust non ci mostra mai come ciò potrebbe avvenire, non ci dà mai un esempio. Infatti le resurrezioni del passato non comportano il confronto di due termini. Il passato e il presente hanno una comunanza, un gusto, un odore o un'altra sensazione, ma questa comunanza non risulta dal confronto; passato e presente sono incomparabili. Nei recuperi del passato attraverso la memoria involontaria, lo spunto richiama una sensazione passata, che poi funziona come una metonimia, in quanto riporta altri elementi della scena passata a chi ricorda gratificato. Ad esempio: "The napkin which I had used to wipe my mouth had precisely the same degree of stiffness and starchedness as the towel with which I had found it so awkward to dry my face as I stood in front of the window on the first day of my arrival at Balbec, and this napkin now, in the library of the Prince de Guermantes’s house, unfolded for me — concealed within its smooth surfaces and its folds — the plumage of an ocean green and blue like the tail of a peacock".[43] Oppure la formulazione di Proust in Albertine disparue: "From the sound of pattering raindrops I recaptured (m’était rendue) the scent of the lilacs at Combray; from the shifting of the sun’s rays on the balcony the pigeons in the Champs-Elysées; from the muffling of sounds in the heat of the morning hours, the cool taste of cherries; the longing for Brittany or Venice from the noise of the wind and the return of Easter".[44] Proust scopre che lo spunto funziona per analogia con una sensazione passata, così che il passato sembra nascosto nello spunto. Ma le stesse sensazioni analogiche non producono metafore. Per quanto affascinanti siano sotto altri aspetti, quindi, i momenti di memoria involontaria sono terreno sterile per la metafora.[45] Mentre un post-freudiano potrebbe pensare che la memoria stessa sia governata da processi simili a sostituzioni retoriche, inclusa la metafora, le resurrezioni proustiane del passato sono, così come le presenta, non confuse, condensate o spostate. La metafora non è latente nella memoria, perché la memoria non è tropologica ma rappresentativa; è un'esatta resurrezione del passato. Né la metafora, come strategia di evocazione artistica, nasce dal recupero attraverso la memoria. La metafora trova invece il suo vero sostegno nelle “cose”.

In un'importante innovazione rispetto a Jean Santeuil, in À la recherche du temps perdu Proust lascia che la memoria involontaria evochi l'infanzia. Il legame tra memoria involontaria e infanzia – il suo narratore addenta la madeleine e gli sovviene “tout Combray” – appare indissolubile: non solo è la prima esperienza narrata di memoria involontaria a riportare alla mente l'infanzia, ma “Combray” è l’unico luogo in À la recherche du temps perdu dove Proust fa affermare al suo narratore che la memoria involontaria gli fornisce enormi quantità di materiale. Infatti il narratore scrive che i suoi ricordi di Combray prima di assaggiare la madeleine erano strettamente circoscritti dall'importantissimo episodio del bacio della madre, che illuminava come un riflettore le parti della casa che costituivano la scena di quel dramma, ma lasciava tutto il resto nell'oscurità. Ciò che descrive è simile a quello che oggi viene chiamato “tunnel memory”; è un modo tipico di ricordare un evento traumatico.[46] Finché la memoria involontaria non lo riporta alla mente, vuole farci credere che il resto della sua infanzia, l'ampio tessuto di luoghi abituali e di avvenimenti quotidiani, non fosse stato vivido nella sua mente.

Reynaldo Hahn fotografato da Nadar, 1898

Ma forse dovremmo leggere Proust controcorrente e separare le tre cose che egli fonde insieme: memoria, infanzia e metafora. Se è così, abbiamo tre componenti: 1 — un inno alla memoria involontaria; 2 — una récit d’enfance consistente nel ritratto di un'infanzia idilliaca nei tradizionali termini nostalgici che erano ancora di moda ai tempi di Proust; e 3 — metafora come tecnica. Abbiamo appena visto che il collegamento che Proust stabilisce tra memoria e metafora può essere facilmente disgregato. Allo stesso modo, la memoria involontaria e l'infanzia possono essere immaginate come separate l'una dall'altra, se non altro perché non sempre sono state unite. Jean Santeuil contiene infatti molti dettagli sull'infanzia del protagonista, e Jean a volte incontra sensazioni che lo riportano alle scene della sua infanzia. Una di queste è l'episodio in cui Jean sente le campane del Faubourg Saint-Germain che lo riportano alla sua infanzia;[47] un'altra è l'episodio in cui una mosca che ronza fa rivivere “i bei giorni di Illiers”.[48] Ma l'episodio della memoria involontaria che riceve più attenzione in Jean Santeuil – perché Proust lo segue con la sua discussione concettuale sui ricordi provocati da un incontro casuale con una sensazione, sulla loro importanza per il poeta e sul loro speciale status temporale – non è un ricordo dell'infanzia o di Illiers, ma piuttosto del litorale della Bretagna, che visitò con Reynaldo Hahn nel 1895, quando aveva ventiquattro anni. L'episodio stesso della madeleine compare in un contesto non fittizio nell'inverno 1908-1909 (la madeleine qui è un "pain grillé"), ma è l'ultimo episodio di memoria involontaria che Proust registra ed è stato quindi ritenuto essere l'episodio ultimo da lui vissuto, postdatando gli episodi che ricorda in Le Temps retrouvé, come quello dei selciati a Venezia.[49] Perché Proust fonde la memoria involontaria con il recupero dell'infanzia in À la recherche du temps perdu? Perché ha lasciato che la prima esperienza cruciale della memoria involontaria, l'“apriti sesamo” alla realizzazione del suo desiderio di diventare scrittore, riportasse la sua infanzia sotto forma di “tutta Combray”?

Se il progetto di Proust era quello di raccontare la vita del suo protagonista sotto il segno della memoria involontaria, c’è una ragione pratica e prosaica per collegare memoria involontaria e infanzia: la vita inizia con l'infanzia. Inoltre, Proust ricordava con affetto la sua infanzia, come chiarisce in Jean Santeuil. Il suo biografo Jean-Yves Tadié è convinto che Proust fosse estremamente felice a Illiers: "Every moment of country life, every minute spent at Illiers, filled him with radiant happiness".[50] La “scoperta” della propria infanzia attraverso la memoria involontaria ben si armonizzava con la gioia che, secondo Proust, la memoria involontaria sprigionava. Proust sentiva un'affinità con l'infanzia in generale, come testimonia il suo amore per le autobiografie infantili di Daudet, France e Loti. Ma forse la cosa più importante di tutte è che collegare la memoria involontaria all'infanzia offriva un vantaggio strategico di cui Proust forse non era nemmeno consapevole: aumentava il valore della scoperta della memoria involontaria giocando sulla contemporanea idealizzazione nostalgica dell'infanzia. Ai tempi di Proust continuava a fiorire il "mito dell’infanzia", secondo il quale i bambini erano innocenti, vicini alla natura e dotati di visione incontaminata e creatività poetica. Pertanto, “ho trovato la mia infanzia” potrebbe facilmente suggerire “ho trovato la mia creatività”, e in effetti, in “Combray II” Proust suggerisce proprio questa connessione. Colloca quindi il suo nuovo progetto sulla base di un tropo romantico culturalmente accettato. Egli colloca l'infanzia del suo protagonista nella natura, vale a dire in un villaggio di campagna, in modo consono al mito romantico, preferendo combinare "Combray" con le sue vacanze trascorse a Illiers e Auteuil piuttosto che ambientare l'infanzia del suo protagonista a Parigi, dove lui stesso trascorreva il resto dell'anno. Così la memoria involontaria “trovò” l'infanzia, e Proust scrisse un'opera che superò i risultati di France e Loti, un idillio infantile i cui dettagli precisi furono messi a fuoco brillantemente dalla lente magica della memoria involontaria – e dall'abilità dell'autore nel costruire metafore. Un capolavoro, insomma.

Immagino che ci fosse qualcosa nell'importanza dell'oggetto materiale per la memoria e anche nella sua importanza per il metodo artistico (metafora) che suggeriva a Proust l'infanzia come il perfetto trampolino di lancio per i suoi ricordi. L'affinità per gli oggetti e la tendenza a vedere una cosa nell'altra è, come vedremo più in dettaglio, caratteristica della sensibilità del piccolo Marcel. Non è improbabile supporre che questi modi apparentemente tipicamente “infantili” di comprendere il mondo fossero caratteristici del modo di pensare di Proust da bambino. In effetti, l'infanzia potrebbe aver fornito a Proust un legame associativo (in mancanza di un legame concettuale rigoroso) tra memoria e metafora. In questo modo la memoria involontaria, l'infanzia e la metafora, che questo saggio ha appena smontato sperimentalmente, possono essere ricollegate l'una all'altra. L'infanzia sembra fornire il plausibile anello mancante che, attraverso le sue forti associazioni con l'oggetto materiale, unisce i concetti di memoria involontaria e metafora così come Proust li sviluppa in Le Temps retrouvé.

È possibile estendere questo circolo di idee interconnesse — memoria-oggetto materiale-infanzia-metafora — che appare operativo nell'ispirazione di Proust per “Combray” ad includere la natura. Proust sfrutta il legame natura-infanzia, che ai suoi tempi era diventato da tempo convenzionale, in “Combray”. Ma anche in precedenza, la natura conservava un residuo significato romantico nei suoi scritti. Egli stabilisce in Jean Santeuil un nesso tra natura, memoria e poesia, dichiarando che la natura è strumento per il recupero del passato e guida sicura per il poeta: "So well does nature know where what we must express is found, and carries us there unerringly, thus exemplifying a truth which may best be put by saying that the poet works better in the country than the town, is more inspired by solitude than by society... Nature knows where these truths lie: only she knows it — only she, by making us feel again what once we felt before, leading us straight to some point in the fabulous world of memory which has become the world of truth".[51] Questo elogio della saggezza della natura fa in realtà scivolare, in apparenza spontaneamente, il narratore di Jean Santeuil in un ricordo dell'infanzia: un ricordo generico della madre, delle lenzuola bianche, di un piccolo giardino, e così via. In Le Temps retrouvé, in modo simile, si vede la natura incoraggiare la visione artistica e di fatto promuovere la tecnica della metafora: "Had not nature herself— if one considered the matter from this point of view — placed me on the path of art, was she not herself a beginning of art, she who, often, had allowed me to become aware of the beauty of one thing only in another thing...?"[52] Sebbene in realtà la natura esacerbasse la sua asma, Proust conservava tuttavia in essa una fede astratta.

Roger Shattuck osserva che la differenza tra Proust e Wordsworth è enorme: Wordsworth è diretto, mentre Proust interpone delle cose tra sé e la realtà.[53] Il narratore infatti concentra una straordinaria quantità di attenzione sulle cose di “Combray”. Ma bisogna comunque insistere sul fatto che Proust si colloca nella tradizione di Wordsworth. Per Proust la gioia è legata ai ricordi dell'infanzia, e i ricordi felici dell'infanzia si trovano nella natura. Non solo le cose ma anche il luogo è di fondamentale importanza. Le passeggiate nell'ambiente naturale attorno a Combray danno luogo alla dichiarazione più eloquente del narratore sull'importanza suprema di questi ricordi per l'adulto, sul loro ruolo fondativo per la propria psiche, sulla loro affermazione esclusiva della realtà genuina e sulla loro capacità di portare felicità: "But it is pre-eminently as the deepest layer of my mental soil, as the firm ground on which I still stand, that I regard the Méséglise and Guermantes ways. (Mais c’est surtout comme à des gisements profonds de mon sol mental, comme aux terrains résistants sur lesquels je m’appuie encore, que je dois penser au côté de Méséglise et au côté de Guermantes.) It is because I believed in things and in people while I walked along those paths that the things and the people they made known to me are the only ones that I still take seriously and that still bring me joy. Whether it is because the faith which creates has ceased to exist in me, or because reality takes shape in the memory alone, the flowers that people show me nowadays for the first time never seem to me to be true flowers".[54] Questa dichiarazione suona decisamente wordsworthiana. Proust implica che il bambino sia il sé migliore del suo protagonista, come anche il suo sé creativo e poetico, e che il recupero del “bambino interiore” sia cruciale per la formazione del poeta. Come insisteva Wordsworth, si è verificato un declino;; ma può esserci anche un ritorno; perché fortunatamente sussiste una continuità tra l'infanzia e l'età adulta del poeta. Un lettore attento di Proust si chiede, tuttavia, come queste dichiarazioni alla fine di “Combray II”, che implicano che i modi di Méséglise e Guermantes non sono mai stati dimenticati, si concilino con la costruzione proustiana di uno scenario del non ricordo dell'infanzia per il suo protagonista alla fine di "Combray I". In “Combray I” lo status dimenticato dell'infanzia non sembrava particolarmente inverosimile, dato ciò che il lettore sa sull’amnesia infantile. Tuttavia, la sua dichiarazione finale sulla fondazione del suo terreno mentale aumenta il sospetto del lettore che Proust abbia esagerato il grado di amnesia del suo protagonista allo scopo di aumentare il valore della sua involontaria scoperta della memoria. Perché in uno scenario in cui il narratore non riesce a ricordare la sua infanzia, periodo più importante della sua vita come futuro scrittore, la memoria involontaria gioca un ruolo salvifico.

III[modifica]

Marie de Benardaky nel 1893 (foto di Paul Nadar)

"Combray" fonde la teoria della memoria involontaria di Proust, esposta nella prima delle sue due sezioni, con l'elaborazione artistica di incidenti infantili, alcuni dei quali almeno di origine autobiografica — che è l'attività principale del seconda sezione. È grazie alla loro elaborazione artistica molto più che alla loro origine autobiografica che questi episodi dipingono un quadro straordinario e vivido del mondo del bambino.

“Combray II” è un'opera altamente costruita. Proust non racconta tanto la storia della sua infanzia quanto la sfrutta. Rispetto al più schiettamente autobiografico Jean Santeuil, “Combray II” è una composizione letteraria raffinata in cui l'abilità artistica e l'effetto hanno la precedenza sull'aderenza ai fatti. Così la città immaginaria di Combray, scenario dei ricordi d'infanzia del narratore, è composta da due luoghi: Illiers, dove i Proust andavano durante le vacanze di Pasqua e parte dell'estate e soggiornavano presso la sorella di suo padre, Elisabeth Amiot; e Auteuil, dove viveva il prozio materno di Marcel. (Illiers, che è riconoscibilmente rappresentato nell'immaginario Combray, fu ribattezzato Illiers-Combray in onore di Proust nel 1971, centenario della sua nascita.) Proust sopprime il fratello minore Robert, rende antisemita il nonno paterno mentre invece sua madre era ebrea, e cancella i cugini e uno zio che figura in Jean Santeuil. Trasferisce in campagna la bambina che in realtà adorava a Parigi, Marie de Benardaky, e la chiama Gilberte. Il sé immaginario di Proust in entrambe le opere è attratto solo dalle ragazze. In “Combray II” Proust sposta la propria omosessualità sulle donne; la figlia del compositore Vinteuil e la sua amica più grande assorbono il tema. Infine, come abbiamo visto, è improbabile che nella vita reale di Proust il sapore di una madeleine lo riporti a “tutta Combray”. L'esperienza più importante della memoria involontaria di Jean Santeuil non gli aveva riportato affatto l'infanzia. L'"episodio madeleine" non sempre coinvolgeva una madeleine. In uno dei primi schizzi di Contre Sainte-Beuve, il ricordo delle "estati trascorse nella casa di campagna" è ispirato da una fetta biscottata piuttosto che da una madeleine ed è la sua vecchia cuoca piuttosto che sua madre a offrirgliela.[55]

Anche le bozze di Proust per “Combray II” sono, come Jean Santeuil, più dettagliate e più vicine ai fatti della vita di Proust rispetto all'opera pubblicata. Una versione del 1909 menziona lo zio e un cugino (R I: 819, 825), e il curatore editore ci dice che contiene un fratello (R I: 1064). Non sorprende che le bozze siano anche meno retoriche e stilisticamente meno artistiche rispetto alla versione finale pubblicata, in cui Proust non solo ha riorganizzato e modificato, ma ha anche ritagliato il suo testo e aggiunto metafore.[56] Mentre Proust focalizza “Combray II” a volte attraverso il narratore e a volte attraverso il bambino protagonista, le bozze contengono lunghi passaggi costituiti dalle riflessioni del narratore, in modo che appaiano molto più orientate verso la prospettiva dello stesso.

In Jean Santeuil Proust ci racconta quanti anni ha il suo personaggio Jean in certi frangenti: sette anni nell'episodio del bacio della madre e tredici anni quando si innamora di Marie. In “Combray” sopprime ogni riferimento all'età. Nella misura in cui ha attinto ai ricordi autobiografici specificamente di Illiers per “Combray”, possiamo concludere che tutti i ricordi provengono da prima del decimo compleanno di Marcel o dall’età di quindici anni. Dopo che Marcel ebbe un grave attacco d'asma all'età di nove anni, la famiglia smise di andare a Illiers. Tuttavia tornarono una volta nell'autunno del 1886, quando aveva quindici anni, in occasione della morte di sua zia. I ricordi dell'età di quindici anni sono chiaramente identificabili in “Combray” perché il narratore parla dell'autunno (mentre la maggior parte di “Combray” si svolge a maggio) e delle formalità legali di cui i suoi genitori erano preoccupati. L'età in cui hanno avuto luogo i primi eventi dell'infanzia è ulteriormente offuscata dal fatto che il narratore preferisce narrare azioni abituali piuttosto che episodi specifici e, in alcuni punti, lascia confusa la cronologia di Combray. Così l'incidente dello zio Adolphe a Parigi, quando il protagonista incontra la dama in rosa, risale ad “alcuni anni” nel passato.[57] All'epoca di questo incidente dello zio Adolphe, il protagonista è infatuato delle attrici, sa cos'è una cortigiana (76; 83), e frequenta la scuola. Tuttavia, ci si immagina un po’ più giovane il bambino che non va più nella camera dello zio a Combray.[58] La biografia in questo caso non aiuta: a causa della sua salute fragile, Proust venne istruito a casa da precettori e frequentò il liceo di Parigi solo a partire dall'età di undici anni.[59] Il protagonista di “Combray” non è però un bambino molto piccolo, perché il narratore allude al fatto che gli fu detto di dare a Françoise i soldi di Capodanno "nella mia prima infanzia, prima che andassimo a Combray" ("mon enfance, avant que nous allions à Combray" [52; 57; mio corsivo]). Probabilmente, il protagonista è un adolescente precoce dall'incidente dello zio Adolphe in poi.

Principalmente il narratore ci racconta più volte qual era la situazione e cosa succedeva. Come molti lettori hanno sottolineato, il tempo verbale francese predominante è l'imperfetto, che denota un'azione duratura o ripetuta. Ci viene dato un quadro dei ritmi apparentemente eterni della vita a Combray. L'abituale assume un'importanza esagerata nella mente dei membri della famiglia. Ad esempio, è una continua fonte di allegria per loro che i visitatori non si rendano conto che la famiglia il sabato ha l'abitudine di cenare prima. Anche le conversazioni che portano tutte le caratteristiche di essere uniche nel loro genere, come l'interrogatorio di Léonie a Françoise riguardo a uno strano cane, sono narrate in modo imperfetto, facendole sembrare come se fossero semplicemente un esempio del tipo di conversazione che ha avuto luogo nel corso del tempo. Alcuni eventi singolari scandiscono questi ritmi abituali fondamentali; sono introdotti con un “un giorno”, o “una domenica”, e sono narrati al passé simple o al past perfect (“M. Vinteuil était venu”, R I: 111). Questi sono gli eventi più drammatici, tra cui, ad esempio, l'incontro con la dama in rosa, l'isolamento della sguattera, il primo incontro del protagonista con Gilberte, la sua avventura come voyeur di Mlle Vinteuil e della sua amica lesbica, e il suo primo sguardo di Mme de Guermantes in chiesa. Spesso coinvolgono l'amore o il sesso, questioni che presumibilmente erano emotivamente cariche per il protagonista. Inseriti come sono nel quadro dell'azione abituale, questi eventi singolari danno l'effetto di pietre in una scena.[60] Da soli non producono una narrazione coerente quando astratti da quel quadro, e essendo vaghi “un giorno” o “una domenica”, resistono ai tentativi di scovare il loro ordine cronologico.

Gli schemi del ricordare in “Combray II” hanno molto in comune con quelli che secondo gli psicologi sono caratteristici del ricordo normale. Cioè, gli eventi ripetuti vengono conservati meglio degli eventi singoli, e gli eventi emotivamente significativi sono particolarmente resistenti all'oblio. La verosimiglianza psicologica del ricordo del narratore è un altro fattore che mette in dubbio la premessa di apertura del testo secondo cui un tipo speciale di memoria, la “memoria involontaria”, ha riportato alla memoria “tutta Combray”.

Proust non solo cambia e oscura i fatti autobiografici, ma in “Combray II” si allontana anche dalle convenzioni dell'autobiografia per avvicinarsi a quelle della finzione/fantasia. Sebbene Proust scriva in prima persona, il suo narratore in prima persona si prende le libertà di un narratore in terza persona comuni ad un'opera di fantasia: sa cosa è successo nelle scene in cui lui stesso non era presente e può leggere nella mente di altri personaggi, come quello di Léonie.[61] La decisione di Proust di scrivere in prima persona alimenta l'ambiguità dello status del testo. Si tratta di un'autobiografia o di un romanzo in prima persona? Aggiunge all'incertezza del lettore il fatto che Proust non dia alcun nome al suo protagonista in “Combray II”. Mantiene il suo anonimato basilare per tutta la Recherche, sebbene lasci cadere il nome "Marcel" in La Prisonnière.[62] I critici contemporanei di Proust generalmente lo chiamano “il protagonista” piuttosto che “Marcel”, e tale sarà la pratica anche qui.

IV[modifica]

Proust è famoso per le sue metafore. Una delle qualità più distintive di “Combray II” è l'importanza dei tropi del confronto, della metafora e della similitudine. Proust giustappone l'ironia narrativa dell'adulto con isole sparse di confronti ricchi di immagini che rappresentano la passione del bambino.

Per la maggior parte del tempo – e questa è la parte del tempo che qui mi interessa – il narratore proustiano è in profonda e comprensiva collusione con il modo in cui vedeva e sentiva le cose da bambino. Ma a intervalli questo stato consonante di cose viene interrotto, e una pioggia di ironia narrativa inonda il racconto. La voce adulta e urbana si fa beffe del mondo borghese degli adulti, del mondo dell'ipocondriaca zia Léonie, delle ultra-educate prozie del ragazzo e della fedele serva Françoise, le cui perfezioni sono controbilanciate dalla sua spietatezza verso i suoi inferiori. L'effetto complessivo della presa in giro è gentile, ma il tono è inconfondibile. Inoltre, la voce adulta racconta cinicamente la straordinaria ingenuità del suo io più giovane, che, ad esempio, lo porta a spifferare ai suoi genitori di aver incontrato una signora vestita di rosa a casa di suo zio Adolphe dopo avergli fedelmente promesso il segreto. Suo padre e suo nonno hanno delle “dure parole” con lo zio, durante le quali il protagonista è così dispiaciuto per quest'ultimo che volta la testa dall'altra parte la prossima volta che lo vede per strada. Tutto ciò provoca una spaccatura permanente tra suo zio e la famiglia. L'ingenuo protagonista ripete anche alla sua famiglia il commento di Bloch secondo cui la sua prozia un tempo era una mantenuta, con risultati prevedibili.

Ma il tour de force di Proust nel rendere i ricordi dell'infanzia non sta nelle battute ironiche e divertite del suo narratore, ma nella sua rappresentazione del punto di vista del bambino. “Combray II” presenta un mondo di cose, visto con l'immaginazione di un bambino. Negli ampi tratti della narrazione in cui la prospettiva del narratore è in sintonia con la visione del bambino, il mondo dell'infanzia è evocato in misura sorprendente attraverso similitudini e metafore. Queste meritano uno sguardo più attento.

Due studiosi coscienziosi degli anni '60 contano e analizzano le “immagini” di Proust: Stephen Ullmann in The Image in the Modern French Novel: Gide, Alain-Fournier, Proust, Camus (1960) conta e analizza le “immagini” in Du côté de chez Swann, e Victor E. Graham in The Imagery of Proust (1966) conta e analizza le “immagini” dell'intera Recherche.[63] Ma nessuno dei due critici offre un conteggio o un'analisi separata delle “immagini” (o delle similitudini e delle metafore, che costituiscono un insieme un po’ più piccolo) specificamente in “Combray II”. Tuttavia tale conteggio è utile se si vuole avere un quadro chiaro di cosa viene confrontato con cosa. Il mio conteggio di tali similitudini e metafore in “Combray II” che Proust usa per rendere il mondo dell'infanzia, porta al totale di 268. Questo numero non include similitudini e metafore che compaiono nei dialoghi o sono altrimenti attribuite a personaggi specifici, come Swann o la madre. Inoltre non include similitudini o metafore esplicitamente attribuite al bambino protagonista. Omesso inoltre quello che il narratore sostiene essere il risultato delle sue attuali riflessioni sul passato, o che il narratore applica alla sua vita successiva. Escludo anche metafore e similitudini che ricorrono in frasi comuni (anche se ce ne sono poche nella prosa inventiva di Proust). In altre parole, il mio conteggio include solo i confronti che si verificano nella storia dell'infanzia del protagonista a Combray raccontata dal narratore, e quelli che sono "freschi" — cioè creati da Proust allo scopo di trasmettere il mondo della storia al lettore — non “consunti”. Il mio conteggio è conservativo. Se si contassero tutte le frasi in cui un aggettivo o un verbo suggeriscono fugacemente un'associazione metaforica, il numero sarebbe molto più alto. Contare ogni frase “comme” e ogni confronto implicito lo spingerebbe ancora più in alto. Così, in un paragrafo in cui un altro studioso conta ventotto paragoni, io ne conto sei: cinque similitudini e una metafora.[64] Graham commenta che in À la recherche du temps perdu nel suo complesso Proust usa un'alta percentuale di similitudini con metafore. Egli scopre che le similitudini rappresentano il 54% delle immagini di Proust e le metafore il 46%.[65] Il conteggio di queste figure retoriche in “Combray II” produce una percentuale di similitudini ancora più elevata: conto solo 80 metafore tutto compreso, contro 188 confronti espliciti.

Metafore e similitudini colpiscono più o meno a seconda che siano audaci o convenzionali, elaborate o concise, inventive o esplicative, immaginifiche o astratte. Le metafore di Proust coprono l'intera gamma da molto vistose a relativamente pallide. Contare le metafore è un affare scivoloso fin dall'inizio, e qualsiasi identificazione di metafore evidenti conterrà una misura di soggettività, ma detto questo, trovo che circa 170 metafore di Proust ardono intensamente nel tessuto del testo, e che queste cospicue metafore trattino principalmente, ma non esclusivamente, di similitudini. Certo, il mio iniziale conteggio prudente di metafore e similitudini era espressamente inteso a evitare un regresso infinito di metafore implicite; altrimenti, ci sarebbe un conteggio più elevato di metafore e un'ombreggiatura più lunga di metafore poco appariscenti nella fascia bassa.

Le notevoli metafore e similitudini che conto – metafore e similitudini attribuibili al narratore che servono a rendere più vivido per il lettore il mondo della storia – si distinguono per quattro qualità principali. In primo luogo, gli oggetti di confronto tendono a proliferare, a correre da una cosa all'altra. In secondo luogo, gli oggetti di confronto sono spesso metonimie degli oggetti confrontati. In terzo luogo, gli oggetti confrontati ("tenors") tendono nel corso del testo a riapparire come oggetti di confronto (“veicoli”). In quarto luogo, non solo gli oggetti confrontati, ma anche gli oggetti di confronto provengono da una sfera limitata, che, salvo poche eccezioni, non trascende i limiti della conoscenza del bambino.

Così, in primo luogo, Proust utilizza talvolta due o tre o più analogie, correndo da un'associazione all'altra, dove gli oggetti di confronto non sono correlati. Le foglie di tiglio con cui la zia prepara il tè "resembled the most disparate things, the transparent wing of a fly, the blank side of a label, the petal of a rose, which had all been piled together, pounded or interwoven like the materials for a nest".[66] Si può attribuire questo tipo di sequenza associativa di analogie all'esuberanza analogica dell'autore (o del narratore) o al tentativo proustiano di rendere la prospettiva del bambino. Preferisco dare a Proust il beneficio del dubbio e optare per quest'ultima lettura, cioè considerarlo un gesto artistico controllato, anche se ricorre anche altrove in À la recherche du temps perdu.[67] Il fatto che la frase di cui sopra sia stata ritagliata da una bozza molto più lunga ed elaborata dimostra tale controllo. La frase sembrerebbe focalizzata sul bambino; si vede all'opera l'immaginazione attiva e indagatrice del bambino. Il campanile della chiesa di Combray, dopo la messa, viene “baked golden-brown itself like a still larger, consecrated loaf (brioche), with gummy flakes and droplets of sunlight” (64; 70), per poi diventare la sera, nella frase successiva, “a brown velvet cushion thrust against the pallid sky” (64; 70). Così anche i lillà nel giardino di Swann sono minareti rosa, poi giovani huri (in continuazione del tema persiano), portanti “starry locks that crowned their fragrant heads” (134; 148); più avanti nella stagione (e due paragrafi più avanti nel testo), diventano alti lampadari color malva, schiuma e spuma.[68] L'immaginazione del bambino considera le cose non fisse, ma volatili e instabili. La stessa tecnica di trasformazione rapida delle metafore caratterizza la composizione infantile del protagonista, in cui descrive i campanili gemelli di Martinville e il campanile di Vieuxvicq visti durante un viaggio in carrozza verso e poi via da Martinville. Assomigliano a tre uccelli, poi a tre perni d'oro, a tre fiori dipinti nel cielo e a tre fanciulle in una leggenda (179; 198).

Non ti scordar di me

Proust usa metafore (in breve, d'ora in poi userò il termine anche per includere similitudini) in ogni occasione per descrivere la città, l'ambiente naturale e la gente di Combray, e soprattutto i luoghi, le cose e le persone che hanno avuto un grande impatto sul suo mondo infantile. Ma certe cose a Combray ispirano la metafora in modo particolare. Gigantesche calamite metaforiche sono le chiese, in particolare la chiesa nel centro di Combray, la cui ampia descrizione all'inizio di "Combray II" è costellata di metafore e, più avanti nel capitolo, di fiori, soprattutto di biancospino. Fiori e chiese costituiscono i due gruppi più numerosi tra gli oggetti confrontati (tenors).[69] Se si considerano solo le metafore più importanti, i fiori e le chiese assumono un'importanza ancora maggiore: ciascuno è responsabile di aver ispirato oltre il 20% di queste metafore nella descrizione proustiana della Combray della sua infanzia.[70] Soprattutto nel contesto della chiesa e dei fiori, una seconda tendenza si manifesta: Proust sceglie spesso i suoi oggetti di paragone in modo metonimico, cogliendo, per le sue metafore, associazioni suggerite da qualche attributo della oggetto confrontato. Non tutti gli oggetti di paragone vengono colti da lontano, come “brioche” o “cuscino” per “campanile”; alcuni sono raccolti da vicino, così che l'oggetto confrontato sembra essere penetrato o amalgamato nell'oggetto del paragone. Così la chiesa di Combray, essa stessa medievale, viene spesso paragonata ad altri oggetti medievali. Le vetrate sono come un arazzo logoro, i vetri somigliano a zaffiri giustapposti su un'immensa corazza; oppure assomiglia ad un abbagliante e dorato arazzo di nontiscordardimé in vetro. Oppure, poiché la chiesa è antica, la cavità di una tomba somiglia al letto di un fossile. In quanto luogo di culto, il suo campanile è un "dito di Dio",[71] e anche quando appare al protagonista come una "brioche", questa brioche è "consacrata" (bénie). Parimenti, per fare un esempio tratto dal mondo dei fiori, l'origine persiana dei suddetti lillà traspare negli oggetti di paragone, un minareto e le huri.[72] Gérard Genette in "Métonymie chez Proust" ha discusso di questa qualità metonimica della metafora proustiana, in particolare la predilezione di Proust per le analogie basate su rapporti di contiguità, non solo in “Combray” ma in tutto À la recherche du temps perdu.[73] Secondo Genette la sua pratica ha spesso lo scopo di suggerire l'armonia di un’ora, l'unità di un luogo.[74] L'uso da parte di Proust delle immagini e di tali metafore metonimiche in particolare produce un intrigante parallelo con i risultati della ricerca psicologica, che ci dice che le immagini vengono ricordate meglio e che la memoria è associativa.

Roman Jakobson

Nella retorica classica la "metonimia" è un tropo che sostituisce un significante con un altro ritenuto ad esso strettamente correlato. I manuali menzionano rapporti come quelli tra contenitore e contenuto, causa ed effetto, autore e opera, luogo e abitante, possessore e cosa posseduta, segno e cosa significata. Questo è il modo in cui uso il termine qui. Pertanto, se si dicesse “Washington” per “il governo degli Stati Uniti” o “Shakespeare” per “il libro scritto da Shakespeare” o “il bollitore sta bollendo” invece di “l'acqua nel bollitore sta bollendo”, questi sarebbero metonimie. Allo stesso modo, in “Combray”, “Medioevo” e “chiesa medievale”, “antico” e “chiesa antica”, e “Persia” e “lillà” hanno una relazione metonimica tra loro. È sulla base di questa relazione che Proust costruisce le metafore sopra elencate. Nella critica letteraria contemporanea circola però un’altra definizione di metonimia, resa popolare da Roman Jakobson, e cioè che la metonimia implica una sostituzione basata sulla contiguità. Per “contiguità” Jakobson intende le relazioni stabilite dal contesto. Quindi, per lui il romanzo realista, che divaga nei dettagli dell'ambientazione, è fondamentalmente metonimico, in contrasto con le opere romantiche e simboliste, che privilegiano la metafora.[75] La definizione classica di metonimia fa tacito appello alla logica e al consenso; ciò suggerisce che la stretta relazione tra la sostituzione del termine e il termine sostituito è ovvia, chiara a tutti. La definizione di Jakobson non contrasta questo appello (il romanzo realista non è una forma soggettiva), ma poiché viene utilizzato nella critica letteraria lo soggettivizza, consentendo che le metonimie siano basate su relazioni stabilite da contiguità fortuite peculiari del testo in questione, come le contiguità che percepisce l'eroe di un romanzo. Nathalie Buchet Rogers afferma in modo pratico: "Metonymy is bound up with associations based on chance and on the contingency of spatial or temporal contiguities".[76] Pertanto, “goccia” e “bicchiere pieno di liquido”, “rosa” e “giardino”, o “conchiglia” e “oceano” sarebbero in una relazione metonimica secondo entrambe le definizioni; ma secondo la definizione jakobsoniana, se all'eroe di un romanzo capitava di incontrare una rosa in un bidone della spazzatura, e il narratore costruiva una figura retorica basata su questa “contiguità” che permetteva alle proprietà della rosa di apparire nel bidone della spazzatura, questo conterebbe come metonimia. La definizione pseudo-spaziale della metonimia come “contiguità” ha portato a un boom della metonimia nella critica letteraria. Se si prende questo uso moderno della metonimia e lo si applica al piccolo mondo di “Combray”, l'insieme delle metafore ispirate alla metonimia in “Combray” aumenta notevolmente. La “brioche” a cui viene paragonato il campanile della chiesa di Combray diventa una metonimia, ad esempio, perché quando il protagonista è di fronte ad esso, la famiglia ordina al servitore di portare una “brioche”. Il “cuscino” a cui viene paragonato il campanile potrebbe essere letto anche come una metonimia, poiché così appare al protagonista la sera quando pensa di coricarsi.[77] Ripetutamente, i fiori diventano metonimie per le donne, e questo è in parte dovuto al fatto che le donne appaiono in contesti floreali nella trama della storia. La chiesa di Combray che sovrasta le case del paese si presenta come una pastorella circondata dalle sue pecore perché è una chiesa di un villaggio di campagna.

In terzo luogo, legato a questa infiltrazione è un fenomeno molto più straordinario. È la tecnica di Proust di costruire metafore circolari, piene, tautologiche, per cui un oggetto evoca un secondo oggetto che a sua volta evoca il primo oggetto. Un buon punto per iniziare la trattazione di queste è il lungo passaggio in cui, camminando lungo la via Méséglise, il protagonista vede una siepe di biancospino in fiore. Questa siepe di biancospino gli ricorda una serie di cappelle, ma una serie di cappelle che scompaiono sotto i fiori sui loro altari. I fiori gli ricordano le cappelle, ma queste cappelle a loro volta portano l'associazione dei fiori. Nel brano dei biancospini l'analogia con la chiesa continua: il sole sotto i biancospini proietta una luce a scacchi sul terreno “come se fosse appena passato attraverso una vetrata”.[78] Poi arriva un'altra manovra che consiste nel fare la spola dai fiori alla chiesa e di nuovo ai fiori: gli stami dei biancospini assomigliano alle modanature del solaio o ai montanti della vetrata, che si diffondono in carne bianca come fiori di fragola. Ora, il lettore di “Combray” ha visto per la prima volta dei biancospini nella chiesa di Combray, sull'altare. I biancospini, per il protagonista, sono associati alla chiesa, e questa associazione, dapprima di contiguità, diventa nel brano successivo metaforica. Chiese e biancospini sono sia contiguità sia metafore tra loro, sicché si realizza uno stretto intreccio, anzi quasi una fusione, tra la sfera ecclesiastica e quella floreale.[79]

Questo arazzo floreale-ecclesiastico è ulteriormente elaborato da una dimensione femminile molto rimarcata. Alla loro prima apparizione sull'altare, i biancospini vengono più volte collegati metaforicamente alle donne. Dapprima evocano la sposa: il loro fogliame è come uno strascico nuziale, i loro stami sono come un ricamo sottile e la loro fioritura è come il movimento della testa di una giovane ragazza vestita di bianco. Poi il protagonista ricorda che una ragazza, Mlle Vinteuil, era entrata in chiesa. Sotto l'influenza di lei, che nell'uso jakobsoniano è un'influenza metonimica, la sua visione dei fiori sull'altare cambia. Hanno chiazze color crema, come le sue guance — cioè non sono più di un bianco puro; diventano fragranti; e “tremano” come una siepe “esplorata da antenne viventi” — come gli stessi fiori all’aperto che vengono penetrati ed esplorati dagli insetti. I fiori rispecchiano i sentimenti del protagonista: l'apparizione di Mlle Vinteuil ha apparentemente suscitato sensazioni che hanno sessualizzato per lui i fiori.

Non sorprende quindi che, quando i biancospini ritornano sotto forma di siepe che delimita la tenuta di Swann accanto alla quale il protagonista cammina durante la sua passeggiata domenicale lungo la via Méséglise, questi biancospini incorniciano un incontro e formano una coppia metonimica, sempre nel senso jakobsoniano, con un'altra giovane ragazza, questa volta di cui si innamora perdutamente. Dopo che il ragazzo si è soffermato, interrogativo e ammirato, accanto alla siepe di biancospino bianco, suo nonno attira la sua attenzione su un cespuglio di biancospino rosa. Il narratore, concentrandosi sul protagonista, si entusiasma per la sua bellezza, che sembra addirittura superiore a quella del bianco. A metafora segue metafora: i fiori del biancospino rosa sono come pompon che ghirlandano il bastone di un pastore rococò, i loro boccioli sono come piccoli cespugli di rose con i vasi nascosti nella carta di pizzo che decorano l'altare nelle feste importanti, i loro fiori semiaperti sono come coppe di marmo rosa, il cespuglio stesso somiglia ad una fanciulla in abito da festa in mezzo alla gente in negligé che resta a casa. Il narratore riflette su come il colore rosa sia speciale: i biscotti con zucchero rosa erano più costosi e il suo formaggio cremoso preferito era rosa, con fragole tritate dentro. Un lettore attento ricorderà l'incontro del ragazzo, circa sessanta pagine prima, con un'interessante e ovviamente poco raccomandabile signora vestita di rosa a casa di suo zio Adolphe. Subito dopo le sue effusioni sul colore rosa a proposito dei biancospini, intravede Gilberte, la figlia di Swann, nel suo giardino. Gli attributi dei fiori fluiscono metonimicamente nella ragazza. Con i suoi capelli rossastri e le lentiggini rosate, assomiglia ai biancospini rosa; il gesto di disprezzo che fa lo ferisce come le loro spine e lo fa innamorare di lei. Il protagonista risulta essere il pesce che viene catturato dalla lenza, che aveva visto in precedenza galleggiare nell'acqua. Molto più tardi, in À la recherche du temps perdu, il lettore scoprirà che Odette, la madre di Gilberte, era la dama in rosa.

Come i biancospini e le chiese, i biancospini e le donne hanno tra loro una relazione metonimica e metaforica. I fiori generalmente in questo testo hanno un sottotesto femminile ed erotico. Non solo il biancospino, ma anche altri fiori, come il lillà, l'églantine e i fiori di melo, suggeriscono donne.[80]

Sebbene la forza del legame tra chiese e donne non sia così forte come quella tra chiese e fiori o donne e fiori, la stessa chiesa di Combray ha sfumature femminili e materne. Non solo viene presentata come una “pastorella”, ma la profusione di metafore che la circondano tende sia ad addomesticarla (il suo portico è come un cucchiaio forato, le sue lapidi traboccano dai confini come miele) sia ad assimilarla nella costellazione delle meraviglie d'infanzia (è come un pavone, una grotta, una valle visitata dalle fate). La chiesa infatti presenta una grande somiglianza con lo spettacolo delle lanterne magiche con cui i grandi speravano invano di distrarre il protagonista dall'assenza della madre e della nonna. La lanterna magica è paragonata a un costruttore gotico o a un pittore del vetro e anticipa quindi la chiesa di Combray. I servizi religiosi sono il luogo in cui il protagonista intravede donne interessanti – Mlle Vinteuil, la duchessa de Guermantes – mentre la pietà incombe nella vita della sua zia invalida, Tante Léonie. Proprio come la città, i suoi dintorni e i suoi abitanti vengono ecclesiasticizzati attraverso le metafore di “Combray II”, la chiesa viene femminilizzata e sessualizzata in una varietà di modi sottili. L'associazione tra chiese e donne è ribadita attraverso i fiori: il forte legame che Proust stabilisce nella mente del lettore tra donne e fiori invade la chiesa quando i biancospini compaiono sull'altare e vengono poi paragonati alle chiese.

Julia Daudet ritratta da Pierre-Auguste Renoir nel 1875

Come nascono queste associazioni? Nel caso di una di esse, Proust ci dà una risposta. In una bozza il narratore spiega come un gioco di parole, su “étamine” (mussola, il tessuto di cui era fatto uno degli abiti da sera di sua madre, e stame) e “calice” (chalice e calyx) cementò per il bambino la connessione rispettivamente tra biancospini e donne, e biancospini e chiese.[81] Julia Daudet spiega la memorabilità delle parole intriganti: a suo avviso, le parole che un bambino si interroga e non capisce del tutto rimangono imprigionate nella memoria a causa della loro misteriosità, il che spinge il bambino a occuparsene — come se la memoria avesse uno scaffale speciale per gli enigmi irrisolti.[82] La circolarità è la strategia generale che domina le metafore di “Combray” nel suo complesso. Ad esempio, sebbene i paragoni tra i fiori e la chiesa siano dominanti, Proust non omette di condurre i paragoni nella direzione opposta, per paragonare le chiese ai fiori: alle viole bianche, ai nontiscordardimé, ai fiori dipinti nel cielo. La chiesa porta associazioni con il cibo, come abbiamo visto, mentre il cibo, a sua volta, richiama al ragazzo i fasti ecclesiastici: il menù di famiglia ricorda i quadrilobi medievali sulle cattedrali che riflettono le stagioni; la pelle di un pollo, servita dalla serva Françoise, è ricamata in oro come una pianeta.

La tendenza tautologica delle metafore, combinata con la loro tendenza metonimica, produce un effetto di saturazione, di completezza – come se le categorie che forniscono le immagini fossero davvero “tutta Combray”.

La quarta caratteristica delle metafore di “Combray” è la loro portata semantica limitata. Gli oggetti che ispirano il confronto sono, naturalmente, oggetti del mondo infantile di Marcel. Ma è notevole quanto Proust si limiti rigorosamente, nella scelta degli oggetti con cui confrontarli, cioè nella scelta dei veicoli delle metafore, a oggetti che provengono anch'essi dall'ambito dell'esperienza del bambino. Ciò è particolarmente vero per le metafore sorprendenti. Il lessico dei loro veicoli comprende, in ordine decrescente di incidenza: 1. oggetti tratti dal mondo animale, degli uccelli e degli insetti (21); 2. figure, attributi o pertinenze femminili (16); 3. persone, comprese le donne, in cui la femminilità non è enfatizzata (16); 4. oggetti d'arte o di architettura (16); 5. fiori (10); 6. fenomeni e luoghi naturali (10); 7. cibo (5); 8. oggetti religiosi (la chiesa e oggetti di rito religioso) (9); 9. acqua, compreso l'oceano (7); 10. oggetti di uso quotidiano o della vita quotidiana (7); 11. musica (7); 12. oggetti di interesse infantile come giochi o fiabe (6); 13. gioielli o pietre preziose (6); 14. piante (6); 15. oggetti di fantasia o particolari (5); 16. barche (4); 17. regalità (4); 18. parti del corpo (3); 19. artisti (2); 20. letteratura (2); 21. concetti della scienza (2); 22. mitologia (1); 23. suoni (1); e storia medievale (1). In modo molto più inequivocabile che nel caso degli esempi di proliferazione metaforica, l'effetto qui è quello di catturare la sensibilità del bambino. Questi confronti suggeriscono l'immaginazione infantile al lavoro. Lo stile e l'ironia narrativa di “Combray” rivelano l'adulto, ma con pochissime eccezioni Proust ha cura di riservare l'espediente della metafora alla prospettiva del bambino.[83] I paragoni con gli animali, la categoria più numerosa, colpiscono in particolare come prodotti della fantasia di un bambino: le case della città sono come pecore, la volta della chiesa ricorda un pipistrello, la luce del giorno ricorda una farfalla, Françoise è come una vespa scavatrice, una cosa sconosciuta che sta cercando è nascosta come un pesce. I confronti alimentari hanno un effetto simile. Ad esempio, gli odori nella stanza della zia, cibi che cuociono al calore del fuoco, ricordano un enorme fagottino; la cuffia della sua cameriera Françoise è come se fosse fatta di zucchero filato.[84]

Émile Mâle nel 1926

Se si considerano tutte le 268 similitudini e metafore, le categorie rimangono in gran parte le stesse, ma le proporzioni cambiano, con i confronti con oggetti d'arte o di architettura in testa alla lista.[85] A giudizio del lettore moderno, Proust può oltrepassare i limiti della conoscenza infantile proprio con i suoi riferimenti alla storia dell'arte. Il tenor principale delle metafore storico-artistiche è la chiesa. La realizzazione testuale della chiesa di Combray richiede una cura particolare, poiché la chiesa è un oggetto privilegiato nell'insieme della Recherche; è una metafora nascosta per il libro stesso. Retrospettivamente, in Le Temps retrouvé, il narratore rivela che la chiesa di Combray gli ha fatto “presentire” la forma che intende imprimere in tutto il suo romanzo:[86] la forma del tempo. La chiesa di Combray descritta da Proust non corrisponde esattamente alla vera chiesa di Illiers, ma è completata da numerosi prestiti da altre chiese e da opere letterarie.[87] Anche le metafore storico-artistiche derivano dalla successiva erudizione di Proust. L'arte fu uno dei suoi maggiori interessi nella vita: scrisse critiche d'arte, tradusse Ruskin, seguì le orme di quest'ultimo vedendo le opere d'arte attraverso i suoi occhi e fece molti altri viaggi artistici in Francia. In particolare, effettuò ricerche sulle cattedrali gotiche, che erano il grande amore di Ruskin, e cadde sempre più sotto l’influenza delle interpretazioni dell’arte gotica di Émile Mâle.

Ritratto di Giotto, XVI sec.
Ritratto di Giotto, XVI sec.
 
Ritratto di Hubert Robert, 1788
Ritratto di Hubert Robert, 1788

Tuttavia, nonostante tutto ciò, non è necessario assegnare i veicoli storico-artistici di “Combray” alla prospettiva adulta. Abbiamo la giustificazione per cui, secondo il protagonista, un bambino dotato e topo di biblioteca che preferiva di gran lunga l'esperienza attraverso i libri alla cruda “esperienza” quotidiana, aveva una notevole conoscenza della storia dell'arte. Il narratore stesso ci racconta che sua nonna coltivava un tale rispetto per l'estetica e per la storia dell'arte con il dono di antiche incisioni e riproduzioni di dipinti.[88] Così, ad esempio, il paragone dell'effetto della luce lunare su un paesaggio con Hubert Robert (113; 124) conta come infantile perché il narratore ci ha detto che sua nonna gli aveva regalato una foto di Les Grandes Eaux de Saint-Cloud di Hubert Robert (40; 43). L'osservazione che le stelle nelle corone azzurre degli asparagi sono disegnate finemente come quelle nell'affresco della Virtù di Padova (120; 131) sembra avere origine dal fatto che il bambino studiò queste figure di Giotto, appese nello studio di famiglia (80; 88). Swann, la cui conversazione generalmente è arricchita da riferimenti alle arti (ad esempio, 96, 105), fece conoscere al ragazzo Giotto, regalandogli fotografie delle sue figure allegoriche (80; 87). In “Noms de pays: le nom” il narratore dichiarerà che il bambino “estrapola la natura di Firenze da una conoscenza di Giotto”.[89] Il narratore afferma che le cattedrali esercitavano su di lui un fascino particolare da bambino (99; 108). L'interesse del protagonista per l'arte è autobiografico: Proust stesso aveva un precoce interesse per le arti.[90]

La maggior parte dei veicoli delle metafore storico-artistiche in “Combray II” sono tratti dal periodo medievale. Poiché la chiesa medievale di Combray è al centro del fascino del bambino, sembra plausibile che il suo interesse si sia ramificato verso altri oggetti d'arte di quell'epoca. La metafora storico-artistica che meno probabilmente sembra essere stata ispirata dalla conoscenza infantile è il paragone delle ninfee con le rose muschiose “comme après l'effeuillement mélancholique d'une fête galante”, dove i curatori dell'edizione Pléiade vedono in “fête galante” un riferimento a Watteau (in effetti, i traduttori inglesi Moncrieff e Kilmartin traducono “after the sad dismantling of some Watteau fête galante”).[91] Nei volumi successivi di À la recherche du temps perdu, le metafore storico-artistiche diventano molto più complicate e sofisticate di questa, superando chiaramente la competenza anche del bambino più studioso; un esempio potrebbe essere il confronto, su più pagine, tra i servitori di una casa visitata da Swann e varie figure della storia dell'arte, come un guerriero decorativo in un dipinto di Mantegna, un sagrestano di Goya, o un guardiano armato di Benvenuto Cellini. In confronto, la “fête galante” è un piccolo lasso che passa velocemente.

La metafora rimane lo strumento distintivo di Proust in tutto À la recherche du temps perdu. Nei volumi successivi, che si concentrano maggiormente sulle interazioni sociali rispetto a “Combray II”, c’è una maggiore proporzione tra dialogo e descrizione, e quindi lunghi tratti in cui le metafore sono sparse;[92] ma ci sono anche brani descrittivi straordinariamente densi di metafora, come la descrizione del ristorante Rivebelle in À l’ombre des jeunes filles en fleurs. Le metafore possono passare da un oggetto di confronto a quello successivo, come in “Combray II”. Persistono metafore metonimiche (ad esempio, il mare è paragonato a un pesce).[93] Ma i veicoli non sono in gran parte tratti dall'insieme degli oggetti confrontati, per cui non si ha la sensazione di un mondo chiuso. Certamente non provengono da un ambito semantico limitato. Come in “Combray”, possono essere assegnati esplicitamente alla prospettiva della coscienza centrale o al narratore, ma nella maggior parte dei casi non sono assegnati. Come in “Combray”, la maggior parte di queste metafore di provenienza ambigua sembrano, pur essendo pronunciate dalla voce del narratore, riconducibili al focus centrale della coscienza – a Swann in “Un Amour de Swann” e al protagonista, qualunque età possa avere nella storia (ad esempio, all'eroe da giovane, i camerieri sembrano uccelli rari e i tavoli sembrano pianeti).[94] In alternativa, fondono l'attenzione del narratore con quella della coscienza centrale, oppure migliorano l'attenzione della coscienza centrale con l'intuizione del narratore. In ogni caso, hanno i segni di essere il prodotto di una mente adulta. Spesso illuminano alcuni argomenti di interesse per gli adulti, come le interazioni sociali. Spesso sembrano basarsi su una profonda analisi sociale o psicologica: quindi lo snobismo di Bloch può essere attribuito alla pressione, “come sul fondo dell’oceano”, su di lui in quanto ebreo di bassa classe;[95] un capocameriere, come un barbiere, si rallegra benevolmente quando un cliente importante incontra alcuni amici della sua cerchia sociale, perché ciò aumenta il tono sociale del locale;[96] la Princesse de Luxembourg, ansiosa di non apparire in una sfera sociale superiore a quella del protagonista e di sua nonna, li guarda con benevolenza, come se potesse accarezzarli quali adorabili bestie allo zoo.[97] Una vasta analogia tra la società e l'oceano, che innesca metafore che coinvolgono creature marine ed effetti marini, emerge per rivaleggiare con l'ampio motif floreale. E sebbene alcuni veicoli vengano costantemente riutilizzati, come i fiori per le donne (e infine per gli uomini), il cibo e gli animali, diventano capaci di manifestare una complessità e un groviglio di confronti che testimoniano una mente analitica adulta. Esempi eccezionali includono il brano che paragona la “piccola banda” di ragazze di Balbec alle rose della Pennsylvania viste sullo sfondo dell'oceano, e il famoso paragone di Jupien e Charlus con un'orchidea e un calabrone.[98]

L'uso distintivo e insolito dei paragoni da parte di Proust in “Combray II” crea alcuni effetti degni di nota. Soprattutto il circolo di queste cose infantili, cose che diventano circolo proprio attraverso il loro servizio di tenors e anche di veicoli per metafore, ricrea il mondo del bambino e in particolare il senso della stabilità di quel mondo. Paradossalmente, l'instabilità della metafora in questo caso crea un'impressione di stabilità. Questo circolo di cose integra l'organizzazione di base di “Combray” come resoconto delle azioni abituali e del modo in cui le cose in quei giorni generalmente erano e accadevano. Insieme, queste tecniche danno l'impressione che l'infanzia del protagonista si svolga in un cerchio incantato, lontano dal passare del tempo. All'interno di questo mondo opera l'immaginazione vivida e attiva del bambino. Proust offre molte testimonianze di questa immaginazione sfrenata. In “Noms de pays: le nom”, ad esempio, intrattiene il lettore con le fantasie infantili di luoghi che non ha mai visitato basandosi solo sui loro nomi: "Coutances, a Norman cathedral which its final consonants, rich and yellowing, crowned with a tower of butter; . . . Questambert, Pontorson, ridiculous and naïve, white feathers and yellow beaks strewn along the road to those well-watered and poetic spots".[99] La prosa di Proust in “Combray II” deve la sua qualità incantevole e seducente all'espediente del confronto. Le sue metafore e similitudini riaccendono nel lettore la celebre visione infantile, stimolando la sua immaginazione a vedere le cose di nuovo, in rapporti nuovi e mutevoli con altre cose, invece che attraverso gli occhi dell'abitudine. Con l'ingegnoso espediente di focalizzare un testo attraverso le scelte semantiche delle sue metafore, Proust tenta di bloccare la possibilità di una lettura psicologica e induce invece il lettore a simpatizzare con il mondo mentale del bambino — o più precisamente, di un bambino.

Perché Proust decide, all'età di trentasei anni, di migliorare i pezzi dell'infanzia nella bozza di Jean Santeuil che aveva abbandonato otto anni prima e di creare questo idillio infantile, questo paradiso rimosso dal tempo? Secondo lo psicoterapeuta Arnold R. Bruhn, i ricordi schematici tendono ad essere positivi e ricordarli probabilmente serve a stabilizzare l'umore. Bruhn associa l'idealizzazione del passato a uno stato d'animo depressivo.[100] Proust in Jean Santeuil espone piuttosto chiaramente il motivo del ricorso al passato: i pensieri dell'infanzia portano felicità. "Thanks to it [the charm we felt as children at the morning sunlight, the early frosts of winter, the afternoon rays of sun], and without having first to see in memory our games, the garden in which we played, the health, the hopes that then were ours, we can, for a moment, recover all the sweet loveliness of childhood".[101] In un brano commovente scrive che a quei tempi non era malato; da bambino correva e saltava e si lasciava andare fisicamente. Ora che soffre di asma e reumatismi, i piaceri della corsa e del salto sono fuori discussione. Tuttavia, dice, ricorda con affetto la dolcezza delle sue prime ore (312; 112). Otto anni dopo Proust aveva perso entrambi i genitori e la sua salute stava peggiorando. Si può capire perché fosse ancora più interessato a rivivere un idillio infantile di quanto lo fosse al momento della composizione di Jean Santeuil. Anche in À la recherche du temps perdu il suo narratore ammette che per un malato il piacere del ricordo è particolarmente acuto perché sostituisce quello della vita vissuta.[102]

Illustrazione da François le Champi di George Sand, 1853

“Combray” con le sue strategie seduce il lettore in modi simili alle strategie che da bambino hanno sedotto il protagonista ad amare la letteratura, rievocando le condizioni che hanno fatto sì che il protagonista si “innamorasse” della letteratura. Secondo il narratore di Le Temps retrouvé, l'amore del bambino per la letteratura nacque in occasione di un evento infantile che gli si è impresso nella memoria prima che la memoria involontaria arrivasse in suo aiuto: era il suo ricordo più significativo, il ricordo indimenticabile, il ricordo del bacio di sua madre. È la storia di come il bambino protagonista, dopo una serata di depressione e paura, sia riuscito a ottenere ciò che voleva. Non ottenne solo il sospirato bacio della buonanotte, ma ricevette un favore superlativo, fonte di una felicità suprema che andava oltre ogni sua immaginazione: suo padre permise alla madre di passare la notte nella stanza del figlio. Quello che poi fecero lì fu leggere. Sua madre gli lesse ad alta voce il suo primo romanzo. Era François le Champi di George Sand. Questo ricordo diventa il ricordo d'infanzia più significativo del protagonista non solo perché “perse la volontà”, come dice più avanti nel libro, ma perché è qui che si manifesta il suo amore per la letteratura, mediato dalla presenza consolante della madre che gli fornisce la voce della lettura. In Le Temps retrouvé il narratore racconta come alla fine perse la fiducia nella letteratura, per poi riconquistarla attraverso le rivelazioni della memoria involontaria. Trovando casualmente, nella biblioteca dei Guermantes, una copia di François le Champi, sottolinea l'importanza di François le Champi nello stabilire la sua fascinazione per la letteratura: "title which . . . had given me the idea that literature really did offer us that world of mystery which I had ceased to find in it".[103] François le Champi, dichiara, conteneva “l'essenza del romanzo” (462; 282). L'amore di Proust per la decifrazione di stati di cose misteriosi è, nel mondo del romanzo, riconducibile al momento in cui sentì sua madre leggere tale libro. In realtà, però, se si torna alla scena di “Combray”, i motivi per cui François le Champi sembrava misterioso sono due: in primo luogo, era l'abitudine del protagonista, quando leggeva, di fantasticare per pagine alla volta, perdendo così parti del complotto; e in secondo luogo, sua madre faceva sembrare la trama sconnessa tralasciando le scene d'amore. Ma sono proprio queste le strategie che Proust utilizza in “Combray”. Non mette nostra madre nella nostra stanza e le fa leggere il suo libro ad alta voce, ma sembra sognare ad occhi aperti, attraverso l'ottica del bambino che era una volta, di pagina in pagina, correndo su tangenti metaforiche; e siamo anche inclini a sognare ad occhi aperti, le pagine diventano più piene sotto i nostri occhi, per prendere in prestito un’analogia da Malte di Rilke, dove la governante di Malte legge i libri in questo modo. Noi “sviluppiamo le fotografie nella nostra mente”, per usare le parole di Proust per l'effetto che voleva che avesse il suo libro. Ultimo ma non meno importante, come sua madre, Proust tralascia le parti erotiche, preferendo parlare di fiori piuttosto che della sua attrazione per le donne (che a loro volta potrebbero essere viste mascherare un'attrazione per gli uomini), cioè parlare di sessualità "durch die Blume". Stimola anche in questo modo l'immaginazione del lettore, mettendo in scena un mistero piacevole e intrigante che ci spinge a cercare e provare a colmare le lacune nel tessuto del testo, acuendo il nostro piacere nello scoprire le profondità sotto la superficie del mondo infantile.

V[modifica]

Se c'è una cosa su cui Proust insiste, è che la missione dell'arte è ricreare la vera realtà della mente: “la réalité telle que nous l'avons sentie”:[104] "Our vanity (amour-propre), our passions, our spirit of imitation, our abstract intelligence, our habits have long been at work, and it is the task of art to undo this work of theirs, making us travel back in the direction from which we have come to the depths where what has really existed lies unknown within us" (475; 300). In “Combray II” chiaramente cerca di catturare la realtà passata della mente ricreando la prospettiva e la sensibilità del bambino. "Combray II", in cui Proust si lancia nella rappresentazione delle cose viste dal bambino, mostra chiaramente che egli comprende che il mondo dell'infanzia è soprattutto un mondo di cose. La sua pratica in “Combray II” sostiene la sua concezione della metafora basata sulle cose, che, come abbiamo visto, articola in termini di oggetti in Le Temps retrouvé (468; 289–290). Nelle parti successive del romanzo, al contrario, la proporzione delle cose come tenors della metafora si riduce, mentre cresce la proporzione delle persone.

Anche per il mondo infantile di Proust il luogo riveste un'importanza centrale, come già indica il titolo “Combray”. L'infanzia del protagonista sembra indissolubilmente legata all'ambientazione. Nelle bozze della sezione di “Combray” sulla strada dei Guermantes, Proust scrive dell'immensa importanza psicologica di un luogo amato, analizzando a lungo il fenomeno dell'amore per il luogo.[105] Egli parla del suo atteggiamento verso un luogo amato nei termini che si potrebbero usare per una donna amata: "A certain intersection of paths, a certain clearing on the left with spaced apple trees that mix their shades with the setting sun — this is a certain wrinkle, a certain lock of hair, a certain line to the nose in a beloved face" (R I: 810). Sottolinea che i luoghi sono unici; non si può sostituire un luogo amato con un luogo più bello. Sottolinea molto l'amore per il luogo "così com'era", cioè quando ha catturato per la prima volta l'immaginazione. Pertanto, l '"immagine della felicità" per lui è fissata dalla Strada dei Guermantes (R I: 828). Nel passaggio commovente alla fine di “Combray II”, dove scrive che le strade di Méséglise e Guermantes sono il “fondamento del suo terreno mentale”, fa insistenti paragoni con sua madre. Come sua madre non avrebbe potuto essere sostituita da un'altra madre, nessun altro luogo può soppiantare nel suo cuore la campagna intorno a Combray.

Non solo durante l'infanzia, ma per tutta la sua vita, Proust mostrò un investimento emotivo nei luoghi che rivaleggiava con il suo investimento nelle persone. Il narratore di Jean Santeuil dichiara: “I luoghi sono persone”.[106] Generalmente in À la recherche du temps perdu l'intensità della passione del protagonista si muove fluida tra i luoghi che lo affascinano e le persone che incorniciano. Le persone desiderate vengono immaginate nei luoghi preferiti e i luoghi preferiti diventano oggetti del desiderio. Georges Poulet ha dimostrato che Proust non presenta le persone senza “inquadrarle” in uno sfondo locale.[107] Poulet scrive della “reciprocità degli scambi” tra persone e luoghi.[108] A mio avviso la persona, o l'oggetto del desiderio, a volte diventa addirittura un distillato più concentrato e inebriante del luogo, come Gilberte tra i biancospini, o Saint-Loup o Albertine sullo sfondo del mare.[109] In “Combray”, dove fantastica di una contadina che emerge dal paesaggio, l'amore per il luogo appare così forte in Proust che arriva al punto di collocarvi un essere immaginario. Dà al luogo la forma di una donna per dirigere verso di esso l'affetto corrispondente (154-155; 170-171). Il protagonista qui è presumibilmente un adolescente; l'ambientazione autunnale ricorda il viaggio che i Proust fecero a Illiers quando Marcel aveva quindici anni. Il narratore commenta: "I had a desire for a peasant-girl from Méséglise or Roussainville, for a fisher-girl from Balbec, just as I had a desire for Balbec and Méséglise" (155; 171). Il desiderio del protagonista di “collocare” le persone nelle cornici delle località e di vedere le persone come incarnazioni del luogo non scompare con l'età. Così sentiamo nei volumi successivi che Mlle de Stermaria, che egli avvolge con la fantasia nelle nebbie di un'isola bretone, deve essere goduta a Parigi su un'isola; gli occhi e la voce di Madame de Guermantes gli ricordano Combray.[110] L'amore per il luogo in questa forma estrema è una caratteristica permanente della mentalità di Proust.

Infine, va affermato esplicitamente che i luoghi e le cose sono cruciali nel processo attraverso il quale Proust vede il tempo che si trasforma in eternità. Lo spunto, capace di darci una sensazione nel qui e ora del nostro ambiente spaziale, evoca una sensazione che abbiamo provato nel passato. Stimolata dallo spunto, la mente fa un salto nel tempo passato e accede ad un altro luogo, ad altre cose, in un tempo diverso. Attraverso lo spazio, dunque, percepibile dai suoi sensi, Proust getta delle catene attorno allo scorrere incontrollabile del tempo. Nel mondo di Proust il modo in cui funziona la mente non solo ci rende consapevoli del passare del tempo e della mortalità, ma ci fornisce anche, con l’aiuto di sostegni spaziali, una via secondaria, chiamata "memoria involontaria", attraverso la quale queste spiacevoli verità vengono magicamente sovvertite. La memoria involontaria collega una sensazione presente ad una “dimenticata”; la mente accede ad una scena “dimenticata”; lo spazio recupera lo spazio. Il tempo è vinto. Come abbiamo visto, l'analogia tra lo spunto presente e la scena passata dà al narratore proustiano un'esilarante sensazione di atemporalità e la convinzione di aver scoperto un'essenza eterna.

Tocca a Proust garantire tale opportunità, mantenendo però le rivelazioni nello spazio di un libro. Le scene resuscitate possono essere “catturate” a parole come qualsiasi altra scena. Ma la scenografia di per sé non è sufficiente a giustificare la trasformazione di questi momenti effimeri nel presente relativamente duraturo dell'opera d’arte. Le scene, per Proust, sono composte da segni che nascondono significati dietro la loro superficie sensuale. Per Proust il problema è far emergere questi significati nascosti. La metafora, che stabilisce la presenza di una cosa nell'altra, gli sembra la tecnica artistica privilegiata con cui raggiungere questo scopo. Sebbene il passato non sia in una relazione metaforica con il presente, a Proust sembra essere analogicamente “nascosto” – negli indizi, cioè nelle cose. L'infanzia è un luogo privilegiato per questo collegamento tra metafora e memoria attraverso le "cose", poiché la metafora (che rende il modo di vedere del bambino), e soprattutto le metafore che coinvolgono oggetti (oggetti che peraltro provengono dai campi di interesse del bambino), diventano il percorso artistico della memoria verso l'infanzia. Il processo di estrarre cose dalle cose – spazi fuori dallo spazio – tramite metafora, o in alternativa registrando esempi di memoria involontaria, motiva l'uso del tempo da parte di Proust e gli conferisce un telos: la conversione di intuizioni momentanee nello spazio di un'opera in più volumi.

Galleria di ricordi[modifica]

Un amour de Swann (Incipit)[modifica]

Pour faire partie du "petit noyau", du "petit groupe", du "petit clan" des Verdurin, une condition était suffisante mais elle était nécessaire: il fallait adhérer tacitement à un Credo dont un des articles était que le jeune pianiste, protégé par Mme Verdurin cette année-là et dont elle disait: "Ça ne devrait pas être permis de savoir jouer Wagner comme ça!", "enfonçait" à la fois Planté et Rubinstein et que le docteur Cottard avait plus de diagnostic que Potain. Toute "nouvelle recrue" à qui les Verdurin ne pouvaient pas persuader que les soirées des gens qui n'allaient pas chez eux étaient ennuyeuses comme la pluie, se voyait immédiatement exclue. Les femmes étant à cet égard plus rebelles que les hommes à déposer toute curiosité mondaine et l'envie de se renseigner par soi-même sur l'agrément des autres salons, et les Verdurin sentant d'autre part que cet esprit d'examen et ce démon de frivolité pouvaient par contagion devenir fatals à l'orthodoxie de la petite église, ils avaient été amenés à rejeter successivement tous les "fidèles" du sexe féminin.

En dehors de la jeune femme du docteur, ils étaient réduits presque uniquement cette année-là (bien que Mme Verdurin fût elle-même vertueuse et d'une respectable famille bourgeoise excessivement riche et entièrement obscure avec laquelle elle avait peu à peu cessé toute relation) à une personne presque du demi-monde, Mme de Crécy, que Mme Verdurin appelait par son petit nom, Odette, et déclarait être "un amour", et à la tante du pianiste, laquelle devait avoir tiré le cordon; personnes ignorantes du monde et à la naïveté de qui il avait été si facile de faire accroire que la princesse de Sagan et la duchesse de Guermantes étaient obligées de payer des malheureux pour avoir du monde à leurs dîners, que si on leur avait offert de les faire inviter chez ces deux grandes dames, l'ancienne concierge et la cocotte eussent dédaigneusement refusé.

Les Verdurin n'invitaient pas à dîner: on avait chez eux "son couvert mis". Pour la soirée, il n'y avait pas de programme. Le jeune pianiste jouait, mais seulement si "ça lui chantait", car on ne forçait personne et comme disait M. Verdurin: "Tout pour les amis, vivent les camarades!" Si le pianiste voulait jouer la chevauchée de La Walkyrie ou le prélude de Tristan, Mme Verdurin protestait, non que cette musique lui déplût, mais au contraire parce qu'elle lui causait trop d'impression. "Alors vous tenez à ce que j'aie ma migraine? Vous savez bien que c'est la même chose chaque fois qu'il joue ça. Je sais ce qui m'attend! Demain quand je voudrai me lever, bonsoir, plus personne!" S'il ne jouait pas, on causait, et l'un des amis, le plus souvent leur peintre favori d'alors, "lâchait", comme disait M. Verdurin, "une grosse faribole qui faisait s'esclaffer tout le monde", Mme Verdurin surtout, à qui—tant elle avait l'habitude de prendre au propre les expressions figurées des émotions qu'elle éprouvait—le docteur Cottard (un jeune débutant à cette époque) dut un jour remettre sa mâchoire qu'elle avait décrochée pour avoir trop ri.

L'habit noir était défendu parce qu'on était entre "copains" et pour ne pas ressembler aux "ennuyeux" dont on se garait comme de la peste et qu'on n'invitait qu'aux grandes soirées, données le plus rarement possible et seulement si cela pouvait amuser le peintre ou faire connaître le musicien. Le reste du temps, on se contentait de jouer des charades, de souper en costumes, mais entre soi, en ne mêlant aucun étranger au petit "noyau".

Mais au fur et à mesure que les "camarades" avaient pris plus de place dans la vie de Mme Verdurin, les ennuyeux, les réprouvés, ce fut tout ce qui retenait les amis loin d'elle, ce qui les empêchait quelquefois d'être libres, ce fut la mère de l'un, la profession de l'autre, la maison de campagne ou la mauvaise santé d'un troisième. Si le docteur Cottard croyait devoir partir en sortant de table pour retourner auprès d'un malade en danger: "Qui sait, lui disait Mme Verdurin, cela lui fera peut-être beaucoup plus de bien que vous n'alliez pas le déranger ce soir; il passera une bonne nuit sans vous; demain matin vous irez de bonne heure et vous le trouverez guéri." Dès le commencement de décembre, elle était malade à la pensée que les fidèles "lâcheraient" pour le jour de Noël et le 1er janvier. La tante du pianiste exigeait qu'il vînt dîner ce jour-là en famille chez sa mère à elle:

—Vous croyez qu'elle en mourrait, votre mère, s'écria durement Mme Verdurin, si vous ne dîniez pas avec elle le jour de l'an, comme en province!

Ses inquiétudes renaissaient à la semaine sainte:

—Vous, docteur, un savant, un esprit fort, vous venez naturellement le Vendredi saint comme un autre jour? dit-elle à Cottard la première année, d'un ton assuré comme si elle ne pouvait douter de la réponse. Mais elle tremblait en attendant qu'il l'eût prononcée, car s'il n'était venu, elle risquait de se trouver seule.

—Je viendrai le Vendredi saint... vous faire mes adieux car nous allons passer les fêtes de Pâques en Auvergne.

—En Auvergne? pour vous faire manger par les puces et la vermine, grand bien vous fasse!

Et après un silence:

—Si vous nous l'aviez dit au moins, nous aurions tâché d'organiser cela et de faire le voyage ensemble dans des conditions confortables.

De même si un "fidèle" avait un ami, ou une "habituée" un flirt qui serait capable de le faire "lâcher" quelquefois, les Verdurin, qui ne s'effrayaient pas qu'une femme eût un amant pourvu qu'elle l'eût chez eux, l'aimât en eux, et ne le leur préférât pas, disaient: "Eh bien! amenez-le votre ami." Et on l'engageait à l'essai, pour voir s'il était capable de ne pas avoir de secrets pour Mme Verdurin, s'il était susceptible d'être agrégé au "petit clan". S'il ne l'était pas, on prenait à part le fidèle qui l'avait présenté et on lui rendait le service de le brouiller avec son ami ou avec sa maîtresse. Dans le cas contraire, le "nouveau" devenait à son tour un fidèle. Aussi quand cette année-là, la demi-mondaine raconta à M. Verdurin qu'elle avait fait la connaissance d'un homme charmant, M. Swann, et insinua qu'il serait très heureux d'être reçu chez eux, M. Verdurin transmit-il séance tenante la requête à sa femme. (Il n'avait jamais d'avis qu'après sa femme, dont son rôle particulier était de mettre à exécution les désirs, ainsi que les désirs des fidèles, avec de grandes ressources d'ingéniosité.)

—Voici Mme de Crécy qui a quelque chose à te demander. Elle désirerait te présenter un de ses amis, M. Swann. Qu'en dis-tu?

—Mais voyons, est-ce qu'on peut refuser quelque chose à une petite perfection comme ça. Taisez-vous, on ne vous demande pas votre avis, je vous dis que vous êtes une perfection.

—Puisque vous le voulez, répondit Odette sur un ton de marivaudage, et elle ajouta: vous savez que je ne suis pas "fishing for compliments".

—Eh bien! amenez-le votre ami, s'il est agréable.

Certes le "petit noyau" n'avait aucun rapport avec la société où fréquentait Swann, et de purs mondains auraient trouvé que ce n'était pas la peine d'y occuper comme lui une situation exceptionnelle pour se faire présenter chez les Verdurin. Mais Swann aimait tellement les femmes, qu'à partir du jour où il avait connu à peu près toutes celles de l'aristocratie et où elles n'avaient plus rien eu à lui apprendre, il n'avait plus tenu à ces lettres de naturalisation, presque des titres de noblesse, que lui avait octroyées le faubourg Saint-Germain, que comme à une sorte de valeur d'échange, de lettre de crédit dénuée de prix en elle-même, mais lui permettant de s'improviser une situation dans tel petit trou de province ou tel milieu obscur de Paris, où la fille du hobereau ou du greffier lui avait semblé jolie. Car le désir ou l'amour lui rendait alors un sentiment de vanité dont il était maintenant exempt dans l'habitude de la vie (bien que ce fût lui sans doute qui autrefois l'avait dirigé vers cette carrière mondaine où il avait gaspillé dans les plaisirs frivoles les dons de son esprit et fait servir son érudition en matière d'art à conseiller les dames de la société dans leurs achats de tableaux et pour l'ameublement de leurs hôtels), et qui lui faisait désirer de briller, aux yeux d'une inconnue dont il s'était épris, d'une élégance que le nom de Swann à lui tout seul n'impliquait pas. Il le désirait surtout si l'inconnue était d'humble condition. De même que ce n'est pas à un autre homme intelligent qu'un homme intelligent aura peur de paraître bête, ce n'est pas par un grand seigneur c'est par un rustre qu'un homme élégant craindra de voir son élégance méconnue. Les trois quarts des frais d'esprit et des mensonges de vanité, qui ont été prodigués depuis que le monde existe par des gens qu'ils ne faisaient que diminuer, l'ont été pour des inférieurs. Et Swann, qui était simple et négligent avec une duchesse, tremblait d'être méprisé, posait, quand il était devant une femme de chambre.

Il n'était pas comme tant de gens qui, par paresse, ou sentiment résigné de l'obligation que crée la grandeur sociale de rester attaché à un certain rivage, s'abstiennent des plaisirs que la réalité leur présente en dehors de la position mondaine où ils vivent cantonnés jusqu'à leur mort, se contentant de finir par appeler plaisirs, faute de mieux, une fois qu'ils sont parvenus à s'y habituer, les divertissements médiocres ou les insupportables ennuis qu'elle renferme. Swann, lui, ne cherchait pas à trouver jolies les femmes avec qui il passait son temps, mais à passer son temps avec les femmes qu'il avait d'abord trouvées jolies. Et c'étaient souvent des femmes de beauté assez vulgaire, car les qualités physiques qu'il recherchait sans s'en rendre compte étaient en complète opposition avec celles qui lui rendaient admirables les femmes sculptées ou peintes par les maîtres qu'il préférait. La profondeur, la mélancolie de l'expression, glaçaient ses sens que suffisait au contraire à éveiller une chair saine, plantureuse et rose.

Si en voyage il rencontrait une famille qu'il eût été plus élégant de ne pas chercher à connaître, mais dans laquelle une femme se présentait à ses yeux parée d'un charme qu'il n'avait pas encore connu, rester dans son "quant à soi" et tromper le désir qu'elle avait fait naître, substituer un plaisir différent au plaisir qu'il eût pu connaître avec elle, en écrivant à une ancienne maîtresse de venir le rejoindre, lui eût semblé une aussi lâche abdication devant la vie, un aussi stupide renoncement à un bonheur nouveau, que si au lieu de visiter le pays, il s'était confiné dans sa chambre en regardant des vues de Paris. Il ne s'enfermait pas dans l'édifice de ses relations, mais en avait fait, pour pouvoir le reconstruire à pied d'œuvre sur de nouveaux frais partout où une femme lui avait plu, une de ces tentes démontables comme les explorateurs en emportent avec eux. Pour ce qui n'en était pas transportable ou échangeable contre un plaisir nouveau, il l'eût donné pour rien, si enviable que cela parût à d'autres. Que de fois son crédit auprès d'une duchesse, fait du désir accumulé depuis des années que celle-ci avait eu de lui être agréable sans en avoir trouvé l'occasion, il s'en était défait d'un seul coup en réclamant d'elle par une indiscrète dépêche une recommandation télégraphique qui le mît en relation sur l'heure avec un de ses intendants dont il avait remarqué la fille à la campagne, comme ferait un affamé qui troquerait un diamant contre un morceau de pain. Même après coup, il s'en amusait, car il y avait en lui, rachetée par de rares délicatesses, une certaine muflerie. Puis, il appartenait à cette catégorie d'hommes intelligents qui ont vécu dans l'oisiveté et qui cherchent une consolation et peut-être une excuse dans l'idée que cette oisiveté offre à leur intelligence des objets aussi dignes d'intérêt que pourrait faire l'art ou l'étude, que la "Vie" contient des situations plus intéressantes, plus romanesques que tous les romans. Il l'assurait du moins et le persuadait aisément aux plus affinés de ses amis du monde, notamment au baron de Charlus qu'il s'amusait à égayer par le récit des aventures piquantes qui lui arrivaient, soit qu'ayant rencontré en chemin de fer une femme qu'il avait ensuite ramenée chez lui, il eût découvert qu'elle était la sœur d'un souverain entre les mains de qui se mêlaient en ce moment tous les fils de la politique européenne, au courant de laquelle il se trouvait ainsi tenu d'une façon très agréable, soit que par le jeu complexe des circonstances, il dépendît du choix qu'allait faire le conclave, s'il pourrait ou non devenir l'amant d'une cuisinière.

Ce n'était pas seulement d'ailleurs la brillante phalange de vertueuses douairières, de généraux, d'académiciens, avec lesquels il était particulièrement lié, que Swann forçait avec tant de cynisme à lui servir d'entremetteurs. Tous ses amis avaient l'habitude de recevoir de temps en temps des lettres de lui où un mot de recommandation ou d'introduction leur était demandé avec une habileté diplomatique qui, persistant à travers les amours successives et les prétextes différents, accusait, plus que n'eussent fait des maladresses, un caractère permanent et des buts identiques. Je me suis souvent fait raconter bien des années plus tard, quand je commençai à m'intéresser à son caractère à cause des ressemblances qu'en de tout autres parties il offrait avec le mien, que quand il écrivait à mon grand-père (qui ne l'était pas encore, car c'est vers l'époque de ma naissance que commença la grande liaison de Swann et elle interrompit longtemps ces pratiques), celui-ci, en reconnaissant sur l'enveloppe l'écriture de son ami, s'écriait: "Voilà Swann qui va demander quelque chose: à la garde!" Et soit méfiance, soit par le sentiment inconsciemment diabolique qui nous pousse à n'offrir une chose qu'aux gens qui n'en ont pas envie, mes grands-parents opposaient une fin de non-recevoir absolue aux prières les plus faciles à satisfaire qu'il leur adressait, comme de le présenter à une jeune fille qui dînait tous les dimanches à la maison, et qu'ils étaient obligés, chaque fois que Swann leur en reparlait, de faire semblant de ne plus voir, alors que pendant toute la semaine on se demandait qui on pourrait bien inviter avec elle, finissant souvent par ne trouver personne, faute de faire signe à celui qui en eût été si heureux.

(Marcel Proust, Un amour de Swann, Galimard)

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Serie delle interpretazioni, Serie dei sentimenti e Serie letteratura moderna.
  1. R IV:445; TR 255–256.
  2. In tutto il Capitolo 1, cito sempre dall'edizione (EN) in mio possesso. Cfr. R IV:454; TR 268.
  3. Richard Terdiman, Present Past: Modernity and the Memory Crisis (Ithaca, NY: Cornell University Press, 1993), ritiene che la memoria involontaria sia la leva con cui Proust vuole crearsi lo status di genio originale autonomo (157-178) e che, di conseguenza, la memoria involontaria è realmente una screen memory (167). Dichiara la sua qualità epifanica in contrasto con il fatto che i ricordi raccontati da Proust sono per lo più abituali (227) e afferma che la gioia che Proust insiste che porti, contraddice l'angoscia che spesso di fatto provoca (212ss.). Infatti, per Terdiman, la "involuntary memory", con il suo messaggio salvifico, assomiglia sospettosamente alla progenie del trauma represso (200, 239).
  4. Gérard Genette, “Proust palimpseste”, Figures (Parigi: Seuil, 1966), 39–67, qui 65–67.
  5. Antoine Compagnon, Proust entre deux siècles (Parigi: Seuil, 1989), 32. Compagnon dice che l'idea delle intermittenze è una delle prime, figurando nel Carnet 1 di Proust del 1908 (47). L’esempio paradigmatico di ciò è il dolore e la sofferenza successivi al fatto per la morte di sua nonna.
  6. Compagnon, Proust, 50.
  7. Compagnon, Proust, 301–302.
  8. Rainer Warning, “Vergessen, Verdrängen und Erinnern in Prousts À la recherche du temps perdu” in Memoria: Vergessen und Erinnern, curr. Anselm Haverkamp e Renate Lachmann (München: Fink, 1993), 160–194, qui 161.
  9. Warning, “Vergessen”, 165, 161.
  10. Warning, “Vergessen”, 184; Terdiman, Present Past, 197–200.
  11. R IV: 477; TR 303.
  12. R IV: 474–475;; TR 299–300.
  13. Kirsten Shepherd-Barr e Gordon M. Shepherd, “Madeleines and Neuromodernism: Reassessing Mechanisms of Autobioographic Memory in Proust”, Auto/biography Studies: a/b 13 (1998):39–60, si impegnano a esaminare la memoria involontaria di Proust da un punto di vista neurologico contemporaneo. Si concentrano sull'episodio della madeleine. Scoprono che aspetti importanti di questa esperienza di memoria involontaria sono effettivamente supportati da fatti ormai conosciuti sul cervello. Ad esempio, l'idea che il narratore recuperi “the whole of Combray” dal gusto della madeleine è plausibile, in quanto un intero ricordo può essere ricostituito da un piccolo frammento o da una forma indistinta dell'insieme. Inoltre, la gioia che Proust prova potrebbe essere riconducibile al fatto che la madeleine coinvolge il senso dell'olfatto. Il “gusto” della madeleine è in realtà quasi tutto olfatto, asseriscono, e la corteccia olfattiva ha un collegamento diretto con le regioni limbiche del cervello (l'olfatto è l'unico senso ad avere questo accesso diretto).
  14. Compagnon, Proust, 9–10.
  15. JS 398; js 407.
  16. JS 399; js 407.
  17. R IV: 450; TR 263.
  18. R I: 83; SW 90.
  19. R IV: 474; TR 298.
  20. R IV: 449; TR 261.
  21. Wallace Stevens, “Sunday Morning”, in The Palm at the End of the Mind (New York: Knopf, 1971), 7.
  22. R IV:451; TR 264.
  23. Il suo biografo William C. Carter ipotizza: "Proust’s new faith in grace and freedom in 1895 was in fact in part due to his contemporaneous enthusiasm for Emerson". William C. Carter, Marcel Proust: A Life (New Haven: Yale University Press, 2000), 185. Cfr. Ralph Waldo Emerson, “Self- Reliance”, in Selections from Ralph Waldo Emerson, cur. Stephen E. Whicher (Boston: Houghton Miffin, 1960), 158: "When good is near you, when you have life in yourself, it is not by any known or accustomed way; you shall not discern the footprints of any other; you shall not see the face of man; you shall not hear any name;—the way, the thought, the good, shall be wholly strange and new". Per ulteriori dettagli sull'entusiasmo di Proust per Emerson , cfr. Jean-Yves Tadié, Marcel Proust: A Life (New York: Viking, 2000), 343– 354.
  24. «Besides speaking of “developing” the “negatives” within his mind (R IV: 686, “develop”; R IV: 68;, “clichés” [negatives] needing to be held up to a lamp), Proust makes clear that the subject of his art is his own interiority, produced in obscurity and silence. “Art mak[es] us travel back in the direction from which we have come to the depths where what has really existed lies unknown within us” (“L’art . . . est . . . la marche en sens contraire, le retour aux profondeurs où ce qui a existé réellement gît inconnu de nous, qu’il nous fera suivre”), R IV: 68; TR :33; “Real books should be the oG spring not of daylight and casual talk but of darkness and silence” (R IV: 687; TR :32); “I understood that all these materials for a work of literature were simply my past life” (R IV: 689; TR :36); “The essential, the only true book, though in the ordinary sense of the word it does not have to be ‘invented’ by a great writer— for it exists already in each one of us—has to be translated by him” (R IV: 675; TR 254); “Experience had taught me only too well the impossibility of attaining in the real world to what lay deep within myself” (R IV: 455; TR 270); the closed bottles seem to be a figure for memories in the mind (R IV: 669; TR 273); “Really everything is in the mind” (“Tout est dans l’esprit”), R IV: 654; TR :2:; “The purely mental character of reality” (R IV: 493; TR 326–327).»
  25. "To hear them [the notes of the bell which rang within me] properly again, I was obliged to block my ears to the conversations which were proceeding between the masked figures all round me” (R IV: 623; TR 529).
  26. R IV: 450; TR 262.
  27. R IV: 453; TR 267.
  28. R IV: 419; TR 218
  29. R IV: 552; TR 419.,
  30. Per esempio, "Mme de Guermantes’s friendships and opinions had so greatly changed... that now, in retrospect, she looked upon her charming Babal as a snob" (R IV: 584; TR 469).
  31. JS 399; js408.
  32. Joshua Landy, Philosophy as Fiction: Self, Deception, and Knowledge in Proust (Oxford: Oxford University Press, 2004), 42–43.
  33. Marcel Proust, Le Carnet de 1908, cur. Philip Kolb (Parigi: Gallimard, 4587), 95.
  34. R I: 44; SW 47–48. L'idea che momenti passati siano incarnati e nascosti negli oggetti materiali era già centrale nella prefazione progettata a Contre Sainte-Beuve, dove la “madeleine” è un “pain grillé.” Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve, cur. Pierre Clarac (Parigi: Gallimard, 4584), 244.
  35. R IV: 463; TR 283–284.
  36. GS I: 647; SW IV: 338–339.
  37. Julia Kristeva, “In Search of Madeleine”, 3–22, in Time and Sense, trad. Ross Guberman (New York: Columbia University Press, 1996).
  38. R IV: 451; TR 264.
  39. R IV: 456; TR 272.
  40. R IV: 456–457; TR 272–274.
  41. R IV: 468; TR 289–290.
  42. R I: 179; SW 197.
  43. R IV: 447; TR 258–259.
  44. R IV: 60; F 645.
  45. Alcuni critici cercano di trovare un modo per collegare la memoria involontaria alla metafora. Ad esempio, Randolph Splitter, “Proust, Joyce, and the Theory of Metaphor”, Literature and Psychology 29, 1 & 2 (1979): 4–18, nota che la seconda metà della frase di Proust sull'essenza e la metafora (R IV: 468; TR 289–290) implica che Proust pensi alla metafora come una figura che identifica non solo due cose separate nello spazio, ma due cose separate nel tempo (13). Jean Ricardou in “Proust: A Retrospective Reading”, Critical Inquiry 8 (1982): 531–541, chiama i momenti di memoria involontaria, come l'episodio delle pietre del selciato, “ordinal metaphors”, cioè "metaphors that are productive of a narrative order", p. 535, e asserisce che prefigurano una tecnica organizzatrice nel New Novel, quella di introdurre improvvisamente una nuova cellula narrativa sulla base della somiglianza in una parola. Genette, tuttavia, osserva che lo spunto (=cue) e la memoria non sono realmente in un rapporto di metafora; piuttosto, lo spunto è semplicemente il veicolo della vecchia sensazione. Dichiara invece palinsestica la visione di Proust: “Proust palimpseste”, 68.
  46. Sven-Åke Christianson e Martin A. Safer, “Emotional Events and Emotions in Autobiographical Memories,” in Remembering Our Past: Studies in Autobiographical Memory, cur. David C. Rubin (Cambridge: Cambridge University Press, 1995), 218–243, scrivono (228): “One observable consequence of tunnel memory is that individuals will remember a traumatic scene, at least temporarily, as more focused spatially than the actual stimulus input and more focused spatially than a comparable neutral scene (Safer et al., 1993). These tunnel memories may become less focused over time. In contrast, subjects remember neutral scenes as more wideangled than the actual stimulus input (Intraub, Bender, e Mangels, 1992)."
  47. JS 248; js 44.
  48. “les beaux jours d’Illiers”, JS 293; js 104. Per altri esempi e discussioni, cfr. Mireille Marc-Lipiansky, La Naissance du Monde Proustien dans Jean Santeuil (Parigi: Nizet, 1974), 145–146, e Flora Vincze, “Préfiguration du motif proustien de la madeleine dans Jean Santeuil”, Acta Litteraria Academiae Scientarum Hungaricae 27 (1985): 17–52, qui 30–51.
  49. Anthony R. Pugh, The Birth of A la recherche du temps perdu (Lexington, KY: French Forum Publishers, 1987), 49–50.
  50. Tadié, Marcel Proust, 11.
  51. JS 396–397; js 404.
  52. R IV: 468; TR 290.
  53. Roger Shattuck, “From Wordsworth to Proust,” 177–197, in Romanticism: Vistas, Instances, Continuities, curr. David Thorburn and Geoffrey Hartman (Ithaca, NY: Cornell University Press, 1973), qui 186.
  54. R I: 182; SW 201.
  55. Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve, 212.
  56. Ad esempio, nella scena della brigata, Esquisse XLIII (R I: 779–780), l'immagine dell'inondazione è solo latente; Proust trasforma l'analogia con l'acqua in qualcosa di molto elaborato nella versione pubblicata. In Esquisse LV (R I: 833) la trattazione degli stati d'animo alternanti del protagonista non è illustrata da una similitudine; nella versione pubblicata Proust rende vivida l'idea attraverso il paragone con fasce di colore nel cielo.
  57. R I: 71; SW 78.
  58. Per molti altri esempi di incoerenza cronologica e una discussione sulla sequenza narrativa in À la recherche du temps perdu, cfr. Joshua Landy, “The Texture of Proust’s Novel,” The Cambridge Companion to Proust, cur. Richard Bales (Cambridge: Cambridge University Press, 2001), 111–128, qui 112s.
  59. Carter, Marcel Proust, p. 28.
  60. Gérard Genette, Narrative Discourse, trad. Jane E. Lewin (Ithaca, NY: Cornell University Press, 1987), nota che queste “singulative scenes are dramatically very important” (117).
  61. Protagonista non presente: R I: 58; SW 63. Legge la mente, scruta i pensieri: R I: 114–115;; SW 125–126.
  62. Per un'ampia discussione dell'ambiguità generica della Recherche nel suo complesso, cfr. Dorrit Cohn, “Proust’s Generic Ambiguity” in The Distinction of Fiction (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1999), 58–78.
  63. Stephen Ullmann, The Image in the Modern French Novel: Gide, Alain-Fournier, Proust, Camus (Cambridge: Cambridge University Press, 1960); Victor E. Graham, The Imagery of Proust (Oxford: Basil Blackwell, 1966).
  64. Moishe Black, “Proust’s Comparisons: A Case Study,” Dalhousie French Studies 69 (2004): 63–72, analizza il paragrafo che inizia “Souvent aussi nous allions nous abriter” (I: 149–150) e riscontra 28 confronti, 71.
  65. Graham, Imagery, 6.
  66. R I: 50; SW 55.
  67. Ullmann, Image, 229, commenta riguardo alle “image sequences" di Proust.
  68. Gérald Antoine, “Proust ou le chaos métaphorique”, Cahiers de l’Institut de linguistique 10 (1984): 17–25, nota che Proust spesso crea metafore “incoherent” o “irrational” e cita il passaggio del campanile e il passaggio dei lilla come due dei suoi tre esempi.
  69. L'elenco completo dei gruppi di oggetti confrontati (tenors) è, in ordine di incidenza: 1. fiori (42); 2. chiese (40); 3. fenomeni naturali, inclusi i luoghi (31); 4. attività umane, sentimenti e attributi (31); 5. persone, incluse le donne se non viene enfatyizzata la femminilità (29); 6. figure femminili, attributi, o pertinenze (11); 7. cibo (10); 8. parti del corpo (7); 9. letteratura (7); 10. la città (6); 11. case o edifici (6); 12. odori (6); 13. suoni (5); 14. oggetti d'uso quotidiano o di vita quotidiana (4); 15. acqua, incluso il fiume (4); 16. concetti (4); 17. piante (3); 18. abiti (3); 19. il tempo (3); 20. animali, uccelli, o insetti (2); 21. cose (1); 22. oggetti d'arte o architettura (1).
  70. L'elenco completo degli oggetti confrontati (tenors) che ispirano le metafore cospicue è: 1. fiori (38); 2. chiese (35); 3. fenomeni naturali, inclusi i luoghi (16); 4. persone, incluse donne in cui non viene enfatizzata la femminilità (14); 5. figure femminili, attributi e pertinenze (11); 6. cibo (8); 7. attività umane, sentimenti e attributi (7); 8. case (5); 9. parti del corpo (3); 10. la città (3); 11. odori (3); 12. letteratura (3); 13. il tempo (3); 14. acqua (2); 15. abiti (2); 16. oggetti d'uso quotidiano o vita quotidiana (2); 17. suoni (2); 18. piante (2); 19. concetti (2); 20. animali, uccelli, o insetti (1); 21. arte (1); 22. cose (1).
  71. R I: 66; SW 71.
  72. Sulla relazione tra le strutture metaforiche e quelle metonimiche nel testo di Proust, cfr. Gérard Genette, “Proust palimpseste”; Genette, “Proust et le langage indirect,” Figures II (Parigi: Seuil, 1969), 223–294; Genette, “Métonymie chez Proust,” Figures III (Parigi: Seuil, 1972), 41–63; Paul de Man, “Proust et l’allégorie de la lecture,” in Mouvements premiers: Études critiques offertes à Georges Poulet (Parigi: Corti, 1971), 231–250, e “Semiology and Rhetoric”, Diacritics (1973), 27–33; Samuel M. Weber, “The Madrepore”, MLN 87 (1972), 915–961; e Owen Miller, “Necessary Meta phors and Contingent Metonymies”, Dalhousie French Studies 38 (1997): 103–108.
  73. Gérard Genette, “Métonymie chez Proust”. Prima di Genette, Ullmann, Image, ha fatto la stessa osservazione, sebbene non usi il termine “metonymy”, e parli piuttosto di “the transmuting of a chance association into a metaphorical experience”, 167.
  74. Genette, “Métonymie”, 50.
  75. Roman Jakobson, "Two Aspects of Language and Two Types of Aphasic Disturbances", in Roman Jakobson and Morris Halle, Fundamentals of Language (Gravenhage: Mouton, 1956): 55–82, qui 78.
  76. Nathalie Buchet Rogers, “Proust hypotexte de theories linguistiques ou passé/pavés glissants: Le Scandale de la métaphore chez Proust,” Bulletin Marcel Proust 29 (1999): 147–165;, qui 149. Miller, “Necessary Meta phors,” espone la questione. Discutendo con il suggerimento di Paul de Man secondo cui la metonimia è una figura basata sul caso, egli propone che esistano metonimie “necessarie” e “contingenti”: quelle “necessarie” che implicano “una connessione naturale o logica tra due oggetti”, come ad esempio “mano”, “penna” e “scrittura” (107).
  77. Genette lo implica, “Métonymie”, 66. Genette dimostra che questo fenomeno non è limitato a “Combray”.
  78. R I: 136; SW 150.
  79. Si potrebbe considerare che tali metafore rientrino nella categoria delle “metafore reciproche” di Ullmann, Image, 188, 196, 229–230. Ullmann afferma che l’esempio lampante è il parallelo tra ragazze e fiori, ma sottolinea anche giustamente che “in un modo più generale, il rapporto tra natura e arte è anche reversibile” (230). Genette, “Métonymie”, 54, definisce la metafora reciproca un artificio tipicamente barocco. Usa un esempio diverso, quello delle caraffe della Vivonne, dove il vetro è paragonato all'acqua indurita e l'acqua ai cristalli liquidi.
  80. Lillà: R I: 134; SW 469; églantines: R I: 136; SW 150 (“rose canine”); fiori di melo: R I: 144; SW 159.
  81. R I: 869; cfr. anche R I: 854 in materia di associazioni basate sulle parole.
  82. Madame A. Daudet, “L’Enfance d’une Parisienne,” in Oeuvres de Madame A. Daudet 1878– 1899 (Parigi: Alphonse Lemerre, 1892), 1–113, qui 66.
  83. Delle 268 metafore e similitudini che conto, ne trovo solo 5 che probabilmente trascendono la conoscenza del bambino così come lo raffigura Proust. Sono il paragone della tisana ai fiori di tiglio con il bagliore di una parete dove è stato rimosso un affresco (R I: 51; SW 56), il paragone di un oggetto che non riesce ad afferrare bene con un corpo incandescente circondato da una zona dell'evaporazione (R I: 83; SW 90), il paragone di una sensibilità messa a tacere dalla felicità con un'arpa inutilizzata (R I: 114; SW 125), il paragone di Françoise con Joas di Racine (R I: 107), il paragone di una rivelazione da parte di Eulalie di una scoperta che innesca un nuovo campo di ricerca scientifica (R I: 116; SW 127), il paragone di M. Legrandin con un falsario del Settecento (R I: 131; SW 144), il paragone di una ninfea che gira in tondo con i condannati dell'Inferno di Dante (R I: 167; SW 184) , il confronto delle ninfee con ghirlande di rose muscose all'indomani di una fête galante di Watteau (R I: 167; SW 185), e il confronto dell'effetto dei tappeti rossi con quello di Lohengrin, Carpaccio e Baudelaire (R I: 176; SW 194). Un'eccezione alla pratica generale di Proust di riservare lo strumento della metafora alla prospettiva del bambino è il paragone di una sensibilità messa a tacere dalla felicità con un’arpa inutilizzata, che è chiaramente un pezzo di commento narrativo (R I: 114; SW 125).
  84. Pecore: R I: 47; SW 52; pipistrello: R I: 61; SW 66; farfalla: R I: 82; SW 89; vespa: R I: 122; SW 134; pesce: R I: 177; SW 196; fagottino: R I: 49; SW 54; zucchero filato: R I: 52; SW 57.
  85. La lista completa in ordine di frequenza è la seguente: 1. oggetti d'arte o di architettura (27); 2. oggetti tratti dal mondo degli animali, degli uccelli o degli insetti (22); 3. persone, comprese le donne, in cui la femminilità non è enfatizzata (22); 4. fenomeni naturali (17); 5. figure, attributi o pertinenze femminili (17); 6. oggetti religiosi (la chiesa e oggetti di rito religioso) (14); 7. cibo (13); 8. oggetti di uso e di vita quotidiani (12); 9. oggetti di interesse infantile come giochi o fiabe (11); 10. fiori (10); 11. piante (9); 12. letteratura (9); 13. musica (9); 14. gioielli o pietre preziose (8); 15. riferimenti scientifici o meccanici (7); 16. oggetti di fantasia o particolari (6); 17. attività, sentimenti e attributi umani (6); 18. acqua, compreso il fiume (6); 19. termini relativi all'oceano (6); 20. parti del corpo (5); 21. regalità (4); 22. barca (4); 23. luoghi (4); 24. artisti (3); 25. riferimenti mitologici (3); 26. odori (2); 27. colore (2); 28. case (2); 29. veicoli vari che non rientrano in nessuna delle categorie precedenti (9).
  86. R IV: 622, “pressentir”; TR 526.
  87. Tadié, Marcel Proust, p. 8.
  88. R I: 40; SW 43.
  89. R I: 382, “faire sortir”; SW 423.
  90. Richard Bales, “Proust and the Fine Arts,” in The Cambridge Companion to Proust, cur. Richard Bales (Cambridge: Cambridge University Press, 2001), 183–199, qui 283.
  91. R I: 167; SW 185.
  92. Mancano metafore anche nella parte di Le Côté de Guermantes dedicata alla morte della nonna; presumibilmente il soggetto è troppo serio per un alleggerimento estetico così fantasioso.
  93. R II: 161; BG 523.
  94. R II: 167; BG 532.
  95. R II: 103; BG 442.
  96. R II: 55; BG 373.
  97. R II: 59; BG 379.
  98. Rose della Pennsylvania: R II: 156; BG ;47; orchidea, calabrone: R III: 6; SG 6.
  99. R I: 381–382; SW 422.
  100. Arnold R. Bruhn, Earliest Childhood Memories, Vol. 4: Theory and Application to Clinical Practice (New York: Praeger, 1990), 69, 103.
  101. JS 299; js 95.
  102. (EN) "It often happens that the pleasure which everyone takes in turning over the keepsakes that his memory has collected is keenest in those whom the tyranny of physical illness and the daily hope of its cure prevent, on the one hand, from going out to seek in nature scenes that resemble those memories and, on the other hand, leave so convinced that they will shortly be able to do so that they can remain gazing at them in a state of desire and appetite and not regard them merely as memories or pictures" (R III: 536; C 24–25).
  103. R IV: 4622; TR 282.
  104. R IV: 459; TR 277.
  105. Esquisse LIII: R I: 810; cfr. anche Esquisse LIV: R I: 827.
  106. JS 535; js 486.
  107. Georges Poulet, Proustian Space, trad. Elliott Coleman (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1977), 27.
  108. Ibid., 28.
  109. Biancospini: R I: 139; SW 153; mare: R II: 88 e R II: 186; BG 420–421 e BG 558.
  110. Mlle de Stermaria: R II: 680; GW 528; Mme de Guermantes: R II: 784; GW 677.