Tradizione ebraica moderna/Capitolo 4

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Ritratto di Hermann Cohen, eseguito da Max Liebermann (1918)

Ebraismo e Idealismo critico: Hermann Cohen[modifica]

Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Hermann Cohen, Criticismo e Idealismo.

Hermann Cohen fu un pensatore ebreo o un filosofo tedesco? Apparteneva principalmente alla tradizione della filosofia ebraica o invece alla tradizione classica dell'idealismo critico, di cui Kant è figura paradigmatica e punto di riferimento fondamentale? L'opinione contemporanea su Cohen è stata segnata da polemiche. Negli ambienti ebraici, pur essendo rispettato e riconosciuto come una voce autorevole, fu anche criticato e accusato di negare la sua identità ebraica. Intanto le sue opere filosofiche, nonostante le rispettose attenzioni, non sempre ebbero successo nel mondo accademico, dove più di una volta incontrò problemi a causa delle sue origini ebraiche. In questo Capitolo affronterò la questione dello status di Cohen come filosofo ebreo esaminando principalmente i testi occasionali di Cohen su argomenti ebraici e le controversie contemporanee che interessarono la comunità ebraica ai suoi tempi.

La vita di Cohen in breve[modifica]

Hermann Cohen nacque a Coswig (Anhalt) il 4 luglio 1842, figlio di Gerson Cohen e Friederike Salomon. All'età di undici anni fu mandato al liceo classico di Dessau. All'età di quindici anni, sebbene ancora iscritto al liceo come studente esterno, Hermann entrò nel seminario teologico di Breslavia, dove iniziò la sua formazione rabbinica. Appena conseguita la maturità lasciò anche il seminario, attratto ormai dalla filosofia e dalla filologia. Nel 1861 si iscrisse all'Università di Breslavia e nel 1864 si trasferì a Berlino per studiare lì.

Nel 1865, Cohen ottenne un dottorato in filosofia a Halle, con una tesi intitolata Le dottrine dei filosofi sull'antinomia della necessità e della contingenza (Philosophorum de antinomia necessitatis et contingentiae doctrinae). Anche se successivamente continuò le sue ricerche, i suoi sforzi per avviare una carriera accademica a Berlino incontrarono notevoli difficoltà. Nel 1871 pubblicò la Kants Theorie der Erfahrung (La teoria kantiana dell'esperienza), un’opera che segnò indiscutibilmente una fase nuova e originale nell'interpretazione della filosofia kantiana. Il libro attirò presto l'attenzione di Friedrich Albert Lange (1828–1875), autore della Geschichte des Materialismus (Storia del materialismo).[1]

Nel 1873 Lange, che all'epoca insegnava all'Università di Marburgo, invitò Cohen lì come “Privatdozent”. Pochi anni dopo, nel 1875, Cohen fu nominato “Extraordinariat” nella stessa università e, dopo la morte di Lange nel 1876, fu nominato alla cattedra di filosofia che Lange aveva ricoperto prima di lui. Iniziò così un lungo periodo di insegnamento a Marburgo, durante il quale Cohen sviluppò il suo sistema filosofico, fondò una vera e propria “scuola” e diede fama all’università, divenendo una delle figure di maggior spicco sulla scena filosofica tedesca tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.

Durante gli anni trascorsi a Marburgo, Cohen sviluppò ulteriormente la sua interpretazione di Kant ed elaborò anche un proprio sistema filosofico, un assaggio del quale si trova nei suoi stessi scritti su Kant. Contemporaneamente, Cohen si trovò spesso chiamato a difendere la posizione culturale occupata dalla sua scuola. La sua influenza fu senza dubbio ostacolata, sia a livello accademico che politico, dal fatto che alcuni dei suoi membri principali erano ebrei, compreso lo stesso Cohen. La cosa più spiacevole di tutte fu lo scontro di Cohen con la propaganda antiebraica, che allora era in aumento sia in Germania che all'estero. Tra questi episodi il più significativo fu la controversia iniziata dall'antisemita Heinrich von Treitschke nel 1879–80, alla quale prese parte anche Cohen.

Nel 1912 Cohen, all'età di settant'anni, si ritirò dalla cattedra di Marburgo e si trasferì a Berlino, dove iniziò a insegnare presso la "Lehranstalt für die Wissenschaft des Judentums", e continuò attraverso saggi pubblicati a prendere parte attiva ai dibattiti riguardanti l'ebraismo tedesco. Fu in questo periodo che Cohen dedicò gran parte della sua ricerca filosofica all'indagine della religione, un tema strettamente legato al suo stesso ebraismo ma connesso anche alla sua filosofia sistematica. I risultati più maturi di questa indagine si trovano in Il concetto di religione nel sistema della filosofia (Der Begriff der Religion im System der Philosophie), pubblicato nel 1915, e, soprattutto, in Religione della ragione dalle fonti dell'ebraismo ( Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums), pubblicato postumo nel 1919.

Gli ultimi anni di Cohen furono un misto di sfide e trionfi. Mentre era a Berlino, Cohen incontrò il giovane Franz Rosenzweig, che rimase colpito dalla personalità e dalla filosofia di questo anziano insegnante, e stabilì con lui uno stretto rapporto. Nel 1914 Cohen viaggiò in Polonia e Russia, dove ebbe la soddisfazione di un grande successo personale. Ma al suo ritorno a Berlino, la momentanea luce del suo successo fu presto oscurata da rinnovate dispute nazionaliste, anche con il suo devoto amico Paul Natorp. Lo scoppio e il progresso della guerra acuirono le tensioni tra tedeschi ed ebrei tedeschi e infiammarono le braci ardenti del sentimento antiebraico. Cohen si trovò nuovamente obbligato a difendere la sua fede difficile ma profondamente radicata in una sintesi idealizzata di ebraismo, germanesimo e universalismo etico. Per questo venne aspramente criticato dalla parte tedesca, non solo da fazioni antiebraiche, ma anche da coloro che invocavano il patriottismo tedesco (patriottismo che lo stesso Cohen affermava di sostenere, come si vede nella sua disputa con Natorp). Incontrò critiche anche da parte degli ambienti ebraici, che guardavano con sospetto alla sua sincera adesione alla causa tedesca.

Cohen morì a Berlino il 4 aprile 1918, testimone dell'imminente sconfitta della Germania (che si arrese pochi mesi dopo). Cohen aveva già visto la fine della sua scuola filosofica, e ora vedeva anche la caduta della Germania, declino dovuto non solo a cause politico-militari ma soprattutto alla deviazione dagli ideali del “germanesimo” a cui Cohen aderiva. Tuttavia, gli fu risparmiata la tragedia più grande di tutte, la violenta persecuzione sistematica e l'annientamento fisico dell'ebraismo tedesco, tradizione alla quale apparteneva per nascita e per scelta. Fu una persecuzione alla quale fu successivamente sottoposta la moglie Martha Cohen: sopravvisse al marito per poi morire vittima dei nazisti nel campo di concentramento di Theresienstadt.

Cohen e l'ebraismo[modifica]

Nella sua “Introduzione” agli Jüdische Schriften (Scritti ebraici) di Cohen, pubblicata da Bruno Strauß nel 1924,[2] Franz Rosenzweig offrì un ritratto convincente del rapporto di Cohen con l'ebraismo, un ritratto che molti ora considerano definitivo. In un passaggio di apertura, Rosenzweig fornisce questa guida al rapporto di Cohen con l'ebraismo:

« The road that led to this discovery and self revelation was a long one – the two things were parallel, the second even more significant than the first – it was a road of further development and conversion and return. There is only one Hebrew word that describes both the man of conversion and the man of return, and the Talmud says that his place in heaven is where not even the perfectly righteous are allowed. A speaker at a banquet honoring Cohen after his return at the age of nearly 72 from an important journey to Russia, called him “Baal teshuvah” meaning that he was now once again devoting himself to his brothers in the faith. At that point, with his hearing finely attuned to tones and their underlying harmonics, he interrupted to exclaim: ‘Well, I have been a Baal teshuvah for the last thirty-four years!’. He was backdating the beginning of his ‘return’ to 1880 when he hurled himself into the ongoing controversy, that ‘Profession about the Jewish Question’ which, on two fronts, against Treitschke on the one hand, and against Graetz and Lazarus on the other, was to provoke more anger in his own party than amongst his anti-Semitic adversaries. But he was aware of having started then along the route he was now still following. »
(F. Rosenzweig, Einleitung, ibid., pp. XXf.)

Secondo il ritratto di Rosenzweig, sebbene Hermann Cohen fosse cresciuto in un ambiente religioso, dopo aver lasciato il seminario rabbinico per dedicarsi alla filosofia, aveva anche trascurato il suo ebraismo; si immerse nella cultura scientifica e filosofica tedesca e perse tutti i suoi legami essenziali con la religione e l'identità ebraica, tranne quelli di affetto che lo legavano alla famiglia. Secondo Rosenzweig, rimaneva solo un importante “ponte” tra Cohen e la tradizione ebraica: il socialismo, un ideale politico verso il quale Cohen sentiva una devozione duratura e che egli riempiva coi contenuti della profezia ebraica e del messianismo.[3] L'incontro con Friedrich Albert Lange, che si era rivelato decisivo per la sua carriera accademica, indicava anche un accordo umano al di là delle diverse provenienze religiose, nel condiviso idealismo socialista. Rosenzweig ricorda un dialogo breve e significativo riportato dallo stesso Cohen:

« Lange asked: ‘Are our views on Christianity different?’ Cohen answered: ‘No, because what you call Christianity I call prophetic Judaism.’ The author of ‘Arbeiterfrage’ [i.e. Friedrich Albert Lange] understood what he meant, and was able to indicate the passages in the Prophets he had underlined in his copy of the Bible. Cohen finished the story thus: So ethical socialism united us, in one blow, beyond the barriers of our religions. »
(Ibid., pp. XXVs)

L’anno 1880 segnò l'inizio del lungo “ritorno” di Cohen all'ebraismo. Heinrich von Treitschke, esponente di spicco e stimato del mondo accademico tedesco, diede inizio alla controversia a cui si accennava prima con un articolo antiebraico, pubblicato nel 1879. Cohen rispose un anno dopo con un saggio, "Una professione sulla questione ebraica" (Ein Bekenntnis in der Judenfrage),[4] che iniziava con la frase significativa: “Siamo ancora una volta obbligati a dare testimonianza”.[5] Da questo momento in poi, Cohen non si sottrasse mai alla responsabilità di rendere pubblica “testimonianza” in difesa dell'ebraismo con dichiarazioni politiche, accademiche, filosofiche e di altro tipo, e si impegnò anche nella pianificazione e nella creazione di istituzioni e attività promozionali a sostegno dell'ebraismo. Secondo Rosenzweig, anche gli scritti filosofici di Cohen erano sempre più consapevoli e in alcuni casi addirittura ispirati a concetti specificamente ebraici. Ciò era particolarmente vero per due caratteristiche distintive dell'ebraismo, che Cohen vedeva come il suo (dell'ebraismo) contributo speciale alla cultura tedesca: l'unicità e la spiritualità di Dio, e il messianismo.

Ethik des reinen Willens (Etica della Volontà Pura)[6] (la seconda parte del sistema filosofico di Cohen, pubblicata nel 1904, seguita da una seconda edizione nel 1907), insieme ad altri scritti dello stesso periodo, dimostrano uno stile di pensiero veramente filosofico, fortemente influenzato da concetti derivati dall'ebraismo.[7] Nella maturità, quindi, Cohen era tornato al suo ebraismo a tal punto che Rosenzweig poté osservare de Ethik des reinen Willens che "per la prima volta in un sistema filosofico universale le parti che trattano della filosofia della religione sono orientate verso il concetto della religione dell'ebraismo".[8] Allo stesso tempo, Cohen raggiunse una vera sintesi tra la dimensione appena scoperta dell'ebraismo e del kantismo, che per lui era filosoficamente primaria, e significava filosofia “tedesca” nel senso più alto. Così Rosenzweig riassunse la posizione di Cohen:

« Towards the end of this period, in 1911, in a commemorative piece for Ludwig Philippson, he gave his opinion on the German Jew’s duty to split his activity between work on German culture, without reservations and ulterior motives and work on the survival of his own prophetic-Jewish religion; this split of activity ‘endows our spirit alone with true unity and truly our spirit with natural orientation and the core of life’. It was in accordance with these words (...) that he lived. »
(Ibid., p. XXXVIII)

Tuttavia, sosteneva Rosenzweig, il ritorno di Cohen all'ebraismo rimase incompleto. Se Cohen aveva ritrovato (o in parte non lo aveva mai perso) il significato filosofico dei contenuti concettuali dell'ebraismo, e aveva elaborato una sintesi tra questi contenuti e la tradizione filosofica tedesca, ciò che ancora mancava e ciò che proprio questa sintesi rischiava di nascondere alla vista era la specificità della religione ebraica rispetto alla filosofia. Il ritorno “storico” ai concetti dell'ebraismo in filosofia seguì l'approccio dei “grandi idealisti dell'inizio del [XIX] secolo” ed era quindi ancora orientato all'acquisizione dei contenuti della religione per il bene della filosofia stessa, in definitiva andando oltre la religione.[9]

L'ulteriore e più decisivo passo di Cohen nel suo “ritorno” all'ebraismo fu realizzato solo negli ultimi anni dopo il trasferimento a Berlino. Fu lì, dopo essersi ritirato dal mondo accademico e pur continuando le sue ricerche filosofiche, che Cohen si dedicò più intensamente al pensiero religioso e compose le sue ultime opere sull'argomento, opere in cui formulò una teoria sistematica della religione ebraica. Qui Cohen offre una riflessione profonda e originale sulla correlazione tra l'uomo e Dio, correlazione per la quale la religione si rivela ormai il campo necessario per concepire il legame tra il Dio vivente della fede (un Dio irriducibile all'Idea filosofica) e l'uomo come individuo concretamente esistente (un individuo irriducibile a umanità astratta e universale).[10]

Tuttavia, nonostante le sue sfumature e la sua posizione autorevole, il ritratto di Cohen fatto da Rosenzweig qui riassunto è in realtà piuttosto controverso. È stato contestato (a mio avviso in modo convincente) da un certo numero di studiosi, tra cui Alexander Altmann.[11] In effetti, ora ci rendiamo conto che sotto molti aspetti è più significativo come riflesso della biografia e della prospettiva filosofica di Rosenzweig che come ricostruzione fedele dello sviluppo di Cohen.

Ciononostante, la parabola che caratterizza la vita e il pensiero di Cohen come un lungo ritorno all'ebraismo non è stata creata solo da Rosenzweig; riflette anche l'immagine di sé tenuta da Cohen. Ciò è evidente se ricordiamo ancora una volta le parole con cui Cohen iniziò il suo pamphlet del 1880 contro Treitschke: “Siamo ancora una volta obbligati a testimoniare”. Cohen in seguito affermò che il suo ritorno all'ebraismo risaliva a quel preciso momento.[12] Due ulteriori documenti servono a segnare con precisione cronologica questa nuova autocoscienza. In primo luogo, come prova del suo precedente abbandono dell'ebraismo abbiamo una lettera fortemente emotiva del 1872 indirizzata a Louis e Helene Lewandowsky, in cui Cohen descriveva la sua partecipazione al seder pasquale di famiglia, ma ammetteva apertamente che il suo "romanticismo ebraico" (jüdische Romantik) era fondato solo sugli affetti familiari e non su un sentimento veramente religioso.[13] In secondo luogo, abbiamo un resoconto che segna il suo definitivo ritorno all'ebraismo con parole pronunciate quando era vecchio e malato, come riferito da Rosenzweig:

« I can still see him, when he had recovered once again from his illness, lying on the sofa and saying happily: That I, of all people, I, Ezekiel the thirty sixth – that was his Hebrew name – should come to cause Ezekiel the first to be newly honoured!’, then, in Hebrew, almost to himself: ‘Repel all your sins... give yourselves new hearts and new spirits’, and again, in a hardly audible whisper: ‘...repel ...and give yourselves... give’. »
(F. Rosenzweig, Einleitung, cit., p. LII)

Questo schizzo della relazione di Cohen con l'ebraismo è relativamente semplice. Ora però dobbiamo ammettere che la situazione era in realtà un po’ più complessa. In primo luogo, se è vero che il giovane Cohen si rivolse con decisione alla ricerca filosofica, soprattutto sull'idealismo classico (Platone e Kant), va anche notato che egli si avviò in questa direzione sotto la guida di Chajim Steinthal, e pubblicò i suoi primi saggi in Zeitschrift für Völkerpsychologie und Sprachwissenschaft, a cura di Steinthal e Moritz Lazarus. Il contesto era certamente scientifico piuttosto che religioso, ma era comunque di carattere ebraico. In secondo luogo, non dovremmo trascurare il fatto che, a partire dalla sua risposta a Treitschke nel 1880, ogni volta che Cohen fu chiamato a difendere l’ebraismo dagli attacchi esterni, egli mantenne sempre l'inequivocabile convinzione che l'identità ebraica fosse radicata nel significato religioso dell'ebraismo, e che tutti i tentativi di spostare la questione ebraica in una direzione politica o etnica significava perdere l'essenza stessa dell'ebraismo. Già in Ein Bekenntnis in der Judenfrage, Cohen aveva dichiarato: "My intention is to treat the Jewish question particularly from this religious viewpoint; not as the spokesman of a Jewish party, but as a representative of philosophy in a German university and as an individual who professes Israelite monotheism".[14]

Un terzo punto da tenere presente (anche se può sembrare in contraddizione con quanto appena osservato) è che Cohen fu per molto tempo convinto che i contenuti più significativi della religione ebraica e l'influenza profonda e ispiratrice della cultura “tedesca” avrebbe infine portato l'ebraismo al suo completamento oltre lo status di una religione specifica, per essere infine assorbito nella cultura generale dell'umanità. Solo in vecchiaia riconobbe che la religione aveva una sua “peculiarità” inattaccabile (Eigenart). Ma anche in quella fase, sebbene Cohen concepisse la religione stessa come monoteismo ebraico e come una religione “dalle fonti dell'ebraismo”, egli scorgeva anche nell'ebraismo una verità di valore universale per l'intera umanità. Considerava quindi la sopravvivenza di Israele per un futuro indefinito come un requisito, poiché Israele doveva continuare a testimoniare la verità del monoteismo e del messianismo all'interno di una cultura in cui quella verità non era stata ancora del tutto assorbita.

Va infine notato che, pur non potendo dubitare dell'esplicita ostilità di Cohen nei confronti del nazionalismo ebraico (da lui giudicato come un ritiro politico-culturale degli ebrei dalla cultura universale, in particolare da quella tedesca che vedeva dotata di vocazione universalista), egli si batteva comunque per l'identità politica degli ebrei all'interno di un unico Stato pluralista. A dire il vero, rimase contrario a tutte le forme di nazionalismo ebraico e si oppose strenuamente alle opinioni sia di Heinrich Graetz[15] che di Moritz Lazarus.[16] Soprattutto, come illustrato nel suo scontro con Martin Buber, Cohen fu sempre apertamente ostile al “partito palestinese” (sionisti).[17] Tuttavia, nei suoi ultimi anni, Cohen sviluppò una nozione etica unica di “nazionalità” – distinta dalla categoria naturalistica di “nazione” – che gli permise di sostenere la continua persistenza di diverse identità di gruppo (in particolare, l'identità ebraica) all'interno del contesto di uno Stato unico, universalista ma pluralista.[18]

Sintesi tra idealismo critico ed ebraismo[modifica]

Non ci sono dubbi sul fatto che una sintesi integrale tra idealismo critico ed ebraismo fosse lo scopo dell'intera vita di Cohen. Tutta l'opera di Cohen lo testimonia fin dall'inizio. Nel saggio del 1869, il suo Der Sabbat in seiner kulturgeschichtlichen Bedeutung (Shabbat nel suo significato storico-culturale),[19] Cohen suggerì provocatoriamente (e con orrore di alcuni) che il Sabbath ebraico e la domenica cristiana dovessero coincidere in modo da facilitare una maggiore integrazione ebraica nella società tedesca e a diffondere più efficacemente il significato etico e sociale dello Shabbat in tutta la cultura. La già citata risposta del 1880 a Treitschke rivisita anche il tema persistente coheniano di un accordo interiore tra ebraismo e cultura tedesca (finanche tra ebraismo e cristianesimo), un accordo apparentemente fondato sulla cultura etica dell'umanesimo universale.[20] In risposta alle critiche mosse dal suo amico rabbino Adolf Moses, Cohen ribadì ancora la sua convinzione fondamentale che la fedeltà allo spirito dell'ebraismo non implicava separazione, ma piuttosto integrazione attiva all'interno di una cultura universalista.[21]

Tuttavia, alla fine della sua lunga carriera e dopo molti anni di intensa riflessione, Cohen aveva notevolmente rivisto le sue opinioni: non asseriva più il precedente suggerimento riguardante un Sabbath ebraico spostato di domenica, cambiamento di opinione dovuto senza dubbio anche ai cambiamenti nel contesto storico.[22] Ciononostante, della sintesi tra ebraismo e filosofia rimase più che mai certo. Il 5 febbraio 1918, due mesi prima della sua morte, Cohen ribadì in una lettera alla madre di Franz Rosenzweig, Adele, la sua “professione di fede” (Bekenntnis) nell'unità della religione ebraica e della cultura filosofica, unità che vedeva proprio come l'aveva vista in 1880:

« And yet we are living in a new barbarian invasion and a new epoch appears to be bursting upon us. Thus important political disquiet impinges on private worries for me as well. It’s an advantage for us that in this confusion we can follow a clear direction. The positive thing about it lies in the fact that our cultural philosophy [Kulturphilosophie] is in full agreement with our religion. This is a proof that, first of all, it is authentic and that, besides, it could never be overtaken by any other profession [Bekenntnis] with the same clarity and precision. »
(H. Cohen, Briefe, cit., pp. 82s.)

Questo tema – che esiste un forte accordo tra la religione ebraica e la filosofia, e soprattutto l'etica – ricorre in tutti gli scritti di Cohen. Un tale accordo, secondo lui, non era meramente estrinseco o casuale, ma era una chiara prova dell'influenza fondatrice del monoteismo ebraico sulla cultura. Cohen era convinto che la cultura umanistica universale, così come si manifesta nella tradizione filosofica dell'idealismo critico tedesco, avesse le sue radici più profonde non solo nel pensiero scientifico greco, ma anche nel monoteismo e nel messianismo ebraico, da cui continuò a trarre ispirazione per i suoi principi etici più basilari.

Data la devozione di Cohen a questo tema fondamentale, possiamo considerare Cohen come ispirato e come collaboratore del grande movimento Wissenschaft des Judentums (Scienza dell’Ebraismo) per la riforma dell'ebraismo e della cultura, un movimento derivante da Moses Mendelssohn e dall'Haskalah (Illuminismo ebraico), che fu particolarmente attivo nella prima metà dell'Ottocento. Cohen fu probabilmente uno dei suoi membri più importanti nella generazione che seguì la sua fondazione (da parte di Zunz, Jost e altri).[23] Cohen non solo fu protagonista nelle sue organizzazioni ufficiali (ad esempio, Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaft des Judentums), alle quali contribuì sia con conferenze che con saggi,[24] ma assunse anche un ruolo attivo nella Lehranstalt für die Wissenschaft des Judentums a Berlino. Questo non era semplicemente un lavoro parallelo ma accessorio alla ricerca filosofica di Cohen; i due erano infatti strettamente intrecciati. Come ha notato Dieter Adelmann, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums (Religione della ragione dalle fonti dell'ebraismo) di Cohen, pubblicato postumo, fu originariamente concepito e composto come una trattazione del tema Ethik und Religionsphilosophie (Etica e filosofia della religione), ed era inteso come un contributo al più ampio progetto, un cosiddetto Compendio dell'intera scienza dell'ebraismo (Grundriss der Gesamtwissenschaft des Judentums) sotto la direzione della Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaft des Judentums.[25]

Il contributo di Cohen alla Scienza dell’Ebraismo non si limitò all'organizzazione e alla pubblicazione; era soprattutto teorico. Il suo obiettivo principale era dimostrare e sviluppare ulteriormente l'idea di una simbiosi tra ebraismo e cultura filosofica. Ciò richiedeva senza dubbio una reinterpretazione dell'intera religione ebraica alla luce della concezione kantiana e idealista critica dell'etica umanista-universalistica. Ma per Cohen ciò non significava svuotare l'ebraismo del suo significato autonomo, poiché a suo avviso la stessa cultura filosofica, e in particolare l'etica, aveva le sue radici nell'ebraismo. Due compiti complementari – aprire l'ebraismo al suo significato etico universale e rivelare i fondamenti ebraici della filosofia universale – furono quindi uniti come uno solo. La relazione tra pensiero ebraico e idealismo critico non era semplicemente una questione della biografia intellettuale di Cohen; era anche il tema costante e la visione unificante di tutta la sua opera.

Accanto alle pubblicazioni più importanti, questo tema riappare costantemente in molte delle opere meno conosciute e durante le varie fasi dello sviluppo di Cohen. In Religiöse Postulate (Postulati religiosi),[26] conferenza da lui tenuta davanti al Secondo Congresso del Verband der deutschen Juden del 1907, il tema sopra citato emerge con chiarezza, al punto da suggerire tra i “postulati religiosi” dell'ebraismo tedesco quello di istituire cattedre universitarie di Scienza dell'Ebraismo e di teologia ed esegesi ebraiche (una delle priorità della Scienza dell'Ebraismo stesso).[27]

Il primo tra i “postulati” identificati da Cohen era il monoteismo stesso, il postulato del Dio uno e unico.[28] Il monoteismo, dal suo punto di vista, non era solo il fondamento e l'essenza della religione ebraica, ma era anche la fonte stessa della moralità. Più specificamente, era proprio il significato dell'ebraismo in quanto fonte di moralità per l'intera umanità. Qui dovremmo ricordare la già citata affermazione di Cohen secondo cui la vocazione dell'ebraismo è la sua funzione di ispirazione per la cultura universale: l'ebraismo afferma la sua specificità nella misura in cui funziona all'interno della cultura. Qui Cohen spiegò che la crescente indifferenza della gioventù ebraica per la religione monoteista non era dovuta alla crescente influenza della cultura e della filosofia (come era opinione diffusa), ma piuttosto a una crisi culturale e filosofica. “Recentemente – scrive Cohen – l'avversione alla religione, tuttavia, è andata aumentando negli ambienti colti, a causa della sfiducia e della mancanza di modestia nei confronti della filosofia”.[29] L'allontanamento dalla religione era quindi un segno di “sfiducia” nei confronti della filosofia. Questo perché il Dio Unico dell'ebraismo non è, come gli dei mitici, una credenza particolare, in opposizione alla tendenza universalistica della cultura, ma, al contrario, l'idea ispiratrice della cultura etica universale. Non esiste quindi alcuna alternativa, bensì esiste una piena, indissolubile unità tra monoteismo ebraico e umanesimo filosofico.

(IT)
« Non esiste cultura [Bildung] generale , né cultura [Kultur] europea, né etica senza l'idea del Dio Unico e del Dio della morale. Non c’è fondamento e stabilità della cultura senza una moralità scientificamente fondata. Per questo è necessaria l'idea del Dio Unico. La morale non ha bisogno di altri dei: ma ha bisogno del Dio Unico. Pertanto non può esserci né cultura né etica europee senza la fondamentale partecipazione dell'ebraismo. »

(EN)
« There is no general culture [Bildung] nor any European culture [Kultur] nor any ethics without the idea of the Unique God and the God of morality. There is no foundation and stability of culture without a scientifically grounded morality. For this reason the idea of the Unique God is necessary. Morality does not need other gods: but it does need the Unique God. Therefore there can be neither European culture nor ethics without the fundamental participation of Judaism. »
(Cohen, Reason and Hope, pp. 44-51)

Il secondo “postulato” – il messianismo ebraico – seguì come diretta conseguenza del primo. Contro coloro che, preoccupati per la particolare identità del “popolo” ebraico, si opponevano alla partecipazione allo Stato tedesco e alla cultura universale dell'umanità, Cohen sosteneva che il senso autentico del messianismo ebraico risiedeva nella vocazione del popolo di Israele a vivere tra gli altri popoli proprio per promuovere l'umanità universale: "Il Dio Unico ci ha privati della nostra patria per restituircela nell'umanità",[30] osservò Cohen. "Se non avessimo, o non avessimo più, questa missione, non avrebbe alcun senso ebraico preservare la nostra identità etnica".[31] Il significato centrale di questa affermazione risiede nella frase “senso ebraico”. Questo speciale senso dell'identità ebraica consisteva nell'abbandonare qualsiasi concezione di tale identità come separazione e adottare invece un'identità dedicata alla realizzazione dell'umanità universale. Oggi, questa affermazione può essere difficile da accettare per i lettori, data la nostra conoscenza della tragedia della Shoah. Sebbene Cohen fosse profondamente consapevole della persecuzione antiebraica, non avrebbe mai potuto immaginare che potesse esserci il rischio reale dell'annientamento totale della vita ebraica e che potesse presentarsi la situazione storica in cui gli ebrei avrebbero potuto considerare la loro stessa esistenza, anche in senso religioso, come “comandamento”.[32] Ma non ne consegue che la nostra nuova prospettiva, impostaci dalla tragedia storica, abbia svuotato l'argomentazione di Cohen di ogni validità.

Nel 1910, Cohen pubblicò un saggio, Innere Beziehungen der Kantischen Philosophie zum Judentum (Le relazioni interne della filosofia di Kant con l’ebraismo),[33] che tentava di dimostrare la profonda armonia tra Kant e l'ebraismo, quest'ultimo rappresentato dalla filosofia ebraica medievale. Il saggio è un'illustrazione calzante del metodo particolare di Cohen: l'ebraismo, sosteneva Cohen, mostra un accordo fondamentale non solo con l'etica kantiana ma anche con le premesse logiche fondamentali della filosofia trascendentale in quanto tale. Il concetto stesso di ragione critica corrisponde a temi fondamentali che ispirarono i grandi filosofi ebrei del periodo medievale, vale a dire il rifiuto assoluto del cieco fideismo e l'assoluta fiducia nel carattere razionale dei contenuti della rivelazione.[34] Cohen sottolinea inoltre la piena concordanza tra l'ebraismo e i temi etici più importanti di Kant: il rifiuto dell'eudemonismo,[35] la concezione del principio morale come legge,[36] e il concetto di autonomia,[37] che in Kant non è contraddetto nemmeno dall'accettazione di un legislatore supremo, del Dio Unico e spirituale, e dell'idea di Dio.[38] Cohen sottolineava ulteriormente la duplice tesi di Kant riguardante l'unità della ragione e la sua applicazione dualistica – secondo cui (1) la ragione è il terreno comune sia per la conoscenza scientifico-naturale che per la moralità, anche se (2) natura e moralità rimangono rigorosamente distinte. Kant aveva così evitato il panteismo, secondo Cohen l'antitesi dell'ebraismo e l'errore filosofico per eccellenza.[39] Cohen fece ulteriore riferimento alle idee di immortalità,[40] di umanità, cosmopolitismo, uguaglianza politica e pace eterna – tutti temi kantiani che presentavano una marcata somiglianza con gli ideali profetici e messianici.[41] Anche l'idea kantiana di “male radicale”, sosteneva Cohen, era legata a un tema innato nello stesso ebraismo (un'affermazione unica che Cohen aveva già sviluppato approfonditamente nella seconda edizione del 1910 di Kants Begründung der Ethik[42] e sulla quale ritornò costantemente fino alla sua ultima opera, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums).[43]

Anche se non possiamo proseguire qui un'analisi approfondita dell'argomentazione coheniana, vale la pena soffermarci a considerarne i temi principali. Esaminiamo innanzitutto il quadro di questo saggio (originariamente una conferenza tenuta il 3 gennaio 1910 alla Lehranstalt für die Wissenschaft des Judentums), che ci permetterà di esplicitare un tema cruciale nella concezione coheniana della sintesi tra ebraismo e idealismo critico. Cohen ammetteva che le rare osservazioni di Kant sull'ebraismo erano in gran parte negative, suggerendo così che la relazione era tutt'altro che stretta. Perciò all'inizio del saggio Cohen introduce una distinzione tra “storia della letteratura” e “storia della filosofia, come (...) delle scienze”.[44] Infatti nella storia della letteratura tutto ciò che è scritto da un autore è considerato importante poiché il suo scopo è quello di fornire una ricostruzione approfondita dell'insieme del corpus scritto di un dato filosofo. Per la storia della filosofia, tuttavia, ciò che conta è solo il contributo originale del filosofo all'interno della propria sfera di competenza. È quindi metodologicamente difendibile ignorare le osservazioni di Kant sull'ebraismo poiché, secondo le parole di Cohen, Kant non era “competente sulle questioni relative alla religione ebraica e alla Scienza dell’Ebraismo”.[45]

Nel suo saggio Innere Beziehungen der Kantischen Philosophie zum Judentum, Cohen non si preoccupava di un’interpretazione della filosofia di Kant in sé, ma piuttosto delle “relazioni interne [innere Beziehungen]” tra quest'ultima e l'ebraismo. Egli mise quindi da parte non solo la storia della letteratura, ma anche la storia della filosofia, per affrontare un possibile confronto ad un altro livello, cioè quello della “filosofia della religione”. Dovremmo ricordare qui che Cohen stesso era un membro del comitato del Compendio dell'intera Scienza dell'Ebraismo e noto per essere "specializzato nel campo dell'‘Etica e Filosofia della Religione’".[46] Prima della sua udienza alla Lehranstalt für die Wissenschaft des Judentums, parlò degli obiettivi e del metodo fondamentale della filosofia della religione. L'obiettivo principale non era descrivere la religione in tutti i suoi vari aspetti storici ma identificare l'essenza – il significato fondamentale – della religione. Per fare ciò, il metodo da perseguire non era una ricostruzione neutra o asettica dei dati empirici in cui la religione appare, ma piuttosto “l'idealizzazione concettuale dei suoi pensieri fondamentali”. Per un compito del genere non si poteva lasciare che l'immaginazione si scatenasse in modo arbitrario e soggettivo. Bisognava invece rivolgersi al metodo critico e filosofico dell'idea.[47]

Questa fu e rimase l'essenza della concezione coheniana della filosofia della religione. Informò tutti i suoi pensieri sulla relazione tra ebraismo e cultura, tra ebraismo e filosofia, e tra ebraismo e germanesimo.[48] A questo punto, possiamo riassumere notando che l'ebraismo per Cohen è sempre la “idealizzazione concettuale” dell'ebraismo: cioè profezia, insegnamento morale, universalismo e umanesimo, che, se presi insieme, costituiscono “l’essenza eterna del nostro religione."[49] Bisogna però aggiungere che per Cohen la sintesi tra ebraismo e cultura filosofica e scientifica non era soltanto un ideale; il suo metodo fu anche di importanza decisiva per la continua vitalità dell'ebraismo come tradizione vivente. L'impegno di Cohen verso la Scienza dell'Ebraismo derivava dalla sua convinzione che l'ebraismo non può essere ridotto a una conservazione statica o ripetitiva della tradizione. A suo avviso non esiste alternativa tra tradizione e innovazione; sono infatti complementari. Se l'innovazione non affonda le sue radici nella tradizione è arbitraria, mentre se la tradizione non viene continuamente alimentata a nuova vita dall'innovazione, verrà prosciugata degli stessi contenuti che vuole preservare (e per innovazione Cohen intendeva la cultura filosofica). Le “fonti” e il “concetto” dell'ebraismo sono quindi i due poli tra i quali deve procedere l'ebraismo come fede viva.

Il saggio del 1916 Der polnische Jude (L'ebreo polacco)[50] fu scritto per superare la resistenza tedesca, anche da parte di alcuni ebrei tedeschi, all'immigrazione ebraica dall'Europa orientale. Pur riconoscendo la grande sofferenza degli ebrei polacchi e russi nonché la vitalità religiosa che avrebbero potuto apportare all'ebraismo tedesco, Cohen richiama anche l'attenzione su come quest'ultimo (incarnato nella Scienza dell’Ebraismo) potrebbe aiutare a migliorare l'identità ebraica dell'Europa orientale: "Spesso ho avuto modo di constatare che la sensibilità intellettuale dell'ebreo orientale è lacerata da una frattura spirituale: non c'è in essa alcuna mediazione tra l'ortodossia e l'indifferenza religiosa".[51] In questione, secondo Cohen, c’era una tradizione religiosa eccessivamente statica che alla fine avrebbe portato all'abbandono e all'indifferenza. Cohen mise a confronto la “stasi” degli ebrei dell'Europa orientale con l'eredità e le conquiste in corso dell'ebraismo tedesco, in particolare con la Scienza dell’Ebraismo:

« Although this fracture is also present in Jews integrated into European culture [Kulturjude], in this case it is, at least partially, compensated for by much despised religious liberalism. Moses Mendelssohn did not only teach us the German language (...), but also built up for us a sturdy defence against the attacks of modern culture on our religion. All marginal facts, which would seem to contradict this, fall before the historical fact that it was (...) actually we German Jews who alone created the Science of Judaism»
(Ibid., pp. 165s/194s)

Cohen si affrettò ad aggiungere che questo percorso non era meramente pragmatico. La sintesi idealizzata tra ebraismo e cultura (“la rivelazione della scienza alla nostra religione e a partire da essa”)[52] serve anche come idea regolatrice della storia, senza la quale non sarebbe possibile comprendere il rapporto speciale tra ebraismo e cultura tedesca. E spiegava:

« This is the great example and paradigmatic meaning that the German Jew has for the future of Judaism, for Judaism in the whole world in its religious evolution. We were able to posit the interpretation of our history and continuation of our religious practices in harmony with the most intimate motives of our religious tradition and, at the same time, with those of universal culture. »
(Ibid., pp. 166/195s)

Simbiosi ideale tra ebraismo e germanesimo[modifica]

Consideriamo ora brevemente uno dei saggi più interessanti, anche se spesso criticati, di Cohen, Germanismo ed ebraismo (Deutschtum und Judentum).[53] Qui Cohen formulò una vera apologia dell'intimo rapporto tra ebraismo e germanesimo. Lo fece non solo per convincere i tedeschi e gli ebrei tedeschi di condividere uno spirito culturale comune, ma anche per invitare tutti gli ebrei d'Europa e d'America a riconoscere il loro debito culturale nei confronti dell’ebraismo tedesco e, di conseguenza, dello stesso germanesimo, a tal punto che anche nel mezzo della guerra avrebbero potuto essere spinti a riconoscere la Germania come portatrice dell'umanesimo universale, del socialismo messianico e della pace perpetua (cioè delle idee eterne che compongono l'essenza dell'ebraismo).

Cohen sviluppò questo argomento concependo la “grecità” come una fonte comune o “tertium comparationis”[54] tra “germanesimo” e “ebraismo”: Lo spirito greco (in particolare, il platonismo) è una fonte di idealismo filosofico, ed è di conseguenza sia in intimo accordo con il monoteismo e il messianismo ebraico sia un'ispirazione per il cristianesimo, portando infine alla Riforma luterana e da lì al germanesimo. Lo scopo più ampio di Cohen era quello di dimostrare che l'idealismo (cioè l'idealismo critico di Nicola da Cusa, Leibniz e Kant) costituisce l'essenza stessa della filosofia e della cultura tedesca e quindi ispira la Germania nella sua speciale vocazione storica a promuovere l'umanesimo universale, il socialismo, l'uguaglianza, e giustizia sociale, una confederazione di stati e pace perpetua. Allo stesso tempo, Cohen volle dimostrare che per questa vocazione il germanesimo non si era soltanto ispirato a fonti ebraiche, ma la sua stessa realizzazione in epoca “classica” fu raggiunta grazie al decisivo contributo degli ebrei tedeschi. Parimenti, questo coinvolgimento ebraico nello sviluppo della cultura classica tedesca aveva anche incoraggiato la maturità e la riforma dello stesso ebraismo tedesco (nella direzione dell’idealismo scientifico ed etico). Qui Cohen assegnò il ruolo essenziale a Moses Mendelssohn e ai rappresentanti della Scienza dell'Ebraismo che furono suoi eredi.[55]

La tesi generale presentata nel saggio di Cohen è davvero provocatoria. Gershom Scholem ha osservato nel suo diario: “[Uncle Georg] gave me Germanism and Judaism by Hermann Cohen, an impossible piece. The connections he conjured up are [such] that one would like to run away”.[56] Con poche eccezioni, le reazioni al saggio da parte sia degli ebrei che dei tedeschi furono in gran parte ostili.[57] La risposta di Jacob Klatzkin è particolarmente degna di nota.[58] Gli ci volle poco per smascherare l'apparente relazione tra la grecità e l'ebraismo come un'illusione, e osservò che altrove nei suoi scritti Cohen stesso aveva effettivamente riconosciuto le differenze tra loro.[59] Klatzkin fece un’obiezione simile agli argomenti di Cohen riguardanti l’apparente relazione tra ebraismo e cristianesimo.[60] Inoltre, Klatzkin notò anche che per abbracciare l'affermazione di Cohen secondo cui l'idealismo era la vera fonte della cultura tedesca, era necessario limitare innanzitutto il significato dell'idealismo al razionalismo critico, umanista, universalista e messianico — valori in cui Cohen vedeva un punto di convergenza tra germanesimo ed ebraismo. Ma ciò significava espellere Hegel dalla filosofia tedesca e ignorare tutte le altre figure influenti con tendenze divergenti – ad esempio il materialismo storico, la scuola giuridica storica, Schopenhauer, Nietzsche e lo spinozismo romantico.[61] Infine, per quanto riguarda il contributo diretto degli intellettuali ebrei alla cultura classica tedesca, Klatzkin obiettò che tale partecipazione non era cruciale, come aveva supposto Cohen, e che non era più importante del contributo che gli ebrei avevano sempre dato alle diverse culture alle quali erano stati assimilati pur mantenendo un'identità culturale distintiva.[62]

Se i contemporanei di Cohen non hanno avuto difficoltà a trovare fatti con cui confutare le argomentazioni di Deutschtum und Judentum, lo stesso è forse ancora più facile e necessario per i lettori di oggi, gravati come siamo dal tragico ricordo della Shoah. A difesa di Cohen, si potrebbe sostenere che difficilmente ci si poteva aspettare che lui prevedesse quegli sviluppi futuri. Ma una tale difesa sarebbe allo stesso tempo sterile e (in parte) falsa: sarebbe sterile perché relegherebbe Cohen e le sue idee in un passato morto senza alcuna rilevanza per il presente, e sarebbe falsa perché anche se Cohen non avrebbe mai potuto prevedere il nazismo e la Shoah, avrebbe dovuto rendersi conto, come Klatzkin e tanti altri come lui, che lo stato attuale della cultura tedesca, come dell'ebraismo, non corrispondeva certo al suo ideale. La tesi principale di Cohen, ad esempio, era: “La filosofia tedesca è idealismo”.[63] È questa tesi che sostiene e media la costruzione ideale del rapporto tra germanesimo ed ebraismo. Ma ai tempi di Cohen, la cultura tedesca non era più guidata prevalentemente dall'idealismo universalista e umanista di Kant e Schiller in filosofia[64] o di Bach, Mozart e Beethoven nelle arti,[65] bensì includeva come filoni significativi leader e tendenze molto diverse. Naturalmente Cohen non era certo ignaro di tali tendenze. Eppure credeva (o forse voleva credere) che figure culturali come Schopenhauer, Nietzsche e Wagner fossero stelle effimere nel firmamento culturale tedesco, destinate a cadere poiché “unGerman” nel senso idealista di Cohen. Naturalmente la storia tedesca non era andata come Cohen sperava. E anche l'ebraismo come inteso all'epoca di Cohen, era molto diverso dal concetto di ebraismo da lui immaginato: le tendenze nella direzione della differenziazione dalla cultura europea e il separatismo nazionale (rappresentato soprattutto dal sionismo) non erano, come credeva Cohen, solo fenomeni secondari, ma erano invece il corso predominante dell'ebraismo europeo dell'epoca. In sintesi, nel periodo in cui Cohen scriveva, tedeschi ed ebrei, lungi dall'unirsi in un comune spirito idealista, erano già su percorsi divergenti.

Per tali ragioni, i commentatori più recenti sono rimasti ampiamente critici nei confronti del carattere astratto e storicamente irreale del saggio di Cohen, un carattere che hanno identificato con la qualità astratta del metodo filosofico di Cohen nel suo complesso. Emil Fackenheim, ad esempio, notò “a strange abstractness, a shadowy sort of idealism which ascribes to ideas and ideals far greater power and responsibility than they ever can carry”. Egli osserva inoltre: “Such abstractness, a grave fault in any case, becomes altogether fatal when it assumes a dreamlike quality; when everything is staked on ideas and ideals – in this case, those of Kant, Goethe and Schiller – which, so far as any historical efficacy was concerned, had long vanished into the past”.[66]

Contro tali accuse di astrazione intellettuale e cecità storica, Steven Schwarzschild ha risposto in difesa di Cohen e ha riaffermato l'attualità della sua visione.[67] Schwarzschild ha prodotto prove documentali per dimostrare che, nonostante la concezione idealizzata di Cohen riguardo ad una simbiosi tra ebraismo e germanesimo, Cohen stesso riconosceva con amarezza, sia pubblicamente che privatamente, la condizione inquietante della società tedesca in quel momento.[68] Le tesi di Cohen, quindi, non si basavano su un'analisi della situazione reale, ma intendevano suggerire programmaticamente un paradigma ideale in grado di fondare sia il giudizio critico nel presente sia i compiti per il futuro. L'“idealizzazione”, quindi, è la chiave interpretativa per comprendere adeguatamente la prospettiva di Cohen sul rapporto tra ebraismo e germanesimo e, più in generale, tra ebraismo e filosofia, e tra ebraismo e cultura.[69] Dopo aver fornito una breve illustrazione della tecnica di “idealizzazione” di Cohen,[70] Schwarzschild conclude:

« In this light we can finally translate into our language what Cohen’s thesis of ‘the German-Jewish symbiosis’ was meant to signify. It was not essentially a descriptive proposition but a regulative one. It said in effect: there are a number of social and intellectual forces at work in both the German and the Jewish historical cultures which can and should be used so as to advance as much and as quickly as possible whatever dynamic force they possess toward the goal of a cosmopolitan, humanistic, ethical world society. »
(Ibid., p. 154)

Il principio di “idealizzazione” ricorre in tutti gli scritti di Cohen ed è forse il mezzo migliore per comprendere le sue vere intenzioni. Non è la Germania, ma il “concetto” di “germanesimo” che lo preoccupa. Quest'ultimo è un ideale: è l'archetipo, il paradigma critico e il compito infinito della cultura tedesca, così come l'ebraismo è per Cohen il “concetto” dell'ebraismo, che trova la sua definizione iniziale attraverso la “ragione” come fonte primaria e a priori e contemporaneamente attraverso le “fonti dell’ebraismo”.[71] In definitiva, il vero fondamento della vita e dell’opera di Cohen fu l’idealismo critico, per il quale egli si rivolse sia alla tradizione filosofica di Platone e Kant sia alla tradizione ebraica del monoteismo e del messianismo.

Tuttavia, nonostante questa difesa, si deve riconoscere apertamente che Cohen credeva (o almeno avrebbe voluto credere) che l'ideale sarebbe effettivamente nato nella cultura tedesca, e che i segnali filosofici, artistici, sociali e politici distorti erano semplicemente fenomeni marginali e sarebbero stati presto superati. Su questo punto aveva senza dubbio torto. Ciò non significa, però, che l'attualità del pensiero di Cohen possa essere salvata, come nel caso di Schwarzschild, solo vedendone la realizzazione in altri luoghi e in altri tempi (ad esempio, la simbiosi tra ebraismo e cultura americana)[72] oppure (e questa mi sembra una prospettiva più interessante) riaffermando il valore regolativo dell'ideale di Cohen per una coesistenza sempre più positiva di diverse “entità socio-storiche” in generale.[73] Tale prospettiva potrebbe essere vera, anche dopo la Shoah, anche per la cultura tedesca.

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico, Serie delle interpretazioni e Serie letteratura moderna.
Hermann Cohen a fine ’800
Hermann Cohen a fine ’800
  1. F. A. Lange, Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart, Baedeker, Iserlohn 1866.
  2. F. Rosenzweig, Einleitung, in H. Cohen, Jüdische Schriften, cur. Bruno Strauß, con una Introduzione di Franz Rosenzweig, Schwetschke, Berlino 1924, Vol. 1., pp. XIII–LXIV.
  3. Cfr. ibid., pp. XXIIIf.
  4. H. Cohen, Ein Bekenntnis in der Judenfrage, in idem, Jüdische Schriften, cit., Vol. 2., pp. 73–94.
  5. Ibid., p. 73.
  6. H. Cohen, System der Philosophie. Zweiter Teil: Ethik des reinen Willens, Bruno Cassirer, Berlino 1904, 1907 (seconda ediz.); rist. in idem, Werke, cit., Vol. 7., Georg Olms, Hildesheim – New York 1981.
  7. Cfr. F. Rosenzweig, Einleitung, cit., pp. XXXIss.
  8. Ibid., p. XXXVI.
  9. Cfr. ibid., pp. XXXVf.
  10. Cfr. ibid., pp. XLIIIff.
  11. Cfr. A. Altmann, Hermann Cohens Begriff der Korrelation, in In zwei Welten. Sigfried Moses zum 75. Geburtstag, hrsg. von H. Tramer, Bitaon, Tel Aviv 1962, pp. 377–399.
  12. Cfr. Cohen, System der Philosophie. Zweiter Teil: Ethik des reinen Willens.
  13. Cfr. H. Cohen, Briefe, ausgewählt und herausgegeben von Bertha und Bruno Strauß, Schocken Verlag/Jüdischer Buchverlag, Berlin 1939, pp. 38ff.
  14. H. Cohen, Ein Bekenntnis in der Judenfrage, cit., p. 74.
  15. Cfr. ibid., p. 86.
  16. Cfr. ibid., pp. 81ss.
  17. Cfr. ibid., p. 85. Sullo scontro tra Cohen e Buber sul sionismo, cfr. H. Cohen, Zionismus und Religion. Ein Wort an meine Kommilitonen judischen Glaubens, von Geh. Regierungsrat Prof. Dr. Hermann Cohen, in idem, Jüdische Schriften, cit., Vol. 2., pp. 319–327; M. Buber, Begriffe und Wirklichkeit. Brief an Herrn Geh. Regierungsrat Prof. Dr. Hermann Cohen, in “Der Jude,” no. 5, agosto 1916, pp. 281–289; H. Cohen, Antwort auf das offene Schreiben des Herrn Dr. Martin Buber an Hermann Cohen, in idem, Jüdische Schriften, cit., Vol. 2., pp. 328–340; M. Buber, Zion, der Staat und die Menschheit. Bemerkungen zu Hermann Cohens “Antwort,” in “Der Jude,” no. 7, ottobre 1916, pp. 425–433 (tutti questi saggi sono stati ristampati nella nuova edizione critica e commentata di Cohen, Kleinere Schriften VI, cur. H. Wiedebach: H. Cohen, Werke, cit., Vol. 17., Georg Olms. Hildesheim – Zürich – New York 2002, pp. 211–275). Nella raccolta di saggi con le traduzioni italiane di questi scritti (H. Cohen, La fede d’Israele è la speranza. Interventi sulle questioni ebraiche (1880–1916). Con due lettere di Martin Buber a Hermann Cohen, cur. P. Fiorato, con poscritto di G. Bonola, Giuntina, Firenze 2000), ci sono alcuni commenti interessanti di P. Fiorato sulla controversia Cohen-Buber (Introduzione, pp. 38ss.) e anche di G. Bonola (Urgenze del lealismo e travagli dell’identità. Dietro le quinte e intorno alla polemica Cohen-Buber, pp. 283ff.).
  18. Su questo argomento, cfr. S. Schwarzschild, “Germanism and Judaism” – Hermann Cohen’s Normative Paradigm of the German-Jewish Symbiosis, in Jews and Germans from 1860 to 1933: “The Problematic Symbiosis,” cur. D. Bronsen, Carl Winter – Universitätsverlag, Heidelberg 1979, pp. 129–172; H. Wiedebach, Die Bedeutung der Nationalitat für Hermann Cohen, Georg Olms, Hildesheim – Zürich – New York 1997.
  19. H. Cohen, Der Sabbat in seiner kulturgeschichtlichen Bedeutung, in idem, Jüdische Schriften, cit., Vol. 2., pp. 45–72.
  20. 25. Cfr., per esempio, H. Cohen, Ein Bekenntnis in der Judenfrage, cit., pp. 75ss., 91ss.
  21. 2Cfr. H. Cohen, Zur Verteidigung, in idem, Jüdische Schriften, cit., Vol. 2., pp. 95–100.
  22. nel 1912, Cohen affermava che aveva cambiato parere su questo punto (cfr. la nota di Bruno Strauß in H.Cohen, Jüdische Schriften, cit.,Vol. 2., p. 470), anche se certamente non negò le intenzioni originarie di questa proposta, come si evince da un saggio del 1917: cfr. H. Cohen, Mahnung des Alters an die Jugend, in idem, Jüdische Schriften, cit., Vol. 2., pp. 175s.; rist. in idem, Werke, Vol. 17., cit., pp. 577s.
  23. Va ricordato qui che il seminario di Breslavia, dove Cohen studiò, era uno dei centri più importanti per la Scienza dell’Ebraismo, e che gli insegnanti di Cohen erano tra i membri più importanti del movimento.
  24. Cfr., per esempio, H. Cohen, Die Errichtung von Lehrstühlen für Ethik und Religionsphilosophie an den jüdisch-theologischen Lehranstalten, in idem, Jüdische Schriften, cit., Vol. 2., pp. 108–125; idem, Zwei Vorschläge zur Sicherung unseres Fortbestandes, in idem, Jüdische Schriften, cit., Vol. 2., pp. 133–141; idem, Zur Begründung einer Akademie für die Wissenschaft des Judentums, in idem, Jüdische Schriften, cit., Vol. 2., pp. 210–217; rist. in idem, Werke, cit., Vol. 17., cit., pp. 625–635.
  25. Cfr. D. Adelmann, Die “Religion der Vernunft” im “Grundriss der Gesamtwissenschaft des Judentums”, cit., da cui ho estratto gran parte del materiale precedente.
  26. H. Cohen, Religiöse Postulate. Rede, gehalten am Frankfurter Verbandstage der deutschen Juden am 13. Oktober 1907, in idem, Jüdische Schriften, cit., Vol. 1., pp. 1–17; stralciato da Hermann Cohen, Reason and Hope, Eva Jospe, trad. (EN) (W. W. Norton, 1971), 44–51.
  27. Cfr. ibid., pp. 12ss.
  28. Cfr. ibid., pp. 1ss.
  29. Ibid., p. 2.
  30. Ibid., p. 7.
  31. Ibid.
  32. Cfr. E. L. Fackenheim, God’s Presence in History (New York University Press, 1970), 85.
  33. H. Cohen, Innere Beziehungen der Kantischen Philosophie zum Judentum, in idem, Jüdische Schriften, cit., Vol. 1., pp. 284–305. Stralciato da Cohen, Reason and Hope, 77–89.
  34. Cfr. ibid., pp. 287ss.
  35. Cfr. ibid., pp. 290s.
  36. Cfr. ibid., pp. 291s.
  37. Cfr. ibid., p. 292.
  38. Cfr. ibid., pp. 293s.
  39. Cfr. ibid., pp. 294ss.
  40. Cfr. ibid., p. 297.
  41. Cfr. ibid., pp. 297ss.
  42. H. Cohen, Kants Begründung der Ethik (La fondazione kantiana dell'etica), Dümmler, Berlin 1877; Bruno Cassirer, Berlin 1910 (seconda ed.); rist. in idem, Werke, cit., Vol. 2., Georg Olms, Hildesheim – Zürich – New York 2001, pp. 335–343. Precedenti considerazioni in questa direzione per esempio si trovano in H. Cohen, System der Philosophie. Zweiter Teil: Ethik des reinen Willens, cit., pp. 303, 626s.
  43. H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums (Religione della ragione dalle fonti dell'ebraismo), cur. B. Kellerman, Fock, Leipzig 1919; curr. B. Strauß, J. Kaufmann, Frankfurt a.M. 1929 (second ed.); rist. J. Melzer, Köln 1959, pp. 212s., 372.
  44. Ibid., p. 284.
  45. Ibid.
  46. D. Adelmann, Die “Religion der Vernunft” im “Grundriss der Gesamtwissenschaft des Judentums,” cit., p. 20.
  47. Cfr. H. Cohen, Innere Beziehungen der Kantischen Philosophie zum Judentum, cit., pp. 303s.
  48. Cfr. H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, cit., pp. 1ss.
  49. Cfr. H. Cohen, Innere Beziehungen der Kantischen Philosophie zum Judentum, cit., p. 304.
  50. H. Cohen, Der polnische Jude, in idem, Jüdische Schriften, cit., Vol. 2., pp. 162–171; rist. in idem, Werke, cit., Vol. 17., cit., pp. 189–202. Nelle citazioni che seguono, i numeri di pagina sono presi da Jüdische Schriften, seguiti subito da quelli in Werke.
  51. Ibid., pp. 165/193s.
  52. Ibid., pp. 166/195.
  53. H. Cohen, Deutschtum und Judentum. Mit grundlegenden Betrachtungen über Staat und Internationalismus, in idem, Jüdische Schriften, cit., Vol. 2., pp. 237-301; rist. in idem, Werke, cit., Vol. 16., Georg Olms, Hildesheim – Zürich – New York 1997, pp. 465–560. Stralciato anche da Cohen, Reason and Hope, 176–184. Nelle citazioni che seguono, i numeri di pagina sono da Jüdische Schriften, subito seguiti da quelli in Werke.
  54. Cfr. ibid., pp. 237/469.
  55. Cfr. ibid., pp. 266ss./511ss.
  56. G. Scholem, Tagebücher nebst Aufsätze und Entwürfe bis 1923, I. Halbband 1913–1917, unter Mitarbeit von H. Kopp-Osterbrink cur. K. Gründer and F. Niewöhner, Jüdischer Verlag, Frankfurt a.M. 1995, p. 207s.
  57. cfr. le osservazioni di Bruno Strauß nella nota in H. Cohen, Jüdische Schriften, cit., Vol. 2., p. 476, e quelle di H. Wiedebach, in H. Cohen, Werke, cit., Vol. 16., cit., p. XXXIII, note 81.
  58. Cfr. J. Klatzkin, Deutschtum und Judentum, in idem, Hermann Cohen, cit., pp. 57–93 (già pubblicato da Klatzkin in “Der Jude,” 1917, no. 4 and 5/6.: cfr. B. Strauß in H. Cohen, Jüdische Schriften, cit. Bd. 2., p. 476).
  59. Cfr. ibid., pp. 59ss.
  60. Cfr. ibid., pp. 70ss.
  61. Cfr. ibid., pp. 71ss.
  62. Cfr. ibid., pp. 79ss.
  63. H. Cohen, Deutschtum und Judentum. Mit grundlegenden Betrachtungen über Staat und Internationalismus, cit., pp. 239/471.
  64. Cfr. ibid., pp. 249s./487s.
  65. Cfr. ibid., pp. 251s./490.
  66. E. L. Fackenheim, Hermann Cohen – After Fifty Years, Leo Baeck Memorial Lecture 12, Leo Baeck Institute, New York 1969, p. 10.
  67. Cfr. S. Schwarzschild, “Germanism and Judaism” – Hermann Cohen’s Normative Paradigm of the German-Jewish Symbiosis, cit., p. 138.
  68. Schwarzschild (cfr. ibid., p. 139) fa riferimento alla prefazione della seconda edizione di Ethik des reinen Willens, del 1907 (cit., pp. Xf.) e alla lettera di Cohen a Natorp datata 27 ottobre 1916 (H. Holzhey, op. cit., Bd. 2., pp. 451ss.).
  69. Cfr. S. Schwarzschild, “Germanism and Judaism” – Hermann Cohen’s Normative Paradigm of the German-Jewish Symbiosis, cit., p. 142. Ciò ovviamente non ha nulla a che fare con le insinuazioni di Jacques Derrida che in Deutschtum und Judentum, Cohen stia ijn qualche modo deliriando, senza nemmeno la pretesa di oggettività (cfr. J. Derrida, Interpretations at War. Kant, le Juif, l’Allemand, in Phenomenologie et politique. Melanges offerts a Jacques Taminiaux, Ousia, Bruxelles 1989, pp. 230ss.); qui Derrida arriva al punto di insultare gratuitamente Cohen (cfr. ibid., pp. 255ss.).
  70. Cfr. S. Schwarzschild, “Germanism and Judaism” – Hermann Cohen’s Normative Paradigm of the German-Jewish Symbiosis, cit., pp. 147ff.
  71. Ciò viene ulteriormente sviluppato nell'antologia Yearning for Form and Other Essays on Hermann Cohen’s Thought, cit., pp. 111–128.
  72. Cfr. S. Schwarzschild, “Germanism and Judaism” – Hermann Cohen’s Normative Paradigm of the German-Jewish Symbiosis, cit., p. 157.
  73. Cfr. ibid.