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Agape: la nozione di "amore" nel cristianesimo

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Possibile raffigurazione di un agape, "il banchetto d'amore", in un affresco delle catacombe dei Santi Marcellino e Pietro a Roma.
A partire dal I secolo e fino al IV secolo è stata praticata tra i cristiani una fraterna cena in comune collegata al rito dell'eucarestia. Nei Vangeli è presente la pratica del banchetto conviviale[1], occasione di insegnamento dell'amore fraterno da parte di Gesù. Una prima attestazione di questa pratica è nella lettera paolina I Corinzi (11) e nella Lettera di Giuda nella quale viene indicata con questo nome[2]; così come la Lettera agli Smirnesi di Ignazio di Antiochia[3]e la Lettera a Traiano di Plinio il Giovane[4] confermano questa usanza religiosa.
Agape, seconda metà del III secolo, affresco rinvenuto nella Cappella greca della catacomba di Priscilla in Roma.
Alcune illustrazioni di cene dell'agape, come questa, ma anche quella rinvenuta nella Cappella greca della catacomba di Priscilla, intendono rappresentare dei banchetti funerari dedicati al defunto, simboleggiando il pasto celeste nel luogo di pace e di ristoro, e ricordano il Vangelo di Luca (22, 29-30). La chiesa ha difeso questa tradizione[5], ma risultando anche occasione di abusi si è risoluta a regolamentarla (Agostino, Confessioni 6.2; Concilio di Laodicea, cc.27–28) e infine ad abbandonarla. A partire dal IV secolo la pratica dell'agape si avvia a scomparire.
Precedente all'agape dei cristiani è il "banchetto sacro", testimoniato nella Regola della comunità (anche Manuale di disciplina), proprio della comunità ebraica di Qūmran (1QS 6.2–5):
« mangeranno in comune, benediranno in comune e delibereranno in comune. [...] E allorché disporranno la tavola, per mangiare o il vino dolce, il sacerdote stenderà per primo la sua mano per benedire in principio il pane e il vino dolce »
(Regola della comunità (1QS 6.2–5); traduzione Luigi Moraldi in Manoscritti di Qūmran, Torino, Utet, 1971, di pp. 150 e sgg.)
Altra pratica di pasto in comune precedente all'agape cristiana è il "Simposio", prima diffuso in Grecia e poi per tutto l'Impero romano.
"Il banchetto". Scultura rinvenuta nella tomba a camera detta del "Banchetto" nel 1978 a Egnazia, in Puglia. Conservata al Museo archeologico nazionale di Egnazia. La tomba venne utilizzata dal IV al II secolo a.C. La scena illustrata è quella del "banchetto funerario" (περίδειπνον; perídeipnon), successivo, insieme alle purificazioni, alla sepoltura.
Il "simposio (συμπόσιον) era invece quel banchetto che seguiva, nella Grecia antica e nella Roma imperiale, la cena. I partecipanti indossavano ghirlande e dopo il canto di un inno si iniziava la bevuta di vino diluita con acqua e si avviavano i dialoghi, spesso seri, su argomenti filosofici o politici, e comunque eruditi. A volte di assisteva alla recitazione di poesie o a spettacoli di danza o di mimo accompagnati da una flautista. Il rito era coordinato dal "simposiarca" (συμποσιάρχης, symposiàrches; a Roma rex convivii).
Sulle differenze tra il simposio greco e l'agape ebraico-cristiana, il grecista Domenico Musti osserva:
« Tra l’uso ebraico e quello greco del banchetto esistevano certo non poche differenze, a cominciare dalla rarità dell’uso del vino nel primo ambiente, eccezion fatta per le occasioni festive; ma notevoli restano le affinità, a cominciare dalla postura dei commensali, alla quale i Vangeli fanno costante riferimento col verbo anakéisthai (a cui si affianca anapíptein) éis trápezan, cioè "adagiarsi al tavolo", che è la forma evangelica per la posizione del commensale, che può significare solo lo "stare appoggiati al tavolo". E sono anche da considerare, in tema di analogie, la collocazione del commensale – che va dal posto più prestigioso, quello della protoklisía, il primo letto accanto a quello del padrone, ai posti più lontani e perciò meno onorevoli – e il bere (alla spartana, si direbbe) "dalla stessa coppa", un atto che accentua l’aspetto comunitario della riunione, e, non da ultimo, la stessa lavanda dei piedi. Se il simposio è una convivialità di tipo individuale e – adottando una categoria sociologica forte – di carattere privato, ne consegue naturalmente che la bevuta comune, come tale, abbia un carattere individualistico. Vi partecipano infatti piccole e grandi individualità; ma il protagonista, che ha conosciuto nel convito una comunità e una gioia transeunti, è poi restituito alla sua solitudine. Sulla festosa notte del simposio platonico, "impregnata delle forze dionisiache della sessualità e del vino", come sottolinea lo Steiner, aleggia la tristezza perché, dopo la cena comune, il personaggio centrale è riconsegnato alla sua solitudine. Socrate si reimmette nel "mercato", nella agorà, nella routine dei passi comuni e dei discorsi dell’uomo comune: non c’è misticismo, non c’è rivoluzione del tempo e del suo valore, si è ricondotti nelle braccia del tempo. Nel convito greco ciò è scontato, perché così è la vita; nel convito mistico è l’inizio di una redenzione, di una rivoluzione, un’esperienza e un cambiamento più radicali. »
(Domenico Musti, Il simposio nel suo sviluppo storico, Bari, Laterza, 2001)

Àgape (dal latino tardo agăpe-ēs; resa del greco ἀγάπη, agápē) è un termine che in lingua italiana possiede il significato di "amore", "affetto"[6] ma indica, in particolar modo, l'accezione cristiana del termine "amore"[7].

In quest'ultimo ambito il termine greco agápē ricorre per 320 volte nel Nuovo Testamento, testo redatto originariamente in lingua greco antica, e tradotto con il termine caritas nella sua versione latina risalente al IV secolo e conosciuta come Vulgata.

Il termine agápē ricorre nella letteratura cristiana delle origini anche per indicare quel fraterno banchetto che poteva accompagnare la celebrazione dell'eucarestia.

Etimologia del termine greco

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Il termine greco antico ἀγάπη è già presente in Omero il quale, ad esempio nell'Odissea XXIII, 214, fa esclamare a Penelope quando ella riconosce Odisseo:

(IT)
« Non essere, ora, adirato, non essere offeso
se non t'ho detto, appena ti vidi, il mio affetto »

(GRC)
« αὐτὰρ μὴ νῦν μοι τόδε χώεο μηδὲ νεμέσσα,
οὕνεκά σ᾽ οὐ τὸ πρῶτον, ἐπεὶ ἴδον, ὧδ᾽ ἀγάπησα »
(Omero, Odissea, XXIII, 213-214. Traduzione di G. Aurelio Privitera.)

A partire da questo primo testimone, il termine agápē ricorre, seppur non diffusamente, nella letteratura greca per indicare l'ambito dell'affetto e dell'amorevolezza. Pierre Chantraine evidenzia come l'origine del termine greco sia sconosciuta[8].

Termini e nozioni in lingua greca antica afferenti all'ambito dell'"amore"

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Sono diversi i termini che in lingua greca antica afferiscono a quello che noi intendiamo come "amore" nelle sue variegate sfumature: innanzitutto eros (ἔρως) inteso come "desiderio", con i suoi sinonimi o le sue sovrapposizioni, ad esempio himeros (ῖμερος) o anche pothos (πόθος) o philotes (Φιλότης)[9] tutti lemmi che, a partire da Omero e dai lirici in poi, intendono indicare nella letteratura greca quel "desiderio" che, come una potenza esterna, agisce su quella parte del corpo fisico in cui risiedono le emozioni: il petto (στῆθος, stèthos), il diaframma (φρένες, phrénes), il cuore (θυμός thūmós), per conquistarne le funzioni, finendo per occupare anche l'intelletto (il νοῦς, nous) e potendo quindi condurre alla vera e propria manìa (μανία), all'invasamento, colui che viene da questa potenza sottomesso.

In ambito filosofico il tema dell' Amore è citato in Parmenide (V sec. a.C.)[10] ma in Empedocle (V sec. a.C.) acquisisce un ampio impianto teologico quando il filosofo siceliota pone accanto alle quattro "radici" (ριζώματα), poste a fondamento del cosmo, e motore del loro divenire nei molteplici oggetti della realtà, due ulteriori principi: Φιλότης[11] (Amore) e Νεῖκος (Odio, anche Discordia o Contesa); avente il primo la caratteristica di "legare", "congiungere", "avvincere" (σχεδύνην δὲ Φιλότητα «Amore che avvince»[12]), mentre il secondo possiede la qualità di "separare", "dividere" mediante la "contesa". Così Amore nel suo stato di completezza è lo Sfero (Σφαῖρος), immobile (μονίη) uguale a sé stesso e infinito (ἀλλ' ὅ γε πάντοθεν ἶσος 〈ἑοῖ〉 καὶ πάμπαν ἀπείρων[13]). Egli è Dio. Significativo è il fatto che Empedocle appelli Amore con il nome di Afrodite (Ἀφροδίτη)[14], o con il suo appellativo di Kýpris (Κύπρις)[15], indicando qui la «natura divina che tutto unisce e genera la vita»[16]. Tale accostamento tra Amore e Afrodite ispirò al poeta romano Lucrezio l'inno a Venere, collocato nel proemio del De rerum natura. In questa opera Venere non è la potenza divina dell'amplesso, quanto piuttosto «l'onnipotente forza creatrice che pervade la natura e vi anima tutto l'essere», venendo poi, come nel caso di Empedocle, opposta a Marte, dio del conflitto.

Con Platone (V-IV sec. a.C.) si compie il fondamentale passo filosofico e teologico inerente a Eros. Nel Fedro[17] l'anima (ψυχή, psyché) umana decade dal mondo perfetto e intelligibile nel corpo fisico, durante il suo esilio prova un'irresistibile nostalgia per la condizione perduta. Nel Simposio[18] Eros è un demone figlio di Indigenza (Πενία, Penia, la madre) e di Espediente, (Πόρος, Poros, il padre, Ricchezza). Povero come la madre, Eros aspira alla ricchezza del padre: Eros è quindi anche una tendenza, una mania (μανία), uno stato emotivo provocato dalla bellezza terrestre che stimola il ricordo di quella perfetta e intelligibile, celeste, da cui l'anima è caduta[19]. Non è tuttavia la "bellezza" l'oggetto del desiderio dell'anima ma la sua fecondità[20]. A questo punto il filosofo ateniese individua due tipi di Eros: l'amore sensuale (πάνδημος ἔρως, pandemos eros) attratto dalla bellezza dei corpi provocante la fecondità fisica, e l'amore celeste (ουράνιος ἔρως, oruanios eros) attratto dall'amore spirituale e provocante al fecondità spirituale[21]: «E malvagio è quell'amante che è volgare e ama il corpo più dell'anima»[22]. Il vero amante si eleva quindi per sei gradi di attrazione che lo conducono dall'attrazione fisica alla realizzazione spirituale[23]: amore per un corpo bello; amore per la bellezza fisica in sé; amore per la bellezza delle attività, delle condotte; amore per la bellezza del sapere; amore per la Bellezza in sé: «È questo il momento della vita, o caro Socrate -disse la straniera di Mantinea-, che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un uomo, ossia il momento in cui un uomo contempla il Bello in sé. E se mai ti sarà possibile vederlo, ti sembrerà ben superiore all'oro, alle vesti, e anche ai bei ragazzi e ai bei fanciulli [...] Che cosa, dunque, noi dovremmo pensare -disse- se ad uno capitasse di vedere il Bello in sé assoluto, puro, non affatto contaminato da carni umane e da colori e da altre piccolezze mortali, ma potesse contemplare come forma unica lo stesso Bello divino?».

Platone utilizza diverse volte termini afferenti ad agápē[24] ma senza accezioni teologiche particolari, più che altro per rendere il concetto di "avere caro", "avere affetto", "venerare", "desiderare", "dilettevole". Per quanto attiene l'ambito della philia (φιλία) il filosofo ateniese lo utilizza nel Fedro[25] per una nozione vicina a quella moderna di "amicizia". Tale termine era già stato utilizzato da Pitagora[26] sempre nell'ambito dell'amicizia, arrivando ad essere indicata come il "fine di ogni virtù"[27]. La philia (amicizia) viene profondamente indagata da Aristotele nell'VIII Libro dell'Etica Nicomachea; e trattata anche da Epicuro[28].

Ma è solo a partire dall'Amatorius (Ἐρωτικός, Sull'amore) del medioplatonico Plutarco che la riflessione filosofica si avvia a distinguere esplicitamente l'eros che conduce alla philia (φιλία)[29], l'amore sentimentale; dal puro desiderio fisico, epithymia (ἐπιθυμία), che conduce al piacere, l'hedoné (ήδονή)[30].

Sempre in ambito filosofico, Plotino[31] utilizza termini relativi ad agape per descrivere l'amore che l'Uno riserva a sé stesso, in quanto «Egli è ciò che ama»[32].

Utilizzo del termine agápē nell'edizione in lingua greca della Bibbia dei Settanta

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Nel 312 a.C. Tolomeo sconfisse Demetrio Poliorcete a Gaza. Alcuni ebrei di Gerusalemme, che osteggiarono il condottiero macedone, vennero deportati ad Alessandria dove costituirono una comunità ebraica sempre più fiorente con l'arrivo di nuovi immigrati. Intorno alla metà del III secolo a.C. su richiesta della corte tolemaica, o più probabilmente dei funzionari della biblioteca di Alessandria con l'intenzione di possedere testi di cultura orientale tradotti nella lingua greca, venne tradotta dall'ebraico al greco dapprima la Torah e, successivamente, le altre parti della Bibbia[33]. La Bibbia redatta in greco, tradizionalmente indicata con il termine dei Settanta, o Septuaginta, conserva alcune differenze con quella appartenente alla tradizione medievale ebraica. Oggi[34] si è portati a ritenere che le due bibbie si poggino su due differenti testimoni. Fatto rilevante è che a Qumran sono stati recuperati dei frammenti biblici in ebraico che corrispondono alla versione greca[35]. In questo contesto la Bibbia in lingua ebraica conserva un insieme di termini, alcuni dei quali afferenti alla radice 'hb o alla radice ydc, con cui si intende indicare l'amore di Dio per gli uomini o degli uomini per Dio, anche se va tenuto presente che in tale contesto la radice 'hb, la quale ricorre 251 volte, in almeno una trentina di queste possiede il significato di "amore erotico"[36] Così in se in Deuteronomio 6,5 il termine con la radice 'hb indica l'amore nei confronti di Dio, in Geremia 31,3 è l'amore di Dio nei confronti dell'uomo, in Levitico 19,18 è l'amore nei confronti del prossimo, in 2 Samuele 1,26 rappresenta l'amore tra amici, in Genesi 29,20 è l'amore tra Giacobbe e Rachele, in Proverbi 7,18 indica l'"amore erotico", mentre in Qoelet 5,9 è l'amore per il denaro e in Salmi 4,3 è l'amore per le cose vane.

Nel Deuteronomio, come nei profeti (Osea, Isaia, Geremia ed Ezechiele), l'amore divino diviene passione irresistibile e indicato con חשק (ḥā-šaq):

(IT)
« Malgrado ciò soltanto ai tuoi padri si attaccò il Signore, li amò e scelse la loro progenie dopo di loro, cioè voi stessi fra tutti i popoli, com'è ancora oggi. »

(He)
« רק באבתיך חשק יהוה לאהבה אותם ויבחר בזרעם אחריהם בכם מכל־העמים כיום הזה׃ »
(Deuteronomio, 10, 15; traduzione di Elio Toaff)

Così i termini di radice 'hb, da cui il brano che precede[37], quindi לאהבה (lə-’a-hă-ḇāh), vengono quasi sempre tradotti nella Septuaginta con il termine greco di ἀγάπη (agápē), questo anche nei casi di amore "profano".

L'utilizzo dei termini greci relativi a ὲράω (erao, da cui eros, "amore passionale") e φιλέω (philéo, "affetto amicale") è invece piuttosto raro nella traduzione greca della Bibbia.

I motivi per cui nella versione greca della Bibbia ebraica si sia preferito utilizzare il lemma greco agape al posto del più diffuso lemma eros per significare i diversi generi di "amore" sono sconosciuti[38].

Utilizzo del termine agápē e il suo valore nel Nuovo Testamento

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Il Nuovo Testamento, scritto anch'esso in greco antico, continua la lezione della Septuaginta, ma escludendo del tutto il gruppo afferente ὲράω (erao, da cui eros, "amore passionale") e utilizzando di rado quello relativo a φιλέω (philéo, "affetto amicale"), anche se con profondità teologica. Il gruppo afferente al lemma ἀγάπάω (agapao, da cui agápē) è attestato nel Nuovo Testamento con ben 320 evenienze.

Gli ambiti del lemma, sia come sostantivo che come verbo, sono nel Nuovo Testamento, per lo più riferiti ai detti di Gesù, per le sue gesta in genere si utilizzano lemmi come ἔλεος (eleos) che indicano la compassione, la misericordia nei confronti dei poveri e degli ultimi[39].

In continuità con la Torah, e segnatamente con il medio-giudaismo[40], anche il messaggio di Gesù pone l'amore per Dio e per il prossimo al centro del suo insegnamento:

(IT)
« Gli rispose: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti." »

(GRC)
« ὁ δὲ Ἰησοῦς ἔφη αὐτῷ, Ἀγαπήσεις κύριον τὸν θεόν σου, ἐν ὅλῃ καρδίᾳ σου, καὶ ἐν ὅλῃ ψυχῇ σου, καὶ ἐν ὅλῃ τῇ διανοίᾳ σου. Αὕτη ἐστὶν πρώτη καὶ μεγάλη ἐντολή. Δευτέρα δὲ ὁμοία αὐτῇ, Ἀγαπήσεις τὸν πλησίον σου ὡς σεαυτόν. Ἐν ταύταις ταῖς δυσὶν ἐντολαῖς ὅλος ὁ νόμος καὶ οἱ προφῆται κρέμανται. »
(Vangelo di Matteo 22, 37-40)

Così come l'amore per i nemici e per gli stranieri.

(IT)
« Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano »

(GRC)
« Ἀλλὰ ὑμῖν λέγω τοῖς ἀκούουσιν· ἀγαπᾶτε τοὺς ἐχθροὺς ὑμῶν, καλῶς ποιεῖτε τοῖς μισοῦσιν ὑμᾶς »
(Vangelo di Luca 6,27)

Comandamenti già presenti anche nella Torah[41]. Tuttavia, come nota Edmondo Lupieri, anche se Gesù tratta i problemi propri del giudaismo dei suoi tempi:

« il modo di impostare le soluzioni appare caratteristico. Di solito Gesù sposta il discorso sul piano etico o generale, al punto da sconcertare i suoi interlocutori e gli stessi discepoli che si erano posti al suo seguito. Non risulta che abbia mai infranto alcuna norma di osservanza, tuttavia mostra non solo di non accettare, in quanto norme umane, quelle dettate dall'osservanza farisaica al di là del testo biblico, ma di porre le basi per il superamento dei concetti stessi di impurità e di contaminazione. [...] »
(Edmondo Lupieri, in Storia del cristianesimo vol.1 (a cura di Giovanni Filoramo). Bari, Laterza, 2008, pp.60-1)

Nell'insegnamento di Gesù vi sono anche le premesse per un superamento del culto dell'epoca[42] e un'apertura al mondo "pagano"[43].

« Sinora abbiamo visto la "via" indicata da Gesù nei termini di una critica e di una proposta di superamento di quegli aspetti esdrini del giudaismo, che anche altri movimenti giudaici contestavano. Possiamo spingerci oltre nell'indagine e individuare quale principio in positivo potesse permettere un simile insegnamento. Come in tutte le posizioni antiesdrine, assistiamo in Gesù a una ripresa della teologia della promessa, cioè alla sottolineatura del fatto che Dio terrà comunque fede alle sue promesse perdonando i peccati di Israele, per il quale non vi sarebbe possibilità di salvezza se Dio si attenesse al rispetto della legge, nei tempi dell'alleanza. Questo comporta quell'abbandono del fedele a Dio, caratteristico dell'insegnamento di Gesù sulla fede che salva (ad esempio Mc 2,5), e la contemporanea rinuncia alle sicurezze umane, prima fra tutte la ricchezza (Mc 10,17-22). La novità o, se si vuole, la grande utopia di Gesù è che l'unico metro di comportamento, non solo di Dio verso gli uomini, ma anche di tutti gli uomini tra loro, deve essere il perdono, fondato sull'amore reciproco (Mc 12,31). »
(Edmondo Lupieri)

(IT)
« Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore»

(GRC)
« Ὁ μὴ ἀγαπῶν οὐκ ἔγνω τὸν θεόν· ὅτι ὁ θεὸς ἀγάπη ἐστίν. »
(Prima lettera di Giovanni 4,8)

(IT)
« Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. »

(GRC)
« Οὕτως γὰρ ἠγάπησεν ὁ θεὸς τὸν κόσμον, ὥστε τὸν υἱὸν αὐτοῦ τὸν μονογενῆ ἔδωκεν, ἵνα πᾶς ὁ πιστεύων εἰς αὐτὸν μὴ ἀπόληται, ἀλλ’ ἔχῃ ζωὴν αἰώνιον. »
(Vangelo di Giovanni 3,16)

Ma se l'amore di Dio per gli uomini ha come sua espressione concreta la necessità da parte degli uomini di essere perdonati per i mali commessi, tale perdono divino si realizza nel momento in cui gli uomini stessi sono capaci di perdonarsi tra loro: il perdono di Dio per gli uomini si fonda quindi sulla capacità degli uomini di perdonare i propri simili.

(IT)
« Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe. »

(GRC)
« Ἐὰν γὰρ ἀφῆτε τοῖς ἀνθρώποις τὰ παραπτώματα αὐτῶν, ἀφήσει καὶ ὑμῖν ὁ πατὴρ ὑμῶν ὁ οὐράνιος·ὰν δὲ μὴ ἀφῆτε τοῖς ἀνθρώποις τὰ παραπτώματα αὐτῶν, οὐδὲ ὁ πατὴρ ὑμῶν ἀφήσει τὰ παραπτώματα ὑμῶν. »
(Vangelo di Matteo 6, 14-15)

Un perdono che, come quello divino, non può avere limiti o confini, in quanto deve essere di una capacità infinita:

(IT)
« Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. »

(GRC)
« Tότε προσελθὼν αὐτῷ ὁ Πέτρος εἴπεν, Κύριε, ποσάκις ἁμαρτήσει εἰς ἐμὲ ὁ ἀδελφός μου, καὶ ἀφήσω αὐτῷ; Ἕως ἑπτάκις; Λέγει αὐτῷ ὁ Ἰησοῦς, Οὐ λέγω σοι ἕως ἑπτάκις, ἀλλ’ ἕως ἑβδομηκοντάκις ἑπτά. »
(Vangelo di Matteo 18, 21-22)

L'agápē nelle lettere paoline

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(IT)
« 1. Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei un rame risonante o uno squillante cembalo. 2. Se avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare i monti, ma non avessi amore, non sarei nulla. 3. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi amore, non mi gioverebbe a niente. 4. L'amore è paziente, è benevolo; l'amore non invidia; l'amore non si vanta, non si gonfia, 5. non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non addebita il male, 6. non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità; 7. soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. 8. L'amore non verrà mai meno. Le profezie verranno abolite; le lingue cesseranno; e la conoscenza verrà abolita; 9. poiché noi conosciamo in parte, e in parte profetizziamo; 10. ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte, sarà abolito. 11. Quand'ero bambino, parlavo come un bambino, avevo il senno di un bambino, ragionavo come un bambino; quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. 12. Ora infatti vediamo come per mezzo di uno specchio, in modo oscuro, ma allora vedremo a faccia a faccia; ora conosco in parte, ma allora conoscerò proprio come sono stato conosciuto. 13. Ora dunque queste tre cose rimangono: fede, speranza e amore; ma la più grande di esse è l'amore»

(GRC)
« 1. Ἐὰν ταῖς γλώσσαις τῶν ἀνθρώπων λαλῶ καὶ τῶν ἀγγέλων, ἀγάπην δὲ μὴ ἔχω, γέγονα χαλκὸς ἠχῶν ἢ κύμβαλον ἀλαλάζον. 2. Καὶ ἐὰν ἔχω προφητείαν, καὶ εἰδῶ τὰ μυστήρια πάντα καὶ πᾶσαν τὴν γνῶσιν, καὶ ἐὰν ἔχω πᾶσαν τὴν πίστιν, ὥστε ὄρη μεθιστάνειν, ἀγάπην δὲ μὴ ἔχω, οὐθέν εἰμι. 3. Καὶ ἐὰν ψωμίσω πάντα τὰ ὑπάρχοντά μου, καὶ ἐὰν παραδῶ τὸ σῶμά μου ἵνα καυθήσωμαι, ἀγάπην δὲ μὴ ἔχω, οὐδὲν ὠφελοῦμαι. 4. Ἡ ἀγάπη μακροθυμεῖ, χρηστεύεται· ἡ ἀγάπη οὐ ζηλοῖ· ἡ ἀγάπη οὐ περπερεύεται, οὐ φυσιοῦται, 5. οὐκ ἀσχημονεῖ, οὐ ζητεῖ τὰ ἑαυτῆς, οὐ παροξύνεται, οὐ λογίζεται τὸ κακόν, 6. οὐ χαίρει ἐπὶ τῇ ἀδικίᾳ, συγχαίρει δὲ τῇ ἀληθείᾳ, 7πάντα στέγει, πάντα πιστεύει, πάντα ἐλπίζει, πάντα ὑπομένει. 8. Ἡ ἀγάπη οὐδέποτε ἐκπίπτει· εἴτε δὲ προφητεῖαι, καταργηθήσονται· εἴτε γλῶσσαι, παύσονται· εἴτε γνῶσις, καταργηθήσεται. 9. Ἐκ μέρους δὲ γινώσκομεν, καὶ ἐκ μέρους προφητεύομεν· 10. ὅταν δὲ ἔλθῃ τὸ τέλειον, τότε τὸ ἐκ μέρους καταργηθήσεται. 11. Ὅτε ἤμην νήπιος, ὡς νήπιος ἐλάλουν, ὡς νήπιος ἐφρόνουν, ὡς νήπιος ἐλογιζόμην· ὅτε δὲ γέγονα ἀνήρ, κατήργηκα τὰ τοῦ νηπίου. 12. Βλέπομεν γὰρ ἄρτι δι’ ἐσόπτρου ἐν αἰνίγματι, τότε δὲ πρόσωπον πρὸς πρόσωπον· ἄρτι γινώσκω ἐκ μέρους, τότε δὲ ἐπιγνώσομαι καθὼς καὶ ἐπεγνώσθην. 13. Νυνὶ δὲ μένει πίστις, ἐλπίς, ἀγάπη, τὰ τρία ταῦτα· μείζων δὲ τούτων ἡ ἀγάπη»
(Paolo di Tarso, 1 Corinzi 13,1-13)

Questi sono i versi contenuti nella Prima lettera ai Corinzi redatta da Paolo di Tarso nel I secolo[44], conosciuti anche come "Inno all'amore" o "Inno alla carità"[45], considerato dagli esegeti il punto più alto dell'interpretazione paolina dell'agape neotestamentaria, una specie di "cristologia velata" in quanto sarebbe stato proprio il Cristo, per Paolo, a fondare questo ideale di ἀγάπη/amore/caritas[46].

Approfondimento

Il perdono: termine e nozione nella cultura classica, biblica e neotestamentaria

La nozione di "perdono" è presente nell'età classica e nella letteratura latina si riscontra, ad esempio, nei termini di clementia, lenitas, mansuetudo e misericordia. Nel De Clementia di Seneca questa viene appellata come la virtù più "umana" in assoluto[47]. D'altronde, nota Seneca, nessuno è esente da colpa, tanto meno coloro che giudicano, eppure colui che invoca il "perdono" difficilmente è in grado di riconoscerlo agli altri[48]. Inserendo la nozione della "clemenza" all'interno della scuola stoica, Seneca la differenzia dalle nozioni di "misericordia" e "perdono" in quanto sentimenti propri di chi non guardando il contesto dei fatti si limita a vivere il dolore degli sfortunati, perdendo in questo modo la tranquillità della mente e non restituendo a costoro una pari dignità umana[49]:

« Aggiungi che il sapiente vede in anticipo la soluzione ed ha prontezza nel decidere. Quel che è trasparente e puro, d'altra parte, non viene mai da quel che è intorbidato: la tristezza è inadatta a discernere bene le cose, a trovare quelle utili, a evitare quelle pericolose, a valutare quelle equivalenti. Il sapiente non prova quindi compassione, poiché ciò non avviene senza infelicità. Egli compirà di buon grado e con animo elevato tutte le azioni che coloro che provano compassione intendono compiere: verrà in soccorso al pianto altrui, senza aderirvi; offrirà la mano al naufrago, all'esiliato il ricovero, al bisognoso l'elemosina, non quella insultante, buttata dalla maggioranza di coloro che vorrebbero sembrare pietosi, provando disgusto per quelli che aiutano e temendo il loro contatto, ma l'offrirà da uomo a uomo, dal patrimonio condiviso in comune; grazierà un figlio in virtù del pianto di sua madre, intimerà di slegare le catene, sottrarrà alla condanna dei giochi nel circo e farà seppellire un cadavere, anche se di un reo, ma compirà questi gesti con mente tranquilla, mantenendo in viso l'espressione che gli compete. Il sapiente non proverà compassione, quindi, ma verrà in soccorso e porterà giovamento, nato com'è per un'assistenza aperta a tutti e per il bene pubblico, dal quale offrirà a ciascuno la sua parte. Anche ai soggetti a rischio e riprovevoli, ma insieme meritevoli di correzione, egli dispenserà in proporzione la sua bontà; egli soccorrerà però molto di buon grado i disgraziati e quelli che per qualche caso si trovano in difficoltà. Tutte le volte che potrà farlo, emetterà un veto contro la fortuna: quando, infatti, farà uso delle proprie sostanze o delle proprie forze meglio che per risollevare ciò che le circostanza hanno fatto precipitare? Non distoglierà certo lo sguardo e neppure l'animo di fronte alla gamba rinsecchita di qualcuno o a una magrezza cenciosa e una vecchiaia appoggiata al bastone; egli porterà giovamento a tutti quelli che ne sono degni e alla maniera degli dèi si volgerà a guardare i soggetti a rischio con occhio più favorevole. »
(Seneca De Clementia, II, 6, 1-3; traduzione di Ermanno Malaspina)

Nella Bibbia ebraica i termini relativi al perdonare sono sālaḫ[50] nel significato di "perdonare"; nāsā[51], nel significato di "eliminare, sottrarre"; e kippœr[52] questo inerente soprattutto ai riti penitenziali e ai sacrifici riparatori. Questi termini ebraici sono resi, nella versione greca della Septuaginta, per lo più con i termini greci di aphienai (ἀφιέναι), aphesis (ἄφεσις). Tale ambito ebraico inerisce essenzialmente alla volontà di Dio di essere misericordioso con gli uomini[53] anche se non manca un diretto riferimento all'"amore" che copre ogni "colpa":

(IT)
« L'odio suscita litigi, l'amore ricopre ogni colpa. »

(He)
« נאה תעורר מדנים ועל כל־פשעים תכסה אהבה׃ »
(Proverbi, 10,12;)

Nelle scritture cristiane il tema dell'amore nei confronti del prossimo, e quindi del perdono dell'offesa, diviene centrale nel messaggio religioso: solo perdonando, persino l'offesa del nemico, l'uomo può sperare nel perdono di Dio e quindi nella salvezza:

(IT)
« Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe. »

(GRC)
« Ἐὰν γὰρ ἀφῆτε τοῖς ἀνθρώποις τὰ παραπτώματα αὐτῶν, ἀφήσει καὶ ὑμῖν ὁ πατὴρ ὑμῶν ὁ οὐράνιος·ὰν δὲ μὴ ἀφῆτε τοῖς ἀνθρώποις τὰ παραπτώματα αὐτῶν, οὐδὲ ὁ πατὴρ ὑμῶν ἀφήσει τὰ παραπτώματα ὑμῶν. »
(Vangelo di Matteo 6, 14-15)

Per Paolo di Tarso, quindi, per quanto l'opera umana sia operativamente rilevante, l'"amore" è frutto dello "Spirito" di Dio[54], in questo lo scrittore cristiano intende differenziare tale amore spirituale da quello carnale che invece ha come obiettivo la propria soddisfazione anche a scapito del prossimo, quindi l'agape cristiano genera una umanità del tutto nuova resa tale dall'amore di Dio per mezzo del sacrificio del Cristo, inteso come fedeltà all'umanità e al piano divino per la sua salvezza[55], e che deve risultare visibile nella vita della chiesa cristiana[56].

L'amore del figlio di Dio è quindi superiore a ogni forma di conoscenza o consapevolezza umana:

(IT)
« e di conoscere l'amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio. »

(GRC)
« γνῶναί τε τὴν ὑπερβάλλουσαν τῆς γνώσεως ἀγάπην τοῦ χριστοῦ, ἵνα πληρωθῆτε εἰς πᾶν τὸ πλήρωμα τοῦ θεοῦ. »
(Lettera agli Efesini 3,19)

Un paragone sostenibile è, per Paolo di Tarso, l'amore coniugale, immagine dell'amore di Cristo per la sua chiesa:

(IT)
« 25. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, 26. per renderla santa, purificandola con il lavacro dell'acqua mediante la parola, 27. e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. 28. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. 29. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, 30. poiché siamo membra del suo corpo. 31. Per questo l'uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. 32. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! »

(GRC)
« 25. Οἱ ἄνδρες, ἀγαπᾶτε τὰς γυναῖκας ἑαυτῶν, καθὼς καὶ ὁ χριστὸς ἠγάπησεν τὴν ἐκκλησίαν, καὶ ἑαυτὸν παρέδωκεν ὑπὲρ αὐτῆς· 26. ἵνα αὐτὴν ἁγιάσῃ, καθαρίσας τῷ λουτρῷ τοῦ ὕδατος ἐν ῥήματι, 27. ἵνα παραστήσῃ αὐτὴν ἑαυτῷ ἔνδοξον τὴν ἐκκλησίαν, μὴ ἔχουσαν σπῖλον ἢ ῥυτίδα ἤ τι τῶν τοιούτων, ἀλλ’ ἵνα ᾖ ἁγία καὶ ἄμωμος. 28. Οὕτως ὀφείλουσιν οἱ ἄνδρες ἀγαπᾷν τὰς ἑαυτῶν γυναῖκας ὡς τὰ ἑαυτῶν σώματα. Ὁ ἀγαπῶν τὴν ἑαυτοῦ γυναῖκα, ἑαυτὸν ἀγαπᾷ· 29. οὐδεὶς γάρ ποτε τὴν ἑαυτοῦ σάρκα ἐμίσησεν, ἀλλ’ ἐκτρέφει καὶ θάλπει αὐτήν, καθὼς καὶ ὁ κύριος τὴν ἐκκλησίαν· 30. ὅτι μέλη ἐσμὲν τοῦ σώματος αὐτοῦ, ἐκ τῆς σαρκὸς αὐτοῦ καὶ ἐκ τῶν ὀστέων αὐτοῦ. 31. ἀντὶ τούτου καταλείψει ἄνθρωπος τὸν πατέρα αὐτοῦ καὶ τὴν μητέρα, καὶ προσκολληθήσεται πρὸς τὴν γυναῖκα αὐτοῦ, καὶ ἔσονται οἱ δύο εἰς σάρκα μίαν. 32. Tὸ μυστήριον τοῦτο μέγα ἐστίν· ἐγὼ δὲ λέγω εἰς χριστὸν καὶ εἰς τὴν ἐκκλησίαν. »
(Lettera agli Efesini 5, 25-32)

L' agápē nelle scritture non accolte nel canone neotestamentario

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Nelle letteratura cristiana non accolta nel Canone[57], il tema dell'amore e del perdono è presente e centrale come nelle scritture del Nuovo Testamento. Questi alcuni esempi.

(IT)
« [...] Primo amerai il Dio che ti ha fatto. Secondo, il tuo prossimo come te stesso: tutto ciò che vorrai non succeda a te, anche tu non farlo a un altro. »

(GRC)
« [...] πρῶτον ἀγαπησεις τὸν θεὸν τὸν ποιήσαντά σε, δεύτερον τὸν πλησίον σου ὡς σεαυτόν· πάντα δὲ ὅσα ἐὰν θελήσῃς μὴ γίνεσθαί σοι, καὶ σὺ ἄλλῳ μὴ ποίει. »
(Didachè, I,2; traduzione di Mauro Pesce)

(IT)
« [...] Benedite quelli che vi maledicono e pregate per i vostri nemici, digiunate poi per quelli che vi perseguitano. Quale grazia c'è, infatti, se amate quelli che vi amano? Forse non fanno lo stesso anche le genti? Voi invece comportatevi amorevolmente con quelli che vi odiano e non avrete nemico. »

(GRC)
« [...] εὐλογεῖτε τοὺς καταρωμένους ὑμῖν καὶ προσεύχεσθε ὑπὲρ τῶν ἐχθρῶν ὑμῶν, νηστεύετε δὲ ὑπὲρ τῶν διωκότων ὑμᾶς· ποία γὰρ χάρις, ἐὰν ἀγαπᾶτε τοὺς ἀγαπῶντας ὑμᾶς; οὐχὶ καὶ τὰ ἔθνη τὸ αὐτὸ ποιοῦσιν; ὑμεῖς δὲ ἀγαπᾶτε τοὺς μισοῦντας ὑμᾶς, καὶ οὐχ ἕξετε ἐχτρόν. »
(Didachè, I,3; traduzione di Mauro Pesce)

(IT)
« [...] Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, porgi a lui anche l'altra e sarai perfetto. Se uno ti costringe per un miglio, fanne con lui due. Se uno ti toglie il tuo mantello, dagli anche la tunica. Se uno ti prende il tuo non richiederlo, neppure infatti lo puoi. »

(GRC)
« [...] ἐὰν τίς σοι δῷ ῥάπισμα εἰς τὴν δεξιὰν σιαγόνα, στέψον αὐτῷ καὶ τὴν ἄλλην, καὶ ἔσῃ τέλειος· ἐὰν ἀγγαρεύσῃ σέ τις μίλιον ἕν, ὕπαγε μετ’ αυτοῦ δύο· ἐὰν ἄρῃ τις τὸ ἱμάτιόν σου, δὸς αὐτῳ καὶ τὸν χιτῶνα· ἐὰν λάβῃ τις ἀπὸ σοῦ τὸ σόν, μὴ ἀπαίτει· οὐδὲ γὰρ δύνασαι. »
(Didachè, I,4; traduzione di Mauro Pesce)

  • Vangelo dei Nazareni[59].

(IT)
« [...] E nello stesso libro: "'Se tuo fratello", disse, 'avrà peccato con la parola e ti avrà soddisfatto, ricevilo sette volte al giorno'. Gli disse il suo discepolo Simone: 'Sette volte al giorno?'. Rispose il Signore e gli disse: 'Io ti dico anche fino a settanta volte sette. Infatti perfino nei profeti, dopo essere stati unti di Spirito santo, si è trovata parola di peccato. »

(LA)
« [...] Et in eodem uolumine: "'si peccaeurit', inquit, 'frater tuus in uerbo et satis tibi fecerit, septies in die susciper eum'. dixit illi Simon discipulus eius: 'septies in die?'. respondit dominus, et dixit ei: 'etiam, ego dico tibi, usque septuagies septies, etenim in prophetis quoque, postquam uncti sunt spiritus[60]., inuentus et sermo peccati". »
(Girolamo, Contro i Pelagiani, III, 2,1; traduzione di Mauro Pesce)

  • Vangelo degli Ebrei[61]..

(IT)
« Come leggiamo anche nel Vangelo ebraico, il Signore parlando ai discepoli disse: "E non siate mai lieti se non quando guarderete con amore il vostro fratello. »

(LA)
« Vt in hebraico quoque euangelio legimus, dominus ad discipulos loquenteme: "et numquam", inquit, "laeti sitis, nisi cum fratrem uideritis charitate »
(Girolamo, Commento alla Lettera agli Efesini, 3,5 [a 5.4]; traduzione di Mauro Pesce)

Caritas, amor, dilectio

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Etimologia dei termini latini inerenti all'ambito dell'"amore"

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  • Il termine latino caritas ("affetto", "benevolenza), da cui il latino ecclesiastico caritate ("amore per il prossimo"), è il termine utilizzato nella versione latina della Bibbia, detta Vulgata, per rendere il lemma greco agape. Caritas deriva dal latino carus ("amato", "persona cara") a sua volta di provenienza protoitalica con *kars-e (simile il venetico kanei), quindi dal proto-indoeuropeo *keh2-ro, conservando dei collegamenti con l'alto irlandese kars, con il celtico (bretone) car, con il lettone kars, sempre nel significato di "caro", "desiderabile", "amico"[62].
  • Il termine latino amor, deriva dal latino amare. Il termine amare, il quale risulta connesso con il latino amma (mamma), o anche amita (zia), può avere quindi la sua possibile origine dal linguaggio infantile[63]. Un'altra possibile origine fa derivare il lemma latino dal protoitalico *ama e quindi dal protoindoeuropeo *h3mh3, col significato di "prendere, tenere", evolvendo in "prendere la mano di", quindi legarsi in amicizia (da qui anche il latino amicus, amica, amasius); quindi corrispondente al sanscrito amánti, amīṣi, col medesimo significato, e all'antico avestico əma[64].
  • Il termine latino dilectio, dilectus, (amare, amato, da cui l'italiano "diligere", "diletto") deriva dal latino diligere ovvero sempre dal latino legere (nel senso di "raccogliere" ma inteso come "scegliere") a cui va aggiunto il prefisso dis.

Ulteriori termini in lingua latina che corrispondono all'ambito dell'"amore", ma questi intesi più per la sua accezione "erotica" che "spirituale" o "filosofica", sono, tra gli altri: desiderium, cupiditas, libido.

Utilizzo dei termini dilectio e caritas nelle versioni latine del Nuovo Testamento

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Le prime versioni in lingua latina del Nuovo Testamento, poi canonizzato a partire dal III/IV secolo, vanno sotto il nome di Vetus Latina e sono attestate a partire dal III secolo in quelle comunità che iniziavano ad avere difficoltà a comprendere il greco[65]. La presenza di più varianti di queste traduzioni latine, osservata da Agostino e Girolamo, porterà quest'ultimo, a partire dal 383 e su spinta di Damaso, a rivedere e quindi a riproporre le traduzioni latine dei Vangeli che, unitamente alla traduzione dell'Antico Testamento, vanno sotto il nome di Vulgata (nome da intendere come "[versione] universalmente diffusa"). Va tenuto tuttavia presente che la Vulgata non è opera di un singolo autore, ad esempio il Corpus Paulinum fu probabilmente rivisto da Rufino il Siro e comunque non da Girolamo. A partire dal 390 Girolamo avviò anche la traduzione dell'Antico Testamento partendo dalla versione greca e utilizzando anche testimoni in lingua ebraica[66] e altre traduzioni in lingua latina.

A differenza della Vetus Latina che rese come dilectio, Girolamo utilizzò il termine caritas per tradurre il greco agape[67].

Eros, agápē, amor, dilectio e caritas nella prima letteratura cristiana

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  • Se come abbiamo visto nella cultura greca a partire da Platone con il termine eros non si indica solo passione per i corpi ma anche quell'amore che, prescindendo dai sensi, si indirizza verso il "Bene", il principio "primo" delle teologie platonica e neoplatoniche, la letteratura cristiana che eredita termini e nozioni dagli scritti neotestamentari che utilizzano esclusivamente il termine agape (reso nelle versioni latine come dilectio o caritas) si interroga fin dall'inizio sulle ragioni di questa scelta. A detta di Origene[68] ciò dipende dal fatto che la Bibbia ha preferito non generare equivoci con i propri lettori non esperti[69]. Purtuttavia, nota Origene, il termine eros viene utilizzato laddove non genera equivoci con la carnalità come ad esempio, ed è sempre Origene a richiamarlo, in Sapienza 8,2 per indicare la "sapienza":

(IT)
« È lei che ho amato e corteggiato fin dalla mia giovinezza, ho bramato di farla mia sposa, mi sono innamorato della sua bellezza. »

(GRC)
« Ταύτην ἐφίλησα καὶ ἐξεζήτησα ἐκ νεότητός μου καὶ ἐζήτησα νύμφην ἀγαγέσθαι ἐμαυτῷ καὶ ἐραστὴς ἐγενόμην τοῦ κάλλους αὐτῆς. »
(Sapienza 8,2)

Dal che il teologo cristiano[70] sostiene, citando un passo di Ignazio di Antiochia, che anche Dio può essere indicato come amor ossia come eros. Ignazio di Antiochia aveva infatti scritto: «ό ὲμὸς ἒρως ἐσταύρωται κ.τ.λ.» («La mia passione umana è stata crocifissa» in Lettera ai Romani VII,2) Origene, come d'altronde Dionigi Areopagita[71], leggono che ό ὲμὸς ἒρως intenda il Gesù Cristo crocifisso.

Successivamente anche un altro scrittore in lingua greca, Gregorio di Nissa[72], utilizzerà, in questo contesto spirituale[73], in modo prevalente eros intendendolo come agape intensificata[74] seguendo in questo Clemente che intendeva questo eros come "celeste" e "divino"[75].

Commentando Dionigi Areopagita così riassume Enzo Bellini:

« Dionigi inserendosi in una tradizione che risale a Origene (Commento....) e che ha come più significativo rappresentate Gregorio di Nissa, identifica l'Eros platonico con l'Agape neotestamentaria; con una prospettiva originale che dev'essere chiaramente precisata. In Origene (e Gregorio di Nissa) l'Eros-Agape è lo slancio dell'uomo spirituale (anima) verso il Logos divino, e come tale si riferisce solo all'uomo che, mosso dallo Spirito Santo che abita in lui, desidera congiungersi a Dio. Si conserva il carattere cristiano perché il principio di questo slancio è la grazia, cioè il dono di Dio, ma rimane la direzione del basso verso l'alto, che è caratteristica dell'Eros platonico. In Dionigi, invece, l'Eros-Agape è innanzitutto un nome divino, e solo secondariamente una proprietà delle creature superiori, uomini e angeli: c'è in primo luogo un Eros divino, a cui seguono un eros angelico e un eros umano. In tale prospettiva la caratteristica essenziale e comune di ogni eros non è più lo slancio verso l'alto, ma la capacità di uscire fuori di sé (l'eros è per sua natura estatico) per dirigersi verso gli altri - che possono essere più in alto ma anche più in basso o allo stesso livello-, con un movimento di conversione o di provvidenza o di solidarietà. In tal modo Dionigi riconosce anche un eros che discende. Questo presenta delle analogie con Proclo il quale scrive: "L'eros discende dall'alto, dalla sfera degli intellegibili alla sfera del cosmo convertendo tutte le cose alla divina bellezza" (Commento all'Alcibiade primo, 52,10-12 [...]). »
(Enzo Bellini, Parafrasi e note a Nomi Divini di Dionigi Areopagita n. 220, p. 563 in Dionigi Areopagita, Tutte le opere, (a cura di Piero Scazzoso ed Enzo Bellini; introduzione di Giovanni Reale), Milano, Bompiani, 2010)
  • Nella Prima lettera ai Corinzi del vescovo di Roma Clemente I, scritta in greco probabilmente a cavallo tra il I e il II secolo, il tema dell'agape viene indagato e approfondito nel suo significato fondante cristiano:

(IT)
« 49,1. Chi ha l’amore in Cristo pratichi i suoi comandamenti. 2. Chi può spiegare il vincolo dell’amore di Dio? 3. Chi è capace di esprimere la grandezza della sua bellezza? 4. L'altezza ove conduce l’amore è ineffabile. 5. L’amore ci unisce a Dio: "L’amore copre la moltitudine dei peccati". L’amore tutto soffre, tutto sopporta. Nulla di banale, nulla di superbo nell’amore. L’amore non ha scisma, l’amore non si ribella, l’amore tutto compie nella concordia. Nell’amore sono perfetti tutti gli eletti di Dio. Senza amore nulla è accetto a Dio. 6. Nell’amore il Signore ci ha presi a sé. Per l’amore avuta per noi, Gesù Cristo nostro Signore, nella volontà di Dio, ha dato per noi il suo sangue, la sua carne per la nostra carne e la sua anima per la nostra anima. 50, 1. Vedete, carissimi, come è cosa grande e meravigliosa l’amore, e della sua perfezione non c'è commento. 2. Chi è capace di trovarsi in essa se non quelli che Dio ha reso degni? Preghiamo dunque e chiediamo alla sua misericordia perché siamo riconosciuti nell’amore, senza sollecitazione umana, irreprensibili. 3. Sono passate tutte le generazioni da Adamo sino ad oggi, ma quelli che con la grazia di Dio sono perfetti nell’amore raggiungono la schiera dei più, che saranno visti nel novero del regno di Cristo. 4. Infatti è scritto: "Entrate nelle vostre stanze per pochissimo, finché passa la mia ira e il mio furore; mi ricorderò del giorno buono e vi risusciterò dai vostri sepolcri". 5. Siamo beati, carissimi, se eseguiamo i comandamenti di Dio nella concordia dell’amore, perché ci siano rimessi i peccati per l’amore. 6. È scritto: "Beati quelli cui furono rimesse le malvagità e i cui peccati sono stati coperti; beato l'uomo del quale il Signore non considererà il peccato, né l'inganno è sulla sua bocca". 7. Questa beatitudine è per quelli scelti da Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore. A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen. »

(GRC)
« 49,1. Ὁ ἔχων ἀγάπην ἐν Χριστῷ ποιησάτω τὰ τοῦ Χριστοῦ παραγγέλματα. 2. τὸν δεσμὸν τῆς ἀγάπης τοῦ θεοῦ τίς δύνατια ἐξηγήσασθαι; 3. τὸ μεγαλεῖον τῆς καλλονῆς αὐτου τίς ἀρκετὸς ἐξειπεῖν; 4. τὸ ὕψος, εἰς ὃ ἀνάγε ἡ ἀγάπη, ἀνεκδιήγητόν ἐστιν. 5. ἀγάπη κολλᾷ ἡμᾶς τῷ θεῷ, ἀγάπη καλύπτε πλῆθος ἁμαρτιῶν, ἀγάπη πάντα ἀνέχεται, πάντα μακροθυμεῖ· οὐδὲν βάναυσον ἐν ἀγάπῃ, οὐδὲν ὑπερήφανον· ἀγάπη σχίσμα οὐκ ἔχει, ἀγάπη οὐ στασιάζει, ἀγάπη πάντα ποιεῖ ἐν ὁμονοίᾳ· ἐν τῇ ἀγάπῃ ἐτελειώθησαν πάντες οἱ ἐκλεκτοὶ τοῦ θεοῦ, δίχα ἀγάπης οὐδὲνεὐάρεστόν ἐστιν τῷ θεῷ. 6. ἐν ἀγάπῃ προσελάβετο ἡμᾶς ὁ δεσπότης· διὰ τὴν ἀγάπην, ἣν χεν πρὸς ἡμᾶς, τὸ αἷμα αὐτοῦ ἔδ ἔσ ωκεν ὑπὲρ ἡμῶν Ἰησοῦς Χριστὸς ὁ κύριος ἡμῶν ἐν θελήματι θεοῦ, καὶ τὴν σάρκα ὑπὲρ τῆς σαρκὸς ἡμῶν καὶ τὴν ψυχὴν ὑπὲρ τῶν ψυχῶν ἡμῶν. 50,1. Ὁρᾶτε ἀγαπητοί, πῶς μέγα καὶ θαυμαστόν ἐστιν ἡ ἀγάπη, καὶ τῆς τελειότητος αὐτῆς οὐκ ἔστιν ἐξήγησις. 2. τίς ἱκανὸς ἐν αὐτῇ εὑρεθῆναι, εἰ μὴ οὓς ἂν καταξιώσῃ ὁ θεός; δεώμεθα οὖν καὶ αἰτώμεθα δίχα προσκλίσεως ἀνθρωπίνης, ἄμωμοι. 3. αἱ γενεαὶ´πᾶσαι ἀπὸ Ἀδὰμ ἕως τῆσδε τῆς ἡμέρας παρῆλθον, ἀλλ’ οἱ ἐν ἀγάπῃ τελειωθέντες κατὰ τὴν τοῦ θεοῦ χάριν ἔχουσιν χῶρον εὐσεβῶν, οἳ φανερωθήσονται ἐν τῇ ἐπισκοπῇ τῆς βασιλείας τοῦ Χριστοῦ. 4. γέγραπται γάρ· Εἰσέλθετε εἰς τὰ ταμεῖα μικρὸν ὅον ὅσον, ἕως οὗ παρέλθῃ ἡ ὀργὴ καὶ ὁ θυμός μου, καὶ μνησθήσομαι ἡμέρας ἀγαθῆς, καὶ ἀναστήσω ὑμᾶς ἐκ τῶν θηκῶν ὑμῶν. 5. μακάριοί ἐσμεν, ἀγαπητοί, εἰ τὰ προτάγματα τοῦ θεοῦ ἐποιοῦμεν ἐν ὁμονοίᾳ ἀγάπης, εἰς τὸ ἀφεθῆναι ἡμῖν δι’ ἀγάπης τὰς ἁμαρτίας. 6. γέγραπται γάρ· Μακάριοι, ὧν ἀφέθησαν αἱ ἀνομίαι καὶ ὧν ἐπεκαλύφθησαν αἱ ἁματίαν, οὐδέ ἐστιν ἐν τῷ στόματι αὐτου δόλος· 7. οὗτος ὁ μακαρισμὸς ἐγένετο ἐπὶ τοὺς ἐκλελεγμένους ὑπὸ τοῦ θεοῦ διὰ Ἰησοῦ Χριστοῦ τοῦ κυρίου ἡμῶν, ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας τῶν αἰώνων. ἀμήν. »
(Clemente, Prima lettera ai Corinzi, 49-50)

  • Nella Lettera di Barnaba, uno scritto in greco raccolto anche nel Codice Sinaiticus (IV secolo), ma databile intorno alla metà del II secolo e attribuita a Barnaba, a partire da Clemente Alessandrino,
  1. Cfr. Vangelo di Luca, 14, 12 e sgg.; Vangelo di Giovanni, 12, 2.
  2. Lettera di Giuda, 12: Οὗτοί εἰσιν ἐν ταῖς ἀγάπαις ὑμῶν σπιλάδες, συνευωχούμενοι, ἀφόβως ἑαυτοὺς ποιμαίνοντες· νεφέλαι ἄνυδροι, ὑπὸ ἀνέμων παραφερόμεναι· δένδρα φθινοπωρινά, ἄκαρπα, δὶς ἀποθανόντα, ἐκριζωθέντα·
  3. VIII,2
  4. X, 96.
  5. Agostino, Contra Faustum Manichaeum 20,21; De civitate Dei 8,27.
  6. Vocabolario Treccani.
  7. Alberto Nocentini, L'Etimologico
  8. Chantraine Dictionnaire étymologique de la langue grecque, p.7. L'ipotesi di un prestito dalle lingua semitiche, o da quella egizia, occorso forse in epoca achea, rimane controversa.
  9. Cfr. ad esempio Iliade 23,14; 14, 494; 3, 441; Odissea 14,144; Esiodo Scudo, 35 e sgg., Esiodo Teogonia 910 e sgg,; Euripide, Ippolito, 525 e sgg., etc.
  10. Fr. 13
  11. Φιλότης non va confuso con φιλία indicando il primo un vissuto più forte (cfr. Ivan Gobry Vocabolario greco della filosofia, p.168.
  12. D-K 31 B 19
  13. D-K 31 B 28
  14. D-K 31 B 17, B 22, B 66, B 71
  15. D-K 31 B73, B 75, B 95, B 98.
  16. Werner Jaeger, La teologia... p. 215.
  17. Cfr. 245-249
  18. 203 C-D
  19. Fedro 250 A.
  20. Simposio 206 B.
  21. Simposio 180 D
  22. Simposio 183 D-E
  23. Simposio 210-211
  24. Cfr. Simposio 180b, 181c, 210d; Fedro 230c, 233e, 241d, 247d, 253a e 257e.
  25. 231e
  26. "Amicizia è uguaglianza", Giamblico, Vita di Pitagora, 162
  27. Proclo, Commento all'Alcibiade primo, 109c.
  28. Massime capitali, 23
  29. Precedentemente già Platone (Leggi, VIII, 837a) aveva utilizzato il termine eros inteso come intensa philia.
  30. Calame XXXI e sgg.
  31. Enneadi, VI, 8,16.
  32. Faggin p.1325.
  33. « Jews settled in Alexandria at the beginning of the third century b.c.e. (according to Josephus, already in the time of Alexander the Great). At first they dwelt in the eastern sector of the city, near the sea; but during the Roman era, two of its five quarters (particularly the fourth (“Delta”) quarter) were inhabited by Jews, and synagogues existed in every part of the city. The Jews of Alexandria engaged in various crafts and in commerce. They included some who were extremely wealthy (moneylenders, merchants, *alabarchs), but the majority were artisans. From the legal aspect, the Jews formed an autonomous community at whose head stood at first its respected leaders, afterward – the ethnarchs, and from the days of Augustus, a council of 71 elders. According to Strabo, the ethnarch was responsible for the general conduct of Jewish affairs in the city, particularly in legal matters and the drawing up of documents. Among the communal institutions worthy of mention were the bet din and the “archion” (i.e., the office for drawing up documents). The central synagogue, famous for its size and splendor, may have been the “double colonnade” (diopelostion) of Alexandria mentioned in the Talmud (Suk. 51b; Tosef. 4:6), though some think it was merely a large meeting place for artisans. »
    (Avigdor (Victor) Tcherikover, Alexandria, in "Encyclopaedia Judaica", vol.1 p.632. Leiden, Brill, 2007)

    « The needs of the Hellenistic Jews, whether of Alexandria in particular or of the Greek-speaking Diaspora in general, led to the translation of the Bible into Greek. Beginning with the Torah about the middle of the third century B.C.E. the process took many centuries to complete. »
    (Nahum M. Sarna / S. David Sperling, Bible, in "Encyclopaedia Judaica",vol.3, p.579, Leiden, Brill, 2007)

    Sulla deportazione imposta da Tolomeo cfr. con fonti prime ben indicate in Paolo Sacchi Storia del Secondo Tempio, p.137 Torino, SEI, 2006; mentre sulle ragioni della traduzione in lingua greca della Bibbia cfr. Paolo Sacchi in Ebraismo a cura di Giovanni Filoramo, p.88, Bari, Laterza 1999.
  34. Sacchi, Eb. 88
  35. Sacchi, Eb. 88
  36. Cfr. Paolo Martino, Agape un problema etimologico, in L'archetipo dell'amore fra gli uomini, Roma, Studium, 2007, p.44.
  37. In greco antico: πλὴν τοὺς πατέρας ὑμῶν προείλατο κύριος ἀγαπᾶν αὐτοὺς καὶ ἐξελέξατο τὸ σπέρμα αὐτῶν μετ᾽ αὐτοὺς ὑμᾶς παρὰ πάντα τὰ ἔθνη κατὰ τὴν ἡμέραν ταύτην.
  38. « For reasons unknown the Septuagint generally use ἀγάπη and related words instead of the more normal Greek word ἔρως to cover love in all its senses. »
    (The Oxford Dictionary of Christian Church, (a cura di F.L. Cross e E.A. Livingstone). Oxford, Oxford University Press, 1997, p.26)
  39. Sulla tema della misericordia e della compassione (ἔλεος) cfr. ad es. Matteo, 9,13; 12,7; 23,23; Luca 1,50, 54, 58, 72, 78; 10,37.
  40. Cfr. la risposta del dottore della Legge in Luca 10,25. Cfr. Patrizio Rota Scalabrini, Enciclopedia filosofica, vol. 1, Milano, Bompiani, 2004, p. 165 e sgg.
  41. Cfr. Levitico, 19, 18 e 34. Esodo, 23, 4-5 e Deuteronomio 22, 1-4; anche Patrizio Rota Scalabrini, Enciclopedia filosofica, vol. 1, Milano, Bompiani, 2004, p. 165 e sgg.
  42. Da notare anche la risposta dello scriba a Gesù in Marco 12,32: «Lo scriba gli disse: "Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all'infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici"», da confrontare con Osea, 6,6; Isaia, 1, 11 e sgg.; Zaccaria, 7, 9 e sgg.
  43. Lupieri, 60
  44. Va tenuto presente che le Lettere di Paolo di Tarso, unitamente a quella di Giacomo e alla Didaché, sono i testimoni più antichi della letteratura cristiana, antecedenti alla redazione degli stessi Vangeli. Delle quattordici lettere contenute nel Nuovo Testamento solo sette sono considerate senza alcun dubbio, e unanimemente, opera di Paolo. Tra queste lettere figura la Prima lettera ai Corinzi che, come le altre sette (Prima lettera ai Tessalonicesi, Seconda lettera ai Corinzi, ai Galati, ai Romani, ai Filippesi e a Filemone), è stata scritta in un arco di circa dieci anni intorno all'anno 50. Queste lettere sono in assoluto i documenti più antichi del cristianesimo.
  45. "Carità" in questo caso e non "amore" ma solo in quanto il testo latino rende caritas e per alcuni renderebbe meglio in questo caso la nozione: «1 si linguis hominum loquar et angelorum caritatem autem non habeam factus sum velut aes sonans aut cymbalum tinniens 2 et si habuero prophetiam et noverim mysteria omnia et omnem scientiam et habuero omnem fidem ita ut montes transferam caritatem autem non habuero nihil sum 3 et si distribuero in cibos pauperum omnes facultates meas et si tradidero corpus meum ut ardeam caritatem autem non habuero nihil mihi prodest 4 caritas patiens est benigna est caritas non aemulatur non agit perperam non inflatur 5 non est ambitiosa non quaerit quae sua sunt non inritatur non cogitat malum 6 non gaudet super iniquitatem congaudet autem veritati 7 omnia suffert omnia credit omnia sperat omnia sustinet 8 caritas numquam excidit sive prophetiae evacuabuntur sive linguae cessabunt sive scientia destruetur 9 ex parte enim cognoscimus et ex parte prophetamus 10 cum autem venerit quod perfectum est evacuabitur quod ex parte est 11 cum essem parvulus loquebar ut parvulus sapiebam ut parvulus cogitabam ut parvulus quando factus sum vir evacuavi quae erant parvuli 12 videmus nunc per speculum in enigmate tunc autem facie ad faciem nunc cognosco ex parte tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum 13 nunc autem manet fides spes caritas tria haec maior autem his est caritas.»
  46. Rota Scalabrini 166
  47. I, 3, 2 «Nullam ex omnibus virtutibus homini magis convenire, cum sit nulla humanior, constet necesse est».
  48. I, 6,2-4 «Quotus quisque ex quaesitoribus est, qui non ex ipsa ea lege teneatur, qua quaerit? quotus quisque accusator vacat culpa? Et nescio, an nemo ad dandam veniam difficilior sit, quam qui illam petere saepius meruit. Peccavimus omnes, alii gravia, alii leviora, alii ex destinata, alii forte impulsi aut aliena nequitia ablati; alii in bonis consiliis parum fortiter stetimus et innocentiam inviti ac retinentes perdidimus; nec deliquimus tantum, sed usque ad extremum aevi delinquemus. Etiam si quis tam bene iam purgavit animum, ut nihil obturbare eum amplius possit ac fallere, ad innocentiam tamen peccando pervenit.»
  49. «Adice, quod sapiens et providet et in expedito consilium habet; numquam autem liquidum socerumque ex turbido venit. Tristitia inhabilis est ad dispiciendas res, utilia excogitanda, periculosa vitanda, aequa aestimanda; ergo non miseretur, quia id sine miseria animi non fit. Cetera omnia, quae, qui miserentur, volo facere, libens et altus animo faciet; succurret alienis lacrimis, non accedet; dabit manum naufrago, exuli hospitium, egenti stipem, non hanc contumeliosam, quam pars maior horum, qui misericordes videri volunt, abicit et fastidit, quos adiuvat, contingique ab iis timet, sed ut homo homini ex communi dabit; donabit lacrimis maternis filium et catenas solvi iubebit et ludo eximet et cadaver etiam noxium sepeliet, sed faciet ista tranquilla mente, vultu suo. Ergo non miserebitur sapiens, sed succurret, sed proderit, in commune auxilium natus ac bonum publicum, ex quo dabit cuique partem. Etiam ad calamitosos pro portione improbandosque et emendandos bonitatem suam permittet; adflictis vero et forte laborantibus multo libentius subveniet. Quotiens poterit, fortunae intercedet; ubi enim opibus potius utetur aut viribus, quam ad restituenda, quae casus impulit? Vultum quidem non deiciet nec animum ob erus alicuius aridum aut pannosam maciem et innixam baculo senectutem; ceterum omnibus dignis proderit et deorum more calamitosos propitius respiciet.» (Seneca De Clementia, II, 6, 1-3).
  50. Ad es. Lv 4,20; 1 Re 8,34; Sal 86,5.
  51. Ad es. Gn 18, 24-26; Nm 14, 18 e sgg.; Is 53,12.
  52. Ad es. Lv. 4,20 e sgg.
  53. Cfr. ad es. Os. 11,8
  54. Cfr. Galati 5,22: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé/Ὁ δὲ καρπὸς τοῦ πνεύματός ἐστιν ἀγάπη, χαρά, εἰρήνη, μακροθυμία, χρηστότης, ἀγαθωσύνη, πίστις».
  55. Cfr. Rm, 5,8.
  56. Rota Scalabrini 166
  57. La distinzione di un canone cristiano dove raccogliere le scritture ritenute autentiche separandole dalle altre, risale alla metà del IV secolo ed è attestato per la prima volte in Atanasio (Ep. fest., 39; Dopp 166). Nei sinodi africani, a partire dal 393, appaiono per la prima volta i termini relativi di scripturae canonicae e canon. Ha senso parlare di "canone" cristiano, comunque, non prima della fine del II secolo. In assenza di un canone i cristiani fino a quel momento avevano a disposizione solo un testo divinamente ispirato, l'Antico Testamento, probabilmente nella versione della Septuaginta (Simontetti/Prinzivalli, Storia della letteratura cristiana antica, p. 32; anche Letteratura cristiana antica, vol.1 p.19).
  58. Una delle prime scritture cristiane, probabilmente risalente alla seconda metà del I secolo o, comunque, agli inizi del II.
  59. Risalente agli inizi II secolo d.C. era in uso nelle comunità cristiane di tradizione e lingua ebraica anche se probabilmente in origine fu scritto in aramaico (Pesce p.601) o in siriaco (Hanig in Doop/Geerlings 264).
  60. Risalente al II secolo d.C. era in uso nelle comunità cristiane di tradizione e lingua ebraica.
  61. Risalente tra la prima metà e la fine II secolo d.C. era in uso nelle comunità cristiane di tradizione ebraica che vivevano in Egitto. Probabilmente la sua lingua di origine fu il greco. (Pesce 611)
  62. Etymological Dictionary of Latin and the other Italic Languages, Brill, p.95
  63. Alberto Nocentini, L'etimologico.
  64. Michiel de Vaan, Etymological Dictionary of Latin and the other Italic Languages vol.7 del Leiden Indo-European Etymological Dictionary Series (a cura di Alexander Lubotsky). Leiden, Brill, 2008, p. 39
  65. Schulz-Flugel in Dopp.857
  66. In questo caso non senza difficoltà perché sia Agostino che Rufino intesero che egli volesse sostituire la lezione in lingua ebraica a quella in lingua greca della Septuaginta e si ersero a difensori di quest'ultima (Schulz-Flugel in Dopp.857).
  67. Celestina Milani, Varia linguistica, Milano, Università Cattolica, 2009, p. 254. Così Isidoro di Siviglia in Etymologiae, VIII, 6:«Caritas Graece, Latine dilectio interpretatur, quod duos in se liget. Nam dilectio a duobus incipit, quod est amor Dei et proximi; de. qua Apostolus (Rom. 13,10) 'Plenitudo', inquit, 'legis dilectio.'»
  68. Cfr. Prologo al Commento sul Cantico dei Cantici; ma va tenuto presente che di tale trattato conserviamo esclusivamente la versione in latino di Rufino. Tuttavia ci si può orientare dal fatto che Rufino utilizza amor, cupido per eros; mentre agape è reso con dilectio o caritas.
  69. Così Origene nel Prologo al Commento sul Cantico dei Cantici: «Mi sembra poi che la Sacra Scrittura, volendo evitare che sorga qualche inciampo ai lettori a causa della parola amore, per riguardo a qualcuno un po’ troppo inesperto, quello che i sapienti del mondo dicono "eros" con termine più decoroso ha chiamato "agape"»
  70. Cfr. Origene, PG 13,70 D.
  71. Dionigi Aeropagita, Nomi divini, IV, 12, 710.
  72. Cfr.Omelie al Cantico dei Cantici.
  73. 773D: «il rapporto dell'anima con Dio trasporta la passione all'assenza di passioni»; «solo per lo Spirito ribolle in noi d'amore la mente»
  74. «Infatti un agape intensificata si chiama eros» Cant. 13, PG 44, 1048 C.
  75. Su questo ambito cfr. Walther Völker, Gregorio di Nissa, filosofo e mistico, Milano, Vita e Pensiero, 1993, pp.222 e sgg.

Bibliografia

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  • Anders Nygren, Eros e Agape. La nozione cristiana dell'amore e le sue trasformazioni, trad. it., Il Mulino, Bologna 1971
  • Benedetto XVI, Deus caritas est, lettera enciclica, 2006

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