Emozione e immaginazione/Appendice B

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Mercurius Trismegistus, grabado en cobre de Johann Theodor de Bry para el "Tractatus posthumus de divinatione & magicis præstigiis" de Jean-Jacques Boissard, Oppenheim, 1615. Biblioteca Nacional de España

CORPUS HERMETICUM[modifica]

Il Corpus Hermeticum ("raccolta delle opere di Ermes") è una raccolta di scritti filosofico-religiosi di epoca imperiale (II-III secolo e.v.) attribuiti ad Ermete Trismegisto. Rappresenta la fonte d'ispirazione del pensiero ermetico e neoplatonico rinascimentale.

Per secoli il Corpus fu considerato un'opera appartenente alla letteratura dell'Antico Egitto. Secondo la tradizione, Ermete Trismegisto ("tre volte grande", cioè il più grande filosofo, il più grande sacerdote e il più grande re), visse ai tempi di Mosè. Marsilio Ficino, che tradusse per primo l'opera in latino, indicò Orfeo (gli Inni), Platone e Plotino come i più tardi rappresentanti della sapienza antica contenuta nel Corpus.

Struttura dell'opera[modifica]

Il Corpus Hermeticum contiene trattati in forma di lettera, dialogo e in forma di sermone. L'opera è divisa in 18 libri:

Nr. Titolo (italiano) Titolo (latino)
I. Poimandres (vedi testo sotto) Pimander
II. Sermone universale di Ermete ad Asclepio Mercurii ad Aesculapium sermo universalis
III. Discorso sacro di Ermete Mercurii sermo sacer
IV. Discorso di Ermete a Tat il cratere o la monade Mercurii ad Tatium crater sive monas
V. Discorso di Ermete al figlio Tat. Dio è invisibile e perfettamente visibile al tempo stesso Mercurii Ad tatium Filium suum. Quod deus Latens simul ac patens est.
VI. Il bene esiste solo in Dio e in nessun altro luogo Quod in solo deo bonum est alibi vero nequaquam
VII. Il male più grande fra gli uomini è l'ignoranza su Dio Quod summum malum hominibus ignorare deum
VIII. Nessuno degli esseri perisce, ma sbaglia chi definisce i mutamenti come distruzione e morte Nihil eorum Quae sunt interitus sed mutationes: Decepti Homines interitum nominant
IX. Intorno alla conoscenza intellettiva e alla sensazione
X. Discorso di Ermete Trismegisto: la chiave Mercurii Trismegisti clavis ad Tatium
XI. L'intelletto a Ermete Mens ad mercurium
XII. Discorso di Ermete Trismegisto a Tat sull'intelletto comune Mercurii ad Tatium de communi
XIII. Discorso segreto di Ermete Trismegisto al figlio Tat, sulla rigenerazione e sulla regola del silenzio Mercurii ad tatium Filium suum de generatione & impositione silentii
XIV. Lettera di Ermete ad Asclepio con l'augurio di essere saggio Mercurii ad Aesculapium
XV. Lettera di Ermete ad Asclepio
XVI. Definizioni di Asclepio sul re Ammone
XVII. Frammento di un discorso di Asclepio al re
XVIII. Encomio dei re

Collegamenti al testo[modifica]

Testi in italiano[modifica]

I

DISCORSO DI ERMETE TRISMEGISTO: POIMANDRES

[1] Un giorno, in cui riflettevo sugli esseri e il mio pensiero si era innalzato a grandi altezze, mentre i miei sensi corporei erano tenuti a freno, come accade a coloro che cadono nel sonno, dopo essersi abbondantemente saziati di cibo o dopo aver sopportato una fatica fisica, mi sembrò che una figura di smisurate dimensioni mi apparisse dinanzi e mi chiamasse per nome e mi dicesse:

«Che cosa vuoi udire e vedere, che cosa apprendere e conoscere con il tuo intelletto? »

[2] E io allora: «Tu chi sei?».

«Io sono» rispose « Poimandres, l'intelletto del Sovrano assoluto, so cosa vuoi e sono totalmente a tua disposizione».

[3] Ed io: «Desidero essere istruito sugli esseri, comprenderne la natura, e conoscere Dio. Come desidero ascoltarti! ».

Egli rispose: «Tieni bene in mente tutto ciò che desideri imparare e io ti istruirò».

[4] Dicendo questo mutò d'aspetto, e improwisamente tutto mi si aprì davanti per un istante. Ed ecco mi appare uno spettacolo infinito: tutte le cose divennero luce, visione serena e gioiosa, di cui mi innamorai dopo averla vista. E dopo poco tempo si formò un'oscurità che prese a calare verso il basso, paurosa e cupa, diffondendosi a spirale, simile a un serpente, a quanto mi parve. Poi l'oscurità si mutò in una sorta di natura umida agitata in modo indicibile, esalante un fumo simile a quello che si alza dal fuoco, e che produceva una sorta di suono, un gemito indescrivibile. E subito emise un grido di aiuto, inarticolato, che somigliava alla voce del fuoco.

[5] Dalla luce un santo Logos si diresse verso la natura e dalla natura umida un puro fuoco si sprigionò verso l'alto: era leggero e vivo e al tempo stesso potente, e l'aria essendo leggera seguì il soffio infuocato, elevandosi dalla terra e dall'acqua verso la regione del fuoco, così da sembrare appesa ad esso, mentre la terra e l'acqua rimasero invece mescolate tra loro, indistinguibili l'una dall'altra; a esse era stato impresso il movimento dal soffio del Logos, che si era portato al di sopra di loro, fino a essere udito.

[6] Allora Poimandres si rivolse a me, dicendo: «Hai compreso questa visione e quel che essa significa?».

«Lo saprò» risposi.

«Quella luce» continuò «sono io, l'intelletto supremo, il tuo Dio, che esiste prima della natura umida emersa dall'oscurità, mentre il Logos luminoso che è scaturito dall'intelletto è il figlio di Dio».

«Che cosa dunque? » dissi io.

«Così intendi: ciò che in te guarda e ascolta è il Logos del Signore, mentre il tuo intelletto è lo stesso Dio padre. Non sono infatti separati l'uno dall'altro, poiché la loro unione è la vita».

«Io ti ringrazio» gli dissi.

« Orsù,» mi esortò «volgi il tuo intelletto a questa luce e impara a conoscerla».

[7] Ciò detto mi guardò a lungo, sì da farmi tremare alla sua vista; poi, quando sollevò il capo, io vidi nel mio intelletto la luce consistente in un numero infinito di potenze, vidi sorgere un mondo infinito, vidi che il fuoco era imprigionato da una forza immensa e manteneva forzatamente l'immobilità; questo io compresi, contemplando la visione con l'aiuto delle parole di Poimandres.

[8] Mentre io osservavo sbalordito, di nuovo mi si rivolse: «Tu hai visto nel tuo intelletto la forma archetipa, il principio del principio, che non ha fine», questo mi disse Poimandres.

«Ma gli elementi della natura da dove sono sorti?» dissi io.

Ed egli a queste mie parole disse: « Dalla volontà di Dio, la quale, avendo accolto il Logos, e avendo visto il bel cosmo, lo imitò, disponendosi in un mondo ordinato mediante i suoi elementi e le sue creature, che sono le anime.

[9] L'intelletto divino, cioè il sommo Dio, essendo di natura maschile e femminile, vita e luce al tempo stesso, generò mediante il Logos un intelletto demiurgo che, essendo dio del fuoco e dell'etere, creò sette ministri, i quali racchiudono in cerchi il mondo sertsibile; e il loro governo è chiamato destino.

[10] Immediatamente il Logos, distaccatosi dagli elementi inferiori, si diresse verso la pura natura creata e si unì all'intelletto demiurgo (era infatti della stessa natura), e gli elementi inferiori della natura furono lasciati privi del Logos, come se fossero pura materia.

[11] L'intelletto demiurgo unito al Logos, abbracciando i cerchi e imprimendo loro il movimento con stridore, fece ruotare le sue creature con un movimento che ha un inizio indeterminato e un termine senza fine, infatti inizia dove termina. La rotazione di questi cerchi fece nascere dagli elementi inferiori alcuni animali privi di ragione (poiché gli elementi inferiori non avevano più il Logos in se stessi); l'aria generò i volatili, l'acqua gli animali che nuotano; la terra e l'acqua erano state separate per volere di Dio, e la terra generò dal suo seno gli animali, che aveva in sé: i quadrupedi, i rettili, le bestie selvagge e quelle domestiche.

[12] L'intelletto, padre di tutti gli esseri, essendo luce e vita, generò un uomo simile a lui, del quale s'innamorò come della propria creatura; era infatti molto bello, poiché aveva l'aspetto del padre: in realtà Dio s'innamorò della propria immagine, e affidò all'uomo tutte le proprie opere.

[13] L'uomo, avendo conosciuto ciò che il demiurgo aveva creato nel fuoco, volle anch'egli produrre un'opera, e ciò gli fu consentito da parte del padre. Giunto dunque nella sfera demiurgica, dove avrebbe avuto pieno potere, conobbe le opere prodotte dal fratello; i ministri si innamorarono di lui e ciascuno di essi lo fece partecipe del proprio stato. Avendo allora conosciuto a fondo la loro essenza e avendo partecipato della loro natura, volle penetrare al di là della superficie sferica dei cerchi e conoscere la potenza di colui che regna sopra il fuoco.

[14] L'uomo dunque, avendo il dominio assoluto sul mondo degli esseri mortali e degli animali irrazionali, volle sporgersi a guardare attraverso la compagine delle sfere celesti, dopo averne spezzato l'involucro superficiale, e mostrò così alla natura inferiore la meravigliosa immagine di Dio. Quando la natura ebbe visto l'uomo, che aveva in sé la bellezza che non può mai saziare e tutta la forza attiva dei ministri dei cieli insieme alla forma divina, sorrise d'amore, poiché aveva scorto nell'acqua l'immagine della meravigliosa bellezza dell'uomo e l'ombra di essa sulla terra. L'uomo, a sua volta, avendo visto questa forma simile a sé, presente nella natura, riflessa nell'acqua, fu preso d'amore per essa e volle dimorarvi. Nell'istante stesso in cui lo volle, lo realizzò e venne così ad abitare nella forma priva di ragione; la natura, avendo accolto in sé l'amato, si awolse tutta intorno a lui e così si unirono, poiché ardevano d'amore l'uno per l'altra.

[15] Ed è per questo che l'uomo, fra tutti gli esseri che vivono sulla terra, è l'unico che possiede una doppia natura; è mortale per il corpo, immortale per l'uomo essenziale che è in lui. E infatti immortale e domina su tutte le cose, ma si trova anche nelle condizioni degli esseri mortali ed è quindi soggetto al destino. Egli che fu al di sopra della compagine delle sfere celesti, da quando ha preso a dimorare in essa, ne è divenuto schiavo, e da allora possiede in sé la natura maschile e femminile insieme, perché è stato generato da un padre che ha ambedue le nature; nella sua essenza non è soggetto al sonno, perché generato da un padre che non è soggetto al sonno».

[16] Dopo avere ascoltato queste cose, io mi rivolsi al mio Dio-intelletto: «O mio intelletto, parla ancora, poiché bramo di udire il tuo discorso».

Poimandres allora riprese: «Questo, che io ti esporrò, è il mistero che è stato tenuto nascosto fino a questo giorno. La natura, quando si unì all'uomo, generò un qualcosa di mirabile e di prodigioso. Poiché l'uomo possedeva la natura del complesso dei sette ministri celesti, che, come ti ho detto, sono composti di fuoco e di soffio vitale, la natura, senza attendere un istante, generò immediatamente sette uomini, corrispondenti alla natura di ciascuno dei sette ministri, cioè dotati di natura maschile e femminile e della potenza di elevarsi verso il cielo ». E dopo ciò io di nuovo dissi: «O Poimandres, ora veramente desidero e bramo ardentemente ascoltarti, non allontanarti dall'argomento».

E Poimandres allora: «Taci,» disse «non ti ho ancora spiegato il primo punto del discorso».

«Taccio, lo vedi» risposi.

[17] «Così dunque, come stavo dicendo, si ebbe la generazione dei sette uomini: la terra costituì l'elemento femminile, l'acqua l'elemento fecondatore, il fuoco rese maturi i due elementi, l'etere offrì il soffio vitale, e la natura così generò i corpi, foggiandoli secondo la forma dell'uomo. L'uomo, da vita e luce qual era, si mutò in anima e intelletto: la vita divenne anima, la luce intelletto. E tutti gli esseri del mondo sensibile rimasero così fino al termine di una rivoluzione celeste, quand'ebbero inizio le generazioni.

[18] Ascolta dunque il resto del discorso che brami. Compiutosi il periodo della rivoluzione, il legame, che teneva unite tutte le cose, si ruppe per volere divino. Tutti gli esseri viventi, che erano al tempo stesso di natura maschile e femminile, a somiglianza dell'uomo, si divisero in due e divennero in parte maschili, in parte femminili. Immediatamente Dio con un santo discorso disse loro: "Crescete accrescendovi, e moltiplicatevi in gran numero voi tutti, che siete stati creati e prodotti, e chi possiede l'intelletto riconosca se stesso immortale,10 sappia che la causa della morte è l'amore e conosca tutto ciò che esiste".

[19] Dopo che Dio ebbe così parlato, la provvidenza determinò le unioni e stabilì le generazioni, valendosi dell'opera del destino e dell'ordinamento delle sfere celesti, e tutti gli esseri si moltiplicarono secondo la propria specie; e chi è stato capace di riconoscere se stesso ha raggiunto quello che è il bene prescelto da tutti, chi invece ha preferito il corpo, che è stato prodotto dall' errore dell'amore, è rimasto nella tenebra, vagando e soffrendo sensibilmente ciò che è connesso con la morte».

[20] «Quale sì grande peccato hanno commesso» esclamai io «coloro che sono rimasti nell'ignoranza, per perdere l'immortalità?».

«Mi sembra che tu non abbia riflettuto sulle cose che hai ascoltato, sebbene t'avessi detto di prestare la massima attenzione».

«L'ho fatto, e ora ricordo, e ti ringrazio».

« Se hai capito, dimmi: perché sono degni della morte coloro che sono nella morte?».

«Perché il corpo individuale si genera dalla tenebra, dalla quale sorse la natura umida, di cui è costituito il corpo nel mondo sensibile, dove la morte si abbevera».

[21] «Hai capito rettamente, ma ora dimmi, perché colui che ha conosciuto se stesso si dirige verso Dio, secondo il discorso di Dio?».

«Perché» dissi io «di luce e di vita è costituito il padre di tutti gli esseri, dal quale nacque l'uomo».

«Parli giustamente: luce e vita, questo è il Dio e il padre, dal quale fu generato l'uomo. Se dunque tu riconosci lui nella sua vera natura, come costituito di luce e di vita, e comprendi che tu derivi da tali elementi, ritornerai alla vita». Tali cose disse Poimandres.

«Ma dimmi ancora come ritornerò verso la vita,» ripresi «o mio intelletto, poiché Dio dice: "l'uomo che possiede l'intelletto riconosca se stesso".

[22] Non tutti gli uomini hanno l'intelletto?».

«Controlla le tue parole: io, che sono l'intelletto supremo, sono vicino solamente a coloro che sono santi, puri, buoni e misericordiosi, e a coloro che mi venerano. La mia presenza è per loro un aiuto ed essi conoscono immediatamente tutte le cose, si rendono propizio Dio amandolo e gli rendono grazie onorandolo e dedicandogli inni in virtù dell'amore che provano per lui, e prima di abbandonare il corpo alla morte che gli è propria, hanno ribrezzo dei loro sensi, conoscendone gli effetti. Piuttosto io, l'intelletto, non permetterò che le azioni del corpo, che muovono all'assalto degli uomini, si compiano. Essendo il guardiano chiuderò le entrate alle azioni turpi e malvagie, troncandone i pensieri stessi.

[23] Da stolti, malvagi, perversi, invidiosi, avidi, assassini ed empi sto lontano, dopo aver ceduto il posto al dèmone vendicatore, il quale, gettando addosso all'uomo l'ardore del fuoco, lo assale attraverso i sensi e l'induce alle azioni empie, affinché abbia una più grave punizione. L'uomo non cessa quindi di avere appetiti privi di limiti; combatte nelle tenebre senza che nulla possa saziarlo, e ciò lo tortura e aumenta sempre più la fiamma che lo assale ».

[24] «Mi hai insegnato chiaramente molte cose, come auspicavo, o intelletto, ma dimmi ancora come avviene l'ascensione al cielo».

A queste parole Poimandres rispose: «Quando avviene la morte del corpo, tu lo consegni all'alterazione, e la forma che tu avevi non è più visibile; poi abbandoni al dèmone il tuo essere ormai inattivo, i sensi del corpo ritornano alle proprie origini e tornano a far parte e a mescolarsi con le energie del cosmo, e infine le parti dell'anima, dove hanno sede l'ira e la concupiscenza, fanno ritorno alla natura priva di ragione.

[25] E così l'uomo sale verso l'alto attraverso la compagine delle sfere: nella prima zona si spoglia delle facoltà di aumentare e decrescere, nella seconda dell'abilità propria della malizia, dell'inganno ormai privo di effetto, nella terza abbandona il vano desiderare divenuto ora inefficace, nella quarta l'ostentazione del comandare ormai priva di avidità, nella quinta l'audacia empia e la temerarietà dell'ardire, nella sesta i disonesti appetiti generati dalla ricchezza, ormai vani, nella settima, infine, la menzogna ingannatrice.

[26] E così, spogliato di ciò che era stato opera delle sfere celesti, si dirige verso la natura ogdoadica, mantenendo solamente la propria naturale virtù, e insieme agli altri esseri innalza inni a Dio. I presenti si rallegrano della sua venuta ed egli, divenuto uguale ai suoi compagni, può ascoltare alcune potenze che, al di sopra della natura ogdoadica, cantano con dolce voce inni al padre. Poi in ordine salgono verso Dio, consegnano se stessi alle potenze, e, divenuti essi stessi potenze, entrano in Dio. Questo è l'approdo felice a cui giungono coloro che possiedono la conoscenza: divenire Dio. E allora, che aspetti? Non ti prepari dunque, tu che da me hai appreso tutte le cose, a fare da guida a coloro che ne sono degni, affinché il genere umano per mezzo tuo possa essere salvato da Dio?».

[27] Dicendo questo Poimandres si unì, sotto il mio sguardo, alle potenze. Io, dopo aver ringraziato e benedetto il Dio padre, mi allontanai da Poimandres, investito di un particolare potere e istruito sulla natura del tutto e sulla visione suprema.

E cominciai a predicare agli uomini la bellezza della pietà religiosa e della conoscenza, dicendo: «O popoli, o uomini nati dalla terra, che vi siete abbandonati all'ubriachezza, al sonno e all'ignoranza di Dio, divenite astemi, cessate di gozzovigliare, voi che siete accecati da un sonno animalesco».

[28] Dopo aver udito le mie parole, essi si unirono a me unanimi. Io dissi loro: «Perché, o uomini nati dalla terra, vi siete abbandonati alla morte, pur avendo la possibilità di partecipare all'immortalità? Pentitevi, voi che avete percorso la vostra strada nell'errore e vi siete uniti all'ignoranza: liberatevi dalla luce tenebrosa, partecipate all'immortalità, dopo avere abbandonato definitivamente la perdizione».

[29] Allora alcuni di essi se ne andarono imprecando contro di me, poiché si erano diretti verso la via della morte, mentre gli altri, gettatisi ai miei piedi, m'invitavano insistentemente a istruirli. Io allora li rialzai e mi feci guida del genere umano, insegnando loro la dottrina e il modo in cui avrebbero potuto salvarsi. Seminai in loro le parole della saggezza ed essi si nutrirono dell'acqua di ambrosia. Venuta la sera e cominciando la luce del sole a scomparire, li invitai a render grazia a Dio; quand'ebbero terminato la loro preghiera, se ne andarono, ciascuno al proprio letto.

[30] Quanto a me, impressi nel mio cuore i benefici insegnamenti di Poimandres, e così, dopo essermi saziato di ciò che desideravo, fui completamente felice. Il sonno del mio corpo era infatti divenuto veglia dell'anima, i miei occhi chiusi mi concedevano una visione veritiera, il mio silenzio conteneva in sé il bene, l'esprimere parole era un generare cose buone. Tutto questo mi accadde, perché avevo ricevuto dal mio intelletto, cioè da Poimandres, il Logos del sommo Sovrano. Sono venuto dunque pieno del soffio divino della verità. Perciò, con tutta la mia forza e il mio animo, rendo a Dio questa eulogia:

[31] «Santo è Dio, e padre di tutte le cose.
Santo è Dio, la cui volontà è realizzata dalle sue potenze.
Santo è Dio, che vuole essere conosciuto, e che è conosciuto da coloro che gli appartengono.
Santo sei tu, che mediante il Logos hai creato tutto ciò che esiste.
Santo sei tu, di cui tutta la natura è immagine.
Santo sei tu, che la natura non ha formato.
Santo sei tu, che sei più forte di ogni potenza.
Santo sei tu, che sei più grande di ogni autorità.
Santo sei tu, che sei superiore alle lodi.
Tu che sei inesprimibile, ineffabile, e che solo col silenzio puoi esser definito, accogli i sacrifici puri, resi con parole, che ti sono dedicati da un'anima e da un cuore rivolti totalmente a te.

[32] Ascolta la mia supplica, io che ti prego di non farmi cadere in errore circa la conoscenza che riguarda la nostra essenza, e investimi di un particolare potere: con questa grazia illuminerò coloro che, appartenendo alla mia stessa razza, sono nell'ignoranza, i miei fratelli, i tuoi figli. Per questo io credo, e attesto la mia fede; mi dirigo verso la vita;e la luce. Tu sei benedetto, o padre. L'uomo che ti appartiene vuole santificare insieme a te l'umanità, nella misura in cui tu hai trasmesso a lui l'intera potenza».

(prosegue: II⇒XVIII)

... [...]

ASCLEPIO
LIBRO SACRO DI ERMETE TRISMEGISTO

DEDICATO AD ASCLEPIO

[1] «Certamente un dio, Asclepio, ti ha condotto a noi, perché partecipassi a un colloquio divino, e proprio a questo che, fra quanti abbiamo precedentemente tenuto noi stessi o ci sono stati ispirati dal divino volere, sembra essere per pia devozione il più vicino a Dio. Se ti mostrerai capace di comprenderlo, il tuo intelletto sarà colmato di ogni bene, ammesso che i beni siano molti e non uno solo, che li comprenda tutti (perché chiaramente tra l'uno e l'altro termine c'è una relazione di reciprocità: tutti i beni sono compresi in uno solo o uno solo li comprende tutti in sé. I due termini sono così strettamente connessi fra loro che è impossibile separare l'uno dall'altro). Ma ciò lo comprenderai dal prossimo discorso, se vi porrai attenzione. Tu intanto, Asclepio, va' a invitare Tat, affinché partecipi al nostro colloquio». Dopo che fu entrato Tat, Asclepio ci consigliò di far partecipare anche Ammone. Trismegisto così disse: «Non vi è in noi alcun sentimento di gelosia che ci faccia tener lontano Ammone, e ricordo di aver dedicato a lui molte delle mie opere, come ho dedicato a Tat, mio carissimo e affezionatissimo figlio, molti trattati di fisica e un numero ancor più grande di scritti essoterici. Questo trattato intendo invece dedicarlo a te. Oltre ad Ammone non chiamare nessun altro, per evitare che un colloquio così altamente religioso e concernente un argomento così importante sia profanato dalla presenza e dall'intervento di molti. Solo uno spirito empio potrebbe divulgare un discorso così totalmente pervaso della maestà divina».

Dopo che Ammone fu entrato nel santuario, il santo luogo fu ricolmo della religiosa devozione di quei qua ttro uomini e della presenza di Dio, e mentre regnava un silenzio conveniente e rispettoso e l'animo di tutti i presenti pendeva dalle labbra di Ermete, il divino Eros cominciò a parlare:

[2] «O Asclepio, tutte le anime umane sono immortali, ma non tutte lo sono nello stesso modo, perché vi è una differenza rispetto al modo e al tempo».

«Ma le anime non sono tutte qualitativamente uguali, o Trismegisto?».

«Come hai fatto presto, o Asclepio, ad allontanarti dal giusto significato del mio discorso. Non ti ho forse detto che tutte le cose si risolvono nell'uno e che l'uno è a sua volta il tutto, poiché tutte le cose sono nel creatore ancor prima che egli le crei? E non è certo senza ragione il fatto che il creatore stesso sia definito il tutto, poiché tutte le cose sono le sue membra. Ogni cosa dal cielo discende sulla terra, nell'acqua e nell'aria; del fuoco solo quello che tende all'alto è elemento di vita, e tiene soggetto quello che tende al basso. Però quest'ultimo è dotato di facoltà generatrice, mentre ciò che si propaga verso l'alto ha la funzione di dare nutrimento. Solo la terra, che sta ferma nella sua posizione, è ricettacolo di tutte le cose e restituisce alla vita tutti i generi che ha accolto in sé. Questo dunque è il tutto, come ricorderai, che contiene tutte le cose ed è tutte le cose. L'anima e la materia, abbracciate dalla natura, sono poste da essa in movimento, talmente differenziate nelle molteplici forme che assumono da poter riconoscere un numero infinito di specie, le quali, pur differenziandosi qualitativamente, sono tuttavia unite per un fine comune, che consiste nel far sì che il tutto sembri essere uno e che dall'uno sembrino derivare tutte le cose.

[3] Gli elementi che costituiscono la materia nel suo complesso sono quattro: fuoco, aria, terra, acqua. Ma la materia è una, come una è l'anima, come uno è Dio. Adesso ascoltami con tutta la forza della tua intelligenza, con tutta l'acutezza della tua mente. Infatti la dottrina della divinità, che per essere compresa ha bisogno dell'intelletto, di natura divina, è del tutto simile a un fiume torrenziale che si getta dall'alto con impetuosa violenza, per cui ne consegue che supera col suo rapido corso l'attenzione, non solo di chi ascolta, ma anche di chi parla. Il cielo dunque, che è il dio percepibile attraverso i sensi, governa tutti i corpi, mentre il sole e la luna hanno avuto in sorte il compito di regolare gli aumenti e le diminuzioni di questi stessi corpi. Il cielo stesso, a sua volta, e l'anima e tutti gli esseri che vivono nel mondo sono governati da chi è causa della loro esistenza, vale a dire Dio. Ora da tutti questi corpi, di cui ho parlato sopra, governati tutti da Dio, deriva un flusso continuo, che penetra attraverso la materia e attraverso l'anima di tutti i generi e di tutte le specie, da un'estremità all'altra della natura. La materia, infatti, è stata creata da Dio per essere il ricettacolo multiforme delle diverse specie; la natura, invece, servendosi di loro per dare le forme sensibili alla materia, attraverso i quattro elementi, prolunga fino al cielo la serie degli esseri esistenti, perché possano piacere agli occhi di Dio.

[4] Tutte le cose che derivano dall'alto si dividono in specie, nel modo che sto per esporre. Le specie di tutte le cose seguono i loro generi, per cui risulta che il genere costituisce il tutto, la specie una sua parte. Dal genere degli dèi scaturirà, ad esempio, la specie degli dèi. Così dal genere dei dèmoni, degli uomini come da quello degli uccelli e di tutti gli esseri che vivono nel mondo, deriveranno le specie simili ai generi da cui scaturiscono. Vi è anche un altro genere di esseri viventi, un genere che non possiede anima, ma è fornito di sensi, sì che sente i benefici effetti delle condizioni favorevoli, e decresce e perisce invece se le condizioni sono infauste: parlo di tutti quegli esseri che vivono nella terra, in virtù delle loro salde radici, e le cui specie sono diffuse ovunque. Quanto al cielo invece, esso è ricolmo di Dio. I generi degli esseri che abbiamo menzionato sopra occupano perfino il posto che spetterebbe alle specie di tutti quegli esseri, le cui specie sono immortali. La specie è infatti una parte del genere, come ad esempio l'uomo dell'umanità, e necessariamente deve seguire la natura e la qualità del suo genere. Da ciò deriva che, pur essendo tutti i generi immortali, non lo sono tutte le specie. Nel caso della divinità, è immortale il genere, come lo sono le specie. Riguardo agli altri esseri le cui specie periscono, il loro genere è tuttavia conservato eternamente dalla fecondità riproduttiva. Le specie risultano dunque mortali, mentre i generi non lo sono, e per questo l'uomo è mortale, mentre l'umanità è immortale.

[5] Le specie di tutti i generi possono comunicare con tutti gli altri generi, sia che esse siano state prodotte anteriormente, sia che nascano da quelle che lo sono già state prima. Così tutti gli esseri che sono generati o dagli dèi, o dai dèmoni, o dagli uomini, appartengono a specie del tutto simili ai propri generi. I corpi infatti non possono ricevere la loro forma senza la volontà divina, le singole specie non possono ricevere la loro forma senza l'aiuto dei dèmoni e gli esseri inanimati non possono essere prodotti e mantenuti in vita senza il concorso dell'uomo. Fra i dèmoni dunque tutti quelli che, passando dal genere alla specie, sono casualmente venuti in contatto con qualche specie del genere divino, sono per questo ritenuti simili agli dèi. Quei dèmoni invece, le cui specie individuali permangono nella natura del proprio genere, sono chiamati dèmoni filantropi. Lo stesso accade per gli uomini, e persino con maggior varietà ed estensione. Le specie del genere umano sono infatti varie e multiformi; derivate anch'esse dall'alto, dove hanno contatto con la specie di cui abbiamo parlato sopra, stringono frequenti e stretti legami con quasi tutte le altre specie. Perciò si avvicina agli dèi quell'uomo che, grazie all'intelletto, in virtù del quale è legato agli dèi, si sia unito a essi con pia devozione; e si avvicina ai dèmoni colui che con questi si è congiunto. Semplicemente uomini rimarranno invece coloro che sono rimasti nella posizione intermedia del loro genere; le altre specie degli uomini saranno simili al genere, alle cui specie si sono uniti.

[6] Per questi motivi, o Asclepio, l'uomo va considerato un prodigio, un essere animato degno di venerazione e di onore. Egli infatti condivide la natura divina come se fosse un dio egli stesso, ha familiarità con il genere dei dèmoni, perché sa di avere in comune con essi la stessa origine, e disprezza questa parte della sua natura, che è umana, poiché confida totalmente nella divinità dell'altra parte. Oh! come è fausta la sorte degli uomini, che hanno natura mista! L'uomo è infatti congiunto agli dèi per ciò che ha in sé di divino e che lo unisce a essi; disprezza in se stesso quella parte della sua natura per cui è un essere terreno; stringe a sé con il vincolo dell'amore tutti gli altri esseri ai quali sa di essere legato per celeste disposizione; può alzare i suoi occhi verso il cielo. Così dunque è posto nella più fortunata posizione di intermediario, amando gli esseri che sono al di sotto di lui ed essendo amato da quelli che sono al di sopra. Coltiva la terra, si mescola agli elementi grazie alla velocità del suo pensiero, discende nelle profondità del mare con l'acutezza della sua mente. Tutto è a lui permesso: il cielo non gli sembra troppo alto, perché lo misura quasi da vicino grazie al suo ingegno. La vista acuta della sua mente non è offuscata da alcuna caligine dell'aria; la compattezza della terra non gli impedisce di lavorarla; la grande profondità delle acque marine non gli impedisce di san- darle con la sua vista. Egli è tutte le cose ed è al tempo stesso ovunque.

Di tutti i generi esistenti, gli esseri animati hanno radici, che giungono loro dall'alto verso il basso, gli esseri inanimati invece germogliano, prendendo vita da una radice, che va dal basso verso l'alto. Alcuni esseri si nutrono di alimenti di due specie, altri di una sola. Vi sono infatti due tipi di alimenti, quelli dell'anima e quelli del corpo, ossia delle due parti di cui gli esseri viventi si compongono. L'anima è nutrita dal continuo movimento del mondo; i corpi crescono grazie all'acqua e alla terra, che sono gli elementi del mondo inferiore. Il soffio vitale, che riempie l'universo, si diffonde in tutti gli esseri animati e li vivifica, mentre l'uomo oltre la facoltà conoscitiva riceve anche l'intelletto, quinta parte, che solo a lui è concessa in dono dall'etere. Ma di tutti gli esseri viventi, solo gli esseri umani sono dall'intelletto preparati, elevati e innalzati in modo da poter giungere alla conoscenza della dottrina di Dio. Giacché ho accennato all'intelletto, tra breve vi esporrò anche la dottrina che lo riguarda. Dottrina santa ed elevata, non meno sublime di quella che riguarda la divinità stessa. Ora però terminerò di illustrarvi ciò che ho iniziato.

[7] Stavo parlando di questa unione con gli dèi, della quale possono godere per concessione divina solo gli uomini – intendo quelli che hanno avuto la fortuna somma di raggiungere questa facoltà conoscitiva quasi divina, questo divino intelletto, che esiste solo in Dio e nella mente dell'uomo».

«Dunque non è l'intelletto uguale in tutti gli uomini, o Trismegisto? ».

«Non tutti, o Asclepio, hanno raggiunto la vera conoscenza, ma nel loro cieco impulso molti, non avendo compreso la vera natura delle cose, si lasciano ingannare dalla fantasia, che genera la malizia negli animi e trasforma il migliore degli esseri viventi in una bestia feroce e selvaggia. Ma per ciò che riguarda l'intelletto e i problemi relativi ad esso, vi esporrò l'intera dottrina quando vi parlerò del soffio vitale. L'uomo è l'unico essere vivente di duplice natura; una delle due parti di cui è composto è semplice, ossia quella che i Greci chiamano "essenziale" e noi definiamo "ciò che è formato a somiglianza di Dio"; l'altra parte, ossia quella che i Greci chiamano "materiale" e noi "terrena", è quadruplice. Di quest'ultima è stato formato il corpo, nel quale è rinchiusa quella parte dell'uomo che abbiamo appena detto essere divina, e qui, come protetta dal muro del corpo, la divinità dell'intelletto puro riposa sola con se stessa, insieme ai pensieri del puro intelletto ai quali è strettamente congiunta».

«Perché dunque, o Trismegisto, è stato necessario porre l'uomo nella materia, piuttosto che permettere a lui di vivere in somma beatitudine nella regione in cui la divinità dimora?».

«È una giusta domanda, la tua, o Asclepio, e noi preghiamo Dio che ci conceda i mezzi per risponderti. Infatti, se tutte le cose dipendono dalla volontà di Dio, massimamente ne dipendono queste discussioni sul tutto, ossia l'oggetto della nostra attuale ricerca.

[8] Ascolta dunque, o Asclepio. Quando il signore e creatore di tutte le cose, che giustamente noi chiamiamo Dio, ebbe creato un dio visibile e sensibile - questo secondo dio io lo chiamo sensibile, non perché egli stesso percepisca attraverso i sensi (se egli abbia sensazioni o no, lo discuteremo in altro luogo), ma perché cade sotto il senso della vista –, quando dunque Dio ebbe creato quest'essere, il primo che ha generato e il secondo dopo di lui, e gli sembrò bello, poiché era colmo della bontà di tutte le cose, lo amò come parto della sua natura divina. Poi Dio, nella sua grandezza e nella sua bontà, volle che vi fosse un altro essere in grado di contemplare colui che aveva generato, e immediatamente creò l'uomo, e lo creò in modo che potesse imitarlo nella sua saggezza e nella cura che egli ha delle sue creature. Infatti la volontà di Dio consiste nel compimento totale di ciò che egli vuole, in quanto Dio realizza in un unico e medesimo istante il volere e l'atto del compiere. Dopo aver dunque creato l'uomo nella sua essenza universale ed essersi reso conto che questo non poteva prendersi cura di tutte le cose, se non lo avesse avvolto in un involucro materiale, gli conferì il corpo, come dimora, e prescrisse che tutti gli uomini fossero tali, avendo unito e mescolato nella giusta proporzione ambedue le nature in una sola. Così formò l'uomo di anima e di corpo, cioè di natura eterna e di natura mortale, affinché quest'essere vivente, così formato, potesse soddisfare alla sua duplice origine, ossia potesse contemplare e venerare le cose celesti e al tempo stesso curare e governare quelle terrene.

Quando parlo di cose mortali, non intendo l'acqua e la terra, ossia quelli dei quattro elementi che la natura ha posto sotto il dominio degli uomini, ma tutto ciò che essi producono in questi elementi o da questi elementi, cioè le colture, i pascoli, le costruzioni, i porti, la navigazione, le comunicazioni, le relazioni sociali, tutto ciò insomma che costituisce il legame più solido degli uomini fra loro e degli uomini con questa parte del mondo che è fatta di terra e di acqua. Questa parte terrena del mondo vive in virtù della conoscenza e della pratica delle arti e delle scienze, senza le quali Dio non volle che il mondo fosse perfetto. Tutto ciò che Dio ha decretato si attua necessariamente, perché ciò che egli vuole si realizza immediatamente. Non si può quindi credere che Dio ritorni sulle sue decisioni, poiché molto prima egli sa che quanto ha deciso avverrà e che gli sarà gradito.

[9] Io mi rendo conto, Asclepio, con quale impaziente desiderio dell'animo tu voglia udire in che modo l'uomo possa al tempo stesso amare e prendersi cura del cielo e di ciò che si trova in esso. Ascolta dunque.

Amare il dio del cielo con tutti gli esseri celesti significa rendere loro continuamente atto di riverenza. Questo non lo ha mai fatto nessun vivente, né divino né mortale, se non l'uomo. Il cielo e gli esseri celesti gioiscono dell' ammirazione, dell'adorazione, delle lodi, della riverenza degli uomini. E non è senza ragione che la divinità ha inviato tra gli uomini il coro delle Muse, non perché il mondo terreno senza di esso sarebbe rimasto troppo selvaggio, privo della dolcezza della musica, ma piuttosto perché gli uomini con i loro canti ispirati dalle Muse rendessero lode a colui che solo è tutto e il padre di tutto, e perché alle lodi celesti rispondesse così anche sulla terra una soave armonia.

Alcuni uomini, in numero esiguo, dotati di un'anima pura, hanno avuto in sorte la venerabile funzione di sollevare i loro occhi al cielo; ma tutti coloro che a causa della loro natura mista sono caduti in un grado inferiore di conoscenza, trascinati dal peso del loro corpo, sono preposti alla cura di questi elementi e di quelli ancora più in basso. L'uomo dunque è un essere animato, e non deve esser considerato inferiore per il fatto che è mortale in una sua parte, sembrando al contrario come arricchito della mortalità, poiché possiede, essendo così composto, maggiore abilità ed efficacia per un fine determinato. E poiché in verità non avrebbe potuto esplicare la sua duplice funzione se non fosse stato composto di due nature, è stato formato dell'una e dell'altra per potere al tempo stesso prendersi cura delle cose terrene e amare la divinità.

[I0] L'argomento che sto per trattare, Asclepio, necessita da parte tua non solo di un'attenzione penetrante, ma anche di tutto l'ardore del tuo animo. La dottrina che esporrò, rifiutata dai più, deve essere nondimeno accettata dagli animi più santi come pura e vera. Comincio dunque.

Il signore dell'eternità è il primo dio, il mondo il secondo, l'uomo il terzo. Dio è creatore del mondo e di tutti gli esseri che vi sono contenuti, governa al tempo stesso tutte le cose insieme all'uomo, che governa a sua volta il mondo formato da Dio. Se l'uomo assume interamente questa funzione, ossia la cura del mondo, che è il suo compito, diviene un ornamento per il mondo, come il mondo lo diverrà per lui, ed è proprio in virtù di questa divina struttura dell'uomo che il mondo viene chiamato dai Greci più giustamente κόσμος. L'uomo conosce se stesso e conosce anche il mondo, per cui è in grado di ricordare ciò che si addice alla sua funzione e riconoscere di quali cose può servirsi, e quali invece servire, rendendo grazie e lode a Dio, venerando la sua immagine, senza dimenticare che egli stesso è la seconda immagine di Dio, perché Dio ha due immagini: il mondo e l'uomo. Da ciò consegue che l'uomo è divino e sembra poter ascendere al cielo, poiché costituisce una sola unità formata da quella parte di lui fatta in un certo senso di elementi superiori, ossia di anima e di intelletto, di soffio vitale e di ragione; per la parte materiale, composta di fuoco e di terra, d'acqua e d'aria, egli invece è mortale, e vive radicato alla terra, per non !~sciare in abbandono tutto ciò che gli è stato affidato. E così che la natura umana è stata creata in parte divina e in parte mortale, perché sta in un corpo.

[11] Ciò che caratterizza questa doppia natura dell'uomo è prima di tutto la devozione, poi la bontà. Questa si mostra perfetta quando è fortificata contro il desiderio di tutto ciò che è estraneo all'uomo dalla sua capacità di disprezzarlo. Sono estranee a tutto ciò che nell'uomo è apparentato al divino tutte le cose terrene che egli possiede per soddisfare i desideri del corpo, e che giustamente chiamiamo suoi possessi, poiché non sono nate con lui, ma le ha acquisite in un secondo momento; ed è per questo che diamo loro il nome di possessi. Tutte le cose di tal genere dunque sono estranee all'uomo e tra di esse v'è il corpo; dobbiamo quindi disprezzare gli oggetti del nostro appetito e la fonte da cui deriva in noi questo peccato. Seguendo infatti la direzione che il rigore del mio ragionamento indica, l'uomo dovrebbe esser tale solo nella misura in cui, mediante la contemplazione della divinità, può disprezzare e disdegnare la sua parte mortale, che è stata a lui congiunta a causa della necessità di curare il mondo inferiore. Affinché l'uomo potesse essere perfetto in entrambe le sue parti, considera che egli è stato fornito di quattro elementi per ciascuna di esse, ossia le mani e i piedi, gli uni e gli altri in numero di due, e di altre membra del corpo con cui porsi al servizio della parte inferiore, ossia terrena, del mondo; e delle quattro parti dell'anima, ossia la ragione, l'intelletto, la memoria, la previsione, mediante le quali conosce e contempla tutte le cose divine.

Ne consegue che l'uomo scruta con un indagare incerto e inquieto le differenze delle cose, le loro qualità, i loro effetti, le loro estensioni, e che, ritardato dal peso e dalla dannosa influenza del corpo, non può penetrare a fondo le vere cause della natura. Quest'uomo dunque, così fatto e conformato, che ha ricevuto dal sommo Dio il compito di vegliare sull'ordine del mondo con un'attività ben ordinata, e di onorare Dio piamente, se obbedisce in modo degno e conveniente alla sua volontà in ambedue le funzioni, un tale uomo, con quale ricompensa, a tuo avviso, deve esser remunerato? (Infatti, poiché il mondo è l'opera di Dio, colui che ne conserva con diligenza la bellezza e persino l'accresce, coopera con la volontà di Dio stesso, impegnando il suo corpo e consacrando incessantemente la sua attività e le sue cure a perfezionare la bellezza, che Dio creò per un fine divino.) Non deve forse essere remunerato con quella ricompensa che hanno ottenuto i nostri avi e che nelle nostre preghiere più pie noi stessi ci auguriamo di ricevere un giorno, se piacerà alla bontà di Dio; ossia che, conclusa la nostra funzione, liberati dall'incarico di curare il mondo materiale, liberi dai legami della natura mortale, Dio ci restituisca puri e santi alla natura della parte superiore di noi stessi, cioè a quella divina?».

[12] «Tu parli in modo giusto e veritiero, o Trismegisto».

«E questa in effetti la ricompensa per coloro che consacrano la loro vita alla devozione a Dio e alla cura diligente del mondo. Ma coloro che avranno vissuto nel male e nell'empietà, oltre a vedersi rifiutare il ritorno al cielo, saranno condannati a passare in corpi di un'altra specie con una disonorevole migrazione, indegna della santità dell'anima».

«Secondo il tuo discorso, o Trismegisto, le anime corrono grandi rischi nella vita terrena per quanto riguarda la speranza dell'immortalità futura».

«Sì, ma ciò ad alcuni sembra incredibile, ad altri una favola, ad altri addirittura una cosa ridicola. Dolce in questa vita corporea è il frutto che si ottiene dai beni! Questo piacere afferra, come suo l dirsi, l'anima per il collo, costringendola a rimanere attaccata a quella parte dell'uomo che è mortale; e il peccato, geloso dell'immortalità, non le permette di riconoscere la parte che è divina. Io te lo profetizzo, dopo di noi non vi sarà più alcun amore sincero per la filosofia, la quale consiste nel solo desiderio di conoscere più profondamente la divinità mediante una contemplazione incessante e una santa devozione, e molti già la corrompono in un'infinità di modi».

«Come costoro rendono incomprensibile la filosofia o la corrompono in un'infinità di modi?».

[13] «Con un astuto lavoro, o Asclepio, la mescolano con varie discipline incomprensibili, come l'aritmetica, la musica e la geometria, mentre la pura filosofia, quella che dipende dalla devozione verso Dio, si interesserà alle altre scienze solo per ammirare come il ritorno degli astri alla loro prima posizione, le loro soste prefissate e il corso delle loro rivoluzioni siano soggetti a leggi numeriche, e per venerare, adorare ed esaltare l'arte e l'intelligenza di Dio, conoscendo le dimensioni della terra, le sue qualità e quantità, la profondità del mare, la forza del fuoco e gli effetti e la natura di tutte queste cose. Conoscere la musica non è altro che conoscere l'ordine di tutte le cose e quale sia il divino disegno che ha assegnato a ciascuna di esse il proprio posto, poiché quest' ordine, in cui tutte le singole cose sono state unificate in un medesimo tutto da un'intelligenza artefice, produrrà una musica divina, una specie di armonia vera e soave.

[14] Quegli uomini dunque che verranno dopo di noi, e si lasceranno ingannare dalle sottigliezze dei sofisti, saranno distolti dalla vera, pura e santa filosofia. Adorare la divinità con cuore e animo semplici, venerare le sue opere, render grazia a quella volontà che, sola, è infinitamente buona: questa è la filosofia non contaminata da alcuna curiosità. E su ciò quanto si è detto basti. Prendiamo ora a parlare del soffio vitale e di argomenti simili a questo.

All'inizio vi era Dio e la ὕλη, termine usato dai Greci per definire la materia. Alla materia si accompagnava il soffio vitale, che per meglio dire era nella materia stessa, ma non nello stesso modo in cui era in Dio, o in cui erano in Dio i princìpi, dai quali ha avuto origine il mondo. Le cose non esistevano, non essendo ancora nate, ma già esistevano in colui da cui dovevano nascere. Infatti noi definiamo prive di generazione non solo le cose non ancora nate, ma anche quelle che sono prive della facoltà di generare, per cui da esse niente può nascere. Da tutte le cose che invece esistono e sono dotate della facoltà di generare, può nascere qualcosa, anche se esse sono nate da loro stesse (infatti non vi è dubbio che gli esseri nati da loro stessi siano in grado di generare quelle cose dalle quali tutto si genera). Per cui Dio che esiste sempre, Dio che è eterno, non può e non poté essere generato; egli è dunque ciò che è, ciò che fu, ciò che sempre sarà. Tale è dunque la natura di Dio, che è derivata totalmente da se stessa. Invece la ὕλη, cioè la natura della materia, e il soffio vitale, sebbene sia chiaro che fin dal loro inizio sono ingenerati, tuttavia possiedono il potere e la facoltà naturale del nascere e del generare. Poiché il principio della generazione fa parte del numero delle proprietà della materia: questa possiede in se stessa il potere e la capacità di concepire e di generare. Essa è dunque in grado di farlo da sola, senza il concorso di alcun elemento estraneo.

[15] Le cose che invece hanno la facoltà di generare solo accoppiandosi con un altro essere devono essere considerate come delimitate nello spazio, per cui lo spazio che contiene il mondo e tutto ciò che in esso si trova è manifestamente non generato, pur possedendo in sé il potere di generare tutta la natura. Per spazio intendo ciò in cui tutte le cose sono contenute. Infatti tutte le cose non avrebbero potuto esistere se non fosse esistito lo spazio per sostenerle (perché nessuna cosa potrebbe esistere se non le fosse stato assegnato un luogo). E non potremmo distinguere né le qualità, né le quantità, né le posizioni, né l'attività di cose che non sono in alcun luogo.

La materia, pur non essendo stata generata, contiene tuttavia in sé il principio generatore di tutte le cose, poiché offre ad esse un grembo perennemente fecondo per il loro concepimento. La capacità di generare è dunque la qualità essenziale della materia, sebbene sia essa stessa ingenerata. Da ciò consegue che questa stessa materia è anche in grado di generare il male.

[16] Io non ho detto, Asclepio e Ammone, ciò che molti dicono: "Non avrebbe potuto Dio togliere e respingere il male dalla natura?". A costoro non si dovrebbe assolutamente rispondere; tuttavia per voi io tratterò anche questo problema e cercherò di darvi una soluzione. Chi dice dunque che Dio avrebbe dovuto liberare totalmente il mondo dal male, dimentica che il male è talmente radicato nel mondo da sembrare quasi una parte di esso. Tuttavia il Dio supremo ha proweduto nel modo più razionale possibile contro il male, degnandosi di far dono all'animo umano dell'intelletto, della scienza e della facoltà conoscitiva. In effetti solo per queste tre cose, in virtù delle quali ci eleviamo al di sopra di tutti gli altri esseri viventi, e per queste sole, possiamo evitare le insidie, gli inganni e gli effetti funesti del male. Infatti colui che palesemente ha saputo sfuggirlo, senza esservi implicato, è munito di saggezza e previdenza divine; il fondamento della scienza sta proprio nella bontà somma di Dio.

Il soffio vitale, che dona vita e nutrimento a tutte le cose che sono nel mondo, è come un organo o uno strumento soggetto alla volontà del sommo Dio. Ma non tratterò più oltre quest'argomento.

Intelligibile al solo intelletto è il Dio che chiamiamo sommo, il quale guida e dirige il dio percepibile dai sensi, che contiene in sé tutto lo spazio, l'essenza di tutte lecose e le nature di tutti gli esseri che nascono e a loro volta generano, e ogni qualità e quantità di essi.

[17] Dal soffio vitale sono dunque poste in movimento e governate tutte le specie che vivono nel mondo, ciascuna secondo la natura che da Dio le è stata conferita. La ὕλη, o materia, è invece il ricettacolo di tutte le cose, e in essa si muovono e si uniscono tutti gli esseri governati da Dio, il quale dispensa a ciascuno quanto gli è necessario. Col soffio vitale Dio poi riempie tutte le cose, immettendolo in ciascuna in proporzione alla qualità della sua natura.

Questa palla concava a forma di sfera, che è il mondo, a causa della sua qualità e della sua forma non è visibile nella sua totalità, poiché qualunque luogo in essa tu scelga per guardare dall'alto verso il basso, tu non potrai da quello vedere tutto ciò che si trova di sotto. Perciò molti attribuiscono a una tale sfera la stessa natura e le stesse proprietà dello spazio. Infatti solo mediante le forme sensibili, che vi sono impresse come immagini, essa è ritenuta visibile, in quanto ci appare come un quadro dipinto, mentre in realtà è per sua natura invisibile. Da ciò consegue che la parte nel fondo della sfera, se si può parlare di una parte a proposito di essa, è detta in greco Ade (in greco ἰδεῖν significa vedere), perché non si può vedere. Per lo stesso motivo le forme sensibili sono dette ἰδέαι, perché sono visibili. Così dunque in greco il mondo infernale si chiama Ade, perché invisibile, e in latino Inferi, perché è la parte che si trova più in basso nella sfera.

Queste dunque sono le cause iniziali, primitive e, per così dire, capitali di tutte le cose, perché è in esse, per mezzo di esse, o da esse, che tutte le cose sono». [18] «Quali sono tutte queste cose di cui parli, o Trismegisto?».

«Sono le cose materiali, che costituiscono in complesso la sostanza di tutte le forme sensibili che sono nel mondo e in particolare di ciascuna, qualunque essa sia. Infatti la materia nutre i corpi, il soffio vitale le anime.

L'intelletto è il dono celeste di cui la sola umanità gode (non però tutti gli uomini indistintamente, ma pochi, la cui anima sia capace di accogliere un tale beneficio). Come il sole è la luce del mondo, così l'intelletto lo è dell'anima, e l'illumina più del sole; infatti tutto ciò che il sole illumina, è periodicamente privato della sua luce, quando sopraggiunge la notte, per l'interporsi della terra e della luna. L'intelletto, dunque, quando si mescola con l'anima umana diviene un'unica natura con essa per un'intima fusione, per cui l'anima, così mescolata con l'intelletto, non è mai privata della luce a causa delle tenebre dell'errore; perciò giustamente si è detto che l'anima degli dèi è solo intelletto; non dico l'anima di tutti gli dèi, ma dei più grandi e dei più eminenti».

[19] «Quali sono questi dèi, o Trismegisto, che chiami princìpi primi delle cose o delle cause prime?».

«Sto per rivelarti grandi cose e per aprirti i misteri di Dio, ma prima di cominciare invoco l'aiuto divino. Molti sono i generi degli dèi, alcuni conoscibili con l'intelletto, altri con i sensi. Quelli che definisco intelligibili, non sono chiamati tali per il fatto di non ritenerli soggetti alle nostre facoltà conoscitive, anzi li conosciamo meglio di quelli chiamati visibili; questo mio discorso te lo dimostrerà e tu potrai capirlo, se presterai attenzione. Poiché se tu non ascolterai con le orecchie tese le parole del maestro illustranti questa dottrina sublime e troppo divina per non superare le capacità intellettive dell'uomo, essa non potrà che passare oltre o scivolare via, o piuttosto, rifluendo verso il luogo donde è venuta, tornerà a mescolarsi con la sua sorgente.

Primi vengono gli dèi autori di tutte le specie. Seguono quelli che invece esercitano il loro potere nella sfera dell'essenza. Costoro sono gli dèi che abbiamo definito visibili, fatti a somiglianza della loro duplice origine, i quali creano tutti gli esseri nell'ambito della natura sensibile, creandoli l'uno attraverso l'altro e illuminando ognuno il proprio prodotto.

Il signore del cielo, o di tutto ciò che si comprende sotto tale nome, è Giove, che attraverso il cielo offre a tutti gli esseri la vita. Signore del sole è la luce, poiché è attraverso la sfera solare che su noi si riversa tutto il bene che promana dalla luce. I trentasei astri, sempre fissi nello stesso luogo, che noi definiamo Oroscopi, hanno per signore o capo il dio che chiamiamo Παντόμορφον o Onniforme, il quale conferisce le diverse forme alle diverse specie. Quelle che noi chiamiamo le sette sfere, sono soggette al dominio di ciò che definiamo sorte, o destino, che opera le trasformazioni di tutte le cose secondo la legge di natura e secondo un ordine fisso e immutabile, che tuttavia subisce alcune variazioni attraverso un movimento perpetuo. L'aria è l'organo, cioè lo strumento di tutti questi dèi, ed è attraverso di essa che tutte le cose vengono prodotte. Il signore dell'aria è il secondo dio [ ... ]. Alle cose mortali sono legate le cose mortali e quelle ad esse simili. In tal modo tutte le cose sono legate le une alle altre mediante rapporti reciproci, dall'alto verso il basso [ .. .] . Le cose mortali dunque sono legate alle immortali, le cose sensibili a quelle insensibili. Il tutto obbedisce a colui che è il sommo capo e signore, costituendo così non una molteplicità, ma un'unità. Infatti tutti gli esseri dipendono dall'uno e da questo derivano, ma considerandoli separatamente si è indotti a crederli moltissimi, considerandoli complessivamente risultano invece essere un'unità o piuttosto una coppia, dalla quale e attraverso la quale derivano tutte le cose: cioè l'essenza, di cui le cose sono costituite, e la volontà di Dio, al cui cenno le cose si realizzano singolarmente».

[20] «Qual è il significato di questo discorso, o Trismegisto?».

«Sto per dirlo, o Asclepio. Dio, o il padre, o il signore di tutte le cose, o con qualunque altro nome sia denominato in modo più riverente e più santo dagli uomini, questo nome deve esser ritenuto sacro per poterci intendere fra di noi (infatti di fronte alla considerazione di così grande potenza divina, nessuno di questi nomi può darne un'esatta definizione. Se la parola non è altro che un suono proveniente dall'aria percossa dal fiato, che manifesta ogni intenzione, ogni pensiero concepito dall'uomo con il suo intelletto in seguito a impressioni sensibili; un nome, la cui sostanza, costituita da un piccolo numero di sillabe, è interamente limitata e circoscritta, perché vi sia tra gli uomini il necessario scambio fra chi parla e chi ascolta, il nome di Dio include al tempo stesso nella sua totalità l'impressione sensibile, il soffio vitale e l'aria e tutto ciò che è in questi tre elementi, o che si ottiene attraverso di essi, o che risulta da essi. Non posso infatti illudermi che il creatore di ogni grandezza, il padre e il signore di tutti gli esseri, possa essere designato con un solo nome, anche se composto di più nomi. Dio deve dunque essere considerato senza nome, o piuttosto come se li avesse tutti, qualora si riconosca che egli è l'uno o al tempo stesso il tutto, per cui risulta necessario designare tutte le cose con il suo nome o lui con i nomi di tutte le cose). Dio dunque, essendo egli solo tutte le cose, possedendo la fecondità di ambedue i sessi, essendo sempre colmo della sua volontà, genera sempre tutto ciò che vuole generare. La sua volontà è la bontà in ogni sua forma. Questa stessa bontà, che è in tutte le cose, è naturalmente scaturita dalla divinità di Dio, affinché tutte le cose siano come sono e come furono, e possano conferire alle cose future la facoltà di riprodursi. Questo discorso dunque, o Asclepio, sia dedicato a te, affinché tu comprenda per qual motivo e in qual modo si realizzano tutte le cose».

[21] «Tu dunque dici che Dio è dotato di ambedue i sessi, o Trismegisto?».

«Non solamente Dio, o Asclepio, ma tutti gli esseri animati e inanimati. E impossibile infatti che fra essi ve ne sia qualcuno infecondo. Se si privassero della fecondità tutte le cose che esistono, sarebbe impossibile che tutto ciò che esiste attualmente possa esistere sempre. Io affermo che il mondo contiene in se stesso la capacità di generare e di conservare in vita tutte le cose che sono state create. Infatti l'uno e l'altro sesso sono pieni della facoltà generatrice e la loro congiunzione, o per meglio dire la loro unione, che puoi ugualmente e a ragione chiamare Amore o Venere o con ambedue i nomi insieme, è una cosa che non si può comprendere.

Fissa dunque nella tua mente, fra le verità più chiare e più evidenti, che Dio, il signore di tutta la natura, ha concepito per tutti gli esseri e ha concesso a loro questo mistero della riproduzione eterna, che comprende in sé l'affetto, la gioia, l'allegria, il desiderio e l'amore divino. E dovrei ancora dire quale forza inevitabile possiede questo mistero, se ciascuno non lo sapesse da sé guardando nell'intimo dei suoi sentimenti. Se infatti poni attenzione a quel momento finale, in cui, in seguito a uno sfregamento ripetuto, giungiamo a far sì che l'una e l'altra natura mescolino la propria semenza, sì che l'una avidamente rapisce l'altra per rinchiuderla nell'intimo di se stessa, in questo momento dunque, tu vedi che dall'unione la donna acquista il vigore dell'uomo e l'uomo si distende in un languore femminile. Così l'atto di questo mistero tanto dolce e tanto necessario si compié nascostamente, perché la divinità, che si manifesta nelle due nature in seguito all'unione dei sessi, non sia costretta ad arrossire a causa della derisione degli ignoranti, sopra ttutto se si espone agli occhi di uomini empi.

[22] Infatti gli uomini pii non sono numerosi e anzi direi assai pochi, sì che si possono contare quelli che esistono in tutto il mondo. Ora se la malizia persiste in molti, ciò è perché manca a questi la saggezza e la conoscenza di tutte le cose. Infatti il disprezzo di tutti i vizi che corrompono il mondo intero, e il desiderio di apportarvi dei rimedi, nasce dalla comprensione dell'ordine divino in base a cui l'universo è costituito. Ma fino a che dura l'ignoranza, tutti i vizi vivono pieni di vigore, e, lacerando l'anima con peccati insanabili, fanno sì che l'anima stessa, una volta infetta e corrotta da questi, sia come gonfia di veleno, fatta eccezione per coloro che hanno trovato il supremo rimedio nella scienza e nella conoscenza. Se dunque a questi soli uomini, e pochi in verità, gioverà questo discorso, vale la pena di continuare la nostra discussione e di spiegare che la divinità ha reso degni i soli uomini di partecipare alla scienza e alla conoscenza che la concernono.

Ascolta dunque: quando Dio, padre e signore, dopo gli dèi, ebbe creato gli uomini, combinando in essi in parti uguali l'elemento corruttibile della materia e l' elemento divino, avvenne che i vizi inerenti alla materia, mescolatisi ai corpi, vi rimanessero insieme ad altri connessi col cibo e col nutrimento, al quale noi siamo costretti unitamente a tutti gli esseri viventi. In seguito a tali cose necessariamente avvenne che negli animi umani si insediassero le brame dell'avidità e gli altri vizi che sono propri dell'anima umana. Quanto agli dèi, che sono stati formati della parte più pura della natura e senza alcun bisogno dell'aiuto della ragione e della scienza - sebbene l'immortalità e il vigore di un'eterna giovinezza siano per loro come la scienza e la conoscenza –, tuttavia, per salvaguardare l'unità dell'ordine, al posto della scienza e della conoscenza Dio ha istituito per essi, con una legge eterna, un ordine determinato dalla necessità, mentre contemporaneamente ha distinto l'uomo fra tutti gli altri esseri viventi in base al privilegio della ragione e della scienza, grazie alle quali può evitare e respingere i vizi inerenti al corpo, e al tempo stesso ha suscitato in lui la speranza dell'immortalità e il desiderio di tendere a essa. In conclusione, perché l'uomo fosse buono e potesse divenire immortale, Dio lo formò di due nature, la divina e la mortale, e così la volontà divina stabilì che l'uomo fosse superiore agli dèi, i quali sono formati della sola natura immortale, e migliore di tutti i mortali. Perciò mentre l'uomo, unito agli dèi da un legame di parentela, li adora con religiosa venerazione e con la pietà dell'anima, gli dèi a loro volta vegliano dall'alto con un tenero amore su tutte le vicende umane, prendendole sotto la loro cura.

[23] Ma questo mio discorso si riferisce solo a quei rari uomini dotati di un'anima pia. Di coloro che sono nel vizio non si deve dir niente, affinché la sublime santità di questo discorso non sia violata.

E poiché ora il discorso avrà come tema la parentela e la comunanza tra gli uomini e gli dèi, rivolgi la tua conoscenza, o Asclepio, alla forza e al potere degli uomini. Come il signore supremo e il padre, o per dargli il suo nome più alto, Dio, è il creatore degli dèi celesti, così l'uomo è l'autore e l'artefice degli dèi che sono nei templi e che vivono lieti tra gli umani. L'uomo, dunque, non solo è illuminato, ma illumina, non solo si avvicina a Dio, ma anche crea divinità. Sei preso da ammirazione, o Asclepio, oppure hai poca fede, come accade ai più?». «Sono confuso, o Trismegisto, ma assentendo volentieri alle tue parole, giudico l'uomo infinitamente felice, poiché ha ottenuto una sorte così fausta».

«Né a torto è degno di essere ammirato con st~pefazione colui che è superiore a tutti gli altri esseri. E opinione universale che il genere degli dèi abbia avuto origine dalla parte più pura della natura e che le immagini visibili di essi siano, per così dire, le loro teste, e non il corpo intero. Le immagini degli dèi, invece, foggiate dall'uomo, sono formate di ambedue le nature, quella divina, che è più pura e molto più santa, e quella accessibile agli uomini, cioè la sostanza, con cui sono state fabbricate; e non sono raffigurate in forma di testa solamente, ma con l'intero corpo e tutte le membra. Così l'umanità, sempre memore della natura e dell'origine propria, nell'imitazione della divinità giunge a tal punto che, come il padre e signore creò gli dèi eterni affinché fossero simili a lui, così essa foggia i propri dèi a somiglianza di se stessa».

[24] «Ti riferisci alle statue, o Trismegisto? ». « Sì, alle statue, o Asclepio, vedi fino a qual punto manchi di fede? Vi sono delle statue che possiedono un'anima, una coscienza, che sono piene di soffio vitale, che fanno cose grandiose e stupefacenti, statue che prevedono l'avvenire e lo predicono mediante le sorti, mediante l'ispirazione profetica, i sogni, e in molti altri modi ancora. Vi sono statue che inviano agli uomini le malattie e le guarigioni, che concedono, in base ai nostri meriti, il dolore e la gioia.

Forse ignori, o Asclepio, che l'Egitto è l'immagine del cielo o, per parlare più esattamente, il luogo dove si trasferiscono e discendono tutte le operazioni delle forze che governano e agiscono nel cielo? E se dobbiamo parlare in modo più veritiero, la nostra terra si può definire come il tempio del mondo intero. E tuttavia, poiché si conviene ai saggi di conoscere tutte le cose prima che avvengano, non è possibile ignorare ciò che sto per dire.

Verrà un tempo in cui sembrerà che gli Egiziani abbiano onorato invano i loro dèi con la devozione del loro cuore e un culto assiduo; tutta la loro pia venerazione si rivelerà inefficace e vana. Gli dèi, infatti, lasceranno la terra e risaliranno verso il cielo, l'Egitto sarà abbandonato e la terra che fu sede dei riti, spogliata dei suoi dèi, sarà privata della loro presenza. E gli stranieri che popoleranno questo paese, non solo non avranno più cura della religione, ma, e ciò è ancor più triste, si avrà l'imposizione, mediante leggi e con la prescrizione di pene, di astenersi da ogni pratica religiosa, da ogni atto di pietà o di culto verso gli dèi. Allora questa terra santissima, sede dei santuari e dei templi, sarà piena di sepolcri e di morti.

O Egitto, Egitto, dei tuoi culti non resteranno che leggende, le quali saranno considerate incredibili persino dai tuoi posteri, e rimarranno solo parole incise sulle pietre, a narrare le tue pie azioni. Abiterà l'Egitto lo Scita e l'Indo, o qualche altro popolo barbaro. Infatti non appena la divinità risalirà in cielo, gli uomini, abbandonati, moriranno, e così l'Egitto, privato degli dèi e degli uomini, sarà deserto. A te mi rivolgo, o fiume santissimo, a te preannuncio il futuro: la tua acqua, divenuta un impetuoso torrente di sangue, si riverserà fuori degli argini, e le tue onde divine non solo saranno state insozzate dal sangue, ma a causa di esso eromperanno fuori del loro letto e il numero dei morti sarà maggiore di quello dei vivi; chi sopravviverà sarà riconosciuto per egiziano dalla sua sola lingua, perché dal suo modo d'agire egli sembrerà di un'altra stirpe.

[25] Perché piangi, o Asclepio? L'Egitto si lascerà trascinare a cose molto peggiori di queste e si macchierà di delitti più gravi, proprio l'Egitto, un tempo terra santa, piena d'amore per gli dèi, unica loro sede per il sol merito della propria devozione, maestra di santità e di pietà, proprio l'Egitto sarà l'esempio della peggiore crudeltà. Allora gli uomini, annoiati della vita, non considereranno più il mondo degno di ammirazione e di adorazione. Un tale mondo, che è pieno di bontà, e del quale nulla di migliore vi è mai stato, vi è, e potrà mai esservi, sarà in pericolo e diverrà un peso per gli uomini, e per questo sarà disprezzato e non si amerà più quest'opera inimitabile di Dio, costruzione gloriosa, ricolma di bontà, composta di un'infinita diversità di forme, strumento della volontà di Dio, che generosamente assiste e protegge la sua creazione, dove si riunisce in un medesimo complesso, in un'armoniosa diversità, tutto ciò che, degno di riverenza, di lode e di amore, si offre allo sguardo. Le tenebre infatti saranno preferite alla luce, si giudicherà più vantaggiosa la morte della vita, nessuno leverà più i suoi occhi verso il cielo; e l'uomo pio sarà considerato folle, l'uomo empio saggio, il pazzo furioso prode, il peggiore sarà considerato buono. L'anima e tutte le credenze ad essa relative, che la dicono immortale per natura o in procinto di divenire tale, secondo ciò che vi ho esposto, saranno oggetto di riso, verranno considerate vanità. E sarà decretato, voi dovete credermi, che colui che si sarà dedicato alla religione sia messo a morte. Si stabiliranno nuovi diritti, una nuova legge; niente di santo, niente di pio, niente che sia degno del cielo e degli dèi che l'abitano sarà ascoltato o creduto. E avverrà l'infausta separazione degli dèi dagli uomini, rimarranno solo gli angeli malvagi, che, mescolandosi agli uomini, indurranno con la violenza quei miseri a tutti gli eccessi dell'audacia volta al male, li spingeranno a fare guerre, rapine, frodi, e a tutto ciò che è contrario alla natura dell'anima umana. La terra perderà allora la sua stabilità, il mare non sarà più navigabile, né il cielo sarà più solcato dalle orbite degli astri, né gli astri potranno continuare la loro corsa attraverso gli spazi; ogni voce divina, costretta al silenzio, tacerà; i frutti della terra marciranno e la terra non sarà più fertile, l'aria stessa diventerà inerte in una funesta immobilità.

[26] In tal modo dunque invecchierà il mondo: si avrà l'empietà, il disordine, la confusione di tutti i beni. Quando queste cose saranno accadute, o Asclepio, allora quel signore e padre, e Dio, che è primo in potenza rispetto a tutti, e il creatore del dio che è primo rispetto agli esseri creati, considerando questi costumi e queste malvagie azioni, tentando con la sua volontà, che è bontà divina, di opporsi ai vizi e al progressivo corrompersi di tutte le cose, volendo purificare il mondo dal male, annienterà ogni malizia o cancellandola con il diluvio, o consumandola con il fuoco, o distruggendola con malattie pestilenziali sparse ovunque, e ricondurrà il mondo al suo primitivo aspetto, in modo che appaia nuovamente degno di essere adorato e ammirato, e che Dio, creatore e restauratore di una sì grande opera, sia glorificato con frequenti inni di lode e di benedizione dagli uomini che allora vivranno. Questa sarà la rinascita del mondo: un rinnovamento di tutte le cose buone e una restaurazione santissima e solenne della natura stessa, necessariamente realizzata nel corso del tempo dalla volontà divina, la quale è eterna, senza inizio né fine. Infatti la volontà di Dio non ha avuto inizio, permane sempre immutabile, e come è al presente, tale sarà in eterno. La volontà di Dio è la sua stessa essenza ».

«La somma bontà è dunque il proposito divino, o Trismegisto?».

«La volontà, o Asclepio, nasce dal proposito e l'atto del volere dalla volontà stessa. Infatti non a caso vuole qualcosa chi possiede tutto e dunque vuole ciò che ha. Egli vuole tutto ciò che è buono e tutto ciò che vuole lo possiede. Tutto ciò che si propone e che vuole è dunque buono. Tale è Dio; e il mondo è la sua immagine, opera di un Dio buono e dunque buono esso stesso ».

[27] «Buono, o Trismegisto?».

«Sì, buono, o Asclepio, come mi accingo a dimostrarti. Infatti come Dio dispensa e distribuisce i suoi beni, ossia l'intelletto, l'anima, la vita, a tutte le specie e a tutti i generi che sono nel mondo, così il mondo offre e dispensa tutte le cose che ai mortali sembrano buone, ossia il succedersi delle nascite nel loro tempo, la formazione, la crescita e la maturazione dei frutti della terra e altre cose simili a queste. Così dunque Dio, avendo la sua sede nel punto più alto del sommo cielo, si trova ovunque, e volge il suo sguardo intorno su tutte le cose. (Vi è infatti al di là dello stesso cielo un luogo privo di stelle, che non ha alcun legame con le cose materiali.) Colui che ha la funzione di dispensare la vita, che noi chiamiamo Giove, occupa la zona intermedia fra cielo e terra. Mentre la terra e il mare sono dominati da Giove Plutonio, che ha la funzione di nutrjre tutti gli esseri viventi e quelli che producono frutti. E dunque per merito del potere di questi dèi che i frutti, le piante e la terra hanno vita. Ma vi sono altri dèi ancora, il cui potere e la cui attività si distribuiscono attraverso tutto ciò che esiste. Gli dèi, il cui dominio si esercita sulla terra, saranno un giorno ospitati in una città al limite estremo dell'Egitto, una città che sarà fondata nella parte dove il sole tramonta, e dove affluirà per terra e per mare tutto il genere dei mortali».

«Ma dimmi, intanto, dove si trovano in questo momento questi dèi, o Trismegisto».

«Hanno la loro sede in una città immensa, su un monte della Libia. Questo basti per quanto riguarda tale argomento.

Dobbiamo adesso trattare dell'immortale e del mortale, poiché l'attesa e il timore della morte tormenta molti, che non conoscono la vera dottrina.

La morte infatti è il risultato della dissoluzione del corpo fiaccato dalla fatica, dopo che si è compiuto il numero di anni che gli fu assegnato, e durante il quale le sue membra sono connesse fra loro in modo da formare un unico organismo in grado di esplicare le funzioni della vita. Infatti il corpo muore quando non può più reggere il peso della vita umana. Questa è la morte: il dissolversi del corp~ e lo sparire della sua sensibilità; e di ciò è vano curarsi. E invece necessario preoccuparsi di un'altra cosa, che talvolta l'ignoranza o l'incredulità umana trascurano».

« Cos'è dunque, o Trismegisto, ciò che gli uomini ignorano o che non ritengono possibile? ».

[28] «Ascolta dunque, o Asclepio. Una volta avvenuta la separazione dell'anima dal corpo, il giudizio e l'esame dei suoi meriti sarà affidato al dèmone supremo, e se costui avrà giudicato che essa è stata pia e giusta, le permetterà di stabilirsi nelle sedi che le si addicono; se invece l'avrà trovata deturpata dalle macchie del peccato e insozzata dai vizi, la precipiterà verso il basso, abbandonandola alle tempeste e ai turbini, dove sono incessantemente in lotta l'aria, il fuoco e l'acqua, perché, con castighi eterni, essa sia continuamente trascinata e travolta in direzioni contrarie fra cielo e terra dai flutti della materia. Così è l'eternità stessa dell'anima a nuocerle, in quanto essa si vede condannata da un giudizio eterno a un supplizio eterno. Sappi dunque che dobbiamo temere proprio questo, e di questo dobbiamo tremare, e da questo dobbiamo guardarci, ossia dal cader preda di una simile sorte: infatti gli increduli, dopo aver peccato, saranno costretti a credere, non da parole, ma da fatti, non da minacce, ma dalla sofferenza stessa della pena». «Non è dunque la sola legge umana, o Trismegisto, a punire i peccati degli uomini?».

«Per prima cosa, o Asclepio, tutto ciò che è legato alla terra è mortale, e tali sono anche gli esseri viventi, secondo la condizione propria dei corpi, che cessano di vivere secondo questa stessa condizione. Tutti gli esseri dunque, come sono soggetti a pene proporzionali a ciò che hanno meritato in vita e agli errori commessi, così sono puniti, dopo la morte, con pene tanto più dure quanto più i loro errori sono stati in vita tenuti nascosti. Infatti la divinità conosce tutte le nostre azioni, per cui saranno inflitte pene proporzionali alla gravità degli errori».

[29] «Chi sono quelli che meritano pene maggiori, o Trismegisto?».

«Sono coloro che, condannati dalla legge umana, muoiono di morte violenta, sì che sembrano non aver reso l'anima alla natura, a cui è dovuta, ma aver pagato la pena che si sono meritati. L'uomo giusto trova invece un soccorso e un sostegno nella religione e nella più profonda devozione a Dio. Infatti Dio protegge il giusto da qualsiasi male. Il padre e signore di tutte le cose, colui che, solo, è tutte le cose, si mostra spontaneamente a tutti, pur non facendosi conoscere rispetto allo spazio, né alla qualità, né alla grandezza, ma illuminando l'uomo con quella conoscenza che è propria dell'intelletto, per cui l'uomo, liberata la sua anima dalle tenebre dell'errore e percepita la luce della verità, si unisce alla conoscenza di Dio, per amore della quale si è liberato da quella parte della sua natura che lo rende mortale, e può quindi nutrire la speranza di una immortalità futura. In ciò consiste la distanza che separa i buoni dai malvagi. Chiunque sia dunque illuminato dalla pietà religiosa, dalla saggezza, dal culto e dalla venerazione della divinità, chiunque sia penetrato nella vera ragione delle cose, quasi con gli occhi, e sia reso saldo dalla sua fede, eccelle fra gli uomini nella stessa misura in cui il sole supera in luminosità tutti gli altri astri. Del resto è il sole stesso a illuminarli, non tanto con la potenza della sua luce, quanto con la sua divinità e la sua santità. E tu, Asclepio, devi considerare come un secondo dio il sole che governa e illumina tutti gli esseri, animati e inanimati, che vivono in terra.

Ora, se il mondo stesso è un essere vivente, che sempre visse, vive e vivrà, non esiste niente nel mondo di mortale; poiché infatti ciascuna parte del mondo è sempre viva, per il suo stesso esistere, e si trova in un mondo che è sempre dotato di vita e sempre vive, è chiaro che nel mondo non v'è per la morte posto alcuno. E dunque necessario che questo mondo sia totalmente colmo di vita e di eternità, affinché possa vivere sempre. Il sole, poiché il mondo è eterno, governa eternamente l'intero complesso delle cose viventi, a cui egli dispensa incessantemente la vita. Dio governa dunque eternamente le cose viventi e in grado di vivere, che sono nel mondo, e dispensa eternamente la vita stessa. Egli però l'ha dispensata una sola volta: la vita è concessa così a tutti gli esseri dotati di capacità vitale, con una legge eterna, nel modo che mi accingo a dire.

[30] Il mondo si muove nella stessa vita dell'eternità e ha la sua sede in questa stessa eternità vitale. Perciò il mondo non avrà mai riposo, né sarà mai distrutto, poiché questa vita eterna lo circonda proteggendolo, come se fosse un vallo, e lo rinchiude, in un certo senso, in se stessa. E il mondo a sua volta dispensa la vita e contiene tutti gli esseri che sono, sotto il sole, governati da Dio. Il movimento del mondo consiste in una duplice attività: il mondo infatti prende vita esternamente dall'eternità che lo circonda e al tempo stesso dà vita agli esseri che esso contiene, differenziando tutte le cose secondo rapporti numerici e temporali, fissati e determinati in base all'attività del sole e al corso degli astri. Il processo del tempo è infatti regolato da una legge divina; sulla terra è segnato dallo stato dell'atmosfera, dalla successione delle stagioni calde e fredde, nel cielo è segnato dal ritorno degli astri alla loro posizione iniziale, durante il corso delle loro rivoluzioni periodiche. Il mondo è ricettacolo del tempo ed è precisamente dal fluire e dal movimento del tempo che il mondo resta in vita. Il tempo è regolato da un ordine fisso, e quest'ordine determina il rinnovarsi di tutte le cose che sono nel mondo, attraverso l'alternarsi delle stagioni. Essendo tutte le cose soggette a queste leggi, non c'è niente di stabile, niente di fisso, niente di immobile nelle cose a cui viene data esistenza, sia in terra che in cielo. Solo Dio ha queste qualità, e giustamente: egli infatti è contenuto in se stesso, deriva da se stesso, è racchiuso interamente in se stesso, pieno e perfetto, ed è egli stesso la sua immobile stabilità, e non può essere allontanato dalla sua sede da alcun impulso esterno, poiché in lui sono tutte le cose ed egli stesso è in tutte le cose. Qualcuno potrebbe osar dire che il suo movimento avviene nell'eternità, ma l'eternità stessa è immobile, in quanto in essa ritorna e da essa ha origine il muoversi di tutti i tempi.

[31] Dio dunque è sempre stato immobile e come lui è l'eternità, contenendo in sé il mondo, che noi giustamente chiamiamo sensibile, prima che avesse origine. E come immagine di questo dio è stato creato il mondo, in quanto imita l'eternità. Infatti il tempo, benché sia sempre in movimento, possiede la forza e la natura di una sua peculiare stabilità, in quanto è necessariamente costretto a ritornare al proprio punto di partenza. Così sebbene l'eternità sia stabile, immobile, priva di movimento, tuttavia, come il tempo è mobile e il suo movimento è ricondotto sempre all'eternità e si attua secondo una legge temporale, avviene che l'eternità stessa, che presa in se stessa è immobile, sembra a sua volta essere in movimento a causa del tempo, nel quale si trova, e nel quale ha sede anche il movimento. Da ciò risulta che la stabilità dell'eternità comporta il movimento, e la mobilità del tempo diviene stabile per l'immutabilità della legge che regola il suo movimento. In questo senso si può ritenere che Dio stesso si muova in se stesso, pur restando immobile. In effetti il movimento della sua stabilità è immobile in ragione della sua immensità: l'immobilità è propria dell'immensità. Quest'essere, dunque, che sfugge alla conoscenza dei sensi, non ha limiti, non può essere compreso, né misurato, è superiore alle nostre facoltà e va oltre la nostra possibilità di indagine. In quale luogo si trovi, dove si diriga, da dove provenga, come sia e chi sia, non è dato sa perlo. Si muove nell' assoluta immobilità e l'immobilità si muove in lui, sia che essa sia Dio o l'eternità, o l'una e l'altra cosa insieme, o l'una nell'altra, o l'una e l'altra nell'una e nell'altra. Perciò l'eternità non è limitata dalle condizioni del tempo, o viceversa il tempo, benché possa essere limitato mediante il numero e l'alternarsi delle stagioni o per il ritorno periodico degli astri nella loro rivoluzione, è eterno. Ambedue sono dunque infiniti, ambedue eterni; come infatti l'immobilità è fissa, per sostenere tutto ciò che è mobile, in virtù di tale stabilità, essa tiene giustamente il primo posto.

[32] Le cause prime di tutto ciò che esiste sono dunque Dio e l'eternità; il mondo non è invece al primo posto, poiché in esso la mobilità ha la priorità sulla stabilità, mentre possiede come legge del suo eterno movimento una fissità immobile.

L'intelletto, che è del tutto simile alla divinità, esso stesso immobile, si muove nella sua immobilità: è santo, incorruttibile, eterno, e a lui si addicono tutti gli altri attributi più alti di questi, se ve ne sono: è eternità del Dio supremo consistente nella verità stessa, è totalmente pieno di tutte le forme sensibili, della conoscenza nella sua totalità, e sussiste, per così dire, insieme a Dio. L'intelletto del mondo invece è ricettacolo di tutte le specie sensibili e di tutti gli ordini. L'intelletto umano infine dipende dalla capacità, che è propria della memoria, di ritenere, poiché conserva il ricordo di tutte le esperienze che ha fatto. L'intelletto divino è disceso attraverso la gerarchia degli esseri fino all'essere umano; poiché il Dio supremo non ha voluto che l'intelletto divino si mescolasse con tutti gli esseri viventi, perché non dovesse arrossire di quest'unione. La conoscenza propria dell'intelletto umano, considerata dal punto di vista della sua qualità e della sua grandezza, consiste tutta nel ricordo degli avvenimenti passati. Per la capacità della memoria di conservare il ricordo, l'intelletto umano è stato reso capace di governare la terra. La facoltà conoscitiva, che è propria della natura, e la qualità dell'intelletto del mondo si possono conoscere profondamente attraverso tutte le forme sensibili che sono nel mondo. La facoltà conoscitiva dell'eternità, che viene in secondo luogo, si può conoscere nella sua qualità attraverso l'osservazione del mondo sensibile. Ma la conoscenza che si può avere del carattere dell'intelletto del sommo Dio, consiste nella verità pura e non se ne può distinguere nel mondo alcuna ombra, neanche in modo confuso. Infatti là dove nulla si fa conoscere, se non attraverso la misura del tempo, vi è menzogna; là dove le cose hanno origine nel tempo, si manifesta l'errore. Vedi dunque, o Asclepio, come nonostante siamo collocati in luoghi infimi, trattiamo alti soggetti, a quale altezza abbiamo l'ambizione di giungere. Ma è a te, o Dio supremo, che rendo grazie, tu che mi hai illuminato della luce che è visione della divinità. E voi, Tat, Asclepio e Ammone, conservate questi divini misteri nel segreto dei vostri cuori, proteggeteli col silenzio e non li divulgate.

Fra la conoscenza intellettiva umana e l'intelletto del mondo c'è questa differenza: il nostro intelletto perviene solamente con molto sforzo e applicazione a cogliere e a discernere la qualità e la natura dell'intelletto del mondo, mentre l'intelletto del mondo si eleva alla conoscenza dell'eternità e degli dèi che sono al di sopra di lui. Così, per quanto è consentito all'intelletto umano, agli uomini tocca di vedere le cose del cielo come attraverso la caligine. Senza dubbio, quando si tratta di vedere cose così grandi, la potenza della nostra visione è limitatissima, ma una volta che ha potuto vedere, la felicità del conoscere è immensa.

[33] Ecco la mia opinione sul vuoto, cui i più attribuiscono importanza: il vuoto non esiste, non è mai esistito e non potrà mai esistere. Tutte le parti del mondo, infatti, sono completamente piene, sì che il mondo stesso è completamente pieno ed è costituito di corpi diversi per qualità e forma, che hanno ciascuno una propria figura e una propria estensione, e l'uno più grande, l'altro più piccolo, l'uno più denso, l'altro più sottile. I corpi più densi si vedono più facilmente, come anche i più grandi; i più piccoli, come i più sottili, sono appena visibili o non lo sono per nulla, e non se ne conosce l'esistenza se non in virtù del tatto. Da ciò deriva che molti credono che essi non siano corpi, ma spazi vuoti, il che è impossibile.

Difatti ritengo che anche quello spazio fuori del mondo che chiamiamo vuoto, se pure esiste qualcosa di simile (ma io non lo credo), sia pieno di esseri intelligibili, simili alla divinità che in esso regna. Così questo mondo chiamato sensibile è assolutamente pieno di corpi e di esseri animati, come si conviene alla sua natura e alla sua essenza, ma le varie forme di tali corpi non sempre ci sono manifeste, noi ne vediamo alcune più grandi di quello che in realtà sono, altre piccolissime, sì che, o per la grande distanza di spazio che ci separa da loro o per la debolezza della nostra vista, esse d sembrano tali, o la loro eccessiva piccolezza induce i più a negarne l'esistenza. Io sto alludendo ai dèmoni che, ne sono certo, dimorano con noi, e agli eroi, che soggiornano, secondo la mia opinione, fra la parte più pura dell'aria che sta sopra di noi e quella zona libera da nebbie e nubi, e dai turbamenti causati dal movimento di corpi celesti. Perciò, Asclepio, non chiamerai nulla vuoto, a meno che tu non dica di che cosa sia vuoto ciò che tu dici vuoto, come ad esempio vuoto di fuoco, o d'acqua, o d'altra cosa simile: se infatti fosse possibile vedere un oggetto che possa esser vuoto di tutte queste cose, grande o piccolo che sia, non è comunque possibile che sia vuoto di soffio vitale e di aria.

[34] Lo stesso dobbiamo dire dello spazio; è una parola che non significa nulla se considerata isolatamente. Che cosa sia lo spazio infatti appare chiaro solo se consideriamo che cosa c'è nello spazio. Tolto questo che è l'elemento principale, il significato della parola spazio non è completo. Perciò diremo giustamente: lo spazio in cui è l'acqua, lo spazio in cui è il fuoco, o in cui sono altre cose. Come è impossibile che vi sia qualcosa di vuoto, così è impossibile riconoscere che cosa sia lo spazio, se lo consideriamo isolatamente. Infatti se si considera uno spazio senza l'oggetto che è in esso, questo spazio sembrerà vuoto: ora, a mio avviso non esiste spazio vuoto nel mondo. Se niente è vuoto, non si vede che cosa possa essere lo spazio in sé, se non vi si aggiungono, come ai corpi umani, le determinazioni di lunghezza, di larghezza, di altezza.

Stando così le cose, o Asclepio, e voi che siete presenti, sappiate che il mondo intelligibile, ossia quello che possiamo percepire solo con la vista dell'intelletto, è incorporeo, e che niente di corporeo può mescolarsi alla sua natura, niente che possa essere definito in base alla qualità, alla quantità o al numero: poiché nulla di simile vi è in esso.

Questo mondo dunque, che chiamiamo sensibile, è il ricettacolo di tutte le forme sensibili o delle qualità dei corpi, che non possono vivere senza Dio. Dio infatti è tutte le cose, tutte derivano da lui e tutte dipendono dalla sua volontà. Questo tutto è dotato di bontà, bellezza, saggezza; è inimitabile, percepibile e intelligibile solo a se stesso e, senza di lui, niente vi è stato, vi è, vi sarà. Tutto infatti proviene da lui, tutto è in lui, tutto è mediante lui: le varie e multiformi qualità, le grandi estensioni, le dimensioni che superano ogni misura, le multiformi specie. Una volta comprese queste cose, o Asclepio, devi rendere grazie a Dio.

Ma se concentri la tua attenzione su questo tutto, comprenderai che in verità lo stesso mondo sensibile, con tutto dò che contiene, è avvolto dal mondo superiore come da un involucro.

[35] In ciascun genere di esseri viventi, di tutti i viventi, o Asclepio, sia mortali o immortali, sia dotati di anima o meno, dotati di ragione o meno, ciascun componente, preso individualmente, ha in sé l'impronta del proprio genere, secondo il genere a cui appartiene. E sebbene ogni genere di esseri viventi possieda compiutamente la forma propria del suo genere, tuttavia in seno a questa forma, che è la stessa per tutti gli esseri, i singoli individui palesano differenze: così per il genere dell'uomo. Sebbene esso abbia sempre la stessa forma, per cui si può riconoscere un uomo dal solo aspetto esteriore, i singoli uomini tuttavia differiscono fra loro all'interno di questa stessa forma, che hanno in comune. La forma del genere, infatti, che è divina, è incorporea, e così tutto ciò che è oggetto di conoscenza per la mente. Essendo poi corporei e incorporei i due elementi di cui sono costituite le forme, è impossibile che ogni forma nasca del tutto simile all'altra in istanti diversi e a diversi gradi di latitudine; queste forme cambiano tante volte quanti istanti vi sono in un'ora, durante la rivoluzione del cerchio celeste in cui risiede quel dio che abbiamo chiamato Onniforme. Le forme dei generi permangono dunque immutabili, facendo scaturire tante immagini di sé, e tanto diverse, quanti sono i momenti che la rivoluzione del cielo comporta; mentre il mondo cambia nel corso della rivoluzione, la forma del genere non cambia e non conosce rivoluzione. Così le forme di ciascun genere rimangono immutabili, pur presentando differenze all'interno di ogni forma».

[36] «E il mondo muta il suo aspetto esteriore, o Trismegisto?».

«O Asclepio, si direbbe che mentre ti esponevo tutte queste cose tu abbia dormito. Che cos'è dunque il mondo e da che cosa è costituito, se non da tutti gli esseri che sono stati generati? Vuoi dunque che ti esponga questo riguardo al cielo, alla terra e agli elementi dell'universo? Chi più cambia aspetto? Il cielo può essere umido o secco, freddo o caldo, chiaro o scuro; nell'unica forma del cielo questi sono gli aspetti che incessantemente si alternano. Anche l'aspetto della terra sempre muta: quando genera le messi, quando nutre ciò che ha generato, quando dà frutti di varie e diverse qualità e dimensioni, quando presenta arresti e sviluppi nella sua crescita, e sopra ttutto quando variano le qualità, gli odori, i sapori, la forma degli alberi, dei fiori e dei frutti. Il fuoco genera moltissime trasformazioni divine. La figura del sole e della luna assume infatti le forme più svariate: somiglia, per così dire, ai nostri specchi, che rimandano le copie delle immagini con una luminosità che gareggia con quella reale.

[37] Ma di questo si è detto abbastanza. Torniamo ora a parlare dell'uomo e della ragione, che è il dono divino per il quale l'uomo è definito animale razionale. Tutto ciò che abbiamo detto dell'uomo è degno di ammirazione, ma non è ancor nulla rispetto a quanto stiamo per dire: che l'uomo sia stato reso capace di scoprire e di riprodurre la natura divina, supera la meraviglia di tutto ciò che è degno di ammirazione. Infatti i nostri antenati, dopo aver commesso molteplici errori riguardo alla vera dottrina degli dèi, poiché erano increduli o non si curavano del culto o della religione, inventarono l'arte di foggiare divinità. A questa invenzione aggiunsero una virtù soprannaturale, che trassero dalla natura materiale e mescolarono alla sostanza delle statue. Non potendo però creare anche le anime, dopo aver evocato anime di dèmoni o di angeli, le introdussero nelle loro statue mediante riti santi e divini, in modo che questi idoli avessero il potere di fare del bene e del male.

Così fu per il tuo avo, Asclepio, il primo inventore della medicina, al quale è dedicato un tempio su un monte della Libia, vicino alla riva dei coccodrilli, dove giace ciò che in lui costituì la parte terrena dell'uomo, cioè il corpo (il resto infatti, o per meglio dire il tutto di lui, se l'uomo nella sua totalità consiste nella coscienza della vita, è risalito felice in cielo); egli che ancor oggi con il suo potere divino fornisce agli uomini infermi il soccorso che donava loro mediante l'arte della medicina. Così anche il mio avo Ermete, di cui io porto il nome, non risiede forse nella città che ha preso il nome da lui, e non dà aiuto e salute a tutti i mortali, che da ogni parte vengono a lui? E noi sappiamo infine quanti benefici accorda Iside, sposa di Osiride, se è propizia, quali mali invece invia se è adirata! Gli dèi terrestri e materiali si adirano infatti facilmente, poiché gli uomini li hanno plasmati e composti di ambedue le nature. Da ciò consegue che gli Egiziani riconoscono ufficialmente gli animali sacri e venerano in ciascuna città l'anima di coloro che hanno consacrato in vita, sì che alcune città vivono sotto le loro leggi e portano i loro nomi: ed è per questo motivo, o Asclepio, ossia per il fatto che gli animali adorati e consacrati in una città non sono accettati in un'altra, che tra le città egiziane esplodono guerre frequenti».

[38] «E qual è la natura, o Trismegisto, di questi dèi, che sono chiamati terrestri? ».

«È costituita, o Asclepio, da una composizione di erbe, di piante e di aromi che possiedono in se stessi una innata virtù divina.

Ed è per questo motivo che si cerca di propiziarli con numerosi sacrifici, inni, canti di lode e dolcissimi suoni rievocanti l'armonia del cielo, perché questa natura celeste che è stata introdotta nell'idolo, attraverso la celebrazione ripetuta dei riti celesti, possa sopportare gioiosamente il lungo soggiorno tra gli uomini. Ecco come l'uomo fabbrica gli dèi.

Ma non credere, o Asclepio, che gli dèi terrestri esercitino a caso la loro influenza. Presso gli dèi celesti, che dimorano nelle sommità del cielo, ciascuno occupa e conserva la sede che gli è stata assegnata: per parte loro i nostri dèi danno il loro aiuto all'uomo quasi come per una parentela affettuosa, vegliando sulle singole cose, o predicendo l'avvenire mediante le sorti o la divinazione, provvedendo a determinate cose e assistendoci ciascuno nel modo a lui proprio».

[39] «Quale parte allora del governo dell'universo è regolata dal destino o fato, o Trismegisto? Non hanno gli dèi celesti il governo delle cose universali, e gli dèi terrestri quello delle cose particolari?».

«Quello che noi chiamiamo destino, o Asclepio, è la legge di necessità che regola tutte le cose connettendole l'una all'altra mediante nessi concatenati. È dunque o la causa che produce le cose, o il Dio supremo, o il secondo dio che è stato da lui creato, o l'ordine universale delle cose celesti e terrestri fissato dalle leggi divine. Così questo destino e questa necessità sono inseparabilmente legati e come cementati: primo viene il destino che determina l'inizio di tutte le cose, mentre la necessità porta a compimento tutto dò che ha avuto inizio per opera del destino. Segue l'ordine, cioè la connessione e la successione nel tempo degli eventi. Non vi è nulla infatti che non rientri nell'assetto di quest'ordine, che si realizza in tutte le cose; lo stesso movimento del cosmo è soggetto all'ordine, anzi il cosmo consiste totalmente in esso.

[40] Questi tre principi dunque: destino, necessità, ordine, sono stati creati per volere di Dio, il quale governa il mondo secondo le sue leggi e un suo piano divino. Così per volere di Dio essi sono stati privati di ogni possibilità di volere o non volere, non sono mai turbati dall'ira, mai piegati da favoritismi, ma servono alla necessità della legge eterna, che è l'eternità stessa, inevitabile, immobile, indissolubile. In primo luogo viene il destino, che, avendo gettato per così dire il seme, permette il riprodursi delle cose che saranno in futuro; segue la necessità, che costringe con la sua forza tutte le cose a giungere al loro effetto. Per terzo viene l'ordine, che mantiene la connessione di tutti questi accadimenti che sono stati determinati dal destino e dalla necessità. Questa è dunque l'eternità, che non ha inizio né fine, che, fissa nella legge immutabile della sua corsa, compie la propria rivoluzione mediante un movimento perpetuo, nasce e muore alternativamente in alcune delle sue parti, sì che, attraverso il mutare del tempo, la parte in cui è morta è la stessa in cui rinasce.

Tale infatti è il movimento circolare, principio di rotazione, dove tutto è così ben connesso che non si sa dove la rotazione inizi, ammesso che essa inizi, in quanto tutti i punti sembrano precedersi e seguirsi. Però mescolati a tutte le cose del mondo si hanno sempre l'accidente ed il caso.

Bene! Ho trattato per voi ogni argomento come mi hanno permesso le mie forze umane e secondo la volontà e la concessione della divinità. Ora non ci resta che benedire Dio e tornare alla cura del corpo. Trattando del divino abbiamo infatti nutrito e saziato sufficientemente le nostre anime».

[4I] Usciti dal santuario, cominciarono a pregare Dio, guardando verso sud (quando infatti qualcuno vuole pregare al tramonto del sole, deve guardare in quella direzione, come deve guardare verso est se prega quando il sole sorge), e già stavano pronunciando la formula, quando Asclepio disse con voce sommessa: «O Tat, vuoi che suggeriamo a tuo padre di far sì che alle nostre preghiere si aggiungano incensi e profumi?».

Trismegisto, uditolo, rispos,e commosso: «Di' parole di miglior augurio, Asclepio. E infatti simile a sacrilegio bruciare l'incenso e le altre sostanze, quando si prega Dio. Niente manca a lui, perché egli è tutte le cose e in lui sono tutte le cose. Preghiamolo dunque rendendogli grazie. Questo è il miglior incenso per Dio: essere onorato dai mortali.»

«Noi ti rendiamo lode, o sommo, o altissimo; per tua grazia infatti noi abbiamo raggiunto la luce immensa della tua conoscenza, o nome santo e venerando, unico nome per il quale Dio solo deve esser benedetto secondo la religione paterna, poiché tu ti degni di concedere a tutti il tuo affetto di padre, le tue cure, il tuo amore e qualunque altra dolce virtù esista, donando a noi l'intelletto, la ragione, la conoscenza intellettiva. E l'intelletto ce lo doni affinché noi si possa conoscerti; la ragione, affinché noi si possa porti come oggetto di indagine delle nostre ricerche; la conoscenza, affinché, conoscendoti, noi si possa gioire. Noi siamo felici, salvati dalla tua potenza, perché ti palesi totalmente a noi; noi siamo felici, perché ti sei degnato di consacrarci all'eternità, mentre ci troviamo ancora nei nostri corpi. Questa è l'unica possibilità che l'uomo ha di renderti grazie: conoscere la tua maestà. Noi abbiamo conosciuto te e la tua luce grandissima, che è oggetto di conoscenza del solo intelletto; noi ti comprendiamo, o vera vita della vita, o fecondità di tutti gli esseri; ti abbiamo conosciuto, eterna durata di tutta la natura, la quale è totalmente ricolma della tua creazione. In questa preghiera, adorando il bene della tua bontà, di questo solo ti imploriamo, che tu ci conservi perseveranti nell'amore della tua conoscenza, senza farci allontanare mai da questo genere di vita».

Esprimendo questi voti, ci apprestiamo a una cena pura, in cui non si sacrifichino animali.

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