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Lamento di Philip Roth/Introduzione

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Introduzione

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Indice del libro

Nel 1973, all'età di quarant'anni, dopo aver pubblicato sette libri, Philip Roth si prese un momento di pausa, a riflettere e intervistare se stesso sull'argomento della forma della sua carriera fino a quel momento. Per uno scrittore che aveva affermato che "the art of impersonation is the fundamental novelistic gift", impersonare il proprio intervistatore gli venne abbastanza naturale.[1] Ponendosi una domanda sulla sua alternanza tra il "serio" e lo "spericolato", Roth si concesse una lunga risposta che, dopo aver preso in considerazione le sue prime battaglie con i critici ebrei sulla sua pubblicazione di debutto Goodbye, Columbus (1959), alla fine cita il saggio del 1939 di Philip Rahv "Paleface and Redskin", che postulava due tipi polarizzati di scrittore americano.[2] Gli scrittori Paleface ("Viso pallido"), come T.S. Eliot e Henry James, erano figure raffinate, colte, della costa orientale, che mostravano un interesse del vecchio mondo per le preoccupazioni morali. I Redskins ("Pellerossa"), come Walt Whitman e Mark Twain, erano gli scrittori della frontiera e della grande città: scrittori emozionali, vernacolari, energici che riflettevano la vitalità del nuovo mondo e lo spirito di curiosità dell'esploratore. Dopo aver introdotto la dicotomia di Rahv, Roth rivendica l'appartenenza a una nuova categoria ibrida di scrittori americani, il "redface" ("facciarossa"), che è una combinazione di paleface e redskin, pur rimanendo "fundamentally ill at ease in, and at odds with, both worlds". È significativo che Roth non prosegua affermando di scrivere come una combinazione di paleface e redskin (non c'è alcuna affermazione sui modi in cui è stato influenzato, ad esempio, sia da James che da Twain), ma piuttosto è l'alternanza tra modalità opposte, l'imbarazzante incertezza su quale percorso scegliere, che viene enfatizzata:

« To my mind, being a redface accounts as much as anything for the self-conscious and deliberate zigzag that my own career has taken, each book veering sharply away from the one before, as though the author was mortified at having written it as he did and preferred to put as much light as possible between that kind of book and himself. »
(Philip Roth, “On The Great American Novel, in Reading Myself and Others, 72-3)

Questo "self-conscious and deliberate zigzag" ha continuato a definire la carriera di Roth fino ai giorni nostri, creando un corpus di opere tanto variegato e fertile quanto quello di qualsiasi scrittore nella memoria recente. C'è un altro scrittore di narrativa che è stato così tante cose per così tanti lettori? In un momento o nell'altro, Roth è stato visto come il cronista attento dei ricchi sobborghi ebrei americani; il celebre autore di bestseller sulla trasgressione sessuale; il custode della fiamma dell'umorismo ebraico; lo scrittore ebreo che odia se stesso, desideroso di trascinare il suo popolo nel fango per vendere qualche copia in più dei suoi libri; il satirico politicamente incisivo nella tradizione di Swift e Orwell; il narratore egocentrico di racconti psicoanalitici del sé; il campione del lavoro e delle tradizioni degli scrittori dell'Europa orientale dietro la cortina di ferro; il postmodernista giocoso, che confonde i confini tra finzione e realtà; il bardo nostalgico di Newark, New Jersey; e l'indiscusso Grande Romanziere Americano, che scrive opere che condensano e commentano interi decenni di esperienza americana. Come possiamo dare un senso a una simile carriera?


[...]

Per approfondire, vedi Serie letteratura moderna, Serie delle interpretazioni, Serie dei sentimenti e Identità e letteratura nell'ebraismo del XX secolo.
  1. Philip Roth, “Interview with The Paris Review”, in Reading Myself and Others, (New York: Vintage, 2001), 123.
  2. Philip Rahv, “Paleface and Redskin,” in Image and Idea: Twenty Essays on Literary Themes, Revised and Enlarged (London: Weidenfeld and NicoIson, 1957), 1-6.