Shoah e identità ebraica/Appendice II
Prefazione a La notte di Elie Wiesel
[modifica | modifica sorgente]- di François Mauriac (1958)
Dei giornalisti stranieri mi rendono sovente visita. Io li temo, diviso fra desiderio di rivelare ogni mio pensiero e il timore di fornire delle armi a degli interlocutori i cui sentimenti nei confronti della Francia non i sono noti. In questi incontri non dimentico mai di diffidare.
Quella mattina, il giovane israeliano che mi interrogava per conto di un giornale di Tel Aviv mi ispirò una simpatia dalla quale non dovetti difendermi molto a lungo, perché il nostro discorso prese quasi subito una piega personale. Mi trovai a evocare dei ricordi del tempo dell'occupazione. Non sono sempre le circostanze alle quali abbiamo direttamente partecipato che ci toccano di più, e io confidai al mio giovane visitatore che nessuna visione di quegli anni oscuri mi aveva tanto segnato come quei vagoni riempiti di bambini ebrei alla stazione... Non li avevo tuttavia visti con i miei occhi, ma fu mia moglie che me li descrisse ancora tutta piena dell'orrore che ne aveva provato. Noi ignoravamo tutto allora dei metodi di sterminio nazisti. E chi avrebbe potuto immaginarli! Ma quegli agnellini strappati alle loro madri superava già quello che avremmo creduto possibile. Quel giorno credo di aver toccato per la prima volta il mistero d'iniquità la cui rivelazione avrebbe segnato la fine di un'era e l'inizio di un'altra. Il sogno che l'uomo occidentale ha concepito nel XVIII secolo, del quale credette veder l'aurora nel 1789, e che, fino al 2 agosto 1914, si è rafforzato col progresso dei lumi e con le scoperte della scienza, questo sogno ha finito di dissiparsi per me davanti a quei vagoni carichi di bambini. E tuttavia ero lontano le mille miglia da pensare che andavano a rifornire le camere a gas e i crematori.
Ecco ciò che dovetti confidare a quel giornalista, e siccome sospirai: "Quante volte ho pensato a quei bambini!", lui mi disse: "Io sono uno di loro". Era uno di loro! Aveva visto scomparire sua madre, una sorellina adorata e tutti i suoi tranne suo padre nel forno alimentato da creature viventi. In quanto al padre, doveva assistere al suo martirio, giorno dopo giorno, alla sua agonia e alla sua morte. Che morte! Questo libro ne riferisce le circostanze e lo lascio scoprire ai lettori, che dovrebbero essere così numerosi come quelli del Diario di Anna Frank. Così come riferisce per quale miracolo lo stesso bambino riuscì a salvarsi.
Ma ciò che affermo è che questa testimonianza, che viene dopo tante altre e che descrive un abominio del quale potremmo credere che nulla ci è ormai sconosciuto, è tuttavia differente, singolare, unica. Ciò che succede agli ebrei di questa piccola città della Transilvania chiamata Sighet, la loro cecità di fronte a un destino che avrebbero avuto il tempo di fuggire e al quale con una inconcepibile passività essi stessi si consegnano, sordi agli avvenimenti, alle suppliche di un testimone scampato a un massacro, che riferisce loro ciò che lui stesso ha visto coi suoi propri occhi, ma a cui rifiutano di credere e che prendono per un demente, ebbene questi fatti sarebbero certamente bastati a ispirare un'opera alla quale nessuna, mi sembra, avrebbe potuto essere comparata.
Ma è tuttavia per un altro aspetto che questo libro straordinario mi ha conquistato. Il ragazzo che ci racconta qui la sua storia era un eletto di Dio. Non viveva dal risveglio della sua coscienza che per Dio, nutrito di Talmud, desideroso di essere iniziato alla Cabala, consacrato all'Eterno. Abbiamo mai pensato a questa conseguenza di un orrore meno visibile, meno impressionante di altri abomini, ma tuttavia la peggiore di tutte per noi che possediamo la fede: la morte di Dio in quell'anima di bambino che scopre tutto a un tratto il male assoluto?
Cerchiamo di immaginare cosa succede in lui mentre i suoi occhi guardano salire al cielo le volute di fumo nero che escono dal forno dove la sua sorellina e la sua mamma stanno per essere buttate dopo migliaia di altri: "Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai".
Capii allora che cosa avevo amato fin dall'inizio nel giovane israeliano: quello sguardo da Lazzaro risuscitato, e tuttavia sempre prigioniero delle oscure rive dove vagò, incespicxando su dei cadaveri disonorati. Per lui il grido di Nietzsche esprimeva una realtà quasi fisica: Dio è morto; il Dio di amore, di dolcezza e di consolazione, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe si è dileguato per sempre, sotto lo sguardo di questo ragazzo, nel fumo dell'olocausto umano preteso dalla Razza, la più ingorda di tutti gli idoli. E questa morte, in quanti pii ebrei non è avvenuta? L'orribile giorno, fra quegli orribili giorni, in cui il bambino assistette all'impiccagione (sì!) di un altro bambino, che "aveva il volto di un angelo infelice", sentì qualcuno genere dietro di lui: "Dov'è Dio? Dov'è? Dov'è dunque Dio?" E in lui una voce rispondeva: "Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca".
L'ultimo giorno dell'anno ebraico il bambino assiste alla cerimonia solenne di Rosh Hashanà e sente quelle migliaia di schiavi gridare a una sola voce: "Benedetto sia il Nome dell'Eterno!" Ancora poco tempo prima si sarebbe prosternato anche lui, e con quale adorazione, quale timore, quale amore! E ora si rialza, si rifiuta. La creatura umiliata e offesa al di là di ciò che è concepibile per la mente e per il cuore sfida la divinità cieca e sorda: "Oggi non imploravo più. Non ero più capace di gemere. Mi sentivo, al contrario, molto forte. Ero io l'accusatore, e l'accusato, Dio. I miei occhi si erano aperti, ed ero solo al mondo, terribilmente solo, senza Dio, senza uomini; senza amore né pietà. Non ero nient'altro che cenere, ma mi sentivo più forte di quell'Onnipotente al quale avevo legato la mia vita così a lungo. In mezzo a quella riunione di preghiera ero come un osservatore straniero".
E io, che credo che Dio è amore, cosa devo rispondere al mio giovane interlocutore, i cui occhi azzurri conservavano il riflesso di quella tristezza d'angelo apparsa un giorno sul volto del bambino impiccato? Cosa gli ho detto? Gli ho parlato di quell'israeliano, quel fratello che forse gli assomigliava, quel crocifisso, la cui croce ha vinto il mondo? Gli ho confidato che quella che per lui fu pietra d'inciampo è diventata per me pietra angolare e che nella corrispondenza fra la croce e la sofferenza umana si trova, ai miei occhi, la chiave di quel mistero insondabile dove si è perduta la sua fede di bambino? Eppure Sion è risorta dai crematori e dai carnai. È per essi che vive di nuovo. Noi non conosciamo il prezzo di una sola goccia di sangue, di una sola lacrima. Tutto è grazia. Se l'Eterno è Eterno, l'ultima parola per ciascuno di noi gli appartiene. Ecco ciò che avrei dovuto dire al ragazzo ebreo. Ma non ho potuto far altro che abbracciarlo piangendo.