Thomas Bernhard/Appendice II
Thomas Bernhard, lo scrittore maledetto che ci servirebbe ora
[modifica | modifica sorgente](Stralcio da un articolo di Carlo Pizzati, 2015)[1]
Esistono scrittori che nella loro schiacciante grandezza rovinano innumerevoli esordienti. Sono autori il cui stile è così magnetico che genera file di imitatori i quali, non riuscendo mai ad avvicinarsi al loro modello, resteranno per sempre impastati nell'acredine. Ma non un’acredine sufficiente a far di loro dei Thomas Bernhard. Tra i responsabili più noti di quest’inconsapevole reato letterario troviamo il solito Gabriel Garcia Marquez, il volteggiante Milan Kundera, l'inarrivabile Jorge Luis Borges e, nella provincia chiamata Italia, Italo Calvino. Oggi mi dicono che esistono anche gli imitatori di Paulo Coelho.
Pochi autori, però, sono stati e sono pericolosi come Thomas Bernhard. Nei "favolosi" anni ’80 già s'insinuava la moda di leggere i suoi ultimi romanzi, a detta della critica i più maturi e riusciti. Quell’ipnotizzante monologare senza andare a capo e quell’Austro-patia, in cui bastava sostituire la propria nazione d’appartenenza, apparvero subito come una potente, dilaniante liberazione. Bernhard è un libertador della coscienza. Soprattutto della coscienza borghese che criticava. Quella che segue le mode letterarie, ad esempio. Come Fellini viene adorato dalla borghesia post-bellica democristiana perché ne indica con garbo sognante difetti e contraddizioni, come Nanni Moretti è idolatrato dalla borghesia conservatrice finta-stracciona di sinistra perché ne scimmiotta i tic, così il Grande Austriaco ci regala tutto il livore che dentro di noi proviamo inevitabilmente nei contesti soffocanti delle convenzioni sociali, soprattutto se ci si trova nell’umiliante ambito politico-giornalistico-artistico-culturale ben conosciuto ovunque.
Quanto avrebbe odiato queste parole, Thomas Bernhard. Quanto facilmente avrebbe distrutto con brio il suo autore, con la precisione di un sguardo impietoso e quindi lucido. E allora stuzzichiamone la memoria. L'insulto più grande per Thomas Bernhard è di ricordarne la nascita, il 9 febbraio del 1931, a Heerlen, in Olanda. "Odio i libri e gli articoli che iniziano con una data di nascita. Odio in assoluto libri e articoli che adottano un approccio biografico e cronologico; ciò mi appare di gran cattivo gusto e nel contempo la procedura meno intellettuale che ci sia."
Per essere disgustosamente cronologici, la prima cosa da sapere è che il cognome di Bernhard, come ricorda Gitta Honegger nella sua ben argomentata biografia, fu il primo incidente che l’allontanò dalla famiglia, invece d’avvicinarlo. Il vero nonno di Thomas era uno scrittore di nome Johannes Fraumbichler. La nonna in realtà era sposata a Karl Bernhard, ma ebbe da Fraumbichler una figlia cui diede il cognome del marito cornuto e legittimo. Herta Bernhard, già lei figlia illegittima, va a lavorare in Olanda come donna delle pulizie e lì, nel 1931, partorisce Nicolaas Thomas Bernhard: figlio illegittimo di un falegname che non lo riconosce e che fugge in Germania, dove nel 1940 si suiciderà per avvelenamento a gas. Nel ’36 la madre si sposa ed ha due figli. Thomas resta l’unico in famiglia con il cognome della madre. Il patrigno si rifiuta di adottarlo e di dargli il suo cognome. Il conflitto con la madre si fa intenso. Viene spedito in un collegio per "bambini difficili" in Turingia. Poi in un ostello cattolico per ragazzi a Salisburgo.
Non sorprende che, circondato da tanto astio, guardato in cagnesco come "il bastardo", per Bernhard il centro della famiglia resti sempre il vero nonno, quel sognatore, anarchico e bisessuale Johannes Fraumbichler che passò la vita cercando e fallendo nei suoi tentativi di diventare un grande scrittore, nonostante un primo e unico successo. Gli anni, pochi, in sua compagnia sono paradisiaci nella memoria di Bernhard.
Quasi tutti i suoi scritti, come sostiene Tim Parks nel NY Review of Books,[2] hanno come fulcro un personaggio mono-maniacale ossessionato dal trionfo che ricorda Fraumbichler e su cui Bernhard modella il proprio carattere. Che sia la perfezione intellettuale di Il nipote di Wittgestein o i fallimenti paralizzanti della Fornace, il personaggio centrale è sempre una catastrofe per chi lo circonda e alla fine per sé stesso.
Thomas lascia la scuola a 16 anni per fare il garzone in una bottega di alimentari, ma prendendo lezioni private di canto (forse proprio ispirato dall'afflato artistico del nonno). I sogni da tenore soffocano a 18 anni in una tubercolosi curata con due anni d’ospedale. Mentre Bernhard sfiora la morte, sia il nonno idolatrato che la madre periscono davvero. Ciò lo sprofonda in un lunga depressione dalla quale emerge deciso a riconquistare pienamente la salute. E il mondo. Con l'aiuto di una nuova amica che ha 36 anni più di lui.
Nelle sue passeggiate notturne non autorizzate dall'ospedale, conosce infatti la sua protettrice che diventerà suo pigmalione: Hedwig Stavianicek, vedova ed ereditiera di una famosa marca di cioccolato. La milionaria introduce il fragile, determinato e brufoloso 19enne alla più alta società austriaca. Inizia così una collaborazione come critico culturale con due giornali di Salisburgo e diventa subito una vera spina nel fianco di una società che rinnegava o nascondeva il proprio ruolo nell'Olocausto. Con una critica teatrale al limite dell'isterico, si conquista la sua prima causa per diffamazione e così la fama: ora i giornali parlano di lui. Abbandonato il giornalismo culturale, esplora la recitazione teatrale e scopre il suo ruolo migliore: il vecchio brontolone arrabbiato. Ora è perfettamente integrato nell’avanguardia austriaca. Seduce uomini e donne (non sessualmente, a quanto risulta), ma causa turbolenze emotive di qua e di là, riparando dalla "zietta" Stavianicek quando le cose si mettono male. Odia l'Austria, ma è in questo perfettamente austriaco (uno dei pochi punti in comune tra Austria e Italia). Alcuni concittadini lo accusano d’essere un Nestbeschmutzer, uno "sporca-nido".
"Il passato dell'Impero Asburgico è ciò che ci forma. Nel mio caso è forse più visibile che in altri. Si manifesta in una sorta di odio-amore per l'Austria. Questa è la chiave di tutto ciò che scrivo."
Ma Bernhard è limpidamente consapevole del fatto che la scrittura non ha il potere di alterare la società che critica senza rimorsi. Al contrario, l’artista è coinvolto nello show da baraccone. "L'immaginazione è un'espressione del disordine, dev’essere così" dice il pittore in Gelo.
Mi limito a trascrivere tre incipit di suoi romanzi, il cui stile non ha bisogno di ulteriori lodi: "Nel millenovecentosessantasette, nel Padiglione Hermann dell’Altura Baumgartner, una suora che vi svolgeva con solerzia infaticabile il suo lavoro di infermiera mi depose sul letto Perturbamento, il libro fresco di stampa che avevo scritto un anno prima a Bruxelles in rue de la Croix 60, ma io non ebbi neanche la forza di prendere in mano quel libro essendomi appena svegliato, erano passati solo pochi minuti, da un'anestesia totale durata parecchie ore che mi era stata praticata dagli stessi medici che mi avevano aperto il collo in modo da poter estrarre dalla gabbia toracica un tumore della grandezza di un pugno." (Il nipote di Wittgenstein). "Un suicidio lungamente premeditato, pensai, non un atto repentino di disperazione. Anche Glenn Gould, il nostro amico e il più importante virtuoso del pianoforte di questo secolo, è arrivato soltanto a cinquantun anni, pensai mentre entravo nella locanda. Solo che non si è tolto la vita come Wertheimer, ma è morto, come si suol dire, di morte naturale." (Il Soccombente). "Con quella che sul mio polmone fu detta ombra, un'ombra era di nuovo calata sulla mia esistenza. Grafenhof era una parola funesta, a Grafenhof dominavano in maniera esclusiva e con perfetta immunità il primario e il suo assistente e l’assistente di quest'ultimo, nonché le condizioni, tremende per un giovane come me, di un pubblico sanatorio per turbercolotici." (Il Freddo).
I suoi libri hanno un successo internazionale. Piace sia come autore teatrale che come romanziere e autore di racconti brevi. È prolifico e finisce in quella contraddizione creativa che lo caratterizza tra il profondo bisogno di esprimersi e l’ossessiva pulsione verso un isolamento supremo. È questa opposizione di poli a generare una delle voci più memorabili della letteratura europea.Glenn Gould
Finisce così isolato dietro ad alte siepi, in un vecchio casolare di campagna nella frazione di Obernathal, in Austria. Dall'altra parte scorre la vita del villaggio della provincia, e gli adulti lo usano simbolicamente come spauracchio per i bambini. Lui ride amaro dell'inutilità di quel che scrive: "Perché applaudono?" si chiede, guardando i borghesi godere dei suoi spettacoli contro la borghesia, ma anche contro l'intellighenzia, contro tutto. Nell'89, il 12 febbraio, pochi giorni dopo il 58esimo compleanno, sapendo che doveva morire per malattie ai polmoni e al cuore, si uccide con un'overdose di medicinali. "Ogni cosa è ridicola, se paragonata alla morte."
Leggerlo dà l'intensa impressione di riuscire ad assaporare, brevemente racchiusi nello spazio artificiale di performance letterarie uniche, un vero quadro delle contraddizioni che guidano le nostre vite. Il mondo è orrendo, le ruminazioni della mente che descrive quest’orrore non lasciano spazio ad alcuno ottimismo, ma i meccanismi inventati per esprimere il disastro in cui viviamo è sempre esilarante.
In questo sta il suo genio. Ascolti il vecchietto malmostoso decomporre tutto ciò che vedi e conosci, facendo scomparire, filo per filo, la grande Matrix che ci circonda.
Poi "l'agile salto improvviso del poeta-filosofo" (I. Calvino su Cavalcanti) ti fa esplodere in una risata.
Sul mondo, su noi stessi, sulla grande Commedia.
Una scheda su Perturbamento
[modifica | modifica sorgente](Stralcio da una recensione di Andrea Gussago, 1995)[3]
Perturbamento non é, come scrivono i compilatori sempre più stereotipati delle quarte di copertina, "un viaggio nel..." o un "viaggio attraverso..."; "viaggiare" lascia semanticamente spazio a un certo grado di libertà, di autodeterminazione, di escursionismo, mentre quello che Perturbamento presenta è, invece, un itinerario, un percorso preciso e lineare; un percorso lungo il quale però ci si può fermare solo brevemente (dunque soffermare) a contemplare i panorami e le viste offerte dall’ambiente, perché subito si é costretti a lasciarsi alle spalle il visto per prepararsi a quello che ancora c’é da vedere.
Fin dalle prime righe si intuisce che quello preparato da Bernhard non é affatto un itinerario consueto: infatti coincide, o meglio, é rappresentato, da quello che il medico condotto, padre del ragazzo incaricato di fungere da voce narrante, propone al figlio allorché lo invita a seguirlo in un giro di visite nella Stiria, zona montuosa dell’Alta Austria. Il padre porta con sé il figlio con la consapevolezza di poterlo turbare, il figlio segue il padre consapevole di poterne uscire (per)turbato.
Questo lungo estratto contiene in sé le premesse e i motivi del romanzo: non si tratta di un romanzo di formazione del personaggio, perché sin dal principio questi afferma che non é la prima volta che accompagna il padre nel suo giro di visite, bensì di un romanzo di formazione del lettore: è il lettore che compie il percorso che padre e figlio hanno segnato prima di lui.
Come Dante nella Divina Commedia, Bernhard affigge alle porte dell’inferno un'insegna che è monito e attrazione al tempo stesso: per chi prosegue la speranza è perduta, una volta superati i cancelli non è più possibile tornare indietro. Oltre questi cancelli si stende la Stiria, una terra immersa in una natura malefica, abitata da una popolazione di malati fisici e mentali, in cui la brutalità e la solitudine feroce ammantano la campagna come una densa coltre di nebbia. L'illusione di contingenza che si prova nel trovare concentrato in un preciso punto del globo la malattia e la tristezza è fugata con fermezza, "anche se questo mondo pretendeva o fingeva di essere sano, era pur sempre un mondo malato".
Siamo perturbati anche perché le porte dell’inferno non si aprono, come in Dante, di fronte a un aldilà metafisico, bensì dinanzi alla realtà di ciascuno di noi; i pazzi e malati che popolano la zona battuta dal medico condotto e dal figlio sono persone comuni, che svolgono lavori comuni, e che vivono in un ambiente apparentemente tranquillo come lo è la campagna austriaca. In questa realtà tremenda si agitano le figure viventi della malattia e del dolore: la moglie dell'oste, picchiata a morte dagli avventori del locale senza alcun motivo; il professore, accusato ingiustamente per un crimine mai commesso e morto nel più totale isolamento; la vecchia maestra agonizzante a causa di una malattia incurabile; il bambino in fin di vita caduto nel mastello per maiali pieno di acqua bollente; il mugnaio e sua moglie, che strangolano uno dopo l'altro i propri uccelli esotici per via dei lamenti intollerabili e incessanti; l'artista storpio e pazzo che, quando non è legato al letto dai familiari, scarabocchia ingiurie sui ritratti dei grandi della musica classica; l'industriale, isolato in un padiglione da caccia assieme alla sorella-schiava, che si dispera per portare a termine un'impresa letteraria per lui impossibile.
Il percorso tracciato da Bernhard, e in parallelo il giro di visite del medico, si arresta con l’entrata del medico stesso e del figlio nel castello di Hochgobernitz, residenza del delirante principe Sarau.
Da questo momento in poi la narrazione sospende qualunque pretesa di farsi racconto per diventare pura trascrizione riportata dello sconvolgente soliloquio del principe; in questo soliloquio si alternano incessantemente i temi prediletti da Bernhard e figurati dai personaggi incontrati nel preparatorio giro di visite: la malattia, la morte, il dolore, l’incomunicabilità e la solitudine. Attraverso giudizi, aforismi e sentenze ripetuti e varianti impercettibilmente, come in una partitura minimalista, il principe Sarau non solo trascina il lettore in un perturbamento che qui, nella dissoluzione di ogni struttura di significato, raggiunge il massimo grado, ma arriva a contraddire e quasi negare la propria identità, smentendo le sue stesse affermazioni (esemplare è, come rileva Eugenio Bernardi nel suo puntuale saggio "Dopo l'ultimo spettacolo" che completa l'edizione italiana, l'esempio della richiesta di giornali che il principe avanza dopo aver proclamato la falsità della stampa). Il linguaggio utilizzato dal principe nel suo soliloquio, un viluppo dal quale è impossibile estrapolare una qualsiasi consequenzialità, abbraccia tutto quello del mondo si può dire, e che in realtà é già stato detto, per farlo mulinare in un vortice in perpetuo movimento.
Note
[modifica | modifica sorgente]- ↑ Fonte di pubblico dominio online, publ. da il Garantista, 2015 (in estratto libero da copyright).
- ↑ Tim Parks, "The Genius of Bad News", NY Review of Books, 11 gennaio 2007.
- ↑ Fonte di pubblico dominio online, (in estratto libero da copyright).