Thomas Bernhard/Estinzione

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Thomas Bernhard

ESTINZIONE
Uno sfacelo

Piazza di Minerva, Roma (ca. 1890-1900)

Incipit:[1]

Sento la morte che mi artiglia di continuo
ora la gola ora le reni.
Ma io non sono come gli altri:
la morte mi pervade interamente.

(Montaigne)
IL TELEGRAMMA


Dopo il colloquio col mio allievo Gambetti, col quale mi sono incontrato il ventinove al Pincio, scrive Murau, Franz Josef, per concordare le date delle lezioni di maggio, e la cui superiore intelligenza anche ora, dopo il mio ritorno da Wolfsegg, mi ha sorpreso, anzi entusiasmato e rinfrancato a tal punto che, contro la mia abitudine di andare in piazza della Minerva direttamente da via Condotti, in uno stato d'animo sempre più allegro anche al pensiero di essere in effetti, ormai da tempo, di casa a Roma e non più in Austria, ho raggiunto la mia abitazione attraverso la Flaminia e piazza del Popolo percorrendo l'intero Corso, ricevetti verso le due del pomeriggio il telegramma con cui mi si comunicava la morte dei miei genitori e di mio fratello Johannes. Genitori e Johannes deceduti in incidente. Caecilia, Amalia. Col telegramma in mano, mi avvicinai tranquillo e lucido alla finestra del mio studio e guardai giù in piazza della Minerva, completamente deserta. Avevo dato a Gambetti cinque libri, convinto che gli sarebbero stati utili e necessari per le settimane seguenti, e gli avevo affidato il compito di studiare quei cinque libri con la massima attenzione e con la lentezza che, nel suo caso, è d'obbligo: Siebenkäs di Jean Paul, Il processo di Franz Kafka, Amras di Thomas Bernhard, La portoghese di Musil, Esch o l'anarchia di Broch, e ora, dopo aver aperto la finestra per respirare meglio, pensai che avevo preso la decisione giusta dando a Gambetti proprio quei cinque libri e non altri, perché nel corso delle nostre lezioni avrebbero assunto per lui importanza sempre maggiore, e facendo un accenno discreto al mio proposito di discutere con lui, la volta seguente, delle Affinità elettive e non del Mondo come volontà e rappresentazione. Parlare con Gambetti era stato di nuovo, anche quel giorno, un grande piacere per me, dopo i discorsi faticosi e grevi con la famiglia a Wolfsegg, limitati alle necessità quotidiane, elementari ed esclusivamente private. Le parole tedesche sono appese come piombi alla lingua tedesca, dissi a Gambetti, e ogni volta gravano sullo spirito abbassandolo a un livello che a quello spirito è dannoso. Il pensiero tedesco e il discorso tedesco si paralizzano presto sotto il peso disumano di una lingua che soffoca ogni cosa pensata ancor prima che la si pronunci; nella lingua tedesca il pensiero tedesco ha potuto evolversi solo a fatica e mai dispiegarsi del tutto, a differenza del pensiero romanzo nelle lingue romanze, come dimostra la storia dei secolari sforzi dei tedeschi. Sebbene io abbia maggior considerazione dello spagnolo, probabilmente perché mi è più familiare, Gambetti mi diede quella mattina un'altra preziosa lezione sull'agilità, leggerezza e infinità dell'italiano, che sta al tedesco come un bambino di famiglia agiata e felice, cresciuto in piena libertà, sta ad un bambino di famiglia poverissima, oppresso, picchiato e reso astuto dalle botte. Quanto più, dissi a Gambetti, vanno apprezzati allora i risultati raggiunti dai nostri filosofi e scrittori. Ogni parola, dissi, trae immancabilmente il loro pensiero verso il basso, ogni frase schiaccia a terra qualsiasi cosa essi abbiano osato pensare, e quindi schiaccia a terra sempre tutto. Per questo anche la loro filosofia, e ogni loro poesia, è come di piombo. D'improvviso ho recitato a Gambetti, prima in tedesco e poi in italiano, una frase di Schopenhauer tratta dal Mondo come volontà e rappresentazione, e ho cercato di dimostrare a lui, Gambetti, quanto pesantemente scendesse il piatto tedesco della bilancia simulato dalla mia mano sinistra, mentre quello italiano, per così dire, balzava in alto con la mia mano destra. Per il divertimento mio e di Gambetti citai diverse frasi di Schopenhauer prima in tedesco, poi nella mia traduzione italiana e, perché fossero ben visibili al mondo intero, per così dire, ma soprattutto a Gambetti, le posi sulla bilancia delle mie mani, e ne trassi gradualmente, portandolo all'esasperazione, un gioco che si concluse con frasi di Hegel e con un aforisma di Kant. Purtroppo, dissi a Gambetti, le parole pesanti non sono sempre quelle di maggior consistenza, così come le frasi pesanti non sono sempre quelle di maggior consistenza. Il mio gioco mi aveva presto sfinito. Fermo dinanzi all'Hotel Hassler, feci a Gambetti un breve racconto del mio viaggio a Wolfsegg, che risultò alla fine, anche per me, troppo dettagliato, anzi effettivamente prolisso. Avevo cercato di suggerirgli un paragone fra le nostre due famiglie, di opporre l'elemento tedesco della mia a quello italiano della sua, ma in fin dei conti riuscii solo a sminuire la sua attraverso la mia, cosa che non poteva non distorcere il mio racconto e, anziché offrire a Gambetti chiarificazione ed insegnamento, turbarlo sgradevolmente. Gambetti è un buon ascoltatore ed ha un orecchio finissimo, educato alla mia scuola, per la veridicità e la coerenza di un'esposizione. Gambetti è mio allievo e, all'inverso, io sono allievo di Gambetti. Io imparo da Gambetti almeno quanto Gambetti impara da me. Il nostro è il rapporto ideale, perché una volta sono io l'insegnante di Gambetti e lui è il mio allievo, un'altra volta è Gambetti il mio insegnante e io sono il suo allievo, e spesso accade che nessuno di noi due sappia se al momento è Gambetti l'allievo e io l'insegnante, o viceversa. Significa allora che si è instaurata la nostra condizione ideale. Ufficialmente, però, io resto l'insegnante di Gambetti e da Gambetti, per l'esattezza dal facoltoso padre di Gambetti, vengo pagato per la mia attività di insegnante. Due giorni dopo il ritorno dalle nozze di mia sorella Caecilia col fabbricante di tappi per bottiglie da vino di Friburgo, suo marito, il mio attuale cognato, debbo rifare la borsa da viaggio disfatta appena ieri, che non ho ancora riposto e ho lasciato sulla poltrona accanto alla scrivania, e tornare a Wolfsegg, che negli ultimi anni, in effetti, è diventata per me, nel complesso, più o meno repellente, pensai, sempre guardando dalla finestra spalancata giù in piazza della Minerva, deserta, e questa volta non si tratta di un'occasione ridicola e grottesca, ma dell'occasione terribile. Anziché conversare con Gambetti sul Siebenkäs o sulla Portoghese, dovrò consegnarmi alle mie sorelle che mi aspettano a Wolfsegg, mi dissi, anziché parlare con Gambetti delle Affinità elettive, dovrò parlare con le mie sorelle del funerale dei nostri genitori e di nostro fratello, e della loro eredità. Anziché andare su e giù per il Pincio con Gambetti, dovrò andare in municipio e al cimitero e in parrocchia, e litigare con le mie sorelle sulle formalità dei funerali. Mentre rimettevo nella borsa gli indumenti che avevo tirato fuori solo la sera avanti, cercai di farmi un'idea precisa delle conseguenze che la morte dei miei genitori e la morte di mio fratello avrebbero avuto, ma non giunsi a nessuna conclusione. Ero però consapevole, com'è naturale, di ciò che la morte di quelle tre persone, le più vicine a me almeno sulla carta, ora richiedeva: tutta la mia energia, tutta la mia forza di volontà. La calma con cui, a poco a poco, avevo stipato nella borsa l'occorrente per il viaggio, e con cui intanto avevo già messo in conto il mio immediato futuro, scosso da quella disgrazia senza dubbio terribile, cominciò ad apparirmi sinistra solo molto tempo dopo aver richiuso la borsa. La domanda se avessi amato i miei genitori e mio fratello, che avevo subito respinto con la parola naturalmente, rimase non solo nella sostanza, ma anche di fatto senza risposta. Già da tempo non avevo più né con i miei genitori né con mio fratello un cosiddetto buon rapporto, ma soltanto un rapporto fatto di tensioni e negli ultimi anni soltanto di indifferenza. Già da tempo non volevo più saperne di Wolfsegg e quindi di loro, e loro viceversa non volevano più saperne di me, ecco la verità. Questa consapevolezza aveva posto il nostro reciproco rapporto su un piano ormai appena necessario, più o meno, a conservarlo in vita. I tuoi genitori, pensai, ti hanno dimesso vent'anni fa non soltanto da Wolfsegg, a cui volevano incatenarti a vita, ma anche dai loro sentimenti. In questi vent'anni mio fratello mi ha invidiato senza sosta per essermene andato, per la mia megalomane indipendenza, come mi disse una volta, per la libertà che non conosce riguardi, e mi ha odiato. Nella loro diffidenza verso di me, le mie sorelle avevano sempre oltrepassato i confini del lecito tra fratelli, anch'esse mi hanno perseguitato con il loro odio dall'istante in cui ho voltato le spalle a Wolfsegg e dunque a loro. Ecco la verità. Sollevai la borsa, come sempre era troppo pesante, pensai che in fondo era perfettamente inutile, visto che a Wolfsegg ho già tutto. Perché mi trascino dietro la borsa? Decisi di andare a Wolfsegg senza borsa, tirai fuori le cose che avevo appena messo dentro e le sistemai una dopo l'altra nell'armadio. Amiamo i nostri genitori, com'è naturale, e i nostri fratelli, com'è altrettanto naturale, pensai, di nuovo alla finestra e guardando giù in piazza della Minerva, sempre deserta, e non ci accorgiamo che a partire da un certo momento li odiamo, contro la nostra volontà ma con la stessa naturalezza con cui prima li abbiamo amati, per tutti i motivi di cui abbiamo preso coscienza solo anni, spesso solo decenni più tardi. Non siamo più in grado di indicare il momento preciso in cui non amiamo più i genitori e i fratelli, e anzi li odiamo, né ci sforziamo più di individuare quel momento preciso, perché in fondo ne abbiamo paura. Chi abbandona i suoi contro il loro volere, e per giunta nella maniera più inesorabile, come ho fatto io, deve aspettarsi il loro odio, e quanto più grande è stato il loro amore per noi, tanto più grande sarà il loro odio quando avremo messo in atto ciò che abbiamo giurato di fare. Per decenni ho sofferto del loro odio, mi dissi ora, ma già da anni non ne soffro più, ho fatto l'abitudine al loro odio e non mi ferisce più. E inevitabilmente il loro odio verso di me ha destato il mio odio verso di loro. Anch'essi, negli ultimi anni, non hanno più sofferto del mio odio. Disprezzavano il loro romano, come io disprezzavo loro, quelli di Wolfsegg, e in fondo non pensavano più a me, come io per la maggior parte del tempo non pensavo più a loro. Mi avevano sempre definito un ciarlatano e un chiacchierone, un parassita che sfruttava loro e il mondo intero. Io per loro non trovavo altra parola che imbecilli. La loro morte, e può essere solo un incidente d'auto, mi dissi, non modifica in nulla questa realtà. Non avevo sentimentalismi da temere. Leggendo il telegramma non mi tremarono neppure le mani, non una scossa mi attraversò il corpo. Darò comunicazione a Gambetti che i miei genitori e mio fratello sono morti e che per qualche giorno dovrò sospendere le lezioni, pensai, solo per qualche giorno, perché più di qualche giorno non mi tratterrò a Wolfsegg; una settimana sarà sufficiente, anche nel caso di formalità che si complicassero in maniera imprevista. Per un istante ho pensato di portare Gambetti con me, perché avevo paura della superiorità di forze di quelli di Wolfsegg, e volevo avere a fianco almeno una persona con cui essere in grado di respingere l'assalto di Wolfsegg, una persona che mi fosse affine ed un compagno in una situazione disperata, probabilmente senza via d'uscita, ma abbandonai subito quel pensiero, perché volevo evitare che Gambetti fosse messo di fronte a Wolfsegg. In quel caso vedrebbe che tutto ciò che negli ultimi anni gli ho detto di Wolfsegg è nulla a paragone della verità e della realtà che avrebbe sotto gli occhi, pensai. Porto Gambetti con me, pensavo un istante, non lo porto con me, pensavo l'istante successivo. Alla fine decisi di non portarlo. Con Gambetti provocherei a Wolfsegg fin troppo stupore, qualcosa di così sensazionale da risultarmi probabilmente, nel complesso, disgustoso, pensai. Uno come Gambetti, a Wolfsegg non lo capiscono affatto. Anche estranei del tutto inoffensivi a Wolfsegg li hanno sempre accolti solo con avversione ed odio, hanno sempre rifiutato ogni cosa estranea, non hanno mai voluto avere a che fare, da un istante all'altro com'è mia abitudine, con cose estranee o persone estranee. Portare Gambetti a Wolfsegg significava offendere Gambetti di proposito, e in definitiva ferirlo profondamente. Io stesso sono a malapena in grado di tener testa a Wolfsegg, figuriamoci una persona e un carattere come Gambetti. Mettere Gambetti di fronte a Wolfsegg potrebbe effettivamente portare a una catastrofe, pensai, la cui vera vittima non sarebbe poi altri che Gambetti stesso. Già in passato avrei potuto portare Gambetti a Wolfsegg, pensai, ma a ragion veduta me ne ero sempre astenuto, sebbene molto spesso mi fossi detto che andare a Wolfsegg con Gambetti avrebbe potuto essere utile, oltre che per me, anche per Gambetti stesso. Con una verifica in prima persona da parte di Gambetti, i miei racconti su Wolfsegg acquisterebbero ai suoi occhi un'autenticità che nulla, altrimenti, potrebbe loro conferire. Conosco Gambetti ormai da quindici anni e non l'ho portato a Wolfsegg neppure una volta, pensai. Può darsi che Gambetti a questo proposito la pensi diversamente da me, mi dissi ora, perché, com'è naturale, è inconsueto non invitare e non portare una sola volta in quindici anni, nel luogo che è il mio luogo d'origine, una persona con cui da quindici anni intrattengo rapporti più o meno confidenziali. Per quale ragione, in effetti, in tutti questi lunghi quindici anni non ho scoperto davanti a Gambetti le carte di casa mia? pensai. Perché ne ho sempre avuto paura, e continuo ad averne paura. Perché, da un lato, voglio proteggermi dal fatto che lui conosca Wolfsegg, e quindi dal fatto che conosca le mie origini, e perché io stesso voglio proteggere lui da quella conoscenza che, com'è probabile, produrrebbe in lui solo effetti devastanti. Nei quindici anni del nostro rapporto non ho mai voluto esporre Gambetti a Wolfsegg. Anche se, ogni volta, sarebbe stata per me la cosa più gradevole andare a Wolfsegg in compagnia di Gambetti anziché da solo, e trascorrere con Gambetti le mie giornate di Wolfsegg, mi sono sempre rifiutato di portare Gambetti con me. Naturalmente Gambetti mi avrebbe accompagnato a Wolfsegg in qualsiasi momento. Anzi, si è sempre aspettato un mio invito. Ma io non l'ho invitato. Oltre che triste, un funerale è un'occasione affatto disgustosa, mi dissi ora, non pregherò Gambetti di venire con me a Wolfsegg proprio in questa occasione. Gli comunicherò che i miei genitori sono morti, senza averne la conferma dirò che hanno perso la vita in un incidente d'auto con mio fratello, ma non farò il minimo accenno al fatto che debba accompagnarmi. Non più tardi di due settimane fa, prima di andare a Wolfsegg per le nozze di mia sorella, ho parlato a Gambetti dei miei genitori nei termini più crudi, e ho definito mio fratello un carattere più o meno cattivo e un incorreggibile imbecille. Ho descritto Wolfsegg come una roccaforte dell'ottusità. Ho esteso la tremenda durezza del clima che ha sempre regnato nella regione di Wolfsegg, e ha sempre dominato tutto, alla gente che è costretta a vivere, o meglio a sopravvivere a Wolfsegg, e che, come quel clima, è di una spietatezza che addirittura annienta. Ma ho menzionato anche, in quell'occasione, gli assoluti pregi di Wolfsegg, le belle giornate d'autunno, il gelo invernale ed il silenzio invernale, da me amati come null'altro, nei boschi e nelle vallate circostanti. Ho detto che lassù la natura è spietata, ma perfettamente limpida e grandiosa. Che di quella natura perfettamente limpida e grandiosa la gente che la abita non si accorge più, perché nella sua ottusità non ne è più capace. Se non ci fossero i miei ma soltanto le mura fra cui vivono, avevo detto allora a Gambetti, non potrei far altro che considerare Wolfsegg un dono della fortuna, perché corrisponde al mio spirito come nessun altro luogo. Ma non posso eliminare i miei solo perché mi va, avevo detto. Con chiarezza mi sento pronunciare questa frase, e il tremendo significato che ora essa assumeva per la morte effettiva dei miei genitori e di mio fratello mi spinse a ripetere questa frase a voce alta, sempre stando alla finestra e guardando giù in piazza della Minerva. Ripetendo ora, a voce piuttosto alta e addirittura con effetto teatrale, come fossi un attore che deve provarla per declamarla in pubblico dinanzi a un vasto uditorio, la frase Ma non posso eliminare i miei solo perché mi va, pronunciata allora davanti a Gambetti con avversione estrema nei confronti degli interessati, la sdrammatizzai all'istante. D'un tratto, aveva perduto ogni potere distruttivo. Tuttavia quella frase Ma non posso eliminare i miei solo perché mi va era subito tornata in primo piano e mi dominava. Mi sforzai di metterla a tacere, ma non si lasciò soffocare. Non mi limitai a dirla, la borbottai più volte fra me e me per renderla ridicola, ma dopo i miei tentativi di soffocarla e di renderla ridicola era ancora più minacciosa. D'improvviso aveva il peso che nessuna mia frase ha mai avuto. Con questa frase non puoi combattere, mi dissi, con questa frase dovrai vivere. Questa constatazione portò il mio stato d'animo a placarsi di colpo. Pronunciai ancora una volta la frase Ma non posso eliminare i miei solo perché mi va così come l'avevo pronunciata davanti a Gambetti. Ora aveva lo stesso significato di quel giorno davanti a Gambetti. In piazza della Minerva, tranne i piccioni, non c'era anima viva. D'improvviso sentii freddo e chiusi la finestra. Sedetti alla scrivania. Sulla scrivania era rimasta la posta, fra l'altro una lettera di Eisenberg, una lettera di Spadolini, l'arcivescovo e amante di mia madre, e un biglietto di Maria. Gli inviti dei diversi istituti romani di cultura e tutti gli altri inviti privati li ho gettati subito nel cestino, insieme ad alcune lettere che già a un esame superficiale si erano rivelate lettere minatorie o di postulanti, gente che mi chiedeva denaro o voleva sapere cosa io realmente mi prefigga con le mie idee ed il mio stile di vita, riferendosi ad alcuni articoli di giornale che ho pubblicato di recente e che non vanno a genio a quella gente perché, com'è naturale, sono pensati e scritti contro tutta quella gente; lettere dall'Austria, naturalmente, scritte da gente che col suo odio mi perseguita fino a Roma. Da anni ricevo queste lettere, che non sono affatto scritte da pazzi, come avevo creduto in un primo tempo, ma da persone effettivamente in grado di intendere e di volere, ineccepibili sotto il profilo giuridico, per così dire, che mi minacciano fra l'altro di persecuzione e morte a causa dei miei scritti nei più diversi giornali e riviste non solo di Francoforte ed Amburgo, ma anche di Milano e Roma. Di continuo trascino l'Austria nel fango, dice quella gente, diffamo la patria senza alcun pudore, non perdo occasione per attribuire agli austriaci meschini e abietti sentimenti cattolico-nazionalsocialisti, mentre in verità in Austria non c'è traccia di quei meschini e abietti sentimenti cattolico-nazionalsocialisti, scrive quella gente. L'Austria non è meschina e non è abietta, l'Austria è sempre stata solo bella, scrive quella gente, e gli austriaci sono un popolo rispettabile. Queste lettere le ho sempre buttate via subito, anche stamattina. Ho conservato soltanto la lettera di Eisenberg, l'invito del mio compagno di studi, oggi rabbino di Vienna, a incontrarci a Venezia, dove ha degli impegni a fine maggio, scrive, e dove conta di andare con me al Teatro La Fenice, non come l'anno scorso, scrive, per L’histoire du soldat di Stravinskij o qualcosa del genere, ma per il Tancredi di Monteverdi. Accetto l'invito di Eisenberg, naturalmente, gli risponderò subito, pensai, ma subito significa dopo il mio ritorno da Wolfsegg. Camminare per Venezia con Eisenberg, già la semplice compagnia di Eisenberg, pensai, mi ha sempre procurato un grande piacere. Ogni volta che viene in Italia, anche solo per qualche giorno a Venezia, me lo fa sapere, pensai, mi invita e mi propone sempre un piacere altamente artistico, come dice lui, e il Tancredi alla Fenice è senza dubbio un piacere del genere, pensai. Mi avevano mandato una copia del «Corriere della Sera» in cui è pubblicato il mio breve articolo su Leos Janàcek. Aprii il giornale pieno di aspettative, ma al mio articolo, in primo luogo, non avevano dato sufficiente evidenza, il che mi mise subito di malumore; in secondo luogo, già alla prima rapida lettura scoprii una serie di imperdonabili refusi, la cosa più spaventosa che mi possa capitare. Gettai via il «Corriere» e rilessi ciò che Maria ha scritto nel biglietto che mi ha messo nella cassetta delle lettere. La mia grande poetessa scrive che sabato sera vuole andare a cena fuori con me, con te solo, a proposito, ha scritto nuove poesie, per te, scrive. La mia grande poetessa è davvero produttiva negli ultimi tempi, pensai, e aprii il cassetto della scrivania in cui conservavo alcune fotografie della mia famiglia...


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  • Auslöschung. Ein Zerfall - Traduzione dal tedesco di Andreina Lavagetto, Adelphi Edizioni, 1996.
  1. La struttura originale del testo è stata rispettata
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