Utente:Mizardellorsa/Eraclito

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Eraclito, olio su tavola di Hendrick ter Brugghen, 1628, Rijksmuseum, Amsterdam

Biografia[modifica]

Eraclito (nato ad Efeso nel 535 a.C. e morto nel 475 a.C.) fu uno dei maggiori filosofi presocratici.

Il suo pensiero risulta particolarmente difficile da comprendere, ed è stato interpretato nei modi più diversi a causa del suo stile oracolare e del suo frequente uso di aforismi. Eraclito, inoltre, aveva fama di cripticità già nella sua epoca. Ad esempio, Aristotele, che si suppone abbia letto integralmente l'opera di Eraclito, lo definisce "l'oscuro". E persino Socrate ebbe problemi a comprendere gli aforismi dell'"oscuro", sostenendo che erano profondi quanto le profondità raggiunte dai tuffatori di Delo[1].

Eraclito si pone in un atteggiamento filosofico che potremmo definire "iniziatico", non si preoccupa di essere compreso da tutti i suoi interlocutori; anche nei suoi frammenti ritroviamo tracce di questo aspetto:

« Uno è per me diecimila, se è il migliore »
« Sapere tante cose non insegna ad avere intelligenza »

Il suo pensiero filosofico è volto a tenere una posizione alternativa rispetto al naturalismo della scuola di Talete, Anassimandro e Anassimene sul tema della natura ultima della realtà.

Eraclito è comunemente definito come il filosofo che sostiene che solo il cambiamento e il movimento siano reali e che l'identità delle cose uguali a sé stesse sia illusoria. Nella vulgata filosofica Eraclito è il pensatore del tutto scorre (panta rei) e del fuoco che sarebbe l'elemento da cui deriva ciò che ci circonda.

Biografia[modifica]

Di Eraclito di Efeso si hanno pochissime notizie riguardanti la vita, e della sua opera filosofica sono sopravvissuti soltanto pochi frammenti. Nacque in una famiglia agiata; il padre, dal nome incerto (le fonti riportano vari possibili nomi: Blysone, Eraconte, Bautore, Erachione, Blosone, Eraconte[2], Blysone[3]), era un discendente di Androclo, il fondatore di Efeso e possedeva mezzo stadio di terra e una coppia di buoi. Nonostante discendesse da una famiglia agiata a Eraclito non interessava né la fama né il potere né la ricchezza; infatti, nonostante in quanto primogenito avesse diritto al titolo di basileus (che in greco significava re ed era la massima autorità sacerdotale), rinunciò a esso in favore del fratello minore[4].

E quando il re di Persia Dario, dopo aver letto il suo libro sulla Natura, lo invitò a corte promettendogli grandi onori[5], Eraclito rifiutò la sua proposta rispondengogli che, mentre tutti quelli che vivono sulla terra sono condannati a restare lontani dalla verità a causa della loro miserabile follia (che per Eraclito consiste nel placare l'insaziabilità dei sensi e nell'ambizione al potere), lui invece è immune dal desiderio e rifugge ogni privilegio, fonte d'invidia, restando a casa sua e accontentandosi di quel poco che ha. Per il suo distacco dai beni materiali e il disprezzo per il potere e per la ricchezza, Eraclito non piaceva molto agli Efesini, che erano esattamente l'opposto; per questo venne criticato dagli Efesini quando riuscì a convincere il tiranno Melancoma a abdicare e a andare a vivere nei boschi, a aperto contatto con la natura[6]. Visse in solitudine nel tempio di Artemide e gli ultimi anni prima della sua morte li trascorse sui monti, cibandosi di sole piante.

Eraclito non ebbe mai buoni rapporti con l'acqua; una volta, quando aveva 10 anni, il padre lo costrinse a immergersi in un fiume e quel giorno bevve molta acqua; dopo questo primo contatto traumatico, Eraclito nutrì sempre un odio profondo per l'acqua, scagliandosi contro di lei nel suo trattato sulla Natura (dove scrisse che gli uomini diventavano stupidi quando nella loro anima c'era più acqua che fuoco e che un'anima muore quando si allaga); e ironia della sorte Eraclito morì proprio a causa dell'acqua. Infatti durante l'eremitaggio sui monti si ammalò di idropisia e fu costretto a tornare in città dove venne visitato dai medici. Eraclito chiese ai medici se fossero stati capaci di trasformare una inondazione in siccità, alludendo alla sua malattia.[7] I medici non capirono e vennero di conseguenza cacciati da Eraclito. Eraclito si rivolse allora a un ciarlatano che gli consigliò di immergersi nel letame perché il calore avrebbe fatto evaporare l'acqua in eccesso nel suo corpo facendolo quindi guarire. Ma non andò bene come sperato: infatti i cani di Eraclito non riconobbero il loro padrone (interamente coperto di escrementi) e lo sbranarono, causando la sua morte.

Il pensiero[modifica]

Dell'opera di Eraclito ci rimangono frammenti sparsi, in forma di aforismi oracolari.

Gli svegli e i dormienti (Eraclito, un pensiero aristocratico)[modifica]

Alla base del pensiero filosofico di Eraclito c’è la contrapposizione fra la mentalità degli uomini comuni, i dormienti appunto, e i sommi filosofi, che rappresentano gli svegli, ossia quelle persone, che, andando oltre le apparenze, sanno cogliere il senso intrinseco delle cose. Eraclito intende per filosofi tutti quelli che sanno indagare a fondo la loro anima, che, essendo illimitata, offre all’interrogando la possibilità di una ricerca altrettanto infinita. Il pensiero eracliteo è aristocratico, quindi, in quanto Eraclito definisce la maggioranza degli uomini superficiali, poiché tendono a dormire in un sonno mentale profondo che non permette loro di comprendere le leggi autentiche del mondo circostante. Eraclito infatti paragonava gli uomini dormienti agli animali poiché apprezzano di più il letame che le cose preziose.

Teoria del divenire (Panta rei come Essere)[modifica]

Altra chiave importante per cercare di avvicinarsi il più possibile al pensiero filosofico eracliteo è senza dubbio la teoria del divenire. Tutto il mondo viene considerato come un enorme flusso perenne nel quale nessuna cosa è mai la stessa poiché tutto si trasforma ed è in una continua evoluzione. Per questi motivi, Eraclito identifica la forma dell’Essere nel Divenire, dacché ogni cosa è soggetta al tempo e alla sua relativa trasformazione. Eraclito sostiene che solo il cambiamento e il movimento siano reali e che l'identità delle cose uguali a se stesse sia illusoria: per Eraclito tutto scorre (panta rei). (ma originato dal conflitto. Il panta rei è una conseguenza di polemos, che regna su tutto. Di conseguenza Eraclito di Efeso non è il filosofo del "tutto scorre" ma del "tutto scorre in quanto risultato della tensione continua degli opposti che si fanno guerra".


« Tutto scorre, non si può tornare due volte nello stesso fiume »

A proposito del divenire, Eraclito ha detto: "Nessun uomo può bagnarsi nello stesso fiume per due volte, perché né l'uomo né le acque del fiume sono gli stessi". In realtà il famoso motto "panta rei" non è attestato nei frammenti di Eraclito giunti fino a noi ed è probabilmente da attribuirsi al suo discepolo Cratilo che svilupperà il pensiero del maestro, estremizzandolo. Ma la formula lessicale "panta rei" verrà coniata ed utilizzata la prima volta solo da Simplicio in Phys., 1313, 11. La teoria di Eraclito è alternativa all'ontologia di Parmenide, il filosofo dell'unità e dell'identità dell'Essere, il quale insegna ai suoi allievi che è proprio il continuo cambiamento la principale caratteristica del Non Essere.

La dottrina dei contrari[modifica]

« Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re. »

La dottrina dell’unità dei contrari è forse l’aspetto più originale del pensiero filosofico eracliteo. La legge segreta del mondo risiede nel rapporto di interdipendenza di due concetti opposti, che, in quanto tali, lottano fra di loro ma, nello stesso tempo, non possono fare a meno l’uno dell’altro dato che vivono solo l’uno in virtù dell’altro. Quindi niente esisterebbe se allo stesso tempo non esistesse anche il suo opposto.

Infatti possiamo notare che, nel caso in cui ci trovassimo di fronte una salita e vedessimo un nostro amico al di sopra di essa, quello ci direbbe che è una discesa. Si crea così una specie di armonia fra i due contrari. Inoltre molti di essi sono soggettivi come il caldo e il freddo.

In questa dualità, guerra fra i contrari (polemos) in superficie, ma armonia in profondità, Eraclito vide quello che lui definiva il logos, la legge universale della Natura.

L'archè[modifica]

I primi filosofi greci cercavano l'"archè" negli enti della realtà sensibile, a partire da Talete di cui restano solo testimonianze aristoteliche in cui sembrerebbe affermare che "l'archè è l'acqua". In realtà il termine archè, a detta degli studiosi, è una teoria di stampo più prettamente aristotelico. È costante nella filosofia antica la consapevolezza che le cose derivano da un principio che in quanto tale è unico, ingenerato e imperituro, indivisibile ed immutabile, ma la denominazione vera e propria di archè appartiene a Aristotele.

La dottrina delle quattro essenze fondamentali della Terra (acqua, terra, aria, fuoco) fornisce gli elementi tra i quali i primi filosofi greci scelsero l'"archè", i più generali tra i costituenti del mondo sensibile. Platone mostrerà che l'archè del sensibile sono le idee iperuraniche, e che dunque non può essere trovata nemmeno nei costituenti fondamentali, e che il sensibile postula l'esistenza di una realtà trascendente che lo causa.

Aristotele affermò che l'archè secondo Eraclito fosse il fuoco. In alcuni frammenti effettivamente sembra che Eraclito sostenga questa tesi: il fuoco, condensandosi, diventa acqua e poi terra dopodiché esso può rarefarsi per tornare ad essere acqua e, in seguito, fuoco; quindi tutto ha origine e fine nel fuoco. Questo permetterebbe di collegare Eraclito con le ricerche naturalistiche dei filosofi di Mileto. In realtà, però, è probabile che il riferimento al fuoco vada inteso in senso più metaforico. In questo elemento fisico sembra infatti mostrarsi la teoria ontologica di Eraclito. Il fuoco è sempre vivo, in continuo movimento. È in ogni momento diverso dal momento precedente, ma allo stesso tempo sempre uguale a se stesso.

L'universo come Dio-tutto[modifica]

Questa visione cosmologica sfocia nell'identificazione panteistica dell'universo con Dio, inteso come unità dei contrari, mutamento continuo e fuoco generatore. Questo Dio-tutto comprende quindi in sé ogni cosa, costituisce una realtà increata che esiste da sempre e per sempre. Eraclito crede anche nella ciclicità del cosmo, concepito come insieme di fasi alterne di distruzione-produzione.

Influenza su autori successivi[modifica]

La contrapposizione del "panta rei" eracliteo al pensiero di Parmenide, filosofo dell'essere, ebbe un'influenza determinante su Platone, il quale per risolverla cercherà di mostrare come il non-essere esiste solo in senso relativo, dando così un fondamento filosofico al senso greco del divenire. Hegel intravide in questo passaggio la dialettica fondamentale della filosofia greca. Secondo la sua interpretazione la filosofia di Parmenide è riassumibile nella frase "tutto è, nulla diviene" (tesi), mentre quella di Eraclito in "tutto diviene, nulla è" (antitesi); il momento di sintesi sarebbe quindi rappresentato da Platone.

Lo stesso Hegel si considerava filosoficamente erede di Eraclito al punto da affermare: «Non c'è proposizione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica» (Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia). Eraclito però, a differenza di Hegel non concepiva il divenire come una progressiva presa di coscienza dell'assoluto; per lui il divenire sembra consistere piuttosto nelle variazioni di un identico sostrato o Lògos: «tutte le cose sono Uno e l'Uno tutte le cose»; «questo Cosmo è lo stesso per tutti... da sempre è, e sarà». Da questa visione del mondo verrà influenzato soprattutto lo stoicismo.

Note[modifica]

  1. Rido ergo sum
  2. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX 1
  3. Clemente Alessandrino, Stromata, I 65
  4. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX 6
  5. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX 13
  6. Clemente Alessandrino, Stromata, 1, 65
  7. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX 3

Bibliografia[modifica]

Corso monografico di Emanuele Severino[modifica]

In questa testo vengono presentati gli appunti del Corso monografico su Eraclito tenuto dal professore Emanuele Severino nell'A.A. 1966/67 presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano – Sezione di Brescia.

Relatore: allievo Mario Quinzanini

  • Nota 1: la divisione in paragrafi titolati è a cura del relatore. (compaiono il primo e gli ultimi 3)
  • Nota 2: Gli appunti debitamente sistemati dal relatore, sono stati letti e approvati dal professor Emanuele Severino


I Presocratici: fisici o filosofi?[modifica]

Come il contadino non parla più di agricoltura, tanto ne è imbevuto, così l’uomo moderno non parla più di filosofia, tanto ce l’ha nel sangue. Tutto ciò che l’uomo fa è determinato dal filosofare.

La nascita della metafisica è da riscontrare là dove l’uomo rende testimonianza al Tutto. E là nasce la filosofia. Il vibrare della voce "metafisica" di Aristotele ha fatto crollare rovinosamente gli edifici della speculazione dei primi pensatori greci, lasciando intatti solo i loro pianeti, le loro acque, i loro fuochi, ed anche in sede moderna si parla di cosmologia filosofica o filosofia della natura. Dunque i primi pensatori greci erano fisici o filosofi?

Mi è capitato una volta di ascoltare un bambino, non ancora in età di ragione, intento a discorrere seriamente di matematica e diceva: ”Uno per uno, uno; due per due, due; tre per tre…”. Lo scandalo è evidente per noi adulti e subito neghiamo le conclusioni del bambino che, a sua volta, resta meravigliato della nostra poca coerenza. Infatti egli ci dimostra come le sue conclusioni siano esatte: “Se uno per uno fa uno, anche due per due fanno due; che se uno per uno facesse quattro, anche due per due farebbero quattro”. Ma noi, ormai più scaltriti, insistiamo perché il bambino si convinca di un così chiaro e manifesto errore. Il bambino, però, non vede l’errore né chiaro né manifesto. Chi ha ragione, il bambino o l’adulto? Il bambino dice che ha ragione lui, l’adulto sorride convinto che un giorno anche il bambino la penserà come lui.

Ma intanto? La verità non ha il suo momento, che verrà o che è già passato. Intanto entrambi hanno ragione, entrambi sono vincitori, a modo loro. Ma mi si intenda! Dal punto di vista di chi sa le proprietà dell’addizione, è vero che due per due fanno quattro; dal punto di vista di chi sa solo che uno per uno fa uno, è vero che un numero moltiplicato per se stesso dà il medesimo numero, è vero cioè che due per due fa due. E la nascita della matematica nella mente di quel bambino è avvenuta felicemente e non con mutilazioni mostruose, e già porta i suoi frutti veritieri.

Così è avvenuto anche per i primi pensatori greci. Essi sono dei fisici dal punto di vista di chi sa che oltre al mondo fisico vi è un altro mondo; essi sono dei filosofi dal punto di vista di chi non può vedere al di là del mondo. La filosofia nasce non come cosmologia, ma come filosofia autentica.

Ed anche Esiodo e tutti i poeti, dal punto di vista di chi si meraviglia, ad onta di Epicarmo, di Senofane, di Filone e di tutti coloro che ne sanno di più, sono filosofi. Non per nulla Aristotele dice: ”Chi poi dubita e si meraviglia, ritiene di non conoscere (perciò anche l’autore dei miti è, in qualche modo, filosofo, perché il mito si compone di cose meravigliose). Cosicché se è per fuggire l’ignoranza che filosofarono, è evidente che perseguirono la scienza per il sapere e non già in vista di qualche utilità”. Prezioso è quel “qualche modo” che io accosterei all’espressione “dal punto di vista”. E dal punto di vista di Esiodo, Esiodo non si scandalizza di invocare le “veridiche figlie“ di Giove le quali sanno “narrare anche il vero”. Con la nascita di Chaos primissimo nasce la filosofia. Lo “spalancamento totale” è avvenuto, i confini dell’Essere si delineano, prendono consistenza, tanto che anche i “Numi li aborriscono”. “Qui della terra oscura, del Tartaro fosco di nebbie, dell’infecondo Mare, del Cielo coperto di stelle, sono, per ordine, tutte le fonti, sono tutti i confini, squallidi, faticosi, che i numi aborriscono anch’essi: baratro immane; né chi le porte varcate ne avesse, potrebbe, anche se un anno volgesse, tornare alle soglie, ma trascinato sarebbe qua, là, da procella a procella, dogliosamente. È cosa terribile questo prodigio anche pei Numi immortali. Quaggiù le terribili cose sono della Notte, nascoste fra nuvoloni negri.”

E’ emergente in questi versi la figura spaventosa del Nulla, la tetra abitazione della Notte i cui ospiti non sono più e, per questo, anche i Numi sono inorriditi. L’orizzonte dell’Essere è ormai di scoperto: al di là della terra, del mare e del cielo, il Nulla. Il Tutto è svelato. E nel Tutto ecco gli dei, le lotte, le passioni, gli intrighi Per quanto Esiodo si soffermi più sulle differenze che sul nome da attribuire all’infinitezza del Chaos, cioè a ciò che rende uguali le differenze, la conquista è già avvenuta, anche se riveste sapore poetico. Spetterà alla speculazione successiva, ormai non più in chiave di Mito ma di Logos, porre in primo piano l’identità del diverso, il principio di tutte le cose. Allora sarà il momento in cui la natura parlerà e per chi bene intenderà le sue parole, capirà che “solo dando ascolto al Logos è lecito convenire che il gran Tutto è Uno.”

Frammenti di Eraclito e testimonianze dossografiche[modifica]

Eraclito, olio su tavola di Hendrick ter Brugghen, 1628, Rijksmuseum, Amsterdam

Poiché la conoscenza della dottrina di Eraclito avviene in gran parte per mezzo delle dossografie, occorre rendersi conto delle discordanze che si instaurano fra le relazioni dossografiche e il contenuto originale dei frammenti di Eraclito. La disparità consiste nel fatto che i dossografi insistono sull’aspetto fisico-naturalistico della dottrina di Eraclito, laddove i frammenti che riguardano il mondo fisico hanno valore di immagini o di paradigmi. Quindi, sulla base dossografica, Eraclito è posto come fisico. Diogene Laerzio è colui che più di altri dossografi, si avvicina al pensiero speculativo di Eraclito. Egli dice:
“[…] La sua dottrina in generale è questa: tutte le cose traggono origine dal fuoco ed in questo si dissolvono. Tutte le cose avvengono secondo destino e sono connesse dal mutarsi negli opposti […]”.
Ed Eraclito, nel fr. 51 dice:

(IT)
« Non comprendono, come con sé discordando concordi; armonia reciprocamente tesa come d’arco e di lira »

(GRC)
« οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ συμφέρεται• παλίντονος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης. »
(Eraclito, fr.51)

Diogene Laerzio, dicendo che tutte le cose sono connesse dal mutarsi negli opposti, mette in rilievo che l’identità del diverso è il divenire. Ci si chiede, cioè, quale sia l’identità del diverso in Eraclito; Diogene Laerzio risponde: il divenire; esso, infatti, lega le determinazioni più diverse (Tutte le cose sono connesse dal mutarsi negli opposti). Ma nel fr. 54 Eraclito dice:

(IT)
« L’armonia invisibile è superiore all’armonia visibile »

(GRC)
« ἁρμονίη ἀφανὴς φανερῆς κρείσσων »
(Eraclito, fr. 54)

nel senso che la successione delle cose opposte è evidente, mentre la loro coincidenza e unità è assolutamente nascosta. Dal fr. è evidente che Eraclito abbia visto nella realtà due aspetti: l’uno palese, che costituisce un tipo di armonia (visibile) e l’altro nascosto, che costituisce un altro tipo di armonia (invisibile). Il divenire è l’aspetto palese della realtà e quindi costituisce l’armonia visibile; Diogene Laerzio si sofferma e non va oltre la considerazione di questo primo piano della realtà. Ecco perché la guerra è da esso considerata solo come il contrario della pace e non come la situazione che fa sussistere i contrari. Eraclito, nel fr. 65, dice:

(IT)
« Il fuoco: mancamento-sazietà, guerra-pace”. »

(GRC)
« τὸ πῦρ χρησμοσύνη καὶ κόρος. »
(Eraclito fr.65)

.

E nel fr.67:

(IT)
« Il dio: giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame; come il fuoco si tramuta quando ad aromi si mescola, prende nome secondo l’olezzo di ognun d’essi »

(GRC)
« ὁ θεὸς ἡμέρη εὐφρόνη, χειμὼν θέρος, πόλεμος εἰρήνη, κόρος λιμός. ἀλλοιοῦται δὲ ὅκωσπερ πῦρ, ὁπόταν συμμιγῇ θυώμασιν, ὀνομάζεται καθ᾽ ἡδονὴν ἑκάστου. »
(Eraclito fr.67)

L’identità del diverso, quindi, per Eraclito, benché si riveli come divenire palesemente, in modo nascosto (ed è quello che più conta), si rivela come identità degli opposti. Ma nel momento in cui Diogene Laerzio non va oltre il primo grado della realtà, lì nasce l’ingenua interpretazione della parola guerra. Dice Diogene: “… che degli opposti quello che promuove la generazione si chiami guerra e contesa, quello invece che promuove l’infamazione si chiami concordia e pace”.

L’esclusiva rilevazione dell’armonia visibile è sottolineata ancora da Diogene Laerzio quando si riferisce ai paragoni del fiume di Eraclito, dicendo: “[…] che tutte la cose si generino secondo opposizione e che il tutto scorra a guisa di fiume […]”. E l’Efesino, nel fr. 12, dice:

(IT)
« A quelli che nei medesimi fiumi entrano, altre ed altre acque affluiscono; e anime dalle umidità esalano(?) »

(GRC)
« ποταμοῖσι τοῖσιν αὐτοῖσιν ἐμβαίνουσιν ἕτερα καὶ ἕτερα ὕδατα ἐπιῤῥεῖ• καὶ ψυχαὶ δὲ ἀπὸ τῶν ὑγρῶν ἀναθυμιῶνται(?). »
(Eraclito fr. 12)


Ancora nel fr. 49a:
“Nei medesimi fiumi entriamo due volte e non entriamo, siamo e non siamo”.

Diogene Laerzio non si accorge che il fiume, per Eraclito, è ciò che, in un certo senso rimane variando; l’Efesino si riferisce ad una situazione dinamica, cioè al divenire: mostra che affinché sia possibile il divenire occorre riferirsi alle variazioni dell’identico (sostrato). E quindi è chiaro che la negazione del principio di non contraddizione è apparente.

Eraclito è stato il primo a rilevare che le variazioni sono in sintonia con il tutto, sì che ogni variazione implica un contraccolpo; lo spostamento di un oggetto, per esempio, per quanto sia irrilevante, costituisce una differenziazione dello oggetto che prima era in altro luogo. Ciò significa, per Eraclito, che “lo stesso si differenzia”, che accanto alla medesimezza (stesso fiume) esiste una differenziazione (siamo e non siamo). Il concetto della medesimezza differenziantesi è espresso dal fr.91:
“Nel medesimo fiume, secondo Eraclito, entrare due volte non è possibile, né due volte toccare sostanza mortale nel medesimo suo atteggiamento…”.

Per quanto la formulazione dell’identità del diverso resti legata essenzialmente al concetto di στοιχεῖον (dal momento che si dà valore alla realtà fisica affinché il divenire possa esserci), caro al suo tempo, esso è già una formulazione ante litteram di un’intuizione metafisica (giacché il divenire è la legge o la forma delle cose, e le cose sono la materia di questa).

Quindi è chiaro che Aristotele non si rende conto di essere l’approfondimento di Eraclito, piuttosto che la negazione. Continuando a leggere Diogene Laerzio, dopo le similitudini del fiume s’incontrano quei concetti riguardanti la guerra che già sopra abbiamo citato. Abbiamo detto che il dossografo ha considerato la guerra come uno degli opposti e non ha considerato il senso più profondo di πόλεμος, senso che determina l’armonia nascosta. Eraclito, nei fr. 53 e 80, si riferisce al senso più profondo di πόλεμος, mentre nel fr. 65 si riferisce al senso che comunemente gli si attribuisce (e questo l’abbiamo già visto). Il fr. 53 dice:
“Polemo di tutte le cose è padre, di tutti re; e gli uni palesa dei, gli altri uomini, e gli uni fa schiavi, gli altri liberi”;

il fr. 80:
“ Occorre sapere che la guerra è cosa comune e la giustizia è lotta e che tutte le cose accadono secondo lotta e necessità”.

In questi frammenti πόλεμος è considerato come ciò che fa sì che gli opposti si realizzino; è l’opposizione che fa sussistere gli opposti all’interno della opposizione stessa. Ma a questo punto si può constatare che anche Parmenide pensa l’opposizione; ma Eraclito e Parmenide, secondo la definizione di un grande hegeliano, “sono gli abitatori di due monti vicini”. La loro vicinanza è abissale.

La via della verità di Parmenide è l’opposizione del negativo al positivo e si esprime: “Ciò che è, è; ciò che non è, non è; e l’essere non è non essere”. È chiaro che in Parmenide l’opposizione è valida tanto quanto esclude la positività del negativo, mentre per Eraclito l’opposizione non è vista come sbilanciante gli opposti, talché l’uno sia assorbito dalla forza dell’altro; ma l’opposizione è vista come l’indicazione del loro bilanciamento, talché l’uno è necessario per l’altro. L’imprescindibilità del pensiero eracliteo sta nell’indicare l’opposizione come necessaria anche ai fini di porre il disvalore o il valore di uno dei termini opposti nei confronti del l’altro. Nel fr. 80 è chiaro che il Polemo è il trascendentale; lo esprime chiaramente l’aggettivo κοινόν (ξυνόν) che significa comune. E’ questo, vale insistere, il senso di guerra, generatrice dell’armonia nascosta.

Nel fr. 2 Eraclito sottolinea:

(IT)
« Bisogna perciò seguire il comune. Pur essendo comune il Logo, i molti vivono avendo quasi loro propria saggezza »

(GRC)
« διὸ δεῖ ἕπεσθαι τῷ ξυνῷ, τουτέστι τῷ κοινῷ• ξυνὸς γὰρ ὁ κοινός. τοῦ λόγου δ᾽ ἐόντος ξυνοῦ ζώουσιν οἱ πολλοὶ ὡς ἱδίαν ἔχοντες φρόνησιν »
(Eraclito, fr. 2)

Nel fr. 89 continua:

(IT)
« Avere i desti un solo cosmo comune, ma ognuno dei dormienti volgersi in un suo proprio mondo »

(GRC)
« τοῖς ἐγρηγορόσιν ἕνα καὶ κοινὸν κόσμον εἶναι, (τῶν δὲ κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴδιον ἀποστρέφεσθαι) »
(Eraclito, fr. 89)

È palese la contrapposizione fra la verità comune (κοινόν) e la falsa verità dei dormienti o verità individuale (ἰδιαφρόνησις). Eraclito dice, a conferma della verità comune, nel fr. 50:

(IT)
« Non a me dando ascolto, ma al logo, è saggio convenire che all’uno siano identiche tutte le cose'. »

(GRC)
« οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι »
(Eraclito, fr. 50)


Questo uno o logo di cui parla Eraclito è il Trascendentale, per cui si legge nel fr. 65:

(IT)
« Il fuoco: mancamento-sazietà, guerra-pace”. »

(GRC)
« τὸ πῦρ χρησμοσύνη καὶ κόρος »
(Eraclito fr.65)

Nelle testimonianze dei dossografi, per diversi riguardi, è citato il concetto di Trascendentale di Eraclito; per esempio nella Retorica di Aristotele, a proposito dell’oscurità del senso di una frase dell’Efesino: “…Dice infatti: questo logo essendo sempre non l’intendono gli uomini, non essendo chiaro infatti il sempre, a chi deve attribuirsi”. E Teofrasto riferisce: “Ippaso di Metaponto ed Eraclito di Efeso anche essi ritennero il tutto sì movente e finito, ma che il principio fosse il fuoco e dal fuoco essi derivano ciò che esiste per condensazione e rarefazione e lo risolvono di nuovo nel fuoco, questa essendo la sola materia sostanziale. Eraclito dice infatti che tutte le cose sono l’equivalente del fuoco. Ritiene anche che vi sia un certo ordine ed un periodo determinato dalla trasformazione del cosmo, secondo una fatale necessità”.

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Dossografia[modifica]

Si è già detto che le testimonianze indirette si pongono su un piano diverso da quello su cui si pongono i frammenti di Eraclito; ciò nonostante emergono da esse degli spunti illuminanti il pensiero speculativo dell’Efesino. Consideriamo le testimonianze di Aezio:

  • “Eraclito: il fuoco periodico essere eterno dio, il fato essere il logos (la ragione), demiurgo delle cose in forza del concorso degli opposti”.
    In questo passo emerge la connessione tra logo, fuoco e Dio; emerge l’equazione tra i termini fuoco, Dio e logo. Tale connessione, si dice nel testo di Aezio, è tenuta ferma dall’opposizione semplicemente intesa, cioè in forza del concorso dei contrari, dal passaggio da una cosa alla cosa contraria.
  • “Eraclito: che tutto avvenga secondo il fato e che questo sia lo stesso della necessità”.
    Il passo mostra che il fatonecessità (εἱμαρμένη άνἀγκη) è il divino (il demiurgo), ciò senza di cui non sarebbe nulla. Non si deve considerare il fatonecessità come il predicato del logo o del divino, ma dire che il fatonecessità conviene al logo significa dire il senso veritativo del logo; cioè, non solo si deve dire che il fatonecessità è del logo, ma si deve dire anche che il fatonecessità è il logo stesso. Tale chiarimento scaturisce dal seguente passo:
  • “Eraclito espose l’essenza del fato come il logo che attraversa l’essenza del tutto. Questa è il corpo etereo, seme della generazione del tutto e del periodo ordinato secondo misura”.

Ritorniamo ora a Sesto Empirico, nella citazione del quale si legge: “Eraclito, credendo che l’uomo avesse due strumenti per la conoscenza della verità, la sensazione e la ragione, ritenne che di questi la sensazione, analogamente ai fisici predetti (Parmenide, Empedocle), fosse infida", ma pone la ragione piuttosto come criterio della verità. Ma respinge la sensazione dicendo letteralmente: “Cattivi testimoni sono per gli uomini occhi ed orecchie, qualora abbiano anime barbare”, ciò che corrisponde al detto: “È proprio delle anime incolte di fidarsi delle sensazioni irrazionali”. Mostra che la ragione è giudice della verità, non una qualunque, ma quella a tutti comune e divina. Quale questa sia bisogna succintamente esporre. Ammette infatti questo filosofo che quel che ci circonda sia logico e razionale. Palesa lo stesso Omero molto prima dicendo:

“Tale è la mente degli uomini
mortali, quale giorno per giorno la
condusse il padre degli dei e degli uomini”.

Ed Archiloco dice che gli uomini pensano, secondo qual giorno Zeus li guidi . Lo stesso è detto anche da Euripide (Troad. 885):

“Qualunque tu sia, difficilissimo a indagare,
o Zeus, o necessità della natura, o mente degli
uomini, a te supplicai” .

Secondo Eraclito diventiamo intelligenti, spirando questa ragione divina con la respirazione e nel sonno ne siamo dimentichi, e nella veglia di nuovo coscienti.Nel sonno, infatti, essendo tornati i pori sensibili, la mente che è in noi viene divisa dalla naturale connessione in cui si trova col mondo circostante, rimanendo soltanto, quasi come una specie di radice, il collegamento in base alla respirazione, e separata perde la facoltà mnemonica che prima aveva.

Nel destarsi sporgendosi attraverso i pori sensibili, come traverso piccole porte, e venendo a contatto col mondo circostante, si riveste di facoltà razionale. A quel modo dunque, in cui i carboni, accostandosi al fuoco diventano ardenti per mutazione, ed allontanatine si spengono, così la parte del mondo circostante, ospitata nei nostri corpi, per separazione diventa quasi irrazionale, ma per connessione attraverso il maggior numero di pori si fa omogenea al tutto. Questa ragione comune e divina, partecipando della quale diventiamo ragionevoli, Eraclito dice essere criterio della verità. Donde segue che quello che comunemente a tutti appare, sia credibile (viene infatti percepito mediante la ragione comune e divina), mentre quello che si presenta a qualcuno soltanto non è credibile per l’opposto motivo.

Al principio del suo libro “intorno alla natura”, questo filosofo, indicando in qualche modo il mondo circostante, dice (fr. 1):

(IT)
« Questo logo, che pure è sempiterno, non lo intendono gli uomini, e prima che n’odano e tosto che udito ne abbiano; e pur tutto avvenendo secondo tal logo, inesperti ne sembrano, se anche abbiano esperienza di discorsi e d’opere, quali io spiego, ciascuna cosa secondo sua natura distinguendo ed esponendo come sta. Agli altri uomini invece (infatti) sfugge ciò che dopo destati compiono, al pari che non sanno quanto compiano dormienti »

(GRC)
« τοῦ δὲ λόγου τοῦδ᾽ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον• γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει• τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται. »
(Eraclito fr. 1)

”… a quel modo, dunque in cui i carboni, accostandosi al fuoco, diventano ardenti per mutazione, ed allontanatine si spengono, così la parte del mondo circostante…”.

Nel fr. 55 Eraclito dà preferenza a ciò che s’impone con prepotenza, cioè al dire veritativo che è appunto l’atteggiamento filosofico. Mentre (e questo è il contenuto del fr. 107 ) la sensazione ha disvalore solo là dove essa è il mezzo conoscitivo di un’anima barbara, là dove la parte non è più vista in rapporto al tutto e quindi o la parte ha valore di tutto, o il tutto ha valore di parte. Il fuoco, per Eraclito, è ciò che conferisce la positività delle determinazioni del fuoco e quindi del non essere. Eraclito, in questo modo, attua ante litteram il parricidio platonico di Parmenide. Nel passo summenzionato, i carboni rappresentano il contenuto dei sensi qualora gli uomini abbiano anima barbara (fr. 107: “E allontanatine si spengono”). Nel primo caso (i carboni accostandosi al fuoco diventano ardenti) l’uomo si accosta alla verità, “non una qualsiasi, ma quella a tutti comune divina”, cioè lascia parlare ciò che si annunzia con prepotenza. Nel secondo caso (“E allontanatine si spengono”) l’uomo non lascia parlare le cose e si costruisce una sua propria verità; non si adegua alla verità trascendentale. A questo riguardo Eraclito, nel fr. 118 dice che:“Anima asciutta è la più saggia e la migliore”.

Per non incorrere in false interpretazioni, vale insistere su questo punto. La verità è ciò che è comune a tutti non già perché il valore della verità sia dato dal fatto che essa è comune a tutti, ma perché il valore della verità è tale; cioè, della verità, non solo si predica che è comune, ma il senso stesso della verità è dato dal fatto che essa è il comune, il trascendentale. Nel fr. 80 Eraclito dice:
“Occorre sapere che la guerra è cosa comune…”.

La verità non è il consenso universale. Il carattere di κοινόν della verità si comprende là dove si dice: poiché la verità è ciò che ha valore, allora questo è ciò che vale per tutti. La verità si costituisce come ciò che ha valore in quanto trascendentale, non in quanto detta dai più. Senza questa precisazione non si può affrontare il significato del fr. 1 di Eraclito, sopra menzionato. Ma Sesto Empirico, intendendo inadeguatamente il fr. 107 di Eraclito, si sentiva autorizzato a squalificare la sensazione senza alcuna riserva. C’è da dire, però, che il senso occulto della realtà, così come la intendeva Eraclito, emerge tra le righe di Sesto Empirico più che tra le righe di altri dossografi. Sesto Empirico passa vicino al cuore del pensiero speculativo di Eraclito; quest’ultimo è visto come il teorico del rapporto fra conoscenza positiva (della ragione) e conoscenza negativa (del senso), ma non va oltre; non sa rapportare esplicitamente questo rapporto all’armonia afana (ἁρμονία ἀφανής). Sesto Empirico resta sul piano dell’ἁρμονία ἀφανής; dà valore, cioè, a quei frammenti in cui i contrari sono i termini del divenire e dà ad essi il valore di fulcro di tutta la teoria eraclitea. Indicativi, allo scopo del dossografo, sono il fr. 87:
“Alle anime è morte divenir acqua, all’acqua poi è morte divenir terra, dalla terra ancora si origina l’acqua, dall’acqua l’anima”.

Il fr. 81:
“…come il fuoco si tramuta quando ad aromi si mescola, prende nome secondo l’olezzo d’ognuno d’essi”.

Il fr. 81:
“…queste cose infatti tramutandosi son quelle e quelle, di nuovo tramutandosi son queste”.

Il fr. 126:
“Le cose fredde si scaldano, il caldo si raffredda, l’umido si secca, l’arido si inumidisce”.

In questi frammenti si parla dei contrari come termini del divenire, in cui è visibile la strutturazione del divenire.

Ciò su cui ora noi dobbiamo accentrare la nostra riflessione, è l’accertamento del significato del fr. 1, dopo le su menzionate considerazioni di carattere semantico circa la verità. All’inizio del frammento si legge: “Questo logo, che pure è sempiterno, non lo intendono gli uomini …”. Il Walzer traduce con “non lo intendono” il termine greco ἀκοινόν (non comune), indicante l’allontanamento dalla verità, dal trascendentale. Nel fr. 34 che dice:
“Gli stolti pur credendo somigliano ai sordi: di loro bene attesta il detto presenti son assenti”.

L’ἁξυνετοί è tradotto dal Walzer con la parola "stolti". Essere stolti, per Eraclito, significa non udire la verità che pur si fa sentire, significa essere assenti là dove pur si è presenti. La stoltezza non va intesa nel significato psicologico di alienazione mentale, ma nel significato filosofico di alienazione dalla verità; lo stolto, pur essendo presente nel logo, non si rende conto di questa sua presenza; è di fronte alla verità ma non la vede. Quello dello stolto è un guardare senza vedere. Lo stesso concetto emerge nel fr. 56:
“Si ingannano gli uomini nella conoscenza delle cose manifeste come Omero, che fu più sapiente di tutti quanti gli Elleni. Infatti, dei fanciulli che uccidevano pidocchi, lo ingannarono dicendo: «Quante cose abbiamo viste e prese, tante lasciamo; quante non ne abbiamo nè viste né prese, tante con noi rechiamo»”.

Nei fr. 113 e 114 si contrappone al concetto di allontanamento dal comune quello di rispondenza alla verità. Il fr. 114 dice:
“ Coloro che con intelletto parlano debbono farsi forti di ciò che a tutti è comune…”.

Il Walzer traduce “con Intelletto” il termine greco ξὺν νῷ che è il correlativo del latino cum mente. Ed Eraclito dice che chi parla cum mente (ξὺν νῷ ) parla veritativamente perché: “è comune l’Intelletto” (fr. 113) . Orbene, la verità è comune così come l’Intelletto è comune; quindi, chi parla secondo intelletto parla secondo verità. Questi due frammenti, dal punto di vista di Sesto Empirico, sembrano dar vigore alla sua teoria della squalifica della sensazione.

Ma, più precisamente, in tali frammenti si allude all’aspetto formale e soggettivo del κοινόν : in questo caso il comune è il partecipare della ragione divina; il pensiero, non si deve cadere in errore, è comune non già perché esso sia il trascendentale bensì, come si disse, poiché la verità ha valore (= trascendentale), essa deve valere per tutte le menti. Abbiamo già detto che Aristotele, nella Retorica, rimprovera lo scritto eracliteo di cattiva punteggiatura: “Dice infatti: « questo logo essendo sempre non lo intendono gli uomini, non essendo chiaro infatti il sempre a chi deve attribuirsi»”.

Se si considera però il fr. 30, è chiaro che la parola sempiterno si riferisce al logo; infatti si dice che:
“Questo ordine, lo stesso per tutti, nessuno degli dei lo fece, né gli uomini, ma sempre era, ed è e sarà fuoco sempre vivo, che con misura s’accende e con misura si spegne”.

Continuando la lettura del fr. 1 si legge: “…agli altri uomini invece (infatti) sfugge ciò che dopo destati compiono, al pari che non sanno quanto compiano dormienti”.

Il sonno, per Eraclito, non è una realtà biologica, ma specifica l’allontanarsi dalla verità; e per far comprendere tale allontanamento usa l’immagine del dormiente. Sesto Empirico invece usa l’immagine come una vera realtà biologica, travisando così il senso speculativo del frammento. Un analogo travisamento della speculazione eraclitea da parte di Sesto Empirico emerge dalla lettura del fr. 2, là dove si considera il logo che è comune (ens qua ens aristotelico) nel suo aspetto soggettivo: il comune è, nell’interpretazione di Sesto, la partecipazione comune delle menti al pensiero razionale del tutto; a conferma di tale teoria, si legge in Sesto: “…donde segue che quello che comunemente a tutti appare, sia credibile…”.Ma il senso originario del comune non è il consensum gentium, bensì la trascendentalità. Oggi, per esempio, la scienza mantiene un atteggiamento antifilosofico perché le sue verità si basano sul consensum gentium e quindi hanno un carattere convenzionale e non veritativo. Ma allora cos’è il κοινός oggettivo? Eraclito risponde: “E’ l’identità degli opposti”. Per costruire tale risposta il lettore può far uso di un sillogismo le cui premesse sono offerte dai fr. 2 e 80; nel fr. 2 si dice che: “Il logo è il comune” . Nel fr. 80 si dice che: “Il pοlemo è il comune” . Dunque il logo è il polemo, è poiché il polemo è l’identità degli opposti, cioè è quella casa comune in cui il positivo e il negativo devono convivere affinché siano ciò che sono, quindi il logo che è comune è l’identità degli opposti.

L’ingenuità di Sesto nel considerare la veglia e il sonno, nel loro significato fisiologico, è data dal fatto di aver preso alla lettera il significato di quelle espressioni che Eraclito usò come metafore. Nel fr. 21, il quale dice che:
“Morte è tutto ciò che desti vediamo, e tutto ciò che vediamo dormienti è sonno”.

e nel fr. 26, il quale dice che:
“uomo nella notte accende a sé un lume spegnendo la vista. Vivo si appiglia al morto spegnendo la vista, desto si appiglia al dormiente”,

emerge la smentita alla ingenuità di Sesto: nel fr. 21 i desti e i dormienti vedono rispettivamente morte e sonno, mentre nel fr. 1 Sesto equaziona la vista dei desti a quella dei dormienti. Nel fr. 26 si parla di uno spegnimento (della vista), là dove nel contempo c’è l’accensione di un lume. Ed è proprio alla base di questi due fondamentali frammenti, che ora tenteremo il raccordo fra Eraclito ed Hegel.

Eraclito ed Hegel[modifica]

Il contenuto corrispettivo di questi due frammenti eraclitei si trova in Hegel nei paragrafi 79, 80, 81, 82 della Logica. I paragrafi dicono rispettivamente:

  • 79: “la logicità ha, considerata secondo la forma, tre aspetti: a) l’astratto o l’intellettuale; b) il dialettico, o negativo razionale; c) lo speculativo o positivo razionale”.
  • 80: “a) il pensiero, come intelletto, se ne sta alla determinazione rigida e alla differenza di questa verso altre; siffatta limitata astrazione vale per l’intelletto come cosa che è e sussiste per sé”.
  • 81: “b) il momento dialettico è il sopprimersi da sé di siffatte determinazioni finite e il loro passaggio nelle opposte”.
  • 82: “c) Il momento speculativo, o il positivo razionale, concepisce l’unità delle determinazioni nella loro opposizione; ed è ciò che vi ha di affermativo nella loro soluzione e nel loro trapasso”.

Se ci si domanda: “ Cos’è lo speculativo di Eraclito?”, o: “cos’è quel senso cui tutti gli altri sensi si riconducono?”; nei suddetti paragrafi, che rappresentano il cuore della filosofia hegeliana, c’è la risposta. Nel par. 80 si dice che l’Intelletto è quel tipico atteggiamento del pensare, secondo cui la determinazione (ogni determinazione; determinazione nel significato trascendentale) è pensata nella sua capacità di costituirsi indipendentemente dalle altre determinazioni.

L’Intelletto astratto è dunque ogni mente che pensa la determinazione nella sua irrelazione con le altre.

Nel par. 81 si dice che il momento dialettico conviene solo alla determinazione finita in quanto autotoglientesi. La determinazione finita, cioè, muore a se stessa e realizza il suo opposto. La morte della verità avviene con la contraddizione: la negatività del logo è la contraddizione (il dialettico o negativo razionale). La verità, quindi, emergerà dal toglimento della contraddizione, della morte; in questo senso Hegel dice che la verità è resurrezione. Ora ci si domanda: perché il finito si contraddice? Consideriamo, ad esempio, il Bene in modo che esso occupi tutta la coscienza, in modo irrelato dalle altre determinazioni, dal punto di vista dell’Intelletto Astratto. Orbene, possedendo questa coscienza il solo Bene, non v’è posto in essa del male; poiché non le è possibile possedere il male, non le sarà altrettanto possibile possedere ciò che è opposto al male, cioè il Bene. Ora, poiché tale coscienza non possiede il Bene, poiché esso Bene si realizza come male, esso sarà autocontraddittorio e autotoglientesi come contenuto dell’Intelletto Astratto.

Nel par. 82 Hegel esprime la formula della resurrezione della verità dalla sua morte, cioè il momento della concretezza, di contro a quello dell’astrattezza: “Un positivo che non sia negazione del negativo non è un positivo”; e quindi pensare il Bene non come negazione del Male (autocontraddittorietà del Bene astratto). Quando l’Intelletto vuole tener ferma una determinazione astratta, allora ciò che tiene fermo non è ciò che presume di tener fermo, ma il suo contrario. Il logo, in quanto si realizza come Intelletto Astratto muore, e muore perché si contraddice. La contraddizione è il senso definitivo del finito qualora esso sia trattato come irrelato, e non il senso definitivo della verità. Il finito è reale, cioè ha un senso veritativo, solo nella misura in cui esso è inserito nella totalità delle determinazioni.

E’ opportuno qui considerare alcuni passi tratti da “Lezioni di storia della filosofia” di Hegel:
“…e la concretezza è l’idea, essendo essa l’unità delle determinazioni differenti. In questo precisamente, la cognizione razionale differisce dalla pura cognizione intellettualistica; e compito della filosofia è appunto di dimostrare contro l’Intelletto che il vero, l’Idea, non consiste in vuote generalità, sebbene in un universale, che in se stesso è il particolare, il determinato. Se il vero è astratto, non è vero. La sana ragione umana tende al concreto; soltanto la riflessione dell’Intelletto è teoria astratta, priva di verità, giusta soltanto nel cervello e fra l’altro impraticabile: la filosofia è nemica mortale dell’astratto, e riconduce al concreto. … La libertà poi, può essere astratta, senza necessità, e questa falsa libertà è l’arbitrio; e allora essa è precisamente l’opposto di se stessa, è una servitù incosciente, una vuota opinione di libertà, la libertà soltanto formale”.

Il responsabile della contraddizione è l’irrelazione della parte con il tutto; il toglimento della contraddizione, la resurrezione, è il correlare fra loro le parti del tutto: porre l’unità fra bene e male senza della quale unità il bene sarebbe male. E quindi il momento speculativo, cioè l’unità delle determinazioni nella loro opposizione è l’accertamento essenziale di ciò senza di cui il P.d.n.c. non vivrebbe. Ora il concetto di unità degli opposti acquista il suo più ampio e chiaro significato: gli opposti, per essere opposti esigono un legame, altrimenti non esisterebbe nemmeno l’opposizione. Eraclito, nel fr. 43, a proposito dell’Intelletto astratto, dice che:
“Tracotanza occorre spegnere più che vampa d’incendio”.

Preziosa è la comprensione del termine ὕβρις ("tracotanza"), composto da υ(ἐπί) e βρις(ἵστημι). In ὕβρις e in ἵστημι, l’emersione di ciò che si impone è contraria; in questo, ciò che si impone è il valore, è quel dire veritativo che determina il concreto; in quello, ciò che si impone è ciò che non ha diritto di imporsi perché autotoglientesi.

C’è ormai la possibilità di alzare il velo che copre il significato dei fr. 21 e 26: possono essere intesi nella loro dialettica. Nel fr. 21 “morte” significa “non essere”, significa posizione astratta della determinazione. Tale concetto è espresso anche nel par. 81 della logica hegeliana:
“Il momento dialettico è il sopprimersi da sé di siffatte determinazioni finite…”.

Coloro che posseggono anime barbare vedono morte, pur essendo desti, perché non si rendono conto della struttura della realtà. E ancora nel fr. 26 il “lume” che si accende nella notte spegnendo la vista è la determinazione nella sua astrazione dal contesto del tutto; la determinazione si stacca dallo sfondo della totalità del concreto e si pone in prima linea emergendo con tracotanza e quindi movendo sulla spiaggia dell’astrazione. Gli ἀξυνετοί considerano tale lume come la verità e non si accorgono che è spegnimento della vista. Il momentaneo brillare del lume che realizza il concetto di ὕβρις, spegne la vista perché rifiuta l’eterna luce della concretezza della totalità per accettare l’eterna oscurità dell’astrattezza della determinazione. Ancora, nel fr. 96 Eraclito dice:
“I cadaveri sono da buttar via più che sterco”,

dove il cadavere sta ad indicare quel momento prevaricante della determinazione astratta che si illude di brillare mentre è autospegnimento. Nel fr. 57 Eraclito dice:
“Maestro (demagogo) dei più è Esiodo. Di lui ritengono che moltissime cose sapesse egli che non conosceva giorno né notte; sono infatti una sola cosa”,

là dove “dei più” (τῶν πολλῶν) significa massa. Con ciò Eraclito vuol dire che Esiodo non sapesse nulla, appunto perché pensava di sapere tutto; il sapere molte cose, infatti, non è un sapere. Lo stesso Eraclito precisa tale concetto nel fr. 40:
“Multiscienza non apprende ad avere intelletto. Se no lo avrebbe insegnato ad Esiodo ”.

Ciò che gli ἀξυνετοί non comprendono è il senso del logo, perché la comprensione dei più, della massa, si indirizza alle determinazioni astratte; credere, come Esiodo, che il giorno e la notte non siano una cosa sola significa stare fuori dalla verità del logo. Ora ci si domanda: “Da che cosa è causata questa perdita di vista del logo?” Il senso del fr. 57 mette sulla buona strada per una risposta. Il tema di fondo, il cuore della dottrina eraclitea, è dunque la dialettica; il luogo in cui emerge il senso della contraddizione è nostro compito ora rilevare. Nel fr. 62 Eraclito dice:
“Immortali mortali, mortali immortali, viventi la morte di quelli, di quelli morienti la vita”.

“Immortali mortali, mortali immortali” stanno ad indicare la totalità delle opposizioni, ognuna delle quali vive la morte del proprio opposto. In questi frammenti, contro la parola di Aristotele, non vi è la negazione del P.d.n.c., dal momento che Eraclito afferma che gli opposti si costituiscono nella loro reciproca esclusione, cioè nel vivere la morte dell’opposto. Ora, poiché il morire è il non essere più, allora il vivere la morte dell’altro significa che il qualcosa è il non essere il proprio opposto: ogni determinazione è il respinger via ciò che ad essa è opposto, e questo respinger via è ciò in cui l’opposto viene meno. Dalla comprensione del senso del fr.62 emerge la formula che attesta ante litteram ciò che Aristotele chiamerà P.d.n.c. e che così suona: “Gli opposti sono reciproca negatività”. Alla luce di questo frammento si possono leggere gli altri frammenti dell’opposizione, cioè di quella situazione in cui la vicinanza delle determinazioni opposte è la vicinanza nella loro opposizione. Nel fr. 51 è esplicitata in altra guisa la formula dell’opposizione:
“Non comprendono come con sé discordando concordi; armonia reciprocamente tesa come d’arco e di lira”.

Ciò che discordia è “l’immortale mortale” del fr. 62, è il vivere la morte dell’opposto. E cos’è il non stare nel comune? E’ questo: il non comprendere come con sé discordando concordi. La stessa formula del fr. 62 si ritrova nel fr.76:
“Vive il fuoco della morte della terra. E l’aria vive della morte del fuoco; l’acqua vive della morte dell’aria; la terra quella dell’acqua”,

dove si dice che il comune è l’unità degli opposti, la quale è manifesta nel divenire. Da quanto si è detto riguardo al comune, si può concludere che il logo è investito da una preziosa ambiguità: da una parte l’unità si realizza nel momento del divenire, d’altra parte si realizza nel momento della quieta relazione degli opposti. Ancora, il riferimento all’opposizione può avvenire nel tempo (e si realizza il divenire) e fuori dal tempo (e si realizza il trascendentale), cioè quell’armonia che nasce dalla discordia e che è la vita di tutte le determinazioni. Nel fr. 76 Eraclito vuol dire che, poiché il comune è il divenire, il senso del trascendentale non è dato da questa o da quella determinazione ferma, ma è dato dallo stesso trapassare da una determinazione ad un’altra. E’ presente, cioè, la stessa formula del fr. 62: il trapassare è ciò in cui le differenze si realizzano nella loro opposizione (vivere la morte). Un’altra preziosa indicazione, nel fr. 60, è rappresentata dalla circolarità della “via in giù” e della “via in su”, in cui è possibile ravvisare il tema del discordare concorde . La “via in giù” rappresenta la discordanza, cioè il divaricarsi dell’unità nelle determinazioni opposte, mentre la “via in su” è il rampollarsi delle determinazioni opposte nell’unità.

A proposito, Hegel in “Lezioni di storia della filosofia” dice:
“Quest’uno non è l’astratto, ma l’attività di dirimersi in opposti; il morto infinito è misera astrazione rispetto alla profondità che scorgiamo in Eraclito. Che Dio abbia creato il mondo, che si sia distinto in esso, abbia creato un figlio etc., tutto questo concreto è contenuto in siffatta determinazione”.

Il fr. 76 è il luogo in cui è espresso in modo concreto il teorema delle due vie. La cosmologia è il risultato del dispiegamento del fuoco nella via in giù. Importante e basilare è la comprensione del senso del fr. 77: “ a) alle anime divenir umide è diletto. b) Noi viviamo la morte loro, e vivono esse la nostra morte” . È il luogo, questo, in cui si dice che la logica dialettica è il rilevamento di ciò senza di cui il P.d.n.c. non vivrebbe (noi viviamo (siamo) la morte (il non essere) loro…). Solo i cattivi difensori del P.d.n.c. considerano Eraclito e la dialettica negatori del primo principio. Il fr. 88:
“Lo stesso: il vivente e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio; queste cose, infatti, tramutandosi son quelle e quelle, di nuovo tramutandosi, son queste”,

inizia con l’affermazione di una medesimezza degli opposti, che si può intendere in due modi:

  • 1 la prima parte è l’esplicitazione dell’armonia nascosta in cui gli opposti sono uniti in una sintesi supercosmica.
  • 2 la seconda parte è l’esplicitazione dell’armonia manifesta in cui gli opposti sono uniti in una sinapsi cosmica.

E’ interessante il confronto di questo con il fr. 53:
“Polemo (la guerra), di tutte le cose è padre, di tutti è re; e gli uni palesa dei, gli altri uomini; e gli uni fa schiavi, gli altri liberi”.

Gli dei e gli uomini, gli schiavi e i liberi, sono allo stesso livello, perché in entrambi i frammenti è comune l’unità degli opposti. Nel fr. 88 “lo stesso” è il diveniente che tramuta “precipitando” da una determinazione a quella opposta, mentre nel fr. 53 vi è la condizione per cui vi siano quelle determinazioni che nel fr. 88 precipitano nelle opposte: la guerra, l’energia secondo la quale ogni cosa si determina qual è. A proposito, è utile considerare la testimonianze di Aristotele, di Simplicio e di Numerio:”

Aristotele (74): “ Ed Eraclito rimprovera il poeta che dice: Affinché la lotta vada in rovina dagli dei e dagli uomini. Non vi sarebbe, infatti armonia, se non vi fosse l’acuto e il grave, né animali senza la femmina e il maschio che sono opposti (b 9 a)”.

Simplicio: “Non approveranno coloro che hanno posto i contrari come principi, cioè così gli altri come eraclitei; perché se l’uno dei contrari venisse a cadere, allora tutto scomparirebbe di colpo. Perciò Eraclito rimprovera Omero che dice: Affinché la guerra vada in rovina dagli dei e dagli uomini Perché dice che tutto scomparirebbe”.

Numerio: “Numerio loda Eraclito che ha rimproverato Omero, che augurò distruzione e devastazione ai mali della vita, perché non s’avvide che il mondo si distruggerebbe da sé, se la natura che è la causa dei mali, fosse terminata”. Si vuol dire, cioè, che augurarsi il venir meno della tensione, è augurarsi lo scomparire della verità. Il polemo è l’unità degli opposti perché le determinazioni non vivrebbero se non vivessero sotto il medesimo tetto della opposizione: i liberi se gli schiavi, il principiante se il principiato; Aristotele dice, a proposito, nel primo libro della Fisica:
“Se esistesse solo l’uno immobile, esso non sarebbe affatto principio; se è vero che il principio è tale rispetto ad una cert’altra o cert’altre cose”.

La differenza rilevata fra il frammento 53 e il frammento 88, fa emergere la osservazione fondamentale. Nel fr. 53 il polemo è quell’opposizione che non implica per sé un processo temporale, ma è quel quieto consistere degli opposti, per cui essi sono ciò che sono proprio perché calati nell’opposizione, proprio perché compresenti. Nel fr. 88 “lo stesso” non è il Polemo del fr. 53; qui vi è passaggio dal l’un termine al termine opposto. E quindi: cos’è, a livello temporale, quella medesimezza secondo la quale gli opposti sussistono? Risposta: è ciò che Aristotele chiamerà sostrato, il diveniente. Là il Polemo regge su due piatti equipollenti gli opposti; qui la medesimezza è il termine che passa da una determinazione a quella opposta. Su questa duplice valenza del divenire (armonia nascosta e armonia manifesta) Hegel insiste a lungo: come il Divenire è il passare in altro, così la Dialettica è il portarsi in altro. Vale insistere:

1. Nell’armonia manifesta il terminus a quo e il terminus ad quem sono gli opposti e la medesimezza di questi è data dall’elemento che trasporta dall’uno all’altro opposto.

2. Nell’armonia nascosta il Divenire sta nel fatto che la realtà non si limita alla determinazione, ma si è già trasportata a quella situazione per cui quella determinazione esiste in quanto esiste la determinazione opposta: il libero è perché è lo schiavo, il regnante se i sudditi. In questo caso la determinazione è già da sempre passata nell’opposto.

Il fr. 53 è l’accertamento che l’attualità divina non è il risultato di un processo, ma si costituisce come negazione del negativo; il Bene è l’aver già da sempre presente il Male; il Male per Dio non è una novità, il Male, cioè, è ciò che è totalmente tolto. Se il male non ci fosse in nessun senso, non esisterebbe nemmeno come tolto.

Da quanto si è detto, si può rilevare che il comune, il divino è coinvolto in una preziosa ambiguità. Rileviamo ora essa ambiguità nei fr. 30 e 67: fr. 30:
“Questo ordine, lo stesso per tutti, nessuno degli dei lo fece né degli uomini, ma sempre era ed è e sarà fuoco sempre vivo, che con misura si accende e con misura si spegne”.

Qui si fa vedere che il divenire è l’assoluto; esso non è nessuno dei termini finiti, ma è il passare, è la relazione fra i termini. È l’indiveniente divenire che relaziona i termini opposti precipitando nelle determinazioni opposte. Qui domina il concetto di principio unificatore (questo ordine) di elemento, di στοικειον.

Nel fr. 67 domina il concetto di ἀρχή:
“Il dio giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame; come il fuoco si tramuta quando ad aromi si mescola, prende nome secondo l’olezzo di ognuno di essi”.

Il dio è l’assoluto (il significato originario è reggente, arconte, dominatore) che attraversa le opposizioni (aromi), dando il nome ad esse a seconda del suo formarsi questa o quella. E’ interessante, a questo punto, considerare il rapporto tra Anassimandro ed Eraclito; in questo vi è l’esplicitazione di quella unità degli opposti che in Anassimandro era implicita. Ma per l’approfondimento è opportuno vedere R. Mondolfo .

Anche nel fr. 8 (vedi fr. 10 e 80) è possibile verificare l’emersione del Trascendente Trascendentale:
“L’opposto concorde, e dai discordi bellissima armonia, e tutte le cose divengono secondo contesa”.

La bellissima armonia e l’opposto concorde stanno ad indicare l’armonia invisibile; il καί introduce nell’armonia palese (divengono secondo contesa). Nel fr. 80 si esplicita il senso dell’opposto concorde del fr. 8 e si dice che è la guerra e che essa è comune: “Occorre sapere che la guerra è cosa comune e che la giustizia è lotta e che tutte le cose accadono secondo lotta e necessità”. Interessante è notare la novità che il fr. 80 apporta nei confronti del fr. 8. In questo si dice che “tutte le cose divengono secondo contesa”; in quello si dice: “la contesa è la giustizia. La giustizia è la legge fondamentale dell’essere, perché l’essere vive nella contesa. Illuminante è il fr. 60, per comprendere il senso dell’Ingiustizia e dell’espiazione di cui è evidente la derivazione anassimandrea: è l’ingiustizia collettiva della scissione dell’uno nei molti, che a sua volta sarà condannata ad annullarsi nel riassorbimento dei molti entro l’uno. “La via in su e in giù è una sola e la medesima”. La medesimezza di opposti del fr. 60 è ripresa nel fr. 61:
“Il mare, acqua purissima e correttissima, ai pesci bevibile e salubre, agli uomini imbevibile ed esiziale”.

Questo frammento è il luogo in cui è possibile verificare che non v’è alcuna negazione del P.d.n.c. Il medesimo, il mare, è datore di vita e di morte, ma non sotto gli stessi rispetti.

Utile è vedere il fr. 65 e il fr.111 , per rendersi conto della preziosa ambiguità sopra considerata.

Voci correlate[modifica]

Frammenti[modifica]

Tratto da Wikisource in lingua greca

fragmentum B 1[modifica]

τοῦ δὲ λόγου τοῦδ᾽ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον• γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει• τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται.

fragmentum B 2[modifica]

διὸ δεῖ ἕπεσθαι τῷ ξυνῷ, τουτέστι τῷ κοινῷ• ξυνὸς γὰρ ὁ κοινός. τοῦ λόγου δ᾽ ἐόντος ξυνοῦ ζώουσιν οἱ πολλοὶ ὡς ἱδίαν ἔχοντες φρόνησιν.

fragmentum B 3[modifica]

(ὁ ἥλιος) εὖρος ποδὸς ἀνθρωπείου.

fragmentum B 3a (papyrus Derveni)[modifica]

([Ἡράκλειτος ἐ]δήλωσε ὁ τὸ σμι[κρὸν παρὰ] τὰ κοινὰ [ἐπιφέρων• ἔδειξε γὰρ σα]φέστατα, [ὅ]σος, περικρύ[πτῳ] λόγῳ λέγων• [ἔστι γὰρ μὴ) ὁ ἥλιο]ς (οὐ κατὰ φύσιν) ἀνθρω[πείου] εὖρος ποδός ([οὐδὲ κατ᾽ εὖρος τοῦτο]) οὐχ ὑπερβάλλων μέτ[ρων ὅ]ρους (Ἐ[ρινύας φοβοῦμενος) εἰ δὲ μ]ὴ, Ἐρινύε[ς] νιν ἐξευρήσο[υσιν, (ἀλλὰ εἴρηται, ἵνα] . . .)

fragmentum B 4[modifica]

si felicitas esset in delectationibus corporis, boves felices diceremus, cum inveniant orobum ad comedendum.

fragmentum B 5[modifica]

καθαίρονται δ᾽ ἄλλως αἵματι μιαινόμενοι οἷον εἴ τις εἰς πηλὸν ἐμβὰς πηλῷ ἀπονίζοντο. μαίνεσθαι δ᾽ ἂν δοκοίη, εἴ τίς μιν ἀνθρώπων ἐπιφράσαιτο οὕτω ποιέοντα. καὶ τοῖς ἀγάλμασι δὲ τουτέοισιν εὔχονται, ὁκοῖον εἴ τις δόμοισι λεσχηνεύοιτο, οὔ τι γινώσκων θεοὺς οὔδ᾽ ἥρωας οἵτινές εἰσιν.

fragmentum B 6[modifica]

(ὁ ἥλιος οὐ μόνον, καθάπερ ὁ Ἡράκλειτός φησι,) νέος ἐφ᾽ ἡμέρῃ (ἐστίν, ἀλλ᾽ ἀεὶ νέος συνεχῶς) . . . ἅπτεται καὶ σβέννυται.

fragmentum B 6a[modifica]

ἀποσβέννυνται πολὺ μᾶλλον τοῦ Ἡρακλειτείου ἡλίου, ὅσον αὖθις οὐκ ἐξάπτονται.

fragmentum B 6b[modifica]

ἀνάπτεσθαι καὶ σβέννυσθαι τὰ ἄστρα (καθ᾽ Ἡράκλειτον).

fragmentum B 7[modifica]

εἰ πάντα τὰ ὄντα καπνὸς γένοιτο, ῥῖνες ἂν διαγνοῖεν.

fragmentum B 8[modifica]

τὸ ἀντίξουν συμφέρον . . . ἐκ τῶν διαφερόντων καλλίστην ἁρμονίην.

fragmentum B 9[modifica]

. . . ὄνους σύρματ᾽ ἂν ἑλέσθαι ἢ χρυσόν.

fragmentum B 10[modifica]

συνάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾷδον διᾷδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα.

fragmentum B 11[modifica]

. . . πᾶν ἑρπετὸν πληγῇ νέμεται.

fragmentum B 12[modifica]

ποταμοῖσι τοῖσιν αὐτοῖσιν ἐμβαίνουσιν ἕτερα καὶ ἕτερα ὕδατα ἐπιῤῥεῖ• καὶ ψυχαὶ δὲ ἀπὸ τῶν ὑγρῶν ἀναθυμιῶνται.

fragmentum B 13[modifica]

ὕες βορβόρῳ μᾶλλον χαίρουσιν ἢ καθαρῷ ὕδατι.

fragmentum B 14[modifica]

νυκτιπόλοις, μάγοις, βάκχοις, λήναις, μύσταις• (τούτοις ἀπειλεῖ τὰ μετὰ θάνατον, τούτοις μαντεύεται τὸ πῦρ.) τὰ γὰρ νομιζόμενα κατ᾽ ἀνθρώπους μυστήρια ἀνιερωστὶ μυεῦεται.

fragmentum B 15[modifica]

εἰ μὴ γὰρ Διονύσῳ πομπὴν ἐποιεῦντο καὶ ὕμνεον ᾆσμα αἰδοίοισιν, ἀναιδέστατα εἴργασται• ωὑτὸς δὲ Ἀίδης καὶ Διόνυσος, ὅτεῳ μαίνονται καὶ ληναΐζουσιν.

fragmentum B 16[modifica]

τὸ μὴ δῦνόν ποτε πῶς ἄν τις λάθοι;

fragmentum B 17[modifica]

οὐ γὰρ φρονέουσι τοιαῦτα πολλοί, ὁκόσοι ἐγκυρεῦσιν, οὐδὲ μαθόντες γινώσκουσιν, ἑωυτοῖσι δὲ δοκέουσι.

fragmentum B 18[modifica]

ἐὰν μὴ ἔλπηθαι ἀνέλπιστον οὐκ ἐξευρήσει, ἀνεξερεύνητον ἐὸν καὶ ἄπορον.

fragmentum B 19[modifica]

ἀκοῦσαι οὐκ ἐπιστάμενοι οὐδ᾽ εἰπεῖν.

fragmentum B 20[modifica]

γενόμενοι ζώειν ἐθέλουσι μόρους τ᾽ ἔχειν (μᾶλλον δὲ ἀναπαύεσθαι) καὶ παῖδας καταλείπουσι μόρους γενέσθαι.

fragmentum B 21[modifica]

θάνατός ἐστιν ὁκόσα ἐγερθέντες ὁρέομεν, ὁκόσα δὲ εὕδοντες ὕπνος.

fragmentum B 22[modifica]

χρυσὸν γὰρ οἱ διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ εὑρίσκουσιν ὀλίγον.

fragmentum B 23[modifica]

Δίκης ὄνομα οὐκ ἂν ᾔδεσαν, εἰ ταῦτα μὴ ἦν.

fragmentum B 24[modifica]

ἀρηϊφάτους θεοὶ τιμῶσι καὶ ἄνθρωποι.

fragmentum B 25[modifica]

μόροι γὰρ μέζονες μέζονας μοίρας λαγχάνουσι.

fragmentum B 26[modifica]

ἄνθρωπος ἐν εὐφρόνῃ φάος ἅπτεται ἑωυτῷ ἀποσβεσθεὶς ὄψεις. ζῶν δὲ ἅπτεται τεθνεῶτος εὕδων, ἐγρηγορὼς ἅπτεται εὕδοντος.

fragmentum B 27[modifica]

ἀνθώπους μένει ἀποθανόντας, ἅσσα οὐκ ἔλπονται οὐδὲ δοκέουσιν.

fragmentum B 28[modifica]

δοκέοντα γὰρ ὁ δοκιμώτατος γινώσκει φυλάσσει . . . Δίκη καταλάψεται ψευδῶν τέκτονας καὶ μάρτυρας.

fragmentum B 29[modifica]

αἱρεῦνται γὰρ ἓν ἀντὶ ἁπάντων οἱ ἄριστοι, κλέος ἀέναον θνητῶν, οἱ δὲ πολλοὶ κεκόρηνται ὅκωσπερ κτήνεα.

fragmentum B 30[modifica]

κόσμον τόνδε, τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ᾽ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα.

fragmentum B 31[modifica]

πυρὸς τροπαὶ πρῶτον θάλασσα, θαλάσσης δὲ τὸ μὲν ἥμισυ γῆ, τὸ δὲ ἥμισυ πρηστήρ . . . θάλασσα διαχέεται καὶ μετρέεται εἰς τὸν αὐτὸν λόγον, ὁκοῖος πρόσθεν ἦν ἢ γενέσθαι γῆ.

fragmentum B 32[modifica]

ἓν τὸ σοφὸν μοῦνον λέγεσθαι οὐκ ἐθέλει καὶ ἐθέλει Ζηνὸς ὄνομα.

fragmentum B 33[modifica]

νόμος καὶ βουλῇ πείθεσθαι ἑνός.

fragmentum B 34[modifica]

ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι• φάτις αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ παρεόντας ἀπεῖναι.

fragmentum B 35[modifica]

χρὴ εὖ μάλα πολλῶν ἵστορας φιλοσόφους ἄνδρας εἶναι.

fragmentum B 36[modifica]

ψυχῇσιν θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ ψυχή.

fragmentum B 37[modifica]

sues caeno, cohortales aves pulvere lavari.

fragmentum B 38[modifica]

Θαλῆς δοκεῖ πρῶτος ἀστρολογῆσαι.

fragmentum B 39[modifica]

ἐν Πριήνῃ Βίας ἐγένετο ὁ Τευτάμεω, οὗ πλείων λόγος ἢ τῶν ἄλλων.

fragmentum B 40[modifica]

πολυμαθίη νόον οὐ διδάσκει• Ἡδίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά τε καὶ Ἑκαταῖον.

fragmentum B 41[modifica]

εἶναι γὰρ ἓν τὸ σοφόν, ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων.

fragmentum B 42[modifica]

Ὅμηρος ἄξιος ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι καὶ Ἀρχίλοχος ὁμοίως.

fragmentum B 43[modifica]

ὕβριν χρὴ σβεννύναι μᾶλλον ἢ πυρκαϊήν.

fragmentum B 44[modifica]

μάχεσθαι χρὴ τὸν δῆμον ὑπὲρ τοῦ νόμου ὅκωσπερ τείχεος.

fragmentum B 45[modifica]

ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν• οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει.

fragmentum B 46[modifica]

τήν τε οἴησιν ἱερὴν νοῦσον (ἔλεγε καὶ τὴν ὅρασιν ψεύδεσθαι).

fragmentum B 47[modifica]

μὴ εἰκῆ περὶ τῶν μεγίστων συμβαλλώμεθα.

fragmentum B 48[modifica]

τῷ οὖν τόξῳ ὄνομα βίος, ἔργον δὲ θάνατος.

fragmentum B 49[modifica]

εἶς ἐμοὶ μύριοι, ἐὰν ἄριστος ᾖ.

fragmentum B 49a[modifica]

ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν, εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν.

fragmentum B 50[modifica]

οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι.

fragmentum B 51[modifica]

οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ συμφέρεται• παλίντονος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης.

fragmentum B 52[modifica]

αἰὼν παῖς ἐστι παίζων πεσσεύων• παιδὸς ἡ βασιληίη.

fragmentum B 53[modifica]

πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς, καὶ τοὺς μὲν θεοὺς ἔδειξε τοὺς δὲ ἀνθρώπους, τοὺς μὲν δούλους ἐποίησε τοὺς δὲ ἐλευθέρους.

fragmentum B 54[modifica]

ἁρμονίη ἀφανὴς φανερῆς κρείσσων.

fragmentum B 55[modifica]

ὅσων ὄψις ἀκοὴ μάθησις, ταῦτα ἐγὼ προτιμέω.

fragmentum B 56[modifica]

ἐξηπάτηνται οἱ ἄνθρωποι πρὸς τὴν γνῶσιν τῶν φανερῶν παραπλησίως Ὁμήρῳ, ὃς ἐγένετο τῶν Ἑλλήνων σοφώτερος πάντων. ἐκεῖνόν τε γὰρ παῖδες φθεῖρας κατακτείνοντες ἐξηπάτησαν εἰπόντες• ὅσα εἴδομεν καὶ ἐλάβομεν, ταῦτα ἀπολείπομεν, ὅσα δὲ οὔτε εἴδομεν οὔτ᾽ ἐλάβομεν, ταῦτα φέρομεν.

fragmentum B 57[modifica]

διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος• τοῦτον ἐπὶστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν• ἔστι γὰρ ἕν.

fragmentum B 58[modifica]

ἀγαθὸν καὶ κακὸν ‹ἕν καὶ ταὐτό›. οἱ γοῦν ἰητροὶ τέμνοντες, καίοντες ἐπαιτέονται μηδὲν ἄξιοι μισθὸν λαμβάνειν, ταὐτὰ ἐργαζόμενοι τὰ καὶ αἱ νοῦσοι.

fragmentum B 59[modifica]

γναφείῳ ὁδὸς εὐθεῖα καὶ σκολιὴ μία ἐστὶ καὶ ἡ αὐτή.

fragmentum B 60[modifica]

ὁδὸς ἄνω κάτω μία καὶ ωὑτή.

fragmentum B 61[modifica]

θάλασσα ὕδωρ καθαρώτατον καὶ μιαρώτατον, ἰχθύσι μὲν πότιμον καὶ σωτήριον, ἀνθρώποις δὲ ἄποτον καὶ ὀλέθριον.

fragmentum B 62[modifica]

ἀθάνατοι θνητοί, θνητοὶ ἀθάνατοι. ζῶντες τὸν ἐκείνων θάνατον, τὸν δὲ ἐκείνων βίον τεθνεῶτες.

fragmentum B 63[modifica]

(ἔνθα δ᾽ ἐόντι ἐπανίστασθαι καὶ) φύλακας γίνεσθαι ἐγερτὶ ζώντων καὶ νεκρῶν.

fragmentum B 64[modifica]

τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός.

fragmentum B 64a[modifica]

φρόνιμον (εἶναι) τὸ πῦρ.

fragmentum B 65[modifica]

τὸ πῦρ χρησμοσύνη καὶ κόρος.

fragmentum B 66[modifica]

πάντα γὰρ τὸ πῦρ ἐπελθὸν κρινεῖ καὶ καταλήψεται.

fragmentum B 67[modifica]

ὁ θεὸς ἡμέρη εὐφρόνη, χειμὼν θέρος, πόλεμος εἰρήνη, κόρος λιμός. ἀλλοιοῦται δὲ ὅκωσπερ πῦρ, ὁπόταν συμμιγῇ θυώμασιν, ὀνομάζεται καθ᾽ ἡδονὴν ἑκάστου.

fragmentum B 67a[modifica]

sicut aranea stans in medio telae sentit, quam cito musca aliquem filum suum corrumpit itaque illuc celeriter currit quasi de fili persectione dolens, sic hominis anima aliqua parte corporis laesa illuc festine meat quasi impatiens laesionis corporis, cui firme et proportionaliter iuncta est.

fragmentum B 68[modifica]

. . . ἄκεα (προσεῖπεν ὡς ἐξακεσόμενα τὰ δεινὰ καὶ τὰς ψυχὰς ἐξάντεις ἀπεργαζόμενα τῶν ἐν τῇ γενέσει συμφορῶν).

fragmentum B 69[modifica]

. . . τὰ μὲν τῶν ἀποκεκαθαρμένων παντάπασιν ἀνθρώπων, οἷα ἐφ᾽ ἑνὸς ἄν ποτε γένοιτο σπανίως.

fragmentum B 70[modifica]

παῖδες τὰ ἀθύρματα ἄνδρες γενόμενοι ἀπέῤῥιψαν. (τὰ ἀνθρώπινα δοξάσματα.)

fragmentum B 71[modifica]

. . . τοῦ ἐπιλανθανομένου ᾗ ἡ ὁδὸς ἄγει.

fragmentum B 72[modifica]

ᾧ μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγῳ, τούτῳ διαφέρονται, καὶ οἷς καθ᾽ ἡμέρην ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται.

fragmentum B 73[modifica]

οὐ δεῖ ὥσπερ καθεύδοντας ποιεῖν καὶ λέγειν. καὶ γὰρ τότε δοκοῦμεν ποιεῖν καὶ λέγειν.

fragmentum B 74[modifica]

οὐ δεῖ ὡς παῖδας τοκεώνων . . .

fragmentum B 75[modifica]

τοὺς καθεύδοντας ἐργάτας εἶναι καὶ συνεργοὺς τῶν ἐν τῷ κόσμῳ γινομένων.

fragmentum B 76[modifica]

ζῇ πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ ζῇ τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῇ τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος.

fragmentum B 77[modifica]

. . . ψυχῇσι τέρψιν ἢ θάνατον ὑγρῇσι γενέσθαι.

fragmentum B 78[modifica]

ἦθος γὰρ ἀνθρώπειον μὲν οὐκ ἔχει γνώμας, θεῖον δὲ ἔχει.

fragmentum B 79[modifica]

ἀνὴρ νήπιος ἤκουσε πρὸς δαίμονος ὅκωσπερ παῖς πρὸς ἀνδρός.

fragmentum B 80[modifica]

εἰδέναι δὲ χρὴ τὸν πόλεμον ἐόντα ξυνόν, καὶ δίκην ἔριν, καὶ γινόμενα πάντα κατ᾽ ἔριν καὶ χρεών.

fragmentum B 81[modifica]

Πυθαγόρης κοπίδων ἐστὶν ἀρχηγός.

fragmentum B 82[modifica]

πιθήκων ὁ κάλλιστος αἰσχρὸς ἀνθρώπων γένει συμβάλλειν.

fragmentum B 83[modifica]

ἀνθρώπων ὁ σοφώτατος πρὸς θεὸν πίθηκος φανεῖται καὶ σοφίᾳ καὶ κάλλει καὶ τοῖς ἄλλοις πᾶσιν.

fragmentum B 84a[modifica]

. . . μεταβάλλον ἀναπαύεται.

fragmentum B 84b[modifica]

κάματός ἐστι τοῖς αὐτοῖς μοχθεῖν καὶ ἄρχεσθαι.

fragmentum B 85[modifica]

θυμῷ μάχεσθαι χαλεπόν• ὅ τι γὰρ ἂν θέλῃ, ψυχῆς ὠνεῖτει.

fragmentum B 86[modifica]

. . . ἀπιστίῃ διαφυγγάνει μὴ γιγνώσκεσθαι.

fragmentum B 87[modifica]

βλὰξ ἄνθρωπος ἐπὶ παντὶ λόγῳ ἐπτοῆσθαι φιλεῖ.

fragmentum B 88[modifica]

ταὐτὸ ζῶν καὶ τεθνηκὸς καὶ ἐγρηγορὸς καὶ καθεῦδον καὶ νέον καὶ γηραιόν• τάδε γὰρ μεταπεσόντα ἐκεῖνά ἐστι κἀκεῖνα πάλιν μεταπεσόντα ταῦτα.

fragmentum B 89[modifica]

τοῖς ἐγρηγορόσιν ἕνα καὶ κοινὸν κόσμον εἶναι, (τῶν δὲ κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴδιον ἀποστρέφεσθαι).

fragmentum B 90[modifica]

πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός.

fragmentum B 91[modifica]

σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει καὶ πρόσεισι καὶ ἀπεισι . . . (ἔμπεδον οὐδέν).

fragmentum B 92[modifica]

Σίβυλλα δὲ μαινομένῳ στόματι ἀγέλαστα καὶ ἀκαλλώπιστα καὶ ἀμύριστα φθεγγομένη χιλίων ἐτῶν ἐξικνεῖται τῇ φωνῇ διὰ τὸν θεόν.

fragmentum B 93[modifica]

ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει.

fragmentum B 94[modifica]

ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα• εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν.

fragmentum B 95[modifica]

ἀμαθίην γὰρ ἄμεινον κρύπτειν, ἔργον δὲ ἐν ἀνέσει καὶ παρ᾽ οἶνον.

fragmentum B 96[modifica]

νέκυες γὰρ κοπρίων ἐκβλητότεροι.

fragmentum B 97[modifica]

κύνες γὰρ καὶ βαύζουσιν ὧν ἂν μὴ γινώσκωσι.

fragmentum B 98[modifica]

αἱ ψυχαὶ ὀσμῶνται καθ᾽ Ἅιδην.

fragmentum B 99[modifica]

εἰ μὴ ἥλιος ἦν, ἕνεκα τῶν ἄλλων ἄστρων εὐφρόνη ἂν ἦν.

fragmentum B 100[modifica]

. . . πάντων, ἃ φέρουσιν ὧραι.

fragmentum B 101[modifica]

ἐδιζησάμην ἐμεωυτόν.

fragmentum B 101a[modifica]

ὀφθαλμοὶ γὰρ τῶν ὤτων ἀκριβέστεροι μάρτυρες.

fragmentum B 102[modifica]

τῷ μὲν θεῷ καλὰ πάντα καὶ ἀγαθὰ καὶ δίκαια, ἄνθρωποι δὲ ἃ μὲν ἄδικα ὑπειλήφασιν ἃ δὲ δίκαια.

fragmentum B 103[modifica]

ξυνὸν γὰρ ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ κύκλου περιφερείας.

fragmentum B 104[modifica]

τίς γὰρ αὐτῶν νόος ἢ φρήν; δήμων ἀοιδοῖσι πείθονται καὶ διδασκάλῳ χρείωνται ὁμίλῳ οὐκ εἰδότες ὅτι <οἱ πολλοὶ κακοί, ὀλίγοι δὲ ἀγαθοί>.

fragmentum B 105[modifica]

ἀστρολόγον τὸν Ὅμηρον.

fragmentum B 106[modifica]

(Ἡσίοδος ἠγνόει) φύσιν ἡμέρης ἁπάσης μίαν οὖσαν.

fragmentum B 107[modifica]

κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων.

fragmentum B 108[modifica]

ὁκόσων λόγους ἤκουσα, οὐδεὶς ἀφικνεῖται ἐς τοῦτο, ὥστε γινώσκειν ὅτι σοφόν ἐστι πάντων κεχωρισμένον.

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fragmentum B 110[modifica]

ἀνθρώποις γίνεσθαι ὁκόσα θέλουσιν οὐκ ἄμεινον.

fragmentum B 111[modifica]

νοῦσος ὑγιείην ἐποίησεν ἡδὺ καὶ ἀγαθόν, λιμὸς κόρον, κάματος ἀνάπαυσιν.

fragmentum B 112[modifica]

σωφρονεῖν ἀρετὴ μεγίστη, καὶ σοφίη ἀληθέα λέγειν καὶ ποιεῖν κατὰ φύσιν ἐπαίοντας.

fragmentum B 113[modifica]

ξυνόν ἐστι πᾶσι τὸ φρονεῖν.

fragmentum B 114[modifica]

ξὺν νῷ λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῷ ξυνῷ πάντων, ὅκωσπερ νόμῳ πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως. τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου• κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον ὁκόσον ἐθέλει καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται.

fragmentum B 115[modifica]

ψυχῆς ἐστι λόγος ἑωυτὸν αὔξων.

fragmentum B 116[modifica]

ἀνθρώποισι πᾶσι μέτεστι γινώσκειν ἑωυτοὺς καὶ σωφρονεῖν.

fragmentum B 117[modifica]

ἀνὴρ ὁκόταν μεθυσθῇ, ἄγεται ὑπὸ παιδὸς ἀνήβου σφαλλόμενος οὐκ ἐπᾴων ὅκη βαίνει, ὑγρὴν τὴν ψυχὴν ἔχων.

fragmentum B 118[modifica]

αὔη ψυχὴ σοφωτάτη καὶ ἀρίστη.

fragmentum B 119[modifica]

ἦθος ἀνθρώπῳ δαίμων.

fragmentum B 120[modifica]

ἠοῦς καὶ ἑσπέρας τέρματα ἡ ἄρκτος καὶ ἀντίον τῆς ἄρκτου οὖρος αἰθρίου Διός.

fragmentum B 121[modifica]

ἄξιον Ἐφεσίοις ἡβηδὸν ἀπάγξασθαι πᾶσι καὶ τοῖς ἀνήβοις τὴν πόλιν καταλιπεῖν, οἵτινες Ἑρμόδωρον ἄνδρα ἑωυτῶν ὀνῄστον ἐξέβαλον φάντες• ἡμέων μηδὲ εἷς ὀνῄστος ἔστω, εἰ δὲ μή, ἄλλη τε καὶ μετ᾽ ἄλλων.

fragmentum B 122[modifica]

ἀγκιβασίη.

fragmentum B 123[modifica]

φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ.

fragmentum B 124[modifica]

ὅκωσπερ σάρμα εἰκῆ κεχυμένων ὁ κάλλιστος κόσμος.

fragmentum B 125[modifica]

καὶ ὁ κυκεὼν διίσταται μὴ κινούμενος.

fragmentum B 125a[modifica]

μὴ ἐπιλίποι ὑμᾶς πλοῦτος, Ἐφέσιοι, ἵν᾽ ἐξελέγχοισθε πονηρευόμενοι.

fragmentum B 126[modifica]

ψυχρὰ θέρεται, θερμὰ ψύχεται, ὑγρὰ αὐαίνεται, καρφαλέα νοτίζεται.

fragmentum B 126a[modifica]

κατὰ λόγον δὲ ὡρέων συμβάλλεται ἑβδομὰς κατὰ σελήνην, διαιρεῖται δὲ κατὰ τὰς ἄρκτους, ἀθανάτου μνήμης σημείω.

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fragmentum B 129[modifica]

Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων μάλιστα πάντων καὶ ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑωυτοῦ σοφίην, πολυμαθίην, κακοτεχνίην.



Αποσπασματα (Ηρακλειτος) Αποσπασματα (Ηρακλειτος)