Utente:Monozigote/sandbox12
GEOVA...?
[modifica | modifica sorgente]Il Dio penoso dell’Antico Testamento
[modifica | modifica sorgente]In prima istanza, è possibile che i non cristiani si chiedano: ma che cosa c’entro io con un vecchio Dio? E perché tanto clamore per alcuni testi antichi? Giusto; se non fosse, però, che quei testi non sono rimasti confinati nel mondo antico. Ancora oggi le Chiese non si stancano di raccomandare la lettura della Bibbia, ancora oggi i bambini vengono messi a confronto con quei testi nelle scuole e negli insegnamenti confessionali; e persone devote e fedeli clericali cercano di realizzare una vita conforme a vetusti “princìpi biblici” come modelli ideali di vita.
Eppure gli scritti biblici, nella loro immagine di Dio e dell’uomo, non si possono certo identificare coi princìpi umani e liberali. La presunta immagine positiva della Bibbia deriva soprattutto dal fatto che quei testi si conoscono solo in maniera frammentaria e superficiale. Le Chiese propongono ai credenti una versione edulcorata, una selezione di testi, che ritiene di poter offrire ai credenti soltanto quei passi che si possono facilmente digerire. Un arrosto succulento, grazie alla sua guarnizione con verdure, viene così smerciato ai credenti come piatto vegetariano. E’ il metodo della cava di pietra, applicato però non solo dalle Chiese, in maniera consapevole, ma pure dai lettori privati della Bibbia, però in maniera inconsapevole: consiste nell’enucleare, cioè, passi positivi ed edificanti da un lato, e tralasciare o filtrare, dall’altro, tutto quanto non collima con questo schema. Ed è la persona Gesù di Nazareth quella che assume significato centrale per i cristiani. Una volta compreso lui, si ritiene di aver compreso anche la Bibbia, anche il Vecchio Testamento. Di Gesù di Nazareth ci siamo occupati prima, in questo libro, in maniera dettagliata. Ora, dopo aver esaminato il sedicente figlio, ci interessa risalire al presunto padre: il Dio dell’Antico Testamento.
Yahvé/Geova: dio della guerra e della violenza
[modifica | modifica sorgente]Il Dio del Vecchio Testamento, a dispetto di ogni abbellimento operato dalle Chiese, ricorre in molti passaggi come dio della guerra. Yahvè/ Geova è colui che guidò il popolo di Israele fuori dall’Egitto, colui dal quale essi ottennero la terra di Palestina, che dovevano prima conquistare sottraendola ai legittimi abitanti. La predilezione di Dio nei confronti di Israele si manifesta in numerose situazioni belliche. In più, questo dio Geova ha un rapporto assolutamente spregiudicato con guerra e omicidio. Guerre di aggressione e di annientamento sono non solo consentite, ma vengono addirittura da lui pretese in maniera esplicita. Scrupoli etici questo Dio sembra non conoscerne affatto; un discreto riserbo non è affar suo. Dio è il Signore Zebaoth, dio degli eserciti, coi quali le Chiese (il Signore Zebaoth viene tuttora impiegato nelle chiese) preferiscono intendere oggi “schiere celesti”, ma che nel loro significato originario connotavano schiere belligeranti. Geova era un dio di guerra.
Le guerre a cui Geova chiama a raccolta, sono poi naturalmente guerre sante; i successi in battaglia, ottenuti da Israele, sono segni della sua potenza. Egli stesso combatte a fianco del popolo. Prima della traversata del Giordano si dice:
La colonizzazione viene considerata come benedizione di Dio, in ugual misura, da ebrei e cristiani. Eppure, si tratta inequivocabilmente di campagne di conquista e di sterminio, qualora le si guardi con occhi moderni. In più, esse vengono legittimate religiosamente e contrassegnate da straordinaria crudeltà.
Prima dell’ingresso degli Israeliti in Palestina, leggiamo quest’altro passo:
L’Antico Testamento è pieno di passi analoghi, in cui Geova chiama il suo popolo alla guerra e allo sterminio. E l’ubbidienza del popolo si mostra proprio nel fatto che esso traduce in azione quella divina sete di sangue.
Eroi religiosi come Mosè e Giosuè si rivelano, nella comprensione moderna, come criminali di guerra che, nella follia religiosa, vedono se stessi come strumento del loro Dio. Mosè può cantare:
E’ incomprensibile come la Bibbia, nonostante fantasie di violenza talmente sfrenate, venga considerata pur sempre come un’istanza morale, e che certi genitori devoti ne consiglino ancora la lettura ai loro figli. Eroi religiosi, infatti, possono facilmente impedire la formazione di un’etica umana. Nel suo libro “L’illusione di Dio” (p. 252, Mondadori 2007) Richard Dawkins racconta di un esperimento condotto in Israele con più di 1000 studenti di età compresa tra otto e quattordici anni, ai quali era stata letta la descrizione della battaglia di Gerico:
Dopodiché fu posto ai ragazzi il quesito, se Giosuè e gli Israeliti avessero agito giustamente oppure no. Due terzi dei ragazzini trovarono giusto quel comportamento. Perché? Perché Dio l’aveva ordinato, eppoi gli abitanti di Gerico avevano una religione diversa, fu la risposta che i giovani diedero come motivazione. Per gli studenti israeliani, Giosuè è semplicemente un eroe popolare, e questo glielo ha inculcato la loro religione. Le sue gesta sono pertanto non solo giustificate, ma persino giuste. Interessante è il risultato d’un gruppo di controllo. Con 168 studenti israeliani viene sostituito il nome Giosuè col nome General Lin, e il nome Israele con la dicitura un regno cinese di 3000 anni fa. Potete forse immaginarvi il risultato? Solo il 7 % giudicarono buona la condotta del Generale Lin, mentre il 75 % la condannò recisamente.
Molte storie dell’Antico Testamento, viste da una prospettiva etica, sono più che inquietanti. Nel libro della Genesi, 22, Abramo dovrebbe sacrificare suo figlio Isacco, perché Dio, come si legge, vuole metterlo alla prova. Abramo è ben deciso ad ubbidire, e solo nel momento conclusivo Dio spiega l’evento quasi come un pesce d’aprile divino. Questo racconto, d’una realtà religiosamente perversa, viene nondimeno valutato nelle chiese come prova di grande vigore nella fede. Ma un padre disposto a macellare il proprio figlio in ottemperanza ad un comando religioso, dovrebbe davvero rappresentare un modello? O non si incarnano in ciò, piuttosto, fanatismo e follia religiosa? Eppure, anche una storia di questo genere viene ritenuta di norma alla portata delle menti infantili.
La sorella di Jefte, d’altro canto, ebbe meno fortuna (Giudici 11, 28–40). Suo padre aveva giurato, in caso di vittoria contro gli Ammoniti, di sacrificare la prima cosa in cui si fosse imbattuto in casa. E questa fu però la sua amata figlia. Egli si dispera e si lagna, eppure non vuole mancare di parola: la figlia deve morire. Dunque, Jefte è anche lui un eroe della fede? O non è piuttosto un fanatico religioso che non arretra nemmeno di fronte all’infanticidio? Che Dio è questo che pretende vittime siffatte, e che individui sono questi, pronti a fare sacrifici del genere?
Col diluvio universale, questo Dio fa sparire senz’altro l’umanità tutt’intera. Naturalmente, ciò non è mai accaduto; gli Israeliti si servono qui, in maniera dimostrabile, di elementi scenici desunti dalla mitologia babilonese. Tuttavia, quale immagine divina viene fuori da questo devoto racconto? Noè e la sua arca sono ancora oggi, nelle scuole d’infanzia cristiane, soggetti di facili e pratiche applicazioni per pomeriggi di gioco e di passatempi. Un genocidio come gioco d’infanzia? E la colomba un reale simbolo di speranza? Dopo che il resto del mondo è stato affogato proprio dal suo creatore?
Preoccupanti, inoltre, le minacce totalmente camuffate e i castighi minacciati per il caso che Israele non ubbidisca. Nell’Antico Testamento, la sottomissione totale, da schiavi, sembra essere la virtù suprema.
In queste massime, per la verità, sembra manifestarsi una certa alienazione mentale. Naturalmente, minacce talmente primitive non possono essere per davvero discorsi d’una divinità. A nessun Dio si dovrebbe imputare un livello così infimo. Tutte queste calamità altro non sono che invettive inventate e gesti intimidatori di circoli interessati, prodotti senza dubbio, in massima parte, dalla classe sacerdotale dominante. Anche questo, tuttavia, non ha molta rilevanza; essi attaccano spesso con l’introduzione Così parla Dio (co amar Jahwe), ed intendono pesare come parola di Dio. E non v’è dubbio che perlopiù come tali si siano considerati, e che lettori bigotti della Bibbia, (oltre che un cattolicesimo integrale, non intaccato dall’Illuminismo), tali li considerino ancora oggi. Da respingere totalmente, in ogni modo, sono l’immagine divina e le massime etiche che qui si trasmettono. E che si contrappongono in maniera estrema, assolutamente antitetica, ai valori del nostro ordinamento sociale. La Bibbia mostra, in buona sostanza, come non si debba agire in nessun modo.
Prima dell’uscita dall’Egitto, questo Dio fa annunciare per bocca di Mosè:
Alla sua minacce, Geova fa seguire i fatti, tormentando ancora gli Egiziani con una serie di nuove piaghe. Anche qui va pur detto: non è che ciò sia accaduto realmente; gli storici sono infatti d’accordo che si tratta di successivi abbellimenti d’un evento molto più prosaico, quando non sia stato poi inventato di sana pianta. Decisiva, anche qui, l’immagine d’un Dio macellaio, per il quale è palese come qualsiasi mezzo serva allo scopo.
Corre e ricorre senza tregua la ferocia sadistica di Geova, che manda fuoco e inondazioni, che divora le nazioni, e poi addenta le loro ossa (Num 24:8), che ordina la carneficina di donne e bambini, che impegna i suoi amici finché non sia distrutto e cancellato (Deut 28:61), qualora il popolo non ubbidisca. Sotto tali invettive, per i popoli stranieri non resta in pratica alcuna possibilità di crescita. Nel profeta Isaia, negli “Oracoli contro le nazioni”, riferendosi al castigo di Babilonia, si dice:
I Medi devono essere sfruttati perché Israele non è più in grado di difendersi contro il regno dei Babilonesi, superiore non solo militarmente, ma anche sul piano culturale. Per il resto, anche i Medi, che Geova chiama alle armi, non hanno potuto cambiare nulla dell’egemonia dei Babilonesi. Sogni di ambienti sacerdotali!
Particolarmente perfida è la costruzione secondo cui Geova stesso indurisce popoli e uomini, al punto che questi subiranno la punizione.
L’azione e i comportamenti di Geova si riscontrano anche in altre azioni belliche. Riguardo agli Egiziani così si dice nel profeta Isaia:
L’intenzione non è tanto gentile. Verso i credenti di altre fedi, d’altronde, non c’è mai molta simpatia. E si ripetono proclami e appelli a distruggere luoghi di culto stranieri. Nel cosiddetto Decalogo cultuale si legge:
Anche questo, per la verità, non è un contributo molto significativo al dialogo interreligioso. Per significare la tolleranza, nella lingua ebraica, non esisteva ancora la parola. I seguaci di altri culti vengono perseguitati e uccisi, l’uccisione di sacerdoti di Baal è ricordata con parole di elogio. Ma anche chi, nella propria gente, vuole servire divinità straniere, quindi si discosta dalla linea religiosa, dev’essere punito, indubbiamente con la pena di morte. Il che vale anche per consanguinei e parenti, come si inculca in forma assai persuasiva:
Ebbene, non è soltanto per l’istigazione alla delazione che qui si ridesta la memoria a brutti capitoli della recente storia tedesca. Dopo l’adorazione del vitello d’oro, Mosè sostiene che la reazione non deve restare nella teoria:
Non uccidere il tuo prossimo? Questa pare di averla già udita in modi diversi. Si percepisce quanto questi testi antichi siano lontani dai nostri princìpi etici, e quanto abissalmente si allarghi qui il fossato della storia. E si comprende l’esigenza che testi siffatti non abbiano più nulla da dire ad una società libera e tollerante. Staranno bene nell’armadio dei veleni della storia, ma in nessun caso, oggi, nelle mani dei fanciulli. E’ oramai un segno di religiosa deformazione; sono i casi in cui persone credenti non avvertono più il profondissimo carattere disumano di passi siffatti. Non è solo l’amore a rendere ciechi.
Lontano da ideali di tolleranza e umanità è anche la pena di morte che il Dio biblico decreta personalmente per trasgressioni relativamente veniali. Una raccapricciante elencazione di esse si trova nel libro di Franz Buggle Denn sie wissen nicht was sie glauben//Poiché non sanno quello che credono, che presenta una visione globale sui momenti disumani e spregiatori dell’umanità ricorrenti nell’Antico e nel Nuovo Testamento, guardando non solo alla pena capitale. Tra le colpe che meriterebbero la morte rientrano non soltanto l’omicidio (solo per i connazionali!) e l’apostasia religiosa, bensì anche adulterio (quello della donna, in ogni caso), la divinazione, l’accoppiamento durante le mestruazioni e la sodomia. Meritevoli di morte si consideravano inoltre raccogliere legna da ardere nel sabato, il consumo di pani lievitati nella festa pasquale, il consumo di alcool del sacerdote prima della liturgia, ma anche mangiare carne vecchia più di tre giorni. Meritava la morte anche il contatto col monte Sinai e lo scorretto abbigliamento del sommo sacerdote nel tempio. Con la morte si doveva altresì punire il rapporto sessuale prima del matrimonio, il silenzio d’una fidanzata durante uno stupro e, manco a dirlo, l’omosessualità. Anche figli che si mostrassero schivi o riottosi potevano essere lapidati (cfr. Buggle, op. cit., p. 94 ss.).
Stessero tali precetti negli scritti di popoli sconosciuti, li si guarderebbe a buon diritto come primitivi (nel senso assolutamente negativo del termine). A questa Bibbia, per contro, credenti e Chiese accreditano pur sempre competenza e rilevanza in fatto di etica. E non si deve pensare che i passi spregiativi dell’umanità siano soltanto eccezioni. Il teologo conservatore e gesuita Raymund Schwager constata:
L’Antico Testamento è un documento di estremismo religioso, di apoteosi della violenza e dell’intolleranza. E’ impregnato di razzismo, intriso di disprezzo per chi pensa diversamente, improntato da perverse fantasie punitive e imbevuto di un’etica arcaica e retriva. “I vecchi libri ebraici, così acciabattati, presentano un Dio provinciale, di umore tetro, inesorabile e sanguinario, che metteva paura al massimo grado ogniqualvolta era di umore buono: la classica caratteristica del dittatore.” (Christopher Hitchens, Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa, tr.it. Einaudi 2007).
Nel nostro mondo culturale, tuttavia, ci si è abituati a leggere l’Antico Testamento alla luce del Nuovo, interpretando appunto il Dio veterotestamentario secondo l’ottica del Nuovo. E il Dio neotestamentario viene percepito, almeno in prima battuta, come un Dio dell’amore, come padre di Gesù Cristo. Passaggi nell’Antico Testamento che non corrispondono a questa prospettiva, vengono inconsapevolmente ignorati o aggirati, e non ricorrono certamente nei cicli omiletici delle varie Chiese. Disumanità e dispregio dell’umano si trovano tuttavia anche in persone altamente apprezzate nella predicazione, oltre che in parti della Bibbia che godono per principio di alta considerazione.
Il re Davide, il più importante sovrano di Israele e di Giuda (sebbene il suo impero non fosse più grande della regione federale dell’Assia), viene onorato come eroe della fede fino alla nostra epoca, e molti salmi vengono (falsamente) attribuiti a lui. Prima del suo regno, però, Davide fu per sedici mesi – come si può leggere nella Bibbia (1 Salmi 27:1-12) – una specie di capo di bande armate presso i Filistei, in quell’epoca i più pericolosi nemici di Israele. In tale ruolo, Davide invase la regione, non lasciando anima viva dietro di sé. Solo in seguito avrebbe invertito le parti, combattendo contro i suoi ex protettori. Perché i Filistei gli avevano concesso protezione davanti al suo oppositore Saul. Davide sposò in seguito la sorella di Saul, impegnandosi in cambio a donare a Saul i prepuzi di 100 filistei (!). Per i suoceri, oggi, si consiglia piuttosto una cesta di vini … Davide fa senz’altro la festa a duecento filistei.
In quanto re, Davide muove guerra praticamente ininterrotta a quasi tutti i popoli e le tribù limitrofe:
Gli abitanti catturati di Rabbà, città degli Ammoniti, Davide “li impiegò alle seghe, ai picconi di ferro e alle asce di ferro e li trasferì alle fornaci da mattoni; allo stesso modo trattò tutte le città degli Ammoniti.” (2 Sam 12:31)
Com’è facile intuire, l’idea di bruciare corpi umani nei forni di mattoni, dopo la Seconda Guerra mondiale, è stata penosa a tal punto, per la Chiesa evangelica, da indurla – in contrasto con la classica traduzione di Martin Lutero – a cambiare il testo in “li fece lavorare nelle fabbriche di mattoni” (Karlheinz Deschner, Storia criminale del Cristianesimo, tr.it. vol.I. p. 86). Nel primo Libro di Samuele, 6:19, si racconta che Davide aveva fatto uccidere 50.700 persone solo perché avevano gettato uno sguardo furtivo sull’arca dell’Alleanza. Anche qui, dalla versione di Lutero, la EKD [Chiesa Evangelica di Germania] ha ricavato niente più che un “numero discreto di settanta uomini” (Deschner, ibidem, p. 88)
Naturalmente, si potrà pure ipotizzare che anche le atrocità furono esagerate in molti passaggi. Nella realtà, un capopopolo appariva allora tanto più potente quanto più era spietato. Tuttavia, indipendentemente dagli effettivi avvenimenti storici: quale arretrato livello etico si manifesta qui, per l’ennesima volta? A causa della loro vivacità, anche le storie di Davide vengono volentieri messe in scena nelle scuole cristiane dell’infanzia. Ma noi, non abbiamo proprio nulla di meglio da proporre ai nostri bambini?
Malgrado tutte le gesta violente: in un canto di ringraziamento, Davide si gloria e vanta oltre misura, in quanto vede se stesso, pur con tutto quello spargimento di sangue, in sintonia con il volere di Dio.
Quando un condottiero può parlare in questo tono (nonostante che il salmo non sia attribuibile a Davide), e l’intero capitolo si mantiene su questa tonalità, ecco che i credenti sono ben disposti a non guardare troppo per il sottile alle sue gesta. Anche Geova esalta appositamente Davide, in quanto egli ha fatto ciò che a lui è piaciuto. Certo, bisogna liberarsi completamente dal pensiero che l’Antico Testamento intenda ciò in qualche modo spiritualmente, oppure in senso traslato. L’assassinio viene giudicato positivamente, solo che avvenga in buona fede. Non diversamente l’hanno vista pure i terroristi islamici dell’11 Settembre 2001.
L’infelice Saul, primo re d’Israele e predecessore di Davide, era stato in principio anch’egli un prediletto di Geova. Il quale, riguardo al precedente profeta Samuele, gli aveva comandato:
Per bocca di Samuele, Geova fa criticare non solo Saul, ma gli toglie pure il suo regno. Saul vuole discolparsi con belle parole, risparmiando il meglio del bestiame minuto e grosso come offerte sacrificali, deve sentirsi dire: “obbedire è meglio del sacrificio”. Un versetto, su cui nelle chiese cristiane si imbastiscono volentieri prediche edificanti, senza badare più precisamente al contesto.
In effetti, con tutti questi furori divini di annientamento e di vendetta, non sarebbe preferibile una disubbidienza di principio? Mostrarsi clementi verso gli uomini scorticati, quando Dio si mostra così spietato? Naturalmente, un pensiero siffatto non era nella mentalità di chi agiva in quel tempo: bisogna ammetterlo, era un pensiero anacronistico. Eppure: cosa si vuole ottenere oggi, proponendo storie del genere? Che cosa si vuole trasmettere ai credenti, che cosa possono imparare i bambini da codeste storie se non un’ubbidienza “cadaverica”, seppur imbellettata in forme religiose?
Questo è certo: il Dio dell’Antico Testamento presenta incolmabili deficienze etiche; gli scritti veterotestamentari, gli eroi religiosi – mitologici in tutto o in parte – non sono affatto idonei a trasmettere valori.
Di particolare popolarità gode nelle chiese la recitazione dei Salmi. Nelle letture liturgiche, essi vengono assai spesso presi in considerazione e raccomandati alla meditazione come libro di preghiere della Bibbia. Ebbene, chi si aspetta qui finalmente qualcosa di profondamente meditativo, una spiritualità intima, subisce un’altra delusione. Anche qui prevalgono fatti violenti e volontà di distruzione. Per Buggle, i Salmi sono “un testo dettato in molte parti, e in misura raramente riscontrabile altrove, da sentimenti di odio primitivo e incontrollato, da bisogni di vendetta e di altezzosità” (cfr. Franz Buggle, op. cit., p. 75–81, 102–111, cit. a p. 103). Subito, fin da principio, si magnifica Geova:
Salvami, Dio mio!
Tu hai colpito alla mascella tutti i miei nemici,
hai spezzato i denti dei malvagi.
(Salmi 3:8)L’orante loda Iddio:
[…] Hai minacciato le nazioni, hai sterminato il malvagio,
il loro nome hai cancellato in eterno, per sempre.
(Salmi 9:6)Per te abbiamo respinto i nostri avversari,
nel tuo nome abbiamo annientato i nostri aggressori.
(Salmi 44:6)Il Signore è alla tua destra!
Egli abbatterà i re nel giorno della sua ira.
Sarà giudice tra le genti,
ammucchierà cadaveri,
abbatterà teste su vasta terra.
(Salmi 110:5-6)
Disgustosi e ripugnanti sono versetti come quelli scagliati contro Babilonia:
Idee primitive di vendetta, connesse con un’alterigia disumana e sprezzante che non si può immaginare più radicale. Nelle chiese, ciò nondimeno, si prega cantando “Lodate il Signore, perché è gentile, e la sua bontà dura nei secoli dei secoli.”
Pazzesco!
Si può comprendere Buggle quando, riferendosi al Salterio, non può non constatare “che da molto tempo non ho incontrato un testo impregnato di odio e di smania di rappresaglia altrettanto straripante.” (Buggle, op. cit. p. 104) Eppure, dall’Antico Testamento non abbiamo negli orecchi toni del tutto diversi? La selezione dei passi certamente inquietanti non è assai unilaterale? Non si trovano pure molti momenti positivi riguardanti il Dio dell’Antico Testamento?
Naturale che così sia. Solo che l’unilateralità del florilegio non è da imputare a Buggle, bensì alle Chiese, le quali ci presentano un’immagine di Dio che, secondo le opportunità, può essere messa in congiunzione con le immagini divine del Nuovo Testamento, sicuramente più gentili. La maggior parte dei passi incriminati un devoto frequentatore del culto non li udrà mai, in tutta la sua vita. Nelle chiese, semplicemente, a causa dell’imbarazzo che ne deriva, quei passi non vengono mai utilizzati. In più, in un’antologia biblica privata, si estrarranno inconsciamente, com’è ovvio, quei passi che suscitano al meglio sentimenti di pietà. L’inconscio stesso, in questo, assume una sorta di censura, interpretando le atrocità in maniera compatibile con la devozione.
Il dilemma etico consiste nel fatto che, nell’Antico Testamento, testi da interpretare in senso positivo e negativo sono in pratica connessi senza soluzione di continuità tra di loro. La bontà di Dio viene lodata, appunto perché ha annientato i nemici. Considerato che Dio è leale, riuscirà a sopprimere i diversamente credenti. Visto che Dio esaudisce le preghiere, i nemici dell’orante morranno. E spesso, nelle immediate vicinanze di passi sentiti come positivi, si trovano versetti e momenti intrisi di disprezzo per l’umanità. I profeti, in questa breve panoramica, non hanno ancora preso la parola, ma anche qui il bilancio etico è devastante. Ognuno conosce i versetti seguenti tratti dalla liturgia per il Natale:
Sono versi che assecondano perfettamente i gusti di un animo religioso. Sennonché, solo alcuni versetti dopo, il momento idillico è turbato di nuovo con l’annuncio d’un castigo divino. Dio stesso istiga i nemici di Israele, aizzandoli contro di loro (Isaia 9:10), per cui si preannunciano di nuovo caos e distruzione:
Non esiste quasi un passo segnato da un’immagine positiva di Dio che non venga contrappuntato e contraddetto, già pochi versi più avanti, nei suoi contenuti assertivi. Nei Salmi, in particolare, il bastone e la carota si avvicendano senza tregua. Ma è il bastone a predominare.
Come si vuole oggi, in ogni modo, utilizzare per ammaestramento religioso ed etico un Libro Sacro, che reca in maniera indifferentemente spregiudicata passaggi inquietanti, innegabilmente presenti nell’Antico Testamento, accanto ad un’etica vendicativa talmente primitiva? Un libro siffatto può davvero essere d’aiuto per l’orientamento spirituale o religioso? Non vi furono, già nel mondo antico, testi di valore e livello essenzialmente maggiori? Su questo punto non v’è alcun dubbio: la Bibbia è il libro della letteratura mondiale di gran lunga più sopravvalutato. Tale asserto si attaglia, in misura particolare, all’Antico Testamento. In ultima analisi, esso deve la sua rilevanza ad una connessione, in principio quasi fatidica ed ineluttabile, col cristianesimo che si andava propagando. Sicché, come in un sistema di coincidenze, il Cristianesimo fu costretto a rimorchiarsi l’Antico Testamento come una incresciosa eredità attraverso i secoli … E’ stato il grande studioso Adolf von Harnack a formulare questa situazione in un passaggio assai citato del suo libro su Marcione:
Oggi, nel XXI secolo, anche per molti parroci sono francamente imbarazzanti l’immagine autoritaria di Dio e la concezione arretrata dell’uomo e della società, quali risultano da numerosi passi dell’Antico Testamento. Il livello etico di quanti operano nelle Chiese supera di gran lunga la qualità etica del Dio veterotestamentario. In pratica, nessun parroco predica oggi nello “spirito” o – per meglio dire – nella materialità dell’Antico Testamento. E si tratta soprattutto di pastori protestanti che, in seguito ad uno studio, si sono occupati anche sul piano scientifico delle tradizioni, praticando una teologia purificata dall’Illuminismo europeo ed impegnandosi non solo nella Chiesa, ma altresì nella società. Costoro sono naturalmente consapevoli dei problemi esistenti con l’Antico Testamento, anche se li vorranno interpretare come debolezze, più che come fondamenti etici. Da questa materia, cercano insomma di trarre il meglio che si può. Il mondo cristiano vive, tra l’altro, del fatto che i suoi funzionari possiedono un fondamento etico migliore di quello presentato nella mentalità veterotestamentaria; vive perché oggi viene annunciato un Dio che non si orienta affatto su quel Dio che si comporta come un essere collerico incapace di controllarsi.
Accozzaglia di storie nell’Antico Testamento
[modifica | modifica sorgente]Al fine di riabilitare Geova, tuttavia, si potrà dire che non è assolutamente lui quello che parla nell’Antico Testamento, bensì che sono piuttosto cerchie sacerdotali, che mettono in bocca al loro dio la loro provinciale etica di gruppo. Regolamentazioni umane vengono spacciate per comandamenti di Dio, esigendo in quanto tali un’autorità incondizionata, in quanto derivatagli da Dio. E’ un vecchio trucco: lo si può osservare di frequente nella storia delle religioni. In ultima analisi, non è Dio, pertanto, ad essere crudele e disumano; ma no, sono i suoi adoratori a rivelarsi tali. Sono loro ad aver portato il loro Dio a questo punto. E solo così diviene comprensibile perché vi siano tante parole divine per cose relativamente insignificanti. Anche devoti lettori della Bibbia si saranno già chiesti perché Geova si preoccupasse allora di qualunque inezia. Nessun Dio, che abbia un po’ di autostima, si interesserebbe mai per la confusa varietà di precetti rituali, che vengono trattati nel Pentateuco.
Certo è che ambienti sacerdotali manifestarono un interesse straordinario per precetti di quel genere. Sono essi, in effetti, i veri e propri autori delle sentenze divine. E non avevano evidentemente nessuno scrupolo a fare un uso intensivo di codesti mezzi, arruolando il Dio a vantaggio del quotidiano affare rituale. I sermoni di Dio sono dunque, nell’AT, falsificazioni intenzionali: la formula co amar Jahwe, cioè il Così parla Geova, non introduce affatto un parola di Dio, bensì rispecchia unicamente problematiche cultuali e comunitarie d’una società strutturata, com’era più di 2000 anni or sono.
Con noi, codeste regole non avrebbero nulla a che fare, precisamente come le leggi rituali d’una tribù dei mari del Sud avrebbero a che fare con noi, se l’Antico Testamento non seguisse come un’ombra il Cristianesimo, riconoscendogli una notevole rilevanza per la vita dei credenti.
Si tenga presente, ancora una volta che, per il giudizio etico, non ha nessuna importanza che un Dio abbia detto veramente qualcosa, anzi il fatto che egli abbia detto davvero una qualunque cosa. Determinanti sono solo questi fatti: quali dichiarazioni gli siano state ascritte nella Tradizione, quale immagine del mondo, di uomini e di Dio, si manifesti in essi, quale etica vi si rifletta.
Ma chi era in fondo davvero Geova, se le sue parole risalgono alle invenzioni dei sacerdoti? Questo quesito ci allontana alquanto dal nostro tema, che dovrebbe ruotare intorno al cristianesimo e a Gesù di Nazaret. In ogni modo, alcune informazioni sullo stato delle indagini veterotestamentarie e del Dio rispettivo non sono prive di interesse. Nella coscienza generale, infatti, e tanto più nei bigotti ambienti clericali, l’Antico Testamento appare pur sempre come un blocco relativamente unitario, quantunque composto da numerosi scritti con svariate accentuazioni. Al contrario, la ricerca sull’Antico Testamento, impiegando i mezzi della critica storica, ha cercato di descrivere il carattere differenziato e l’evoluzione di quegli scritti. Da quasi duecento anni, per esempio, la critica delle fonti si sforza di accertare le parti originarie, soprattutto del Pentateuco, ossia dei cosiddetti cinque Libri di Mosè. L’indagine urta così contro problemi molto più complicati che nella ricerca sul Nuovo Testamento, giacché alla base del Pentateuco si riscontrano stratificazioni molto più profonde di testi tramandati.
E’ chiaro, in tutti i casi, che l’immagine dell’epoca più antica di Israele è una costruzione di epoche successive, di tempi spesso molto più tardi, e che molte cose, che ci sono rimaste familiari dall’insegnamento religioso, non si svolsero affatto in quei termini. I Capitoli precedenti hanno cercato, sulla base dei risultati della ricerca veterotestamentaria (non muovendo in nessun modo, quindi, dalla prospettiva dell’autore) di evidenziare le basilari differenze tra la rappresentazione biblica e la ricerca storico-critica.
I patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, genealogicamente collegati nell’ Antico Testamento, erano in origine tre differenti patriarchi tribali, che si presume non avessero nulla a che vedere tra di loro. Se si tratti di figure storiche, è assolutamente incerto. Non esiste infatti “nessun punto di appoggio, riguardo a luogo e tempo, circa le premesse e le circostanze di vita delle figure umane dei patriarchi per affermare qualcosa di sicuro su piano storico”, afferma lo studioso veterotestamentario Martin Noth nella sua celebre Storia di Israele. Ogni gruppo adorava evidentemente uno o parecchi dèi differenti, i cosiddetti “dèi dei padri”, dei quali sono presenti ancora alcune tracce in denominazioni come “il Dio di Abramo”, oppure il “Dio di Isacco” (Gen 31:42), oppure “il potente di Giacobbe” (Gen 49:24) (si veda l’opera classica sull’argomento di Albrecht Alt, intitolata appunto Der Gott der Väter, 1929). Nella loro qualità di nomadi, o seminomadi, questi gruppi vagavano ai margini delle zone coltivate. Successivamente, quando queste tribù si unirono con altri gruppi e divennero stanziali, anche le tradizioni patriarcali si dovettero unificare in qualche misura. E lo si fece allineando i padri in una successione genealogica. Isacco diventò dunque il figlio di Abramo, e Giacobbe il figlio di Isacco. A poco a poco, vennero riallineate anche le rappresentazioni divine.
Secondo la tradizione, Giacobbe ebbe dodici figli. Da questi, tuttavia, non uscirono poi le dodici tribù, come costruisce l’Antico Testamento, ma viceversa: bisogna prima presupporre già l’esistenza delle tribù, e solo in seguito esse vennero fatte risalire ad un patriarca. Epoche successive hanno comunque elaborato le tradizioni patriarcali, cercando di costruire un’origine comune del popolo di Israele, che per ogni popolo resta sempre in qualche modo avvolta nell’oscurità. Anche le storie bibliche non possono nascondere l’apparenza d’uno schematismo. La preistoria di Israele è dunque un’affabulazione di tipo storico: più poesia che verità.
Nelle zone coltivate della regione convennero dunque diversi gruppi autonomi. Ci si incontrava nei luoghi centrali del culto, per esempio presso santuari arborei o colline sacre, sentendosi più vicini sul piano culturale, e sicuramente anche su quello umano. Di questi gruppi tribali fece parte anche quello che introdusse la tradizione dell’esodo. (Si veda l’articolo “Motivo dell’esodo” nella Enciclopedia Teologica TRE, vol. 10, p. 733–736, di S. Hermann.) Dal duro lavoro dipendente sotto gli Egizi, forse all’epoca di Ramsete II (circa 1298-1213 AEV) questo gruppo si poté liberare da una condizione di semischiavitù, interpretando poi questo evento come effetto voluto dal (loro!) Dio. I prodigi abbelliti, collegati con quell’evento, sono invenzioni più tarde.
Non fu l’intero popolo di Israele a trovarsi in Egitto e a fuggire da quella cattività, ma probabilmente soltanto un gruppuscolo molto minoritario. Anch’esso si fece vedere nei santuari allora conosciuti, che certo non servivano esclusivamente alla venerazione da parte d’un solo gruppo. Una successiva visione delle cose ha quindi messo in relazione la tradizione dei patriarchi, già allineata in senso genealogico, con la tradizione dell’esodo. Secondo quest’ultima, vi fu dapprima Giuseppe, un figlio di Giacomo, e poi seguirono i suoi consanguinei. E così si forma quell’immagine che la Bibbia trasmette, somigliante a quella che molti hanno appreso nelle lezioni di religione: che l’intero popolo di Israele fosse partecipe di questo esodo. Venne trasferito sul popolo, visto nella sua interezza, ciò che in origine fu solo tradizione di qualche gruppuscolo.
Un’altra pietra miliare nella costruzione israelitica della storia fu la tradizione del Sinai. Dove si trovasse questo monte, fino ad oggi non si può determinare con precisione. In ogni modo non si trova sulla penisola del Sinai, dove oggi si trova il monastero di santa Caterina.
Questa tradizione del luogo esiste solo dal VI secolo postcristiano. Certi elementi fanno ritenere che il monte Sinai si trovasse nel nord della penisola arabica, probabilmente nel territorio dei Midianiti. Dobbiamo comunque ipotizzare, anche qui, l’esistenza d’un luogo sacro, un monte di culto per gruppi che conducevano vita da nomadi, e gruppi già stanziali. Orbene, qui un altro gruppo tribale ebbe una rivelazione di carattere in qualche modo divino. E la introdusse poi, a sua volta, nel mondo culturale palestinese, contribuendo a farne un comune patrimonio di tradizione. Anche la Tradizione del Sinai si trasforma così in qualcosa che il popolo intero crede di aver vissuto, ma di cui soltanto un gruppo aveva avuto esperienza diretta.
I risultati della ricerca storica producono quindi un’immagine diversa da quella trasmessa dall’Antico Testamento. Che esistessero diverse tradizioni patriarcali, con la venerazione di dèi forse differenti, appare ormai chiaro. Oscuro è invece come si chiamassero i patriarchi, nonché ciò che costoro vivessero nelle situazioni specifiche. Taluni racconti sono narrati da parecchi patriarchi come duplicati. In principio, comunque, questi padri capostipiti non ebbero niente in comune tra di loro, ma furono messi in un reciproco rapporto genealogico solo mentre si svolgeva il processo di stanzializzazione. Un esodo del popolo intero di Israele (che allora, come popolo, non si era ancora costituito) non ci fu mai, mentre si ebbe certamente la Tradizione dell’Esodo d’un gruppo che poi, in una successiva visione d’insieme, si sarebbe trasferito sul popolo intero. Anche la Tradizione del Sinai fu in origine autonoma. Non ebbe a che fare né con le tradizioni dei patriarchi né con quella dell’esodo. Abbiamo dunque, invece di una cordata di tramandamento biblico-lineare, l’integrazione progressiva, scaturita da tradizioni singole, verso una tradizione unitaria e complessiva.
Quale posizione ebbe allora un personaggio come Mosè, che pure gioca un ruolo rilevante in parecchie tradizioni? E’ lui il condottiero che guida Israele fuori dall’Egitto? Oppure fu, originariamente, solo connesso con la Tradizione del Sinai, addirittura un sacerdote di quella? Non sono stati pochi i ricercatori a ritenere la figura di Mosè, nel suo complesso, tutt’altro che storica. Per loro, Mosè altro non è che una tarda parentesi artificiale, finalizzata all’integrazione delle differenti tradizioni. Tuttavia, comunque lo si voglia vedere, sta di fatto che la sua importanza aumenta fortemente nel corso della tradizione, ciò che depone più a favore della sua storicità, dalla quale oggi prendono le mosse anche quasi tutti gli esegeti. E allora Mosè sarebbe da allocare piuttosto nella tradizione del Sinai, dato che la tradizione dell’esodo viene tramandata anche senza la figura di Mosè (si veda il cosiddetto Piccolo credo storico, Deuteronomio 26:5-10).
In seguito, Israele avrebbe eroicizzato ed idealizzato oltre misura la cosiddetta colonizzazione. La regione di cultura palestinese, la terra dove scorrono latte e miele, era popolata da città-stato cananee, indipendenti le une dalle altre. La colonizzazione del territorio, che nell’Antico Testamento viene rappresentata come atto sostanzialmente belligerante, non ebbe luogo affatto in questo modo. Perché non fu certamente un grande popolo quello che dall’Egitto, attraversando il deserto, approdò finalmente ai confini della Palestina. Confini territoriali, in una struttura di città-stato, non sarebbero potuti in nessun caso esistere realmente. Erano gruppi isolati che, provenendo da direzioni diverse, si incontrarono e cercarono lentamente di prendere piede, sicuramente senza un progetto e, pertanto, anche senza un Giosuè quale comandante in capo. Solo più tardi questi accadimenti sarebbero stati stilizzati in una guerra di conquista.
Gli storici moderni si raffigurano la colonizzazione come un processo in larga misura pacifico: essa fu probabilmente una lenta infiltrazione di gruppi nomadi e seminomadi in un ambiente culturale caratterizzato da reami urbani. Un processo che si ripeterà anche in altri luoghi. Ancora per secoli abitarono gli uni a fianco degli altri, ciò che naturalmente non escludeva anche confronti bellici. Eppure Gerico non fu conquistata dagli Israeliti, essendo in quel tempo già distrutta, come ha dimostrato la ricerca archeologica. E neppure ebbe luogo la distruzione del regno di Ai (Giosuè 7–8), e in ogni caso non per opera degli Israeliti. Di questa città, infatti, non si conosceva neanche più il nome: Ai significa, tradotto alla lettera, campo di macerie.
Molto più inoffensiva, insomma, bisogna immaginarsi la storia primordiale di Israele, ingigantita ed eroicizzata solo per effetto d’una storiografia posteriore. Gli Israeliti non ebbero affatto la possibilità di espandersi con più forza. Persino il grande regno di Davide era piccolo, in proporzione; questo sovrano fu più un principe di provincia che un grande monarca, e il suo piccolo territorio era, per giunta, costituito in grande parte da zone desertiche. Ammesso che fosse esistito (fonti egiziane e mesopotamiche non ne fanno menzione!), questo reame dovette la sua condizione di momentanea debolezza tanto alla grande potenza d’Egitto quanto a quella dei popoli mesopotamici. Forse persino re Davide è una finzione storica, analoga a quella leggendaria del re Artù nell’antica Britannia. In prevalenza, tuttavia, la ricerca prende le mosse dalla sua storicità. In tutti i casi, l’importanza del regno di Davide fu in seguito fortemente ingrandita ed esagerata oltremodo.
Carriera d’un Dio
[modifica | modifica sorgente]L’Antico Testamento offre al lettore un’immagine della storia che rappresenta uno stadio, tardivamente formulato per iscritto, d’uno sviluppo protrattosi per parecchi secoli. Singole tradizioni furono cucite insieme a formare un quadro complessivo, i cui limiti di rottura si possono peraltro riconoscere più o meno chiaramente. Ed è un quadro idealizzato quello che ci offre l’Antico Testamento; e chi potrebbe mai aspettarsi qualcosa di diverso? Anche altri popoli si sono ritagliati su misura la propria storia di fondazione. Leggi e ordinamenti vengono retrodatati e ascritti possibilmente ad un dio, o quantomeno ad un capopopolo carismatico.
L’ordine giuridico religioso, fondato presuntivamente per virtù di parole divine, sussiste già nella creazione delle parole divine stesse, essendone lo specchio. Tramite il discorso di Dio, non è Dio che parla al suo popolo eletto, bensì un ceto religioso dirigente che parla alle sue truppe di fedeli. Le direttive di culto, comunicate direttamente o indirettamente al popolo attraverso il mediatore Mosè, non sono che il ricorso all’autorità divina per la migliore regolazione e legittimazione degli eventi cultuali. Geova in persona viene acquisito come garante della giustezza degli atti sacerdotali, da parte appunto della rispettiva classe clericale. Anche questo processo, d’altronde, si è verificato mille volte nella storia delle religioni. Ma chi era, insomma, questo Geova? Da dove veniva? Che cosa era, prima che Israele lo eleggesse a Dio? Ha anche lui una storia?
Naturale che ce l’abbia! Addirittura una storia di successi belli e buoni. Si potrà dire, anzi, che questo Geova è uno degli dèi più fortunati, che ha mietuto più successi in assoluto nella storia del mondo. E il segreto del suo trionfo sta nella sua insolita capacità di trasformazione, nella facoltà di rivendicare – o almeno di affermare – una continuità nucleare persino con manifestazioni chiaramente differenti. E il suo successo è il risultato, ovviamente, anche di coincidenze storiche, di quella fortunata casualità che ti fa essere nel luogo giusto al momento giusto.
Anch’egli, in ogni modo, aveva incominciato un tempo da piccolo. I primi passi del culto di Geova non furono spettacolari, ed ebbero luogo quasi all’esterno della Palestina. Sotto il nome divino di JHW, Geova affiora dapprima negli elenchi egiziani dei toponimi connessi all’epoca del faraone Amenofi II, intorno all’anno 1350 prima di Cristo. Si parla della regione dei “Beduini di Geova”. In quei luoghi, Geova significa sia il nome del Dio sia il nome di un monte, sul quale questo Dio era venerato. Secondo questa versione, Geova sarebbe stato una specie di dio della montagna, venerato nella Palestina meridionale da gruppi di beduini. I ricercatori mettono questi beduini in relazione coi Midianiti, un popolo bellicoso di cavalieri, di nomadi del deserto, che vivevano ad est del golfo di Acaba. Questa provenienza può produrre un effetto strano sui credenti; sta di fatto che questo dio, in origine, non aveva proprio nulla a che vedere con Israele. Intanto, ci troviamo ancora in epoca anteriore alla formazione d’uno Stato. E lui è ancora uno dei molti dèi locali, legato ad un luogo determinato: un Dio della montagna.
Entra in gioco, a questo punto, la Tradizione del Sinai. E qui, secondo l’Antico Testamento, ebbe luogo la decisiva apparizione del Dio: l’autoproclamazione del suo nome. Una parte delle tribù che avrebbero formato il popolo di Israele visse questo momento come un avvenimento centrale della propria vita. In seguito, troverà accesso nella tradizione globale di Israele. Si sono conservati ancora riferimenti, nell’Antico Testamento, al fatto che il Sinai era localizzato non sulla penisola del Sinai, ma nel territorio dei Midianiti. Geova era descritto addirittura come quello (dio) del Sinai (Salmi 68,9), e il Sinai viene localizzato nella direzione del monte Seir e del territorio Edom (Deut 33:2; Giudici 5:4, e poi più spesso), il che rinvia al territorio dei Midianiti. Una prova di ciò potrebbe essere, che Mosè viene designato (in Esodo 3,1) come genero di Jethro, del “sacerdote di Midian”. L’adorazione di Geova, quindi, sarebbe stata introdotta nel mondo acculturato di Palestina dalle tribù preisraelite, con la mediazione di Mosè, che in ogni caso è rappresentabile massimamente nella tradizione del Sinai.
Ma in quale Dio, dunque, credettero i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe? Hanno creduto in principio in un Dio unico e sempre identico, mentre in origine essi erano pure esponenti di tribù indipendenti? Sembra chiaro solamente che non possa essere stato il dio Jahwe, dal momento che la sua comparsa ebbe luogo – volendo presupporre senz’altro la sua storicità – intorno al 1200–1000 prima dell’èra cristiana. Sennonché Abramo, come pure gli altri patriarchi, devono essere visti in rapporto con la cosiddetta Migrazione aramaica (1500-1200 AEV). Inoltre, come luogo d’origine di Abramo (sempre con la riserva che i dati siano credibili!) viene indicato Ur nella Caldea, una città nel meridione dell’odierno Iraq. Di là Abramo sarebbe emigrato a Haran, situata all’incirca sul confine odierno tra Turchia e Siria.
La manifestazione di Geova, al nord della penisola arabica, è però localizzata in tutt’altro luogo. Dunque, né il luogo né il tempo concordano. Si urta pertanto contro il dato di fatto, abbastanza evidente per la storia religiosa, ma sconcertante per devoti cristiani (ed ebrei), secondo cui i patriarchi non credevano ancora in Geova. Il fatto è ragguardevole specialmente in riguardo ad Abramo, dato che la sua figura – vuoi nella tradizione cristiana vuoi in quella ebraica – spicca addirittura come capostipite e modello ideale della fede. E questo Abramo dovrebbe aver creduto ancora negli dèi stranieri?
Nell’Antico Testamento c’è memoria del fatto che la venerazione per Geova è ancora recente, ma tuttavia ancora presente.
In origine, le divinità El- non avevano nulla in comune con il culto di Geova. Ed è oscuro se originariamente esse fossero collegate con gli dèi patronimici, oppure se abbiamo qui a che fare con una terza forma divina. In questi versetti, ad ogni modo, ci troviamo di fronte ad una classica armonizzazione operata nell’immagine di Dio. Gli dèi originariamente differenti delle diverse tradizioni ricevute vengono, per così dire, incorporate sotto il nome comune di Geova, sulla base del motto: questo è stato sempre il medesimo Dio. E questa armonizzazione, affinché prenda piede effettivamente, viene messa in bocca a Geova. Come i patriarchi vennero collegati per via genealogica, sottraendoli pertanto alla concorrenza, così vennero ora unificate le concezioni divine (e più di tutto i nomi). Questi due aspetti furono inevitabili, se i diversi gruppi tribali volevano convivere nella regione civilizzata, oppure in zone limitrofe, quando la convivenza fu progredita al punto che una unificazione sembrò urgente e indispensabile.
Che le cose procedano anche più chiaramente, si può pure dedurre dall’Antico Testamento. Nel cosiddetta Alleanza di Sichem, Giosuè così parla al popolo:
Il successore di Mosè, Giosuè, nel solenne raduno di Sichem, impegna il popolo a servire il Dio unico. Dal che si può dedurre che le idee sulla fede delle tribù riunite erano state, in precedenza, ancora divergenti. E si può riconoscere che non tutte le tribù avevano vissuto l’apparizione sul Sinai giacché, diversamente, una tale obbligazione non sarebbe stata affatto necessaria. Eppure, come Israele diventò un popolo comunitario solo lentamente, allora sarà lecito anche ipotizzare che l’impegno alla venerazione d’un solo Dio non fosse assunto dall’oggi al domani. La Bibbia continua a mettere in guardia dalla tentazione di venerare dèi forestieri. E non solo parti del popolo, ma anche monarchi adoravano qualche volta divinità forestiere.
Si constata che gli eventi concreti furono molto più complicati di quanto vogliono far credere la visione glorificante dei discendenti e l’Antico Testamento. L’assoluta posizione egemonica di Geova fu realizzata relativamente tardi, forse solo nell’epoca posteriore all’esilio (intorno al 500 a. C.). Predecessori di Geova erano stati, in ogni caso, una lunga serie di tradizioni ed una molteplicità di dèi.
Alla fin fine, tuttavia, Geova riuscì ad avere la meglio. Con tutto ciò, d’altronde, non si era costituito ancora nessun monoteismo, come i credenti suppongono spesso erroneamente. L’esistenza di altri dèi non venne negata per lungo tempo nemmeno in Israele. Ancora il primo comandamento – col suo “Non avrai altro Dio all’infuori di me” – ammette implicitamente la loro esistenza. Ma Israele si avviò sulla strada della monolatria, della venerazione di un unico Dio. Si sa purtroppo assai poco dei concorrenti, contro i quali esso finì per imporsi. Però era ormai avviato su quella strada. Insieme con alcuni gruppi nomadi, che poi avrebbero formato con altri gruppi il popolo d’Israele, anch’esso era approdato nella terra promessa.
E per l’ex dio locale dei Midianiti – il dio della montagna Geova – ciò significò un salto nella scala della carriera, giacché il popolo di Israele aveva i suoi tempi migliori ancora davanti a sé, e con quei tempi anch’egli sarebbe cresciuto. Il suo popolo, eletto e prediletto, trasferì presto su di lui ogni sorta di sogni di potenza; tuttavia Geova fu sicuramente, già coi bellicosi Midianiti, il personaggio tuttofare, capace di tutto. E, per di più, i suoi tempi migliori dovevano ancora arrivare.
L’Antico Testamento: un deficit etico
[modifica | modifica sorgente]Gli scritti dell’Antico Testamento, da un punto di vista storico-religioso, sono sicuramente documenti di grande interesse. Dal punto di vista dell’etica moderna, però, sono in molti passi una catastrofe. Il Dio d’Israele vi si mostra talmente spesso nel suo lato peggiore, da non poter essere utilizzato come criterio discriminante per un agire responsabile, come base indiscussa di vita morale. Soltanto il metodo della “cava di pietra”, usato dalle Chiese, che consiste nel presentare ai fedeli i brani e i passi ispirati positivamente (che pure esistono), può avvalorare l’impressione che questo Dio abbia da dirci ancora qualcosa.
In epoche passate non era così. Una società e una religione, che sentiva se stessa come l’unica vera, considerando come proprio compito la massima diffusione anche con l’uso della violenza, può senz’altro ispirarsi anche all’Antico Testamento. E’ ciò che i missionari cristiani avrebbero poi praticato senza scrupoli. Soltanto nell’America centrale e meridionale questa ideologia religiosa, intrecciata con interessi di mera politica di espansione, causò nel secolo XVI milioni di morti. “Non devi far crescere in te la compassione.” (Deuter 25,12): ecco, a questo principio si sono conformati i conquistatori cristiani. Chi cerca valori moderni e universalmente riconosciuti, come tolleranza e giustizia, trova invece quasi solo intolleranza, egoismo e arroganza religiosa. Ci si conceda lo sfizio di sostituire, nei testi relativi, la parola Amaleciti con la parola Francesi; anche a chi arriva ultimo risulterà ben evidente donde vengano gli spiriti che si scatenano nei genocidi. I rabbini israeliani “discutono solennemente ancora d’oggi se l’ingiunzione di sterminare gli Amaleciti non sia, in cifra, il comando di liquidare i Palestinesi.” (Christopher Hitchens, God is not great// Dio non è grande, Einaudi, 2007, p. 102). Riferendoci a Stendhal e Nietzsche, potremmo dire: l’unica scusante di questo Dio è la sua inesistenza.
L’amore del prossimo, tanto esaltato e sbandierato dai cristiani, s’incontra nell’Antico Testamento solo in rari momenti. Nei quali s’intendono comunque solo gli appartenenti alla propria gente, i seguaci della propria religione. I parroci e i padri spirituali non sono da invidiare, oggi. Essi diffondono un messaggio che è sostanzialmente più pretenzioso e raffinato di quanto sia il picchiare e lo sgozzare che si riscontrano nell’Antico Testamento. Eppure sono vincolati al Dio biblico come ad un parente antipatico. Per chi, tuttavia, non sia obbligato alla fede cristiana, non c’è davvero nessun motivo di vedere nell’Antico Testamento più d’una miscellanea di documenti storici. Come si è detto, la Bibbia è il libro più sopravvalutato della letteratura mondiale. Per quanto riguarda l’Antico Testamento, tale dato di fatto è di tutta evidenza.
Del Nuovo Testamento abbiamo già parlato.