Utente:Monozigote/sandbox8
Preesistenza
Io ero nel tempo in cui non erano i Nomi, e nessuna traccia
v’era d’esistenza d’esseri.
E il ricciolo dell’Amico eterno era l’unica traccia di vero
e l’unico oggetto era Dio!
E tutti gli oggetti e i nomi promanarono da Me, in quell’attimo
eterno quando né Me né Noi v’era!
E in quell’attimo antichissimo e primo mi prostrai a Dio, quando
ancora Gesù non fremeva in seno a Maria.
Da un capo all’altro percorsi tutta la Croce, e tutti i Nazareni
conobbi: sulla Croce non c’era!
Nella Pagoda andai, nel tempio antico dei monaci andai:
nessun colore, colà, m’apparve di Lui.
Le redini della ricerca volsi allora alla Ka’ba, ma là, in quella
meta di giovani e vecchi, nulla v’era.
E viaggiai verso Herat e viaggiai verso Qandahar, e sotto
cercai, e sopra cercai; ahimè, anche là non era!
E volli spingermi ancora fino alla cima dei monti Qaf ai confini
del mondo della Fenice eterna, là, traccia non v’era!
E ne chiesi allora alla Tavola di Diaspro e al Calamo di Dio,
ma, e l’uno e l’altro muti, non fecero parola.
E l’occhio mio, capace solo di Dio, non vedeva dovunque altro
che qualità e forme estranee all’Eterno.
E, infine, mi fissai lo sguardo nel cuore, ed ecco, là io Lo vidi,
in nessun altro luogo che là, Egli era!
E per vero, così perplesso, stupefatto ed ebbro ne fui che un
atomo solo dell’essere mio più non si vide. Io più non ero.
Un Dio discutibile
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico e Serie maimonidea. |
Il Dio dell’Antico Testamento è un Dio brutale e avido di dominio, portatore di qualità assai dubbie, come gelosia e irascibilità: ciò che qua e là, nei libri dell’AT, viene messo in risalto, quasi con elogio, in momenti assai rilevanti. Collerico e intollerante, d’altronde, Geova è rimasto fino agli ultimi tempi narrati nell’AT. Come tale avrebbe potuto morire nell’oblio, al pari di mille altri dèi e idoli prima e dopo di lui. La storia avrebbe mai versato una lacrima in memoria di lui? Qualcuno, al di fuori dei ristretti ambienti degli studiosi di religioni, avrebbe mai provato interesse per la sua sorte?
La carriera di Geova, al contrario, era lungi dall’essere conclusa. Dal dio locale del passato, dall’idolo della montagna, dal dio padre, protettore d’una tribù o d’un gruppo tribale, si andò sviluppando piano piano – in terra di Palestina – il Dio monoteistico della religione giudaica: un processo durato certamente almeno cinquecento anni.
Non era l’unico dio, in quella regione. Però la cerchia dei suoi ammiratori si era ingrossata considerevolmente, e presto gli fu costruito a Gerusalemme un tempio apposito e un culto stabilizzato, curato da un’apposita classe sacerdotale. Incastrato in mezzo ai grandi regni di Mesopotamia ed Egitto, il dio d’Israele si era ritagliato un cantuccio di orazioni, sebbene fosse sicuramente oggetto di beffe da parte delle grandi divinità dell’est e dell’ovest. Sennonché, mentre costoro avevano i loro anni migliori già dietro di sé, i suoi tempi gloriosi erano ancora di là da venire.
Non fu facile impresa, per lui, giacché il suo popolo era politicamente fragile. E minacciato per giunta, senza tregua, dai grandi vicini, ossia dagli Egizi, dagli Assiri, dai Babilonesi, dai Persiani, dai Greci, per ultimo dai Romani. Alcuni dei quali portavano con sé i loro propri Dèi. Come era possibile difendersi da quei concorrenti talmente strapotenti? Dopo un’indipendenza relativamente breve, nel 722 AEV, il Regno del nord andò perduto agli Assiri. Il popolo di Israele e il suo Dio dovettero subire una brutta disfatta: le minacce arroganti contro i popoli confinanti, descritte nell’Antico Testamento, rivelarono in pieno l’impotenza di Israele e del suo Dio. Nell’anno 586 sopraggiunse poi la fine anche per il Regno del sud e per Gerusalemme, sotto il babilonese Nabucodonosor.
Geova fu costretto ad accettare che il suo tempio fosse distrutto, e che lui stesso, insieme con il ceto dominante del suo popolo, fosse trascinato a Babilonia. Un Dio in esilio! Eppure, come un vero eroe, Geova uscì rafforzato dalla sua più dura disfatta. Politicamente, d’altronde, gli effetti furono pressoché nulli. Il suo popolo, il popolo di Israele, rimase debole, e non si liberò più dal dominio straniero. In compenso, però, Geova conquistò sempre di più le anime dei suoi seguaci: Geova, in buona sostanza, divenne un Dio, anche senza possedere un territorio.
La speranza che il proprio Dio si sarebbe potuto imporre anche politicamente, in ogni modo, la comunità di Geova non l’abbandonò mai. All’epoca dei Maccabei (165–63 prima di Cristo), si era almeno raggiunta di nuovo una certa indipendenza statale, prima che le legioni romane mettessero fine, per duemila anni, alla pianticella spuntata appena, ma solo timidamente, d’una indipendenza per i Giudei. Si poté vedere, sotto Erode il Grande, la ricostruzione del Tempio. Ma fu solo per essere definitivamente distrutto nell’anno 70 dell’èra cristiana.
Anche Geova dovette ammettere che la strada della violenza, che in apparenza era stata così vincente nella conquista del territorio, ora non era più percorribile, in nessun caso per chi fosse tra i vinti egli impotenti. Visto che il potere esteriore non era più raggiungibile, allora doveva propagarsi almeno la credenza in esso. Chi vuole dominare realmente, deve dominare sulle anime delle genti: confini politici e potentati sono, in fin dei conti, nulla più che paglia secca. Questo aveva ben intuito Geova, questo intuirono i suoi seguaci. Un’egemonia era possibile solo se il regno non fosse stato “di questo mondo”.
E fu questa, nella realtà, la strada maestra. In effetti, mentre Israele si sottometteva, finendo nell’irrilevanza politica, il suo Dio estendeva ben oltre i confini politici l’area del suo potere. La fede in Geova fu il fattore centrale di integrazione per la diaspora ebraica, che andava svolgendosi in molti luoghi sparsi nell’Impero Romano. E tale rimase, ben al di là dell’ultima insurrezione giudaica ad opera di Bar Kochbar.
Nella diaspora, la religione di Geova riuscì ad unificare una massa molto maggiore di credenti che nella Palestina stessa. Saltuariamente, i governanti romani le rivolsero la loro attenzione. Certamente, fu proprio la struttura stessa dell’Impero di Roma che, attraverso sicure vie di comunicazione e grazie alla relativa sicurezza del diritto, favorì la formazione della diaspora; e non solo quella delle comunità ebraiche, ma fornendo altresì una valida infrastruttura per la propagazione del credo cristiano.
Nella cornice politica dell’Impero Romano, disprezzato dai devoti Giudei, il veterotestamentario dio Geova riuscì a compiere il vero e proprio salto di carriera. Infatti, quale padre di Gesù di Nazareth, che presto sarà chiamato “figlio di Dio”, Geova si accinse non solo ad espandere significativamente la propria area d’influenza, ma a diventare addirittura il Dio più importante di tutta la storia religiosa svoltasi fino allora. Avvenne solo quando colui, che Gesù chiamava “padre mio”, da dio provinciale o regionale, diventò il dio titolare d’una vera e propria religione mondiale: il Dio del Cristianesimo.
La Mutazione
[modifica | modifica sorgente]Questa mutazione, in ogni modo, fa nascere dei problemi. Già nel mondo antico era sembrato che il Dio del Testamento Antico e quello del Nuovo non potessero coincidere tanto facilmente. Abbiamo a che fare qui veramente col medesimo Dio? Se lo chiedono i non cristiani, ma non solo. Il dio Gesù non è forse un dio dell’amore, non un dio della vendetta, per l’appunto? Non è egli un dio del perdono, e non più un dio della distruzione? un dio del conforto, e non più della minaccia? Non è un Dio personale, quasi gentile e amichevole, e non più il Dio accigliato, ringhioso e malmostoso delle vecchie Scritture? A noi pure egli è più simpatico come amico dell’uomo, più affabile che collerico. Però non c’è niente da fare, rispetto alla parentela non si dà garanzia: chi si prende la moglie deve tenersi pure i suoceri. Gesù di Nazareth, e i primi seguaci della nuova religione cristiana, erano nati ebrei e, in quanto tali, vincolati alla vecchia religione di Geova.
Si ripropone quindi la domanda: un Dio può cambiare se stesso in questo modo? Gli è lecito farlo? E’ immaginabile un Dio che si presenti oggi così e domani cosà, che forse persino (assai umanamente) ci ripensi, ritorni in se stesso e ribalti la propria condotta? Se si parte da un concetto filosofico di Dio (oggi rappresentato ancora a fatica) ciò è impossibile, persino equivoco, essendo prova di scarsa riflessione e di attaccamento a categorie antropomorfe. Nella storia delle religioni, d’altronde, questo è un procedimento corrente. Qui il cambiamento sembra quasi far parte delle buone maniere. Torneremo a parlarne più avanti.
La successiva comunità cristiana è comunque persuasa del fatto che, tanto nel Dio dell’Antico quanto del Nuovo Testamento, si tratti del medesimo Dio, anche se le differenze sono eclatanti, e nonostante il fatto che poi si aggiungano altre due “divinità”, il Figlio e lo Spirito Santo; alla teologia, ciò ha procurato non pochi problemi e, ancora oggi, procura al cristianesimo, in determinate occasioni, l’accusa di triteismo.
Più illuminata e più umana è stata spesso descritta l’immagine di Dio nel Nuovo Testamento. E con ragione. Il Dio bellicoso e terrificante dell’Antico si trasforma ora in un Dio dell’amore e del perdono. La differenza non si può immaginare più grande di così. Gli appelli alla violenza, allo stupro e al genocidio, sono scomparsi, e al posto loro, nei momenti eccelsi, subentra addirittura – e si stenta a crederlo – l’istanza ad amare i nemici, come gli evangelisti fanno annunciare a Gesù nel Discorso della montagna.
E’ possibile che questo sia il medesimo Dio? Non si presenta qui un imbroglio di etichette, nell’una o nell’altra prospettiva? Non è la casualità biografica della provenienza di Gesù dall’ebraismo, non è inoltre una parentesi dogmatica, quella che qui tiene insieme ciò che intrinsecamente insieme non sta? Si può chiederlo in maniera legittima; e questo è stato già fatto più volte.
Sennonché la storia della Chiesa ci ha tramandato queste due antitetiche immagini di Dio in modo invero distinguibile, ma non (più) separabile; noi dobbiamo accettare questa evoluzione, come si accetta la ringhiosa suocera d’una bella sposa. Naturalmente, però, si accetta più volentieri la sposa; per cui il gentile lettore del nostro mondo culturale, che anche oggi ha fruito d’una socializzazione cristiana, ha fatto conoscenza del cristianesimo attingendo in prima linea dalla versione più simpatica del Nuovo Testamento. Ospiti gradevoli ci vanno più a genio, naturalmente; di conseguenza, ci sta pure più vicino il Dio del Nuovo Testamento.
Gesù fondamentalista?
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Serie cristologica. |
La Bibbia si fa più umana e gentile; punto di partenza della nuova immagine del vecchio dio Geova sono l’annunciazione e l’azione di Gesù. E’ a lui che si affida il credente, non tanto al suo inflessibile padre. Di conseguenza, nel Nuovo Testamento, si riscontrano appena parole di Dio dirette, ciò che, per inciso, può avere risparmiato anche molte spiacevolezze. Ora, che cosa sia Dio e come debba essere inteso, viene dettato in sostanza attraverso Gesù e (ancora di più) tramite i suoi primi seguaci, che si richiamano a lui. Il nuovo Dio neotestamentario sembra rivolgersi agli uomini in maniera affettuosa, ed in più sembra essere positivamente partecipe della loro vita, interessato al loro destino. Operando guarigioni di malati ed esorcismi, attribuiti a Gesù, pare che voglia contribuire ad alleviare la faticosa esistenza degli uomini. Il giudice sembra trasformarsi in soccorritore. E, naturalmente, tutti accolgono con piacere questa lieta novella.
Il duro verdetto legalitario dell’Antico Testamento sembra essere abolito. La legge del sabato, adesso, è fatta per l’uomo. Viene offerto il perdono; clemenza ed indulgenza sono concesse persino ad un’adultera che invece, ottemperando al comandamento antico, avrebbe dovuto patire la lapidazione. E questa immagine divina viene trasmessa da un Gesù ambulante e predicante, che in candida innocenza va peregrinando di luogo in luogo coi suoi discepoli, impartendo conforto e assistenza agli umili. La promessa – la “buona novella” – agisce sempre più incisivamente della minaccia. Questo Gesù amichevole diventerà il nucleo principale dell’annuncio delle Chiese, specialmente dopo l’Illuminismo. Ed oggi, nella sua amorevole misericordia, esso è pur sempre presente in tutti i gruppi e in tutte le denominazioni cristiane. E’ a questo Dio che si rivolgono le preghiere dei suoi credenti; è lui quello che viene annunciato dai pulpiti delle chiese e nelle confraternite devote. In verità, il Gesù delle Chiese è troppo bello per essere vero.
Nella realtà, Gesù fu fin troppo figlio del suo tempo e seguace della propria religione, per volersi liberare completamente dalle proprie radici. Per cui, se si osserva più attentamente, anche in lui si riscontrano presupposti e strutture di pensiero di cui abbiamo fatto conoscenza già nell’Antico Testamento. In prima istanza, salta di nuovo ai nostri occhi quell’ineffabile dicotomia: la divisione del mondo in bianco e nero, in credenti e increduli, in pecore e caproni, in bene e in male. Codesta fatale discriminazione si ripresenta nell’annuncio di Gesù, e ricorre in ogni libro del Nuovo Testamento.
La ripartizione del mondo in Bene e Male può essere considerata come un passo determinante sulla via della disumanità, addirittura come una costante basilare dell’essere inumano. Nella realtà, che si tratti di guerre, di persecuzione di dissidenti, delle radici del razzismo e di antisemitismo, sempre è necessario diffamare in via preliminare i propri simili, o una parte di essi, in quanto nemici ed avversari, nella loro qualità di accecati o miscredenti. Chi vuole fare guerre, deve prima far capire ai suoi seguaci che l’essere diverso degli altri è già un delitto. Bisogna persuaderli che costui è un nemico in quanto pensa diversamente, ha un’altra religione, un diverso orientamento sociale, un diverso canone di valori. Pensare in bianco e nero è il fondamento su cui l’edificio dell’ingiustizia e della disumanità viene sempre ricostruito.
A Gesù non è estranea questa dicotomia in bianco e nero, in credenti e miscredenti, come mostra soprattutto la parabola del giudizio universale nel vangelo di Matteo (Matteo 25:31-46). Qui il futuro Figlio dell’uomo appare come giudice dei mondi, che chiama a sé i popoli per giudicarli e che, come un buon pastore, (un’immagine di pastore ben diversa da quella sognata abitualmente dalle anime belle!), li separa in pecore e caproni. Le pecore a destra avranno la vita eterna, mentre le capre a sinistra avranno il castigo eterno. Alla base di tali dicotomie c’è la concezione che esista un modello di umanità come tipologia di purezza: o buono o malvagio.
Le religioni sono spesso inclini a siffatte semplificazioni. Sennonché esistono molte gradazioni; nemmeno il singolo è sempre, per tutta la vita, buono o cattivo in maniera prefissata; già queste categorie, con buona ragione, non trovano più alcuna applicazione nella psicologia moderna. Il pensiero e il comportamento, e con essi la personalità dell’individuo, sono piuttosto il risultato d’una molteplicità di influenze e di impronte, scaturendo da decisioni presunte o autentiche.
La separazione in bianco e nero non è soltanto una descrizione errata: è addirittura una definizione di come l’uomo non è, per l’appunto. Frammisto in guise diverse, in mille tonalità grigie, con lati inopinatamente oscuri, descrivibile per tratti basilari, ma non definibile né calcolabile. E’ soltanto un’immagine primitiva dell’uomo quella che ci viene incontro nella rappresentazione del Giudizio universale; è semplicemente falsa; e qui non aiuta nemmeno quando (a buon diritto) si sottolinea che il racconto del Giudizio finale ha un carattere per così dire allegorico.
Infatti, negli scrittori neotestamentari, più ancora che in Gesù, questa distinzione ha sottolineature addirittura drammatiche. Il cristianesimo escogitò presto un nuovo criterio per stabilire chi appartenesse ai buoni e chi ai malvagi. E fu, giustappunto, la fede in Gesù.
E’ questa una delle parole obbrobriose della Bibbia, che non manca d’una primitiva perspicuità. Nella sua sostanziale inumanità, non si riconosce, da parte dei credenti, da che cosa dipenda il fatto che il credente concepisca se stesso dalla parte dei buoni, mentre il destino degli altri, la sorte dei diversi, non rientra minimamente nella propria sfera visuale.
La fede in Gesù divenne presto un criterio dirimente in tal senso, una misura con cui ci si delimitava dagli altri e si estromettevano altri gruppi o individui. Qui si decideva se si era salvati oppure dannati, se ci si doveva annoverare tra i peccatori destinati alla dannazione oppure fosse lecito collocarsi tra i giusti. Più tardi, quando il Cristianesimo non fu solo universalmente riconosciuto, quando diventerà addirittura l’unica religione autorizzata, questa discriminante divenne il filo della spada su cui si fecero saltare persone e popoli diversamente credenti. Pur con tutto lo spirito umanitario esibito nell’attività di Gesù, già in lui sono presenti ed eloquenti tendenze all’esclusione. E fu su di esse che la Chiesa poté edificare il suo potere.
In associazione con la divisione in bianco e nero si trovano, anche nel Nuovo Testamento, minacce di punizioni che non sono in nessuna proporzione ragionevole, per non dire equa, coi fatti. Si sorvola volentieri su questi testi, oppure non li si prende molto sul serio, sebbene affiorino in momenti centrali dell’annuncio di Gesù. Così si trova, specialmente nelle parabole di Gesù – ritenute perlopiù autentiche dalla ricerca neotestamentaria – un’inequivocabile tendenza alla punizione terrificante degli uomini. Anche se questa è perlopiù intesa in maniera traslata, l’immagine dell’uomo e del mondo che vi è sottesa è, per dirla positivamente, arcaica, ma in verità – per esprimerne il senso totalmente negativo – inumana.
I due passi si trovano nel Discorso della montagna, particolarmente apprezzato dai cristiani. Gli uomini vengono descritti come erbacce che si gettano nelle stufe (Matteo 13:36-42;47-50). Fa un’impressione particolarmente disumana il fatto che, per trasgressioni relativamente innocue, si infliggano castighi che non sono in ragionevole proporzione con l’infrazione. Difetti irrilevanti vengono castigati con pene infinite, mentre colpe relative sono causa di condanne inappellabili. Per lo più, si sorvola sul fatto “che il medesimo Gesù, a fronte della scarsa misericordia di questo mondo, minaccia supplizi eterni nell’aldilà: una spietatezza che oltrepassa infinitamente la stigmatizzata spietatezza di questo mondo.“ (Buggle, Perché non sanno quello che credono, p. 24)
Già chi va in collera col proprio fratello (e a chi non è mai capitato?) dovrebbe essere destinato alle pene infernali? Che verdetto sconsiderato! Questo modo di pensare non è soltanto pieno di sé e realisticamente cieco, non soltanto contraddice ai principi giuridici d’una democrazia, ma in ugual misura ai “princìpi d’iniquità” delle peggiori dittature. Nemmeno nelle dittature si impongono pretese simili a quelle che Gesù fa cadere occasionalmente nelle sue prediche. Se non che il lettore devoto, che dal suo Signore si aspetta sempre esternazioni valide, eque e sensate, di tali assurdità non si accorge nemmeno.
Le pretese di Gesù sono spesso talmente radicali, da non poter essere soddisfatte praticamente da nessuno. Probabilmente per questo furono così formulate. La colpevolezza dell’uomo dovrebbe così essere radicalmente dimostrata, come si è evidenziato soprattutto nella teologia protestante. Con ciò, tuttavia, le pretese di Gesù si rivelano appunto inappropriate ai fini di un’etica praticabile. Mentre Gesù, in altri momenti, è conscio delle debolezze umane, ogni qualvolta promette loro la remissione dei peccati, contraddice al suo stesso insegnamento accampando esigenze etiche massimalistiche. Là dove i teologi amano vederci della dialettica, noi possiamo parlare con maggior precisione di carattere contraddittorio. A causa di queste incoerenze, non ci si deve stupire del fatto che anche molti teologi non possano attribuire alle indicazioni etiche di Gesù un carattere generalmente vincolante.
Incomprensione suscitano altresì espressioni ostentate di questa fatta:
La traduzione unitaria rende qui il verbo greco misein non con odiare, bensì con tenere in poco conto, perché si vuole sdrammatizzare la radicalità dell’esternazione. Proviamo ad immaginarci una frase simile detta magari da un guru indiano. Genitori, insegnanti e politici, non metterebbero forse in guardia da un simile predicatore? Ed è lecito chiedersi: politici e partiti cristiani, che esaltano in particolare modo il valore della famiglia … come se la cavano su questo punto?
Ci sarebbe ancora da dire su quella marcata credenza dell’inferno e del diavolo, che Gesù ha condiviso col proprio ambiente sociale, parlando della giustizia e di molti analoghi problemi. Ma poiché il Capitolo seguente dovrà trattare di Gesù, per ora tanto può bastare.
Dubbi e sospetti in Paolo
[modifica | modifica sorgente]Osservando quindi più attentamente, anche nel Nuovo Testamento si trovano concezioni discutibili, idee e passaggi inumani ed eticamente inquietanti. Solo uno sguardo idealizzante, nonché una scelta selettiva e tendenziosa dei passi biblici, portano a concludere questo: che il Nuovo Testamento non viene percepito (o solo in misura incompleta) per la sua arretrata visione del mondo. Posizioni eticamente dubbie si trovano altresì nella letteratura epistolare del NT, Paolo compreso.
Anche Paolo, sulla cui dottrina la Chiesa è stata edificata nel senso vero e proprio del termine, (e non su Pietro, come sta nel vangelo di Matteo, e come la Chiesa cattolica sostiene ancora oggi) si rivela, in molte delle sue esternazioni, come un figlio del suo tempo e dei rispettivi modi di pensare. Come nei Vangeli, così nelle Epistole di Paolo troviamo un alternarsi continuo di carota e bastone. Da un lato appelli all’amore e alla comprensione reciproca, dall’altro le più pesanti diffamazioni per tutti coloro che si rifiutano di accettare la nuova dottrina di Cristo. O che magari si permettono soltanto di restare, in quanto ebrei, nella loro vecchia fede. Anche in Paolo troviamo la ben nota concezione del bianco o nero; in misura tale che, considerata l’enorme portata degli scritti e della teologia paolina, questo abuso avrebbe portato in avvenire a conseguenze disastrose.
In un noto passo nella prima Lettera ai Romani, Paolo “convince” innanzitutto i miscredenti di essere peccatori. La non credenza è pertanto inescusabile.
Secondo Paolo, ogni persona può dunque riconoscere Dio con le proprie forze. Se non conosce Dio, questo è già un segno del suo essere peccatore. Va da sé, quindi, che con questo presupposto non esistano, nemmeno in Paolo, valori come la tolleranza o il rispetto verso chi crede in modo diverso. Per cui, accanto a passaggi positivi, nelle sue Epistole si trovano pure molte tirate di odio contro seguaci di altre fedi. Nella letteratura cristiana delle origini – e più tardi nella letteratura patristica dei Padri della Chiesa – divenne addirittura consuetudine di attribuire ai credenti forestieri, in maniera forfettaria, tutte le possibili deficienze morali, concentrando su di loro ogni sorta di azioni malvagie.
A questo proposito, lo psicologo Buggle scrive:
Anche per Paolo è fuori discussione che persone squalificate a tal punto dovranno aspettarsi il giudizio finale, che incombe su di loro l’eterna dannazione; anch’essi finiranno nel fuoco vivo dell’inferno. E’ sconvolgente vedere che anche in Paolo, che con la sua dottrina della giustificazione, possibile soltanto per fede, ha elaborato un progetto teologico assolutamente ragguardevole, il bisogno di giudicare (che ovviamente non è il suo bisogno, ma il bisogno attribuito a Dio) è spiccato a tal punto da contrastare la sua stessa dottrina della grazia.
E non importa che, nella seconda epistola ai Tessalonicesi, secondo l’opinione quasi unanime della ricerca, non si tratti affatto di una lettera autentica di Paolo, bensì d’un falso. Il giudizio, in tutti i casi, è uno dei suoi ricorrenti topoi teologici. Senza mezzi termini, Paolo lo esprime chiaro e tondo nella prima epistola ai Corinti:
Gli orrori dell’Apocalisse
[modifica | modifica sorgente]La rivelazione di Giovanni spinge all’estremo tutto ciò che fin qui si è detto sull’immagine negativa dell’uomo e del mondo. Il libro dell’Apocalisse – l’unico scritto profetico del Nuovo Testamento –, sta non solo alla fine della Bibbia in quanto si è occupato della fine dei tempi, ma anche perché fu a lungo controverso all’interno della storia delle Chiese e della teologia, e perché teologi assai influenti (ad esempio Lutero) si espressero su di esso con molte reticenti riserve. Avendo visto che l’etica di Gesù e degli scrittori neotestamentari, pur con tutte le negatività nell’immagine dell’uomo e del Dio, ha portato pure aspetti positivi, ora ci imbattiamo – con questa “rivelazione” di Giovanni –, in uno scritto terrificante e disgustoso, “culmine degli aspetti sadistico-disumani contenuti nella religione biblico-cristiana.” (Buggle, op.cit. S. 140)
Persino gli scrittori veterotestamentari, tutt’altro che delicati, avrebbero potuto imparare ancora qualcosa dal libro dell’Apocalisse. Dove i passi incriminati non sono giustificabili dal fatto che non si tratti di accadimenti reali, bensì di visioni. Appunto in quanto visioni, gli scritti apocalittici pretendono di svelare eventi futuri. E la minaccia (vecchia regola nel gioco degli scacchi) è più forte della sua effettuazione.
Questo Libro singolare, collocato a conclusione della Bibbia, che nell’annuncio delle Chiese cristiane ha soltanto un ruolo secondario e che (ove venga citato) si evoca solo in rare occasioni, appartiene alla letteratura ebraica denominata apocalittica, diffusa a partire all’incirca dal II secolo precristiano. La famosissima Apocalissi (dal greco apokalyptein, rivelare, svelare) fece il suo ingresso nell’Antico Testamento col primo libro di Daniele, ma non era l’unico di questi scritti conosciuti all’epoca di Gesù. Esisteva già una lunga sequela di apocalissi, più tardi anche in ambito cristiano.
L’autore dell’apocalisse di Giovanni venne identificato, nella vecchia Chiesa, col discepolo di Gesù Giovanni, figlio di Zebedeo; il che procacciò a questo scritto una considerazione relativamente elevata, poiché si pensava di essere vicinissimi all’annuncio di Gesù. La ricerca neotestamentaria ha tuttavia stabilito che l’autore della “rivelazione” – che chiama se stesso col solo nome di Giovanni –, non può essere stato testimone oculare della vita di Gesù. La ricerca lo colloca piuttosto al tempo dell’impero di Domiziano (anni 81–96). Secondo i contenuti dello stile e del pensiero, questo Giovanni non si identifica neppure con l’autore del Vangelo di Giovanni.
Già nell’antichità gli scritti apocalittici sembrarono sospetti ai cristiani stessi. Fu la ragione per cui la rivelazione di Giovanni non venne riconosciuta da parte della Chiesa d’Oriente. Per contro, nel corso della storia ecclesiastica, a quest’ultimo libro della Bibbia si richiamarono senza tregua fanatici, gruppi settari della fine dei tempi, pietisti e fondamentalisti cristiani. Ai giorni nostri, tale rivelazione mantiene una grande rilevanza, soprattutto presso i Testimoni di Geova e presso gli Avventisti. Le apocalissi giudaiche erano tutte pseudoepigrafiche: davano cioè ad intendere di essere composte da celebri personalità della preistoria (Mosè, Enoc).
Nel mondo antico, questo trucco era tutt’altro che insolito. L’autore, ritenuto generalmente prestigioso, affermava di conoscere la storia, e dava una sintesi storica degli avvenimenti futuri che naturalmente (dal momento che erano già accaduti) coincidevano in tutto e per tutto. La storia futura, ovviamente, codesti autori fittizi non potevano conoscerla, per cui le loro descrizioni storiche, da un determinato momento temporale, sono difettose. Perciò il periodo delle origini è determinabile in maniera relativamente precisa.
La rivelazione di Giovanni, però, è orientata in senso meramente escatologico; vale a dire che il passato non ha nessuna importanza per essa, interessata unicamente alla fine dei tempi. Qui, in effetti, Giovanni si immaginava di vivere direttamente la fine dei tempi. Per lui, il mondo è diretto da malvagie forze mitologiche, e alla base della storia c’è un piano che determina le sorti dell’umanità. Chi vi approda dai rimanenti libri neotestamentari, dove gli avvenimenti escatologici sono invero accennati, ma tratteggiati appena vagamente, trova in Giovanni il programma completo. E chi crede di sapere qualcosa circa l’amore e il perdono del Dio neotestamentario, qui si deve ricredere, giacché s’imbatte nel peggio del peggio. Perché il Dio dell’Apocalisse porta morte e annientamento, provoca torture e sofferenze sadiche.
Già l’incipit non ha nulla della lieta novella: “Ecco, egli scende dalle nubi [...] e tutti i popoli della terra piangeranno e urleranno a causa sua” (Apocalisse 1:17). Lo scenario si apre per il Cavaliere dell’Apocalisse, che dev’essere visto come mandato da Dio. All’apertura dei primi sei sigilli, costui si manifesta chiaramente: è Dio stesso, che sobilla alla guerra e alla distruzione.
Uccisioni e minacce di morte sono gli strumenti del Dio dell’Apocalisse, ed essi incombono nuovamente (come potrebbe essere altrimenti?) su coloro che credono diversamente, contro quelli che non hanno accettato il messaggio cristiano. Non solamente; le minacce sono già rivolte contro i nonconformisti, prendendo di mira i dissidenti già presenti tra le proprie file. Per cui rimprovera la comunità nella Chiesa di Tiàtira, perché “lascia fare” alla profetessa Gezabele/Isebel, la quale è bensì cristiana, ma non nel senso dell’autore dell’Apocalisse. Ed è con una parola di Cristo (!) che egli la minaccia:
Questo è tutt’altro che simpatico. Comparativamente, però, se la cava ancora abbastanza bene. Le visioni successive, infatti, sono creazioni d’una fantasia addirittura disgustosa o, per essere più precisi, d’una ripugnante fantasia cristiana. La quale, alla fine, fa spuntare i sette angeli della vendetta, il cui compito dichiarato è quello di tormentare e di annientare la maggior parte dell’umanità.
Nel prosieguo, si oscurano il sole e gli astri, e un’aquila grida a gran voce: “Guai, guai a tutti gli abitanti della terra" (Apocalisse 8:13). L’umanità viene torturata con cavallette e scorpioni. Ai quali fu detto
Il giorno del giudizio è dies irae, il giorno dell’ira: allo stesso modo aveva previsto già l’Antico Testamento. Tuttavia, a quali perverse fantasie si lascia andare qui il “visionario” apostolo Giovanni? Passi come questi spingono a chiedersi, a buon diritto, che cosa rimanga ancora del Dio dell’amore e della conciliazione, del Dio della misericordia e della giustizia, ovvero dei contenuti centrali del messaggio di Gesù. Del suo Signore Cristo, l’autore di questo libro ha fatto un infanticida, per inebriarsi delle sue medesime fantasie.
Letteratura universale? Diventa chiaro perché, anche tra molti teologi, questo libro del Nuovo Testamento venga sottaciuto e accantonato per quanto possibile. Anche per loro è penoso ed imbarazzante. In effetti, esso non è certo d’aiuto ai fini di ciò che, nella cultura contemporanea, va sotto il nome di dialogo interreligioso. Anche in Giovanni, infatti, i non credenti sono incolpati, di nuovo globalmente, di lussuria, di furto e di tutti i crimini possibili. I non credenti – in quanto tali – non sono capaci di alcuna prestazione morale. La presunzione religiosa, al contrario, celebra trionfi scroscianti. Chiunque adora la “bestia” (ossia l’appartenente ad un’altra religione, nella fattispecie chi segue il culto dell’imperatore)
Tradizione degna di essere preservata? Contro la grande meretrice Babilonia (sinonimo dell’Impero Romano) si scagliano questi versi:
A questo proposito, Gesù non si era espresso alquanto diversamente? Non aveva detto: “Amate i vostri nemici, pregate per quelli che vi offendono e perseguitano?” (Matteo 5:44). Da una parte, dunque, un’istanza altamente etica, dall’altra parte istinti infami e sadismo efferato. E tutto questo riunito sotto il tetto comune di Scritture che si dicono Sacre. Un miscuglio di tal fatta è veramente utile come criterio etico per adolescenti? E’ possibile raccomandare davvero, in buona coscienza, la lettura della Bibbia? Non si dovrebbe piuttosto mettere in guardia da essa?
Nel capitolo 19° dell’Apocalisse il sognatore vede nella sua fantasia un cavallo bianco cavalcato da un cavaliere il cui nome è Fedele e Veritiero, un condottiero di guerre (naturalmente a favore della giustizia). E’ avvolto in un mantello intriso di sangue, e il suo nome è: il Verbo di Dio (!). E’ Cristo, che qui è nominato per via indiretta. “Dalla bocca gli esce una spada affilata, per colpire con essa le nazioni.” (Ap 19,15). Un angelo chiama al grande banchetto di Dio, in cui si mangia carne umana.
Ebbene, non bisogna essere per forza vegetariani per declinare un invito del genere, con tanti ringraziamenti. E’ come se il grande visionario Giovanni non volesse finire mai di avvitare verso l’alto la spirale della follia. E certo non sarebbe stato necessario, essendo da gran tempo riconosciuto come uomo affetto da conclamata nevrosi religiosa.
Degno di nota non è tanto ciò che Giovanni scrive, ma piuttosto il fatto che il suo scritto sia sopravvissuto, giungendo fino al XXI secolo. Nelle chiese, malgrado tutto, se ne riscontra spesso una valutazione diversa. Non di rado, in esse, l’Apocalisse di Giovanni – si stenta a crederlo – viene definita un’opera “consolatoria”. Questa prospettiva si basa soprattutto su due passaggi. Il primo consiste in un paio di versetti dal settimo capitolo.
Specialmente nelle liturgie funebri si ama tuttora fare uso di questi versetti, tanto che persino chi vive lontano dalla Chiesa li riconoscerà da tali circostanze. Non c’è dubbio che abbiano una certa risonanza confortante; ma solo nella misura in cui si prescinda dal contesto. Il secondo passo è la descrizione del nuovo cielo e della nuova terra, che i credenti (quelli sopravvissuti ai precedenti massacri divini) aspettano e sperano di vivere
Posti al centro della carneficina cristiana, questi versi suscitano davvero l’effetto che produce un luogo di pace. Beato chi si ferma a questo punto. Sennonché, leggendo più avanti, si trovano quasi senza transizione le parole seguenti:
Giovanni, il nostro “veggente”, non può smentire la sua vera indole. E’ più forte di lui. E si capisce bene che, nelle prediche, si preferisca passare sotto silenzio questo versetto, benché vi appartenga nella forma e nel contenuto. Certo, si potrebbe almanaccare se l’Apocalisse di Giovanni, senza il “buono” capitolo 21, sarebbe stata mai assunta nel Canone del Nuovo Testamento. Nient’altro che assassinio e morte, distruzione e violenza, sarebbero stati certamente fattori troppo deboli, anche per il più fanatico tra i primi cristiani. Insomma, si giudicherà pure umanamente comprensibile che le Chiese preferiscano sorvolare, passando sotto silenzio certi versetti. Anche se questo non fu nell’intenzione del visionario Giovanni che, nell’epilogo del suo libro sciagurato, torna ad inculcare in maniera pressante:
Conclusioni alternative
[modifica | modifica sorgente]E dunque, a conclusione del Nuovo Testamento, Dio è di nuovo un Moloch, un vendicatore accecato dall’ira, tale quale il Dio veterotestamentario? No, lo si può negare tranquillamente, dato che la cosiddetta Apocalisse di Giovanni è un fenomeno assai particolare, di rilevanza non centrale nella dottrina delle Chiese. In tutte le epoche, i teologi hanno giudicato più importanti altri contenuti di fede. Ciò nondimeno, la Chiesa non può, per ragioni storiche, prendere le distanze da quel libro, parte integrante delle scritture ritenute sacre. E decisivo non è neppure l’estremo che la rappresenta. Pericolosa è la coesistenza di inumane fantasie di violenza e di passaggi assolutamente inquietanti. La confusa mescolanza di entrambi fa della Bibbia, in quanto fonte di eticità, un’opera assai problematica.
Passi sentiti positivamente si trovano soprattutto nell’annuncio di Gesù. In questo, per cominciare, non ha importanza quali sentenze risalgano effettivamente a Gesù, e quali siano invece state successivamente attribuite a lui dalla comunità. Ne parleremo diffusamente nel prossimo capitolo. Anche oggi, evidenti falsificazioni sono state intese attraverso i secoli come “parole del Signore”, generando forza ed efficacia normative, quantomeno sul singolo credente. Nelle parole di Gesù consistono forse i momenti spiritualmente più impegnativi della Bibbia. Anche in lui, tuttavia, vi sono passaggi che palesano il lato oscuro del suo annuncio, mettendone a nudo le premesse e le rappresentazioni inumane ed eticamente retrive. Inconsciamente, il sentimento religioso tende a marginalizzare queste tendenze. Ma un’analisi spassionata non potrà non occuparsene.
In altre parti della Bibbia, in particolare nell’Antico Testamento, è più palese questo inestricabile intreccio di consolazione e di violenza. Molte storie e molte norme veterotestamentarie sono così spaventose e disumane, che Richard Dawkins può constatare lapidariamente: “La Bibbia è un codice morale intragruppo, completo di istruzioni finalizzate al genocidio, per la riduzione in schiavitù di gruppi esterni e per il dominio del mondo.” (Dawkins, L’illusione di Dio, p. 255) Ha ragione? Sì, ma solo in parte, dal momento che vi si trovano anche tendenze assai diverse, soprattutto nel Nuovo Testamento. Oltre all’odio per i nemici, si trova anche l’amore per i nemici; accanto all’appello al genocidio c’è anche l’esortazione alla sopportazione e alla bontà, accanto a Geova, dio della vendetta e della guerra, c’è pure l’amorevole padre Gesù. E allora, che cosa dovrebbe prevalere, alla fine?
Al giorno d’oggi, il dilemma sembra chiarito. Quasi esclusivamente, predomina solo il Dio umanitario, filantropico, nel quale Gesù ha creduto certo in maniera preponderante. Il Cristo illuminato non sa che farsene del Dio vendicatore dell’Antico Testamento; e persino i bigotti della campagna vorrebbero non avere nulla a che fare con quel Dio. Eppure vi sono state epoche in cui veniva annunciato proprio il veterotestamentario Dio della guerra. Sempre, dovunque si trattasse di giustificare guerre in senso religioso, di perseguitare e di uccidere credenti di altre fedi e presunti eretici, di armare ideologicamente cavalieri crociati e di estorcere professioni di fede, si poteva attingere disinvoltamente ai rispettivi passi dell’Antico Testamento. Non esiste quasi nessun crimine per cui non si possano trovare in quei testi, in un modo o nell’altro, un passo confacente, una conferma appropriata.
La giustificazione, spesso ripetuta, secondo cui epoche precedenti avrebbero compreso male la Bibbia, non è affatto plausibile. Quei tempi compresero non falsamente, bensì giustamente, soltanto aspetti e momenti differenti della Bibbia. Semplicemente, presero alla lettera passi biblici diversi tra loro. E’ appunto questo il problema: il fatto che con la Bibbia si può legittimare tutto e qualsiasi cosa: inni per la pace e torture, genocidio e lode a Dio, e magari tutto quanto insieme. E le Chiese non si sono limitate soltanto alla teoria. Le Scritture Sacre si adattano a tutte le cose, tranne che ad una sola: esse non possono costituire una fonte per stabilire norme di comportamento. A tale scopo, la Bibbia sa troppo poco ciò che vuole davvero.
Non con tutti sembra che si sia sparsa la voce di questa conoscenza nient’affatto nuova. Tant’è che le Chiese tentano ancora oggi di vendere ai credenti le sofisticazioni bibliche come vino puro, facendo ricorso non solo a politici cristiani a sostegno dei basilari valori cristiani, favorendo un’idea cristiana dell’uomo e il significato della Bibbia anche (o giustappunto) per il nostro tempo. Quali sono le loro intenzioni? Sussiste il sospetto che non lo sappiano neanche loro. In questo libro, verso la conclusione, tasteremo il polso ai cosiddetti “valori cristiani”, interrogandoci se siano davvero cristiani i princìpi su cui si fonda la nostra vita collettiva.
Teniamo presente, inoltre, una comprensibile obiezione, che sicuramente fa stare sulle spine già molti credenti: non è del tutto non storico, anzi antistorico, sottoporre in questa maniera dei testi antichi ad uno strumento di tortura moderno? Ma certo, non si può tentare di imputare ad un re Davide le nostre moderne massime etiche, e neppure giudicarlo per vedere se riesca a superare l’asticella etica che noi moderni gli tendiamo. Il re Davide visse appunto in tutt’altro mondo, con altre leggi e altre mentalità. Questa obiezione è naturalmente giusta. Se non fossero proprio le Chiese a ritenere che quei testi rappresentano più che documenti soltanto storici.
Certo, sono le Chiese a decretare che a quei testi spetti dignità etica e forza normativa. Se sono di questa opinione, devono però anche lasciarsi rinfacciare le loro inconseguenze ed insufficienze. Non si tratta, per l’appunto, di esternazioni d’una religione morta, che si descrive con animo spassionato, sulla base d’una fenomenologia religiosa; al contrario, si tratta d’una religione che rivendica anche per l’uomo moderno, per sé e per le proprie tradizioni, una dignità e una rilevanza che a loro non competono. In questo consiste la non storicità.
Sugli aspetti negativi di questa Bibbia, di un’opera tanto sopravvalutata, torneremo a parlare continuamente nelle pagine che seguono. Nel prossimo Capitolo, intanto, dovremo chiederci, sulla base della ricerca scientifica, in quale misura le Chiese cristiane si richiamino con buon diritto a Gesù di Nazareth come al proprio fondatore. Chi era Gesù? Che cosa ha voluto? Ma più di tutto: che cosa non ha voluto?