Biografia del Melekh Mashiach/Capitolo 21
La Cabala di Rabbi Yeshua
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Riflessioni su Yeshua l'Ebreo/Cabala. |
Perché parlare di Kabbalah קַבָּלָה e poi collegarla a Gesù? La "Kabbalah" (o Cabala), come tale termine viene comunemente usato, si riferisce a un movimento del misticismo ebraico dal XII secolo al Rinascimento (nella sua fioritura iniziale). Il suo focus era sull'unione mistica con Dio, in un modo analogo al percorsi sostenuti da mistici cristiani come Giuliano di Norwich e Johannes Eckhart. Il suo carattere comprendeva una disciplina intellettuale, una concentrazione letteraria sulla formulazione precisa della Torah e persino un rigore accademico nella descrizione delle sfere divine in cui l'iniziato doveva entrare con grande cura. Quale relazione potrebbe avere con un rabbino del primo secolo proveniente dalla Galilea, i cui meriti non includevano nemmeno la capacità di scrivere, e i cui riferimenti alla Bibbia ebraica erano così imprecisi – e meditati attraverso Targumim orali – da indicare che era analfabeta?
Sebbene la Kabbalah possa davvero essere usata con un significato restrittivo, il suo orientamento di fondo non è altro che l'approccio della merkavah di Dio, il trono del carro celeste da cui emanava la potenza e la sapienza divine per l'ordinamento di tutta la creazione. La concezione di tale merkabah è molto più antica, profondamente radicata nella teologia di Israele, rispetto allo sviluppo delle tecniche cabalistiche durante il Medioevo. In effetti, l'ascesa al trono divino è più antica di Israele stesso.
Dalla Mesopotamia, dal ventitreesimo secolo p.e.v. e al XV secolo e.v., si raccontano storie di re e cortigiani che entrano nel palazzo dei cieli e vi ricevono visioni e potenze. Israele imparò queste tradizioni regali da Babilonia e le convertì in autorizzazione profetica, specialmente durante il periodo di Ezechiele (nel VI secolo p.e.v.). Lo stesso Ezechiele riferì la sua visione classica del trono di Dio come un carro, una merkavah (ebr. מרכבה), e ciò che di solito viene chiamato "misticismo merkavah" deriva dalla sua visione (in Ezechiele 1). Dopo Ezechiele, il Libro di Daniele (capitolo 7) descrisse ulteriormente questa visione (durante il II secolo p.e.v.). E al tempo di Gesù, il Libro di Enoch, trovato in frammenti in aramaico a Qumran, aveva portato avanti questa tradizione.
Il Libro della Genesi dice di Enoch solo che "egli camminò con Dio, e più non fu" (Genesi 5:22). Questa scomparsa è considerata come un segno del fatto che Enoch godette di una visione avendo asceso ai molteplici cieli sopra la terra, e fu autorizzato a raccontare la sua sapienza ad Israele, anzi ad agire da intermediario con gli angeli che avevano disobbedito a Dio. Da Ezechiele, attraverso Daniele ed Enoch, fino a Giovanni e Gesù, c'è una tradizione crescente, una kabbalah (קַבָּלָה, qualcosa di "ricevuto"), che riflette un profondo impegno nella pratica disciplinata della visione del trono di Dio. I frammenti di Enoch a Qumran si trovano in aramaico, il che suggerisce che il libro fu usato non solo dagli Esseni (che tendevano a proteggere i loro documenti settari in ebraico), ma da un pubblico più ampio, che includeva gli Esseni. In effetti, il Libro di Enoch è anche citato in una fase successiva nel Nuovo Testamento, cosicché non vi siono dubbi sul suo uso largamente diffuso. Anche un'altra opera trovata in ebraico a Qumran e ampiamente attestata altrove, il Libro dei Giubilei, presenta Enoch come una figura di rivelazione: egli stesso conosce la Torah in seguito rivelata a Mosè mediante comunicazione angelica.
Lo sviluppo di queste tradizioni non è ovviamente indipendente: esiste un costruire e prendere in prestito l'una dall'altra. L'ascesa al trono divino fu un'aspirazione che fu "ricevuta" o "presa", una fonte dalle altre. "Ricevere" o "prendere" sia in aramaico che in ebraico è espresso dal verbo qabal, da cui deriva il sostantivo qabbalah, e il nome è usato sia nella Mishnah che nel Talmud per riferirsi alla tradizione antica, inclusi i Profeti e il Scritti all'interno della Bibbia di Israele (distinti dalla Torah). Ora ciò che è qabalizzato potrebbe essere qualsiasi tipo di tradizione autorevole, ma è la tradizione riguardante la merkavah che è qui la nostra preoccupazione. Quando Paolo desidera sottolineare quell'autorità del suo insegnamento riguardo all'Eucaristia, dice: "Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso", e continua a parlare sia dell'ultima cena di Gesù coi suoi seguaci sia del suo significato e corretta osservanza (1 Corinzi 11:23-33). Le fonti dell'autorità di Paolo includono ciò che ha appreso dai cristiani primitivi (in particolare Pietro, vedi Galati 1:18), ma soprattutto quello che chiama apokálypsis (ἀποκάλυψις), la rivelazione, di Cristo Gesù (Galati 1:12): "Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo; infatti io non l'ho ricevuto né l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo". Tale rivelazione avvenne in un regno soprannaturale, il terzo cielo, il paradiso in cui Paolo in un'altra occasione afferma di essere stato rapito, dove egli udì sapienza indicibile (2 Corinzi 12:1-4).
Tale linguaggio non è semplicemente formale o retorico; è anche una questione di pratica spirituale ed esperienza personale. Paolo attesta, nel momento generativo della sua identità di apostolo e dopo, che la visione del trono divino a cui era stato elevato Gesù risorto si trovava al centro della sua stessa coscienza. Non c'è traccia qui della famosa tendenza di Paolo verso l'argomentazione: la pratica dell'ascesa è semplicemente data per scontata tra coloro che per primi hanno ascoltato le sue lettere. La certezza di Paolo che questa ascesa era un aspetto evidente della sua autorevolezza ci invita a guardare indietro, a cercare tracce della potenza della merkavah nell'esperienza di Gesù. Quelle tracce sono forse più evidenti nel battesimo di Gesù e in ciò che quel ricevere lo spirito santo ha prodotto in lui. Questo ci riporta all'associazione di Gesù con Giovanni chiamato "battista" (Ἰωάννης ὁ βαπτίζων, dal verbo baptizomai, che significa "immergere").
Molte persone vennero da Giovanni per questa immersione, molto spesso lungo la strada verso il Tempio lungo il ben consolidato sentiero di pellegrinaggio che seguiva la Valle del Giordano. Una volta arrivati alla base del monte del Tempio nella stessa Gerusalemme, i pellegrini venivano confrontati da una serie sconcertante di diversi tipi di purificazione – secondo vari livelli di spesa – e ogni pellegrino doveva trovare un passaggio fino alla tripla porta. Ma ancor prima d'arrivare lì, i pellegrini entusiasti volevano riconoscersi come parte di Israele, il popolo di Dio. Un'immersione come quella eseguita da Giovanni forniva loro un senso di fiducia e integrità. Dagli scritti di Flavio Giuseppe, sappiamo che Giovanni non era l'unica figura del genere; Flavio Giuseppe fa riferimento al suo studiare con un altro battista, chiamato Banno. Il miqveh (vasca di immersione rituale) locale dei pellegrini poteva non corrispondere ai requisiti farisaici, e sarebbe stato molto meno lussuoso di quelli dei Sadducei, e meno elaborato di quelli degli Esseni. Ma Giovanni offriva loro la purificazione nell'acqua di Dio raccolta da fonti naturali ("acque vive") e la certezza che questa era la scienza della vera purezza di Israele. In tal modo, quello che avrebbero affrontato a Gerusalemme sarebbe stato meno scoraggiante; le affermazioni e le contro-affermazioni di varie fazioni sarebbero state messe in prospettiva dalla fiducia che uno si era già purificato nelle acque vive di Dio.
L'immersione, per Giovanni, non era una volta per tutte, come nel successivo battesimo cristiano. Nella pratica della Chiesa primitiva, dopo la risurrezione, i credenti sentirono di aver ricevuto lo spirito di Dio quando furono immersi nel nome di Gesù. Tale convinzione divenne possibile dopo la risurrezione, derivante dalla credenza che Gesù fosse vivo e alla destra di Dio, in modo da poter dispensare lo spirito divino. Nel discorso di Pietro durante la Pentecoste (la Magna Charta della teologia battesimale), Gesù, essendo stato esaltato alla destra di Dio, riceve la promessa dello spirito santo dal padre e la riversa sui suoi seguaci (Atti 2:33). Una volta ricevuto dal cristiano, quello spirito non andava e veniva. Un'immersione successiva non avrebbe potuto "ricaricare" una diminuzione di spirito santo. Il cristiano viveva nella potenza dello spirito di Dio; la sua influenza poteva aumentare o diminuire, ma il fatto della sua presenza era irrevocabile. Nella pratica di Giovanni però, come nell'ebraismo nel suo complesso, la purificazione era un requisito di routine, e le persone potevano tornare da Giovanni molte volte, e naturalmente si impegnavano anche in molte altre forme di purificazione, diverse da quella di Giovanni — sia nei loro villaggi che al Tempio. L'impurità era un fatto di vita, e quindi lo era anche la purificazione. Ma Giovanni era lì nel deserto ad attestare che l'acqua viva naturale fornita da Dio avrebbe ottenuto l'accettabilità davanti a Dio, a condizione che l'immersione fosse accompagnata dal pentimento.
Tuttavia, per i talmidim di Giovanni, questa immersione continua – così come quella degli altri – era più che una semplice questione di pentimento. All'interno di quell'attività c'era anche un significato esoterico. Giovanni trasmise una chiara comprensione del significato finale offerto a Israele dalla sua purificazione. Le fonti sono chiare: per Giovanni, l'immersione portava al punto che si poteva capire cosa Dio stesse per fare con Israele. Come lo stesso Giovanni espresse, immergersi nell'acqua preparava uno a ricevere lo Spirito di Dio stesso, che doveva permeare tutto Israele con la Sua santificazione. La chiave della preparazione di Giovanni nei confronti di Dio stesso sta nella formulazione che gli è stata attribuita: "Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo" (Marco 1:8; cfr. Matteo 3:11; Luca 3:16).
Nel contesto del cristianesimo dopo la risurrezione, tali parole sono adempiute da ciò che Gesù risorto conferisce al credente; ma a quel punto ciò presuppone l'identificazione di Gesù con Dio, perché solo Dio stesso può dare del Suo proprio spirito. Nel contesto di Giovanni il Battista, tuttavia, ciò che è in discussione è la purificazione che prepara la via allo spirito divino. Il legame tra la purificazione con l'acqua e la presenza rivendicante dello spirito di Dio è esplicitamente stabilito nel libro di Ezechiele, lo stesso libro che è il locus classicus della merkavah (Ezechiele 36:22-27):
La stretta e causale connessione tra acqua e spirito ha portato all'intuizione che qui abbiamo un importante precedente scritturale dell'immersione di Giovanni. Tutto ciò che divideva Israele, che impediva di realizzare la piena promessa dell'Alleanza, doveva essere spazzato via dalla potenza dello spirito. A coloro che venivano invitati a pentirsi, ai pellegrini di Israele e ai loro compagni, fu detto dell'imminente giudizio che necessariamente comportava la venuta dello spirito di Dio. Dopotutto, lo spirito di Dio proveniva dal suo trono, la fonte di ogni vero giudizio.
Giovanni praticava una kabbalah che immaginava il trono di Dio e sosteneva la sua pratica dell'immersione. Lui e i suoi talmidim videro lo spirito di Dio davanti al suo trono, pronto a immergere Israele, proprio come il comune Israele veniva immerso nelle acque della purificazione. L'attenta disciplina di questi talmidim, la loro pratica ripetitiva e impegnata, la loro dieta a volte inadeguata e l'esposizione agli elementi contribuirono tutti alla chiarezza delle loro visioni del trono di Dio. John Allegro ha suggerito alcuni anni fa che l'ingestione di funghi psicotropi faceva parte di questa disciplina (cfr. John Allegro, The Sacred Mushroom and the Cross. A Study of the Nature and Origins of Christianity within the Fertility Cults of the Ancient Near East, 1970. Il suo suggerimento che "Gesù" fosse semplicemente un nome di un fungo procurò ad Allegro una fredda ricezione, ed il suo tentativo di considerare Gesù interamente mitico - addirittura allucinatorio - vien preso come un tentativo disperato di non porlo in un contesto storico. Più recentemente, si veda Carl A. P. Ruck, Blaise Daniel Staples e Clark Heinrich, The Apples of Apollo. Pagan and Christian Mysteries of the Eucharist, 2002). Mentre l'influenza di erbe e spezie, come anche i funghi, sullo stato psicologico delle persone non può essere trascurata, la maggiore influenza di queste visioni era la stessa kabbalah, il suo richiamo intenzionale e la sua visione del trono di Dio. Da Qumran, un frammento elogia Dio come l'apice di una panoplia celeste: "È Dio degli dei di tutti i sovrani delle altezze e re dei re per tutti i concilii eterni". Il fondamento della kabbalah sta nel porre l'intento della mente nell'immaginare il trono celeste.
L'abilità di Gesù in questa visione lo rese uno dei talmidim più importanti di Giovanni, ma portò anche alla separazione di Gesù da Giovanni. Tutti i Vangeli mettono in relazione il battesimo di Gesù in un modo che richiama il battesimo nel primo cristianesimo. Ma si riferiscono anche alla particolare visione di Gesù, che non tutti i cristiani battezzati potevano avere o rivendicavano (Matteo 3:13-17; Marco 1:9-13; Luca 3:21-22):
Mentre Gesù era immerso per la purificazione, arrivò ad avere una visione sempre più vivida, dei cieli che si aprivano e lo Spirito di Dio che veniva su di lui. E una voce: "Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto". Ognuno di questi elementi è in risonanza con la kabbalah Israelita del trono divino.
I cieli sono visti come gusci multipli e solidi al di sopra della terra, cosicché ogni vera rivelazione del divino deve rappresentare uno squarcio in quei firmamenti. Ma una volta che si aprono, la visione di Gesù non è di ascendere attraverso i cieli, come nel caso di Enoch, ma dello spirito, come una colomba che aleggia su di lui e discende. Quell'immagine è una vivida consapevolezza che lo spirito di Dio al momento della creazione aleggiava sulla superficie delle acque primordiali (Genesi 1:2), come un uccello. L'uccello fu identificato come una colomba nella tradizione rabbinica e un frammento di Qumran sostiene l'associazione. Lo spirito, che un giorno sarebbe venuto in Israele, nella visione di Gesù era già su di lui, e Dio si compiacque in lui come "figlio". Il termine stesso di "figlio" appare molto frequentemente nell'Antico Testamento, per parlare della relazione speciale tra Dio e gli altri. Gli angeli possono essere chiamati "figli di Dio", Israele viene indicato come un figlio divino (il più famoso in Osea 11:1), e il re davidico può essere rassicurato dalla voce divina, "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato!" (Salmi 2:7). Tutte queste sono espressioni, non di una relazione biologica, ma della rivelazione diretta che Dio estende a certe persone e angeli. Gesù afferma di essere della loro discendenza spirituale nell'ambito del suo abbracciare la kabbalah di Giovanni.
La vivida esperienza di Gesù nella sua pratica dell'immersione di Giovanni, una visione persistente che si verifica molte volte, può essere contrastata con una storia su Hillel, un contemporaneo più anziano di Gesù. Accettò prontamente un convertito all'ebraismo e insegnò: "Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torah. Il resto è commento. Va’ e studia." (cfr. Shabbat 31a - L'arguzia della risposta di Hillel alla richiesta del convertito che gli fosse insegnata la Torah mentre si trovava su un piede solo, si manifesta nella frase successiva: " Va’ e studia!" Cioè, insiste sul fatto che il riassunto non sostituisce il commento. A tal proposito, vedi Matteo 5:17). Gesù adottò un punto di vista simile (Matteo 7:12; Luca 6:31) che è conosciuto come la regola d'oro. Lo stesso Hillel era tenuto in così tanta stima da essere considerato degno di ricevere lo spirito santo. Tale stima appare tanto più esaltata, quanto stranamente malinconica, quando si tiene presente che i rabbini ritenevano che lo spirito fosse stato "ritirato" dal tempo degli ultimi profeti delle Scritture. Tali motivi sono riuniti in una storia rabbinica (Tosefta Sotah 13:3):
Con il ritiro dello spirito fino a quando i profeti rivivranno, il favore di Dio viene reso noto da un'eco angelica, un bat qol (o bat ḳōl, ebr. בַּת קוֹל, lett. "figlia di una voce"). Ma il punto forte di questa storia è che, nonostante tutti i meriti di Hillel, lo spirito stesso viene negato. L'approccio di Gesù alla merkavah per mezzo della kabbalah di Giovanni aveva aperto la prospettiva rivoluzionaria che le porte del cielo fossero di nuovo aperte affinché lo spirito discendesse su Israele.
Inizialmente, la visione speciale della merkavah da parte di Gesù era una vittoria per Giovanni. Si riferiva persino a Gesù come "l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo!" (Giovanni 1:29; cfr. anche 1:33,36). Quella frase è attribuita a Giovanni il Battista nel Vangelo di Giovanni, in un passaggio che funge da commentario al significato del battesimo di Gesù. Per i lettori di Giovanni, nel periodo successivo alla distruzione del tempio nel 70 e.v., ciò evocava un'immagine di Gesù come sostituto del sacrificio. Ma il significato precedente era più umile e radicato direttamente nel movimento di perdono battesimale proposta da Giovanni. Egli designò Gesù come uno studente o talmid che, giovane come un agnello, toglieva anche via così tanto peccato che lo spirito di Dio poteva essere sentito presente in lui. Il successo di Gesù come battista, immersore attivo di altre persone, è attestato anche nel Vangelo di Giovanni (Giovanni 3:22,26). Successivamente il Vangelo tenta di correggere quella semplice affermazione, dicendo che furono i talmidim di Gesù, piuttosto che Gesù stesso, a battezzare (Giovanni 4:1-3). Ma questo è un doppio anacronismo: Gesù non aveva ancora i suoi talmidim e non era ancora indipendente da Giovanni.
Il quarto Vangelo, come i sinottici, preferirebbe dimenticare che Gesù stesso era impegnato a battezzare. Per l'autore, lo schema di base era che Giovanni preparava la via con il suo battesimo e che Gesù seguiva come colui per il quale veniva preparata. Ma, come talmid di Giovanni, l'attività personale di Gesù come un battista era naturale; ecco perché è attestato nel Vangelo secondo Giovanni (Giovanni 3:22,26; 4:1). Il successo di Gesù è tale da venire all'attenzione di Giovanni l'immersore, che dice in modo stoico, "Egli deve crescere e io invece diminuire." (Giovanni 3:30). Ma le tensioni andarono molto più in profondità di quanto tale osservazione possa nascondere. Il Vangelo di Giovanni parla anche di una battaglia riguardante la "purificazione" (Giovanni 3:25), che coinvolge evidentemente Giovanni e Gesù. la purificazione era al centro del programma di Giovanni il Battista e ne attesta la rottura, che divenne quasi inevitabile.
L'antagonismo aperto si sviluppò tra Giovanni e Gesù, quando Gesù si spostò dalla dimora di Giovanni, nel Giordano, verso le aree abitate. Egli battezzava più persone di Giovanni, e cominciò ad affermare che le persone che venivano a purificarsi con Giovanni erano in realtà già monde. Nella mente di Gesù, il solo pentimento purifica, in modo che gli Israeliti che si sono pentiti possano rivendicare l'accesso a Dio, il perdono divino e il sostegno divino. La base dell'attività di Gesù era la sua esperienza quando egli stesso fu immerso. Gesù intensificò, estese e generalizzò l'insegnamento di Giovanni sulla merkavah.
La pratica della fratellanza nei pasti, in particolare il kiddush, spesso celebrata, allora e ora, alla vigilia del Sabbath, divenne più che una questione di coincidenza nell'attività di Gesù in quel momento. Una volta aveva festeggiato feste improvvisate con pellegrini affamati. Ora cercava attivamente le persone nelle loro frazioni e villaggi e città intorno alla Giordania, e accettava ospitalità da loro prima di immergerle. Era loro ospite, ma era anche un rabbino itinerante, conosciuto per la sua associazione con Giovanni ad offrire purificazione. Quando si univa al pasto del kiddush, Gesù o l'ospite più anziano a tavola, parlava della santificazione di Dio, che per Gesù era l'Abba di tutti coloro che si rivolgono alla fonte della benedizione di Israele. In questo riferimento all'Abba d'Israele e alla sua santificazione, i principali elementi della preghiera che Gesù in seguito insegnò ai suoi talmidim stavano prendendo forma e venivano riuniti:
In questa fase, la preghiera non era una forma di parole, ma un approccio tematico a Dio strettamente associato al kiddush della sovranità di Dio. Ciò che veniva celebrato non era solo l'alba del Sabbath alla sua vigilia, ma anche l'alba della manifestazione della gloria di Dio.
Un altro caso in cui storie riguardanti voci divine trovano risonanza nel Nuovo Testamento è la trasfigurazione (Matteo 16:28-17:8; Marco 9:1-8; Luca 9:27-36):
La struttura narrativa ricorda l'ascesa di Mosè al Sinai in Esodo 24. Alla fine di quella storia, si dice che Mosè salì sulla montagna, dove la gloria di Dio, come una nuvola, la coprì (24:15). La copertura della montagna durò sei giorni (24:16), che è la quantità di tempo che intercorre tra la trasfigurazione di Gesù e il discorso precedente sia in Matteo (17:1) che in Marco (9:2). Dopo quel tempo, il Signore chiamò Mosè dalla nube (Esodo 24:16b), e Mosè entrò nella gloria della nube, che è come un fuoco divorante (24:17-18). All'inizio del capitolo, a Mosè viene comandato di selezionare tre adoratori (Aronne, Nadab e Abiu) insieme a settanta anziani, al fine di confermare l'Alleanza (24:1-8). Il risultato è che solo queste persone (24:9) vedono il Dio di Israele nella sua corte (24:10) e celebrano la loro visione con un pasto. I motivi di maestro, tre discepoli, montagna, nuvola, visione e audizione ricorrono anche nella trasfigurazione.
Altri dettagli nella presentazione della storia sono coerenti con Esodo 24. Matteo 17:2 si riferisce in modo univoco al volto di Gesù che brilla come il sole, pari all'aspetto di Mosè in Esodo 34:29-35. In termini più generali, il riferimento di Marco al candore delle vesti di Gesù stabilisce anche un contesto celeste. Una variazione in Luca è più specifica e più interessante. Luca pone una distanza di otto giorni, anziché sei, tra il discorso precedente e la trasfigurazione. Sebbene ciò abbia sconcertato i commentatori, nell'interpretazione rabbinica tale variazione è significativa. Nello Pseudo-Gionata (Esodo 24:10-11), Nadab e Abiu sono colpiti da Dio, perché la loro visione contraddice il principio di "nessun uomo mi può vedere e vivere" (Esodo 33:20). Ma la loro punizione (narrata in Numeri 3:2-4) è ritardata fino all’ottavo giorno.
In questa visione celeste compaiono anche due figure della tradizione rabbinica che si ritiene non abbiano sperimentato la morte, Mosè ed Elia. Elia, ovviamente, è il profeta primordiale della merkavah. Il talmid di Elia, Eliseo, vede Elia sollevato nei cieli e il "carro di fuoco e cavalli di fuoco" di Dio (2 Re 2:11). (Il termine per "carro" qui è rekhev, semplicemente la forma maschile della merkavah femminile.) Almeno dal tempo di Flavio Giuseppe, anche Mosè fu ritenuto essere stato portato vivo alla corte celeste. Presi insieme, quindi, Elia e Mosè sono indici dell'accesso di Gesù alla corte celeste. Il suggerimento apparentemente inetto di Pietro al suo rabbino, di costruire "tende", corrisponde anche al recinto per la gloria di Dio sulla terra che a Mosè viene comandato di costruire nei capitoli dell'Esodo dopo il capitolo 24. Nel complesso, la trasfigurazione nel suo momento generativo attesta l'introduzione da parte di Gesù dei suoi talmidim a una visione del trono divino paragonabile alla sua avuta durante il suo battesimo.
L'inquadramento cosciente da parte di Gesù di una kabbalah, un approccio alla divina merkavah per se stesso e per i suoi talmidim, include naturalmente una comprensione della propria identità. Chi è in grado di offrire questo approccio? La presentazione fatta da Luca di ciò che Gesù aveva da dire in una sinagoga di Nazaret, il primo villaggio che conosceva, fornisce un'indicazione precisa proprio di questa autocoscienza. Il Vangelo di Luca presenta anche un profilo chiaro di Gesù come Messia mediante riferimenti al libro di Isaia, come vedremo. Per tutto il tempo, Luca ci prepara al significato dello status messianico di Gesù tramite un miglioramento abbastanza diretto di un elemento nel racconto comunemente sinottico del battesimo di Gesù. Tutti e tre i sinottici hanno Gesù spinto nel deserto dallo spirito, per essere tentato da Satana (Matt. 4:1; Marco 1:12; Luca 4:1), e sia Matteo che Luca includono entrambi tre tentazioni dettagliate a questo punto (Matteo 4:1-11; Luca 4:1-13). In tutti e tre, viene trasmesso il senso che il possesso dello spirito di Dio nel battesimo porta in conflitto con la fonte primordiale di resistenza a tale spirito.
Ma l'articolazione di Luca di quella necessaria resistenza allo spirito è la più completa ed esplicita (Luca 4:1-2):
Il ripetuto riferimento allo spirito rende ancora più enfatica l'insistenza lucana unica sul fatto che Gesù fosse "pieno di Spirito Santo" e che l'espressione si riveli essenziale nei motivi che si stanno sviluppando in questa sezione del Vangelo.
Ancora una volta, dopo la storia delle sue tentazioni, (le storie delle tenazioni elencate, è un contributo della fonte detta "Q"). solo Luca fa ritornare Gesù "in Galilea con la potenza dello Spirito Santo" (Luca 4:14). Non ci sono dubbi, quindi, che in questo momento paradigmatico, quando Gesù inizia la sua attività pubblica, la questione dello spirito è in primo piano nel riferimento all'identità divina di Gesù nell'ambito del Vangelo di Luca. L'inaugurazione di questa attività ha luogo – solo in Luca – per mezzo di una sua venuta in una sinagoga a Nazaret, dove la sua citazione del libro di Isaia è fondamentale (Luca 4:14-30):
In questo passaggio l'attenzione sullo spirito è il punto cruciale del tutto. L'accordo di questo brano con la struttura generale di Luca-Atti ha supportato la scoperta che era stata sintetizzata dal lavoro redazionale sviluppato in questi due documenti. E l'utilità del brano all'interno di Luca-Atti non può ragionevolmente essere negata. L'intera pericope, dal versetto 14 al versetto 30 in Luca 4, stabilisce un modello – di leggere le Scritture in una sinagoga, godere di un certo successo ma poi subire un rifiuto violento, un rifiuto che porta a rivolgersi a non-ebrei – che corrisponde al esperienza di Paolo e Barnaba nel libro degli Atti, in particolare ad Antiochia di Pisidia (cioè Antiochia in Asia Minore, non Antiochia sull'Oronte) in Atti 13:13-52. Insieme, Luca 4 e Atti 13 stabilirono un modello per la Chiesa di Luca-Atti. Il nome "Antiochia" è la chiave dell'importanza di quest'ultimo brano, così come la parola "unzione" nel primo passaggio è profondamente evocativa. I due sono come se i violini di un'orchestra si trovassero a una distanza di vibrazione, per cui uno strumento fa risuonare l'altro. Per Luca-Atti, Paolo e Barnaba risuonano con lo scopo, il programma e l'autorizzazione di Gesù stesso.
Le parole citate da Isaia iniziano, "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione". Ecco quindi la precisazione di come lo spirito sia stato con Gesù dal momento del suo battesimo. Lo spirito rappresenta la sua unzione. In greco, come in ebraico e aramaico, il termine "messia" significa sostanzialmente "l'unto". Questa etimologia è di interesse più che accademico, perché il verbo usato qui (khrio) si associava all'orecchio di un interlocutore greco con il termine "messia" o "Cristo" (khristos). Gesù è Messia perché lo spirito è su di lui e il testo di Isaia diventa un itinerario della sua attività.
Proprio qui, tuttavia, diventa evidente la dissonanza tra la tipica attività di Gesù e il testo di Isaia 61, citato da Luca. I fatti semplici sono che Isaia 61:1-2 si riferisce a cose che Gesù non ha mai fatto, come liberare i prigionieri dal carcere, e Gesù ha fatto cose di cui il testo non parla, come dichiarare le persone libere dall'impurità (cfr. Matt. 8:2-4; Marco 1:40-45; Luca 5:12-16). Questa dissonanza non è probabilmente una creazione lucana, perché lo schema del Vangelo è quello di rendere la corrispondenza delle citazioni bibliche più vicina possibile alla Septuaginta. Allo stato attuale del testo, inoltre, un cambiamento rispetto a qualsiasi forma nota del testo biblico si traduce in un'occasione persa di relazionarsi direttamente all'attività di Gesù, oltre a introdurre un elemento di maggiore dissonanza. La frase "fasciare le piaghe dei cuori spezzati" è stata omessa dalla citazione e sono state inserite parole simili a quelle di Isaia 58:6, un riferimento alla messa in libertà degli oppressi.
Sebbene il Vangelo di Luca presenti le parole – evidentemente ispirate a Isaia – come una lettura di routine in una data sinagoga, evidentemente non era così nella tradizione precedente a Luca. La "citazione" di Gesù non è affatto una citazione, ma una versione più libera del libro biblico di quanto si potesse in verità leggere. La formulazione del brano negli antichi Vangeli siriaci (in una lingua strettamente correlata all'aramaico indigeno di Gesù) è ancora più libera:
Sono presenti le stranezze che Luca conserva, insieme a ciò che è stato omogeneizzato in Luca: il cambiamento radicale dei pronomi. Pronunciando queste parole, Gesù si rappresenta come colui che risponde ad un incarico divino: "Lo spirito del Signore è su di te, per il quale tu sei stato consacrato di annunciare trionfo ai poveri". Poi accetta con enfasi quell'incarico: "E mi ha mandato a predicare la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi — E io darò conforto ai derelitti — e a predicare l'anno di misericordia del Signore". Sia l'incarico che l'accettazione enfatica sono prodotte dalle evidenti variazioni nei pronomi, che sono in corsivo sopra. Sono parte integrante di un'alterazione consapevole del linguaggio preso dal libro di Isaia, un'alterazione che esprime il testo in un modo che lo rende simile al bat qol battesimale e al bat qol alla trasfigurazione.
L'alterazione è tipica dello stile di Gesù che utilizza le Scritture, in particolare il Libro di Isaia (e specialmente in una forma targumica). Il suo scopo era quello di usare le Scritture come una lente della propria attività per conto di Dio, in modo tale che la formulazione si concentrasse su come Dio era attivo in ciò che egli diceva e faceva, senza suggerire un adattamento completo tra il testo e ciò a cui Gesù si riferiva. La Scrittura era una guida all'esperienza di Dio nel presente, ma tale esperienza era più importante del testo e poteva essere usata per ridisegnare il testo. Questo brano da Luca ci porta alla fonte della comprensione che Gesù aveva di se stesso in termini messianici. Dichiarò che la sua unzione con lo spirito di Dio lo autorizzava e lo vincolava ad agire per conto di Dio.
Lo studio biblico è stato deviato dal dovuto apprezzamento di questo passaggio. L'identificazione di Gesù come Messia è stata caricata dalla supposizione che il termine "messia" debba essere compreso con uno specifico significato politico, sacerdotale o profetico per poter essere impiegato. Poiché Gesù non può essere associato direttamente a nessun programma di questo tipo, viene regolarmente negato che Gesù abbia applicato il termine a se stesso. Chiaramente, l'associazione di Gesù come Messia con lo Spirito ha guadagnato valore dopo e come conseguenza della risurrezione. Ma tale valorizzazione è molto difficile da spiegare, come sottolinea Marinus de Jonge, se "Gesù stesso evitò questa designazione e scoraggiò i suoi seguaci dall'usarla" (cfr. De Jonge, Early Christology, 101). Un certo uso coerente del linguaggio messianico fu probabilmente sullo sfondo dell'insegnamento di Gesù perché il termine sia emerso come designazione primaria di Gesù. Dal momento che il Vangelo di Luca fu composto ad Antiochia intorno al 90 e.v. in una comunità in cui si parlavano sia greco che aramaico, è una probabile fonte tra i sinottici ad indicare quale potesse essere stato tale sfondo. La stretta connessione tra lo Spirito di Dio e "unzione", come nel riferimento a Isaia 61 da parte di Gesù in Luca 4, ci fornisce proprio l'indicazione che ci fornisce il quadro del primo sviluppo del uso cristiano. Unto dallo Spirito di Dio, Gesù si considerava di star compiendo e articolando le rivendicazioni della sovranità di Dio ("il regno di Dio"). Il suo insegnamento in effetti non chiarisce il contenuto dell'essere "Messia" per mezzo di un preciso programma tratto dalla letteratura biblica o pseudepigrafica, ma mette in relazione lo Spirito con la propria attività, e in Luca 4 questa relazione implicava un linguaggio esplicitamente messianico.
Ma la presentazione lucana è precisamente ciò che rende ancor più sorprendente la forma della "citazione" di Isaia 61. Come invenzione lucana, il riferimento sarebbe stato in accordo con la Septuaginta. In effetti, gli antichi Vangeli siriaci forniscono una visione della forma del riferimento a Isaia 61 da parte di Gesù prima che fosse parzialmente adattato alla Septuaginta nella presentazione lucana. Il riferimento fratturato a Isaia 61 concentra l'identità messianica di Gesù sulla questione dello spirito, e quello era il punto di partenza per lo sviluppo della primitiva messianologia cristiana, e quindi della cristologia in senso proprio.
Luca ci offre una visione centrata della cristologia di Gesù, focalizzata sullo Spirito di Dio. Nell'ambito degli studi recenti su Gesù, sono emerse di nuovo due immagini scartate della sua cristologia e, concludendo, suggerirei che è probabile che verranno scartate di nuovo. La prima sottolinea l'indubbia importanza della sfida politica all'identità di Israele nel primo secolo. Gesù diventa quindi il "Messia davidico", una figura dominante che stabilisce il suo trono in associazione con il Tempio. Ciò, nonostante la rappresentazione di Gesù nelle Tentazioni come rifiutasse un'immagine di tale regalità, e nonostante la sua stessa domanda retorica: "Come mai gli scribi dicono che il Messia è Figlio di Davide?" (Marco 12:35, insieme a Matteo 22:42; Luca 20:41). Tale domanda assume una tradizione di identificazione del Messia e del ben David, ma anche – e ovviamente – la confuta. Qualsiasi teologia messianica implica intrinsecamente una dimensione politica, ma rendere tale dimensione l'unico indice di significato va contro l'interpretazione di Gesù che dice che le affermazioni davidiche e messianiche non erano semplicemente identificabili. Un altro punto di vista, derivato in definitiva dalla rappresentazione di Gesù come un apocalittico fallito proposta da Albert Schweitzer, immagina Gesù che prende su di sé, personalmente, tutte le condizioni dell'Alleanza con Israele, nel disperato tentativo di convincere Dio ad adempiere le promesse del patto (cfr. per questa reinterpretazione neo-ortodossa di Schweitzer, si veda N. T. Wright, Jesus and the Victory of God, 1993). Questo, nonostante il fatto che il termine "alleanza" nei detti di Gesù appare solo in un unico caso, in quella che sembra essere un'aggiunta liturgica al significato del calice di vino nel contesto dei suoi ultimi pasti a Gerusalemme. Pietro e Paolo erano senza dubbio i teologi di questa alleanza, perché dovevano affrontare direttamente i problemi di chi fosse e non fosse parte del popolo di Dio. Gesù, tuttavia, non sembra aver affrontato la questione in termini di alleanza.
Ma una volta che l'approccio di Gesù alla merkavah, sulla base della sua infusione dello Spirito, viene visto come il perno della sua esperienza e del suo programma di attività, la sua cura nel definire come egli fosse e come egli non fosse il Messia acquisisce il suo senso. La sua identità messianica era una funzione della sua autocoscienza e della consapevolezza dei suoi talmidim che la sua kabbalah offre la visione di Dio nella Sua gloria perché lo spirito divino rende possibile tale visione.
Per approfondire, vedi Serie cristologica, Serie misticismo ebraico, Serie maimonidea e Serie delle interpretazioni. |