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Cromatografia/Cromatografia liquida

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Indice del libro

La cromatografia liquida prevede l'utilizzo di un solvente liquido come fase mobile.

Caratteristiche generali

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La cromatografia liquida può essere suddivisa in due grandi categorie:

  • cromatografia liquida classica;
  • cromatografia liquida ad alta prestazione (HPLC).

La prima non ha un grande interesse in ambito analitico in quanto viene solitamente usata solo a scopi preparativi e prevede l'utilizzo di una strumentazione simile a quella che venne usata da Tswett nel 1906. Questa tecnica prevede l'utilizzo di una colonna di vetro riempita con una sospensione di gel di silice in testa alla quale viene caricato il campione che viene poi eluito con dei solventi scelti in base al tipo di analita.

La cromatografia liquida ad alta prestazione è invece la tecnica più usata in ambito analitico e trova molte applicazioni anche in ambito industriale e nella ricerca scientifica. È una tecnica cromatografica molto efficace e versatile in quanto permette di separare due o più composti presenti in un campione in poco tempo, realizzando la separazione di miscele anche molto complesse oltre a fornire, se accoppiata con un rivelatore adatto, la composizione quantitativa della miscela in esame. L'HPLC è infatti in grado di separare composti con un peso molecolare che va da 54 a 450.000 Da anche con quantità di campione estremamente piccole, fino a dimensioni nell'ordine dei nanogrammi.[1] La cromatografia liquida è estremamente versatile in quanto può essere utilizzata per separare ed analizzare un grande numero di composti: sia sostanze con bassa tensione di vapore come le macromolecole e i composti ionici, sia prodotti termolabili (amminoacidi e acidi nucleici) altrimenti non analizzabili con altre tecniche quali ad esempio la gascromatografia. È considerata l'evoluzione della strumentazione usata nella cromatografia liquida classica: prevede l'utilizzo di colonne particolari che vengono sottoposte ad un flusso di eluente sotto pressione. Il fatto di lavorare a pressione molto elevate è alla base dell'efficienza di questa tecnica in quanto consente di avere una fase stazionaria molto fine e ben impaccata, necessaria per ottenere una buona risoluzione come si evince dall'equazione di Van Deemter, senza per questo allungare troppo i tempi di eluizione. Per contro, lavorare sotto pressione fa alzare considerevolmente i costi della strumentazione, in quanto talvolta sono necessarie pressioni che possono raggiungere valori nell'ordine di centinaia di atmosfere. Questo aspetto, unito alle esigenze relative alla strumentazione necessaria, viene ampiamente compensato dall'efficienza della separazione.
I solventi che vengono usati come fase mobile per la cromatografia subiscono spesso un processo di degasaggio che prevede la saturazione dei recipienti di stoccaggio dei solventi con gas inerte al fine di rimuovere l'aria eventualmente presente. In alternativa si può eseguire un degasaggio ad ultrasuoni al momento del riempimento dei recipienti di solvente, o ancora filtrazione in aspirazione.[2] Il motivo per cui si esegue questo procedimento sta nel fatto che si vuole evitare l'entrata di bolle d'aria all'interno della colonna perché queste costituiscono un elemento di discontinuità nel sistema e possono quindi incidere negativamente sull'analisi.

La strumentazione necessaria per eseguire un'analisi HPLC può essere così schematizzata:

Schema a blocchi di un HPLC

I flussi che vengono generalmente ottenuti variano da 0,1 a 10 mL/min e hanno una riproducibilità non inferiore allo 0,5%.[3] Le pompe usate per l'HPLC devono soddisfare i seguenti requisiti:

  • il flusso di eluente deve essere costante e privo di pulsazioni per garantire costante la velocità della fase mobile e per evitare la generazione di impulsi di pressione al momento della compressione, generando così discontinuità all'interno della colonna;
  • devono essere in grado di lavorare ad alte pressioni;
  • devono essere resistenti alla corrosione (per questo la parte a contatto con l'eluente è spesso costituita da materiali chimicamente inerti);
  • devono fornire la possibilità di realizzare gradienti di solvente riproducibili.

Sono presenti diversi tipi di pompe a seconda delle richieste dell'analisi. Tra queste ci sono:

  • pompa a siringa;
  • pompa alternativa reciprocante a singola testa;
  • pompa alternativa reciprocante a doppia testa.
Pompa a siringa

La pompa a siringa è costituita da una camera cilindrica che viene riempita di fase mobile la quale viene poi spinta in colonna da un pistone. Il vantaggio di queste pompe è che sono molto robuste, il che consente di operare ad elevate pressioni, e che garantiscono la totale assenza di impulsi, questo perché il pistone si muove in modo continuo e a velocità costante. Per contro però presentano una capacità limitata (di solito 250 mL [4]) e non consentono l'esecuzione di un'eluizione a gradiente di solvente.


Pompa alternativa reciprocante a singola testa


Le pompe alternativa reciprocanti sia a singola che a doppia testa sono le pompe più usate in cromatografia liquida, hanno un piccolo volume interno che varia da 35 a 400 mL ed elevata pressione interna che può arrivare fino a 10.000 psi.[5]

La pompa alternativa reciprocante a singola testa è costituita da un albero a camme che muove alternativamente un pistone avanti e indietro nella camera di iniezione. Questa è dotata di due valvole: una che regola l'entrata dell'eluente e l'altra che serve ad indirizzarlo verso la colonna. Quando il pistone si muove all'indietro la valvola del solvente è aperta mentre quella che conduce alla colonna è chiusa, in questo modo la camera si riempie di fase mobile. Quando invece il pistone si muove in avanti spinge il solvente verso la colonna passando attraverso la valvola superiore. In questa fase di compressione la valvola che fa entrare il solvente nella camera è mantenuta chiusa.

Pompa alternativa reciprocante a doppia testa


La pompa alternativa reciprocante a doppia testa è invece costituita da due unità come quella sopra presentata. L'albero a camme in questo caso muove alternativamente i due pistoni presenti nelle camere: in questo modo quando una delle due si sta riempiendo di solvente l'altra lo sta scaricando verso la colonna. In questo modo si sfruttano entrambi i movimenti del pistone senza che la corsa cromatografica debba essere interrotta per riempire la camera. Il grande vantaggio rappresentato da quest'ultima tipologia di pompa è dato dal fatto che il movimento alternato del pistone avanti e indietro permette di sovrapporre gli impulsi in controfase e quindi di smorzare l'oscillazione del flusso che altrimenti costituirebbe un elemento di discontinuità nell'analisi.
Per migliorare ulteriormente il risultato e rendere ancora più costante il flusso della fase mobile, si possono sfruttare degli smorzatori di impulso che vengono posizionati a valle della pompa.
Un importante ulteriore vantaggio di questa tipologia di pompe è il fatto che rendono possibile l'utilizzo di solventi diversi e in differenti proporzioni: è quindi possibile fare non solo eluizioni isocratiche ma anche a gradiente di solvente.

Valvola commutativa in assetto di carico

Il sistema di iniezione utilizzato per l'introduzione del campione in colonna prevede l'utilizzo di una valvola commutativa la quale è dotata di sei fori e che può assumere due assetti differenti a seconda che sia impostata in fase di carico o di iniezione. Durante la fase di carico il campione viene fatto entrare nel loop, un capillare di volume fisso e noto, fino al suo completo riempimento: per essere sicuri che ciò avvenga viene iniettato più campione di quello che il loop è in grado di contenere e l'eccesso viene scaricato nello smaltimento.


L'utilizzo di questo capillare, di cui è perfettamente noto il volume, si rende necessario in quanto iniettare volumi così piccoli con altri metodi sarebbe poco accurato e preciso, al contrario iniettare volumi maggiori e scartare l'eccesso permette di minimizzare l'errore percentuale sul volume totale.

Valvola commutativa in assetto di iniezione

Per modificare il volume di campione iniettato in colonna sarà quindi sufficiente usare un loop a capienza differente. Nel frattempo la fase mobile viene fatta fluire direttamente in colonna. Una volta che il loop si è riempito, la valvola ruota e passa all'assetto di iniezione: la fase mobile viene forzata attraverso il loop spingendo il campione in colonna, mentre il campione in eccesso va direttamente allo scarico, in questo modo si è sicuri che il volume di campione che entra in colonna è solo quello contenuto nel loop.
Per omogeneizzare il sistema è necessario condizionare la colonna, ovvero eseguire un processo di pulizia volto ad eliminare le specie eventualmente adsorbite sul rivestimento interno della colonna, oltre ai residui del solvente utilizzato nelle analisi precedenti.[6] Dal punto di vista pratico tale operazione viene eseguita facendo fluire un volume di fase mobile pari a circa sei volte il volume della colonna.[7] Una tipica analisi HPLC viene svolta con volumi di circa 20 μL di solvente contenenti circa 10-50 ng di campione, i flussi solitamente raggiungono una velocità di circa 1-2 mL/min e impiegano tempi diversi a seconda che l'analisi sia eseguita in isocratica (circa 10 minuti) o a gradiente di solvente (1 ora).[8]

Le colonne usate in HPLC sono solitamente realizzate in acciaio inox in quanto è un materiale che ben soddisfa le esigenze di pressione e inerzia chimica nei confronti dei solventi usati.
Lunghezza e diametro sono variabili a seconda dello scopo per cui vengono utilizzate: quelle destinate a scopi preparativi sono solitamente più grandi e più lunghe perché devono essere delle dimensioni adeguate per lavorare con grandi quantità di sostanze, quelle analitiche invece sono più piccole. Le dimensioni per queste ultime sono 2-5 cm di diametro e hanno una lunghezza che arriva ad un massimo di 25 cm. [9]
Bisogna comunque tenere a mente il fatto che colonne più lunghe richiedono pressioni più elevate e quindi il processo di eluizione diventa più lungo e complesso da gestire per via delle condizioni più drastiche. Si cerca infatti di lavorare con colonne che siano il più corte possibili usando una fase stazionaria con granulometria molto fine.
Una colonna è dotata di due filtri posizionati alle estremità: quello presente all'imboccatura serve per evitare che vi entrino delle particelle che possono andare ad ostruirla, mentre quello che si trova all'estremità di uscita della colonna serve a trattenere la fase stazionaria in modo che non venga pompata all'interno del rivelatore.[10]
Quando vengono fabbricate non hanno un verso di utilizzo preferenziale, ma una volta utilizzate vanno orientate poi sempre nello stesso verso: il flusso di solvente all'interno infatti provoca un riarrangiamento della fase stazionaria che rischia di venire danneggiata in caso di inversione del flusso. Solitamente si esegue questa pratica solamente in casi estremi nel tentativo di salvare una colonna danneggiata come ad esempio nel caso in cui ci siano segni di sovrappressione o nel caso in cui sia intasata.
Ci sono diversi fattori che possono andare ad intaccare e compromettere l'efficienza della colonna:

  1. Perdita della fase legata - questo effetto può essere causato principalmente da due effetti: pH troppo basso o temperatura troppo alta. Il pH di esercizio deve essere circa compreso tra 2,5 e 7,5.[11] Gli impaccamenti per le colonne cromatografiche vengono generalmente realizzati per reazione tra silani e il gruppo -OH della silice con formazione di silossani. Dal momento che tale reazione è fortemente influenzata dal pH, occorre che questo venga mantenuto in un intervallo di esercizio tale da non modificare la forma in cui si trova la superficie costituente l’impaccamento della colonna: quando il pH scende a valori inferiori a 2,0 unità di pH, infatti, il legame silossanico viene rotto con formazione di silanoli che, essendo più polari rispetto ai silossani corrispondenti, aumentano lo scambio cationico della superficie. Allo stesso modo elevate temperature possono produrre diversi effetti sulla colonna: innanzitutto può andare ad aumentare la solubilità della silice e accelerare la formazione di zone svuotate. Se poi questo avviene a pH bassi il rischio è che si abbia la rimozione di parte della fase legata che si può facilmente riconoscere nel cromatogramma in quanto è caratterizzata dalla presenza di 4 picchi caratteristici. Un altro aspetto che può portare alla formazione di questo effetto è dato dall'ossidazione della fase legata: per questo motivo infatti si esegue il degasaggio dei solventi.
  2. Aumento della pressione - ogni colonna ha un limite superiore di pressione che può essere tollerato e che qualora questo venga superato può provocare diversi problemi. Innanzitutto ci sono tre diversi punti della colonna in cui può verificarsi tale aumento di pressione: all'imboccatura, nel letto della colonna o in corrispondenza dell'uscita. All'imboccatura della colonna è presente un filtro che è in grado di raccogliere ogni particella di dimensioni superiori a 2 μm: più materiale viene raccolto e più la pressione tende ad aumentare. Il filtro posizionato in testa alla colonna può essere anche otturato da del tampone precipitato. In questi casi per risolvere il problema si può sostituire il filtro. Si agisce nello stesso modo qualora l'aumento della pressione sia localizzato in corrispondenza del filtro posizionato in fondo alla colonna, una valida alternativa prevede l'esecuzione di una sonicazione con NaOH 10% per pulire la colonna.[12] Se l'aumento di pressione persiste allora vuol dire che il problema riguarda il letto della colonna. Questo può essere causato dalla precipitazione del campione o del tampone e si verifica soprattutto se si lavora con soluzioni molto concentrate, quasi sature. Se l'otturazione non è completa e la fase mobile riesce comunque a fluire attraverso la colonna, seppur a fatica, si può provare a risolvere il problema usando un eluente estremamente forte, oppure, in casi estremi, si può provare ad invertire la colonna.
  3. Canalizzazione della colonna - questo effetto prevede la formazione di cammini preferenziali all'interno della colonna in cui la resistenza allo scorrimento del flusso è minore. In questa porzione del letto cromatografico le zone di interfaccia tra le due fasi sono più limitate e la colonna risulta quindi essere meno efficiente nella separazione, ne consegue quindi che i tempi di ritenzione si accorciano.[13] Questo effetto porta allo slargamento delle bande in uscita dalla colonna a cui consegue l'ottenimento di picchi scodati.[14]
  4. Effetti che dissolvono la fase stazionaria della colonna o che compromettono l'imballaggio stesso - questo effetto si verifica soprattutto a pH > 8 in quanto in queste condizioni la silice che costituisce la fase stazionaria inizia a dissolversi formando delle zone vuote all'interno del riempimento della colonna, per questo motivo il limite superiore di pH di esercizio è posto a 7,5.[15]
  5. Materiali che si legano alla colonna - questo effetto si verifica quando del materiale rimane incastrato nel riempimento oppure va a rivestire la superficie della fase stazionaria cambiando quindi le caratteristiche della colonna.

All'interno della colonna si trova la fase stazionaria che è composta da particelle molto fini e disposte in modo uniforme con granulometria compresa tra i 3 e i 10 μm,[16] funzionalizzate a seconda della necessità. Si possono avere:

  • particelle pellicolari - costituite di granuli di silice o di altro polimero su cui è depositato un sottile strato di fase stazionaria liquida o di resina scambiatrice;
  • particelle porose - costituite di granuli di silice, zeoliti o altri polimeri la cui componente attiva è costituita dalla stessa superficie delle particelle.

Per avere la miglior efficienza e quindi le migliori prestazioni possibili è necessario avere il migliore impaccamento e quindi un diametro delle particelle della fase stazionaria molto piccolo, per contro però bisogna tenere a mente che un impaccamento molto compatto comporta una maggiore contropressione: sarà quindi necessario trovare il giusto compromesso tra questi due aspetti.

Le interazioni che si instaurano fra i soluti e le due fasi, stazionaria e mobile, sono deboli e reversibili in modo che l'analita venga comunque eluito in condizioni opportune. Se così non fosse e questo non avvenisse, non ci sarebbe eluizione o ritenzione da parte della fase stazionaria perché l'analita rimarrebbe bloccato all'interno della colonna.
Le interazioni che si stabiliscono sono deboli quali ad esempio:

  • legame a idrogeno;
  • interazioni coulombiane;
  • interazioni steriche;
  • forze di Van der Waals;
  • interazioni dipolo-dipolo;
  • interazioni dipolo-dipolo indotto;
  • interazioni dipolo indotto-dipolo indotto.

In base ai meccanismi di interazione dell'analita con la fase stazionaria si può eseguire una distinzione tra i meccanismi cromatografici. Il principio alla base è però sempre lo stesso ovvero che la fase stazionaria interagisce con i componenti da separare in modo diverso modificando così la velocità con cui si muovono lungo la colonna e quindi agendo sul loro tempo di ritenzione.

La cromatografia di adsorbimento è utilizzata per separare sostanze sia inorganiche che organiche. In particolare è adatta per sostanze moderatamente o poco polari, solitamente insolubili in acqua e con PM<5000. È spesso usata anche per separare miscele di isomeri come ad esempio regioisomeri.
La fase stazionaria si presenta come una polvere molto fine impaccata in colonna i cui siti attivi si trovano sulla superficie dei granuli ed è solitamente costituita da allumina o silice: sebbene abbiano caratteristiche di adsorbimento confrontabili tra loro la più usata è la silice in quanto ha una maggior varietà di forme utili. [17] Può essere applicata sia alla cromatografia liquida che alla gascromatografia, l'unica differenza sarà data dalla fase mobile, che nel primo caso sarà costituita da un liquido e nel secondo da un gas.
Tra l'analita e la fase stazionaria si formano dei legami deboli che trattengono momentaneamente l'analita in colonna: questi legami sono reversibili e vengono rotti e riformati innumerevoli volte durante la corsa cromatografica, causando il rallentamento dell'analita rispetto al solvente puro. L'ordine di eluizione delle componenti presenti nel campione dipende dall'affinità che queste hanno con la fase stazionaria: tanto più questa è elevata e tanto più sono lunghi i tempi di ritenzione. L'unica variabile su cui si può intervenire per modificare i coefficienti di distribuzione degli analiti nelle due fasi è la composizione della fase mobile: la forza dell'interazione tra l'analita e la fase stazionaria infatti, aumenta all'aumentare della polarità dell'analita stesso, per cui le molecole a polarità maggiore saranno quelle che verranno eluite a tempi maggiori perché più saldamente trattenute in colonna. Per questo motivo infatti, per diminuire i tempi di ritenzione, si può andare ad aumentare la polarità del solvente secondo la serie eluotropica che consiste in una classificazione dei solventi in ordine crescente di potere eluente riferita all'allumina. Si misura il calore che si sviluppa mettendo a contatto allumina e il solvente: più l'interazione che si instaura tra le due è forte e più il solvente si trova avanti nella serie eluotropica. Essendo:[18]

A + Mads Aads + M
con A = analita
M = fase mobile

Da cui si può notare come il passaggio del solvente possa spostare l'equilibrio a favore dell'eluizione dell'analita: il solvente infatti rende reversibile il processo per effetto di massa.
Per evitare che sostanze polari restino trattenute in colonna e non vengano eluite, è consigliabile usare sempre almeno una piccola percentuale di componente polare nel solvente.

La cromatografia di ripartizione è una delle tecniche cromatografiche più utilizzata, ha diverse applicazioni in ambito farmaceutico, ambientale, forense e molti altri.
La fase stazionaria è costituita da un film liquido che ricopre un supporto solido solitamente costituito da un materiale granulare e inerte. Il requisito fondamentale di questa tecnica è che la fase mobile e il liquido della fase stazionaria devono essere immiscibili tra loro pur presentando entrambe una certa affinità per gli analiti. Questo tipo di cromatografia si basa sul meccanismo di ripartizione dell'analita nei due solventi: la fase mobile e il film liquido della fase stazionaria. Il fattore da cui dipende la separazione è costituito dalla solubilità relativa dell'analita nei due liquidi (si parla infatti di cromatografia di ripartizione liquido-liquido). L'ordine di eluizione dipende dall'affinità dell'analita per la fase stazionaria: tanto più questi saranno solubili nel film costituente la fase stazionaria e tanto più a lungo verranno trattenuti in colonna.
A seconda della polarità dei due solventi usati si avrà un diverso tipo di cromatografia:

  • fase normale - si ha quando la fase stazionaria è più polare della fase mobile. Le miscele usate più comunemente come fase mobile prevedono l'uso di esano[19] (che essendo apolare non interagisce con la fase stazionaria che è scelta invece molto polare) e un altro solvente come cloroformio o propan-2-olo. Quest'ultimo è chiamato solvente attivo o modificatore in quanto è in grado di competere con l'analita per i siti attivi della fase stazionaria. La concentrazione del solvente attivo che viene inserita nella miscela influenza molto l'eluizione: all'aumentare della concentrazione infatti la solubilità dell'analita nella fase mobile aumenta e di conseguenza il tempo di ritenzione diminuisce. La fase stazionaria invece presenta gruppi amino, ciano e diol;
  • fase inversa - si ha quando la fase mobile è più polare della fase stazionaria. In questo caso la fase mobile è costituita da una miscela di acqua (che, essendo molto polare, non interagisce con la fase stazionaria che è invece molto apolare) e un altro solvente attivo come metanolo, acetonitrile e tetraidrofurano. Una delle fasi mobili più usata è una miscela 60/40 H2O/EtOH. [20] La fase stazionaria è invece solitamente costituita da C2, C8, C18, tenendo a mente il fatto che all'aumentare del numero di atomi di carbonio aumenta la capacità di ritenzione.

La cromatografia di ripartizione a fase inversa è la più comune e la più usata delle due per la separazione di composti organici, in particolare miscele idrocarburiche.
Molto spesso il film liquido è legato chimicamente alla fase stazionaria con legami covalenti attraverso silani e silanoli.
Anche in questo caso l'eluizione può essere condotta in isocratica o a gradiente di solvente: in quest'ultimo caso sarà sufficiente variare la composizione della miscela di fase mobile per aumentare la forza del solvente e fare quindi diminuire i tempi di ritenzione.

La cromatografia a scambio ionico è una tecnica cromatografica che viene utilizzata per separare sostanze ioniche o ionizzabili. Con questa tecnica si analizzano amminoacidi, acidi grassi e alcaloidi. La fase stazionaria è costituita da un polimero inerte funzionalizzato con siti attivi ionizzanti o ionizzabili, neutralizzati da controioni facilmente sostituibili da ioni aventi carica dello stesso segno presenti nella fase mobile. Questa tipologia di cromatografia non è in grado di separare composti privi di carica o aventi carica coerente con la fase stazionaria costituente l'impaccamento della colonna. Il meccanismo di separazione si basa sulla competizione dei singoli ioni della fase mobile e dell'analita per i siti attivi di scambio della fase stazionaria.
Il meccanismo di scambio ionico prevede quattro fasi:

  • diffusione dello ione dell'analita sulla superficie della resina;
  • scambio ionico tra lo ione analita e lo ione precedentemente trattenuto dalla fase stazionaria - tanto maggiori sono le dimensioni e la carica dello ione e tanto meglio questo viene trattenuto in colonna. Dal momento che è fondamentale che l'analita sia nella forma ionica desiderata, è necessario controllare il pH, per questo motivo infatti si aggiunge spesso un tampone. Nel caso in cui i target dell'analisi siano specie anioniche il pH deve assumere valori sufficientemente elevati da avere la specie in forma deprotonata, viceversa in caso di specie cationiche. Valutazioni di questo tipo sono fondamentali ad esempio in caso di analisi di amminoacidi in quanto a seconda del pH di esercizio possono trovarsi in forma acida, basica o zwitterionica. Questo aspetto può però costituire un limite dal momento che talvolta anche la fase stazionaria può avere degli intervalli di pH di lavoro differenti da quelli necessari per avere la specie in forma ionica;
  • allontanamento del controione e sua diffusione nella resina;
  • eluizione selettiva degli analiti legati alla resina - andando a variare il pH e quindi aumentando la concentrazione del tampone, la forza ionica, aggiungendo KCl o NaCl, o entrambi. Anche in questo caso verranno eluite prima le specie che avranno con la fase stazionaria interazioni più deboli.

La cromatografia a esclusione dimensionale è una tecnica che viene applicata prevalentemente a macromolecole organiche (usata in particolare per purificarle e determinare il loro peso molecolare) e per i polimeri. Tolta questa applicazione è solitamente poco utilizzata per analisi quantitative e impiegata soprattutto nella sintesi organica.
La fase stazionaria è un solido o un gel che presenta dei pori di dimensioni note e opportune quali ad esempio la silice, il vetro o polimeri particolari. La silice è molto usata in quanto è più rigida e garantisce un impaccamento migliore, il che consente di adottare pressioni maggiori e al contempo una più vasta gamma di solventi.[21] In questo caso la fase mobile ha solo funzione di trasporto e la sua natura chimica non è particolarmente rilevante dal punto di vista della buona riuscita dell'analisi. Le molecole di analita che vengono disciolte nell'eluente vengono ripartite a seconda della loro capacità di penetrare nelle porosità della fase stazionaria e rimanervi intrappolate. Tanto più piccolo sarà il diametro delle particelle di analita e tanto più riusciranno a penetrare in profondità nella fase stazionaria e quindi tanto più a lungo verranno trattenute in colonna: le molecole troppo grandi non riusciranno ad entrare nei pori e usciranno dalla colonna per prime. [22]
Si possono definire alcuni parametri fondamentali in ambito di cromatografia ad esclusione dimensionale:

  • limite di esclusione - massa della particella più piccola le cui dimensioni sono tali da impedirle di entrare all'interno delle porosità della fase stazionaria. Tutte le sostanze aventi massa molare pari o superiore al limite di esclusione verranno eluite insieme ed usciranno per prime dalla colonna;
  • limite di permeazione - massa molare della particella più grossa che riesce comunque ad entrare nei pori. Tutte le sostanze aventi massa uguale o inferiore al limite di permeazione verranno trattenute in colonna per tempi differenti a seconda della compatibilità dimensionale tra il diametro della particella e il diametro delle porosità;
  • intervallo di frazionamento - intervallo delle masse molari delle molecole che vengono separate dalla colonna. Questo intervallo di massa è compreso tra il limite di permeazione e il limite di esclusione.

A seconda che le sostanze da analizzare siano solubili o meno in acqua avremo due tecniche simili ma differenti:

  • gel filtrazione - sostanze insolubili in acqua;
  • gel permeazione - sostanze solubili in acqua, in questo caso il supporto costituente la fase stazionaria è generalmente costituito da silice.

Dal momento che il fattore discriminante per la separazione è la dimensione dei pori della fase stazionaria, prima di procedere con l'analisi è necessario costruire una curva di calibrazione usando degli standard a massa molare nota: quello che si va a valutare è la capacità della colonna di separarli. Grazie alla costruzione di questo grafico semi-logaritmico è possibile ricavare l'intervallo di frazionamento utile per la separazione.
Sono inoltre presenti altre tipologie di colonne usate in HPLC e che prendono il nome di precolonne: tra queste ci sono la colonna scavenger e la colonna di guardia.
La colonna scavenger, detta anche colonna di saturazione, è posizionata tra i recipienti di fase mobile e l'iniettore e viene usata per condizionare la fase mobile quando le condizioni operative sono tali da andare ad intaccare l'impaccamento della colonna analitica e dissolverla (a pH e a temperature elevate). La fase mobile, fluendo attraverso questa precolonna dissolve parte dell'impaccamento silicico fino ad arrivare alla saturazione, in questo modo quando l'eluente raggiunge la colonna analitica è già saturato con acido silicico e non intacca la fase stazionaria della colonna separativa.[23]
La colonna di guardia viene posizionata tra l'iniettore e la colonna analitica e il suo scopo è quello di rimuovere preventivamente le impurezze presente nel campione che potrebbero otturare o danneggiare la colonna separativa. È impaccata con una fase stazionaria uguale o simile alla colonna analitica e deve essere pulita o sostituita regolarmente per evitare che del materiale da essa trattenuta possa intaccare la colonna. È solitamente di piccole dimensioni (1-3 cm) e non prende parte al processo separativo.[24]

Il rivelatore è l'ultimo elemento costituente la strumentazione necessaria per eseguire un'analisi HPLC e serve per misurare la concentrazione del campione in uscita dalla colonna sfruttando una grandezza chimica o fisica ad essa proporzionale. Quando questo viene attraversato solo dalla fase mobile il rivelatore registra un segnale costante che viene detto linea di base, quando insieme alla fase mobile vi è anche un analita allora il rivelatore dà un aumento della risposta che si traduce in un segnale grafico attraverso un picco cromatografico. A seconda delle caratteristiche che vengono rivelate si parla di:

  • bulk properties - se si misura una caratteristica della fase mobile che indirettamente rivela gli analiti, ad esempio l'indice di rifrazione;
  • solute properties - se si misura una caratteristica del soluto quale ad esempio l'assorbanza o la fluorescenza.

Le caratteristiche principali che un rivelatore deve soddisfare sono:[25]

  • adeguata sensibilità;
  • buona stabilità e riproducibilità (il risultato deve essere stabile nel tempo e nelle diverse condizioni operative);
  • risposta lineare alla concentrazione dell'analita in un intervallo piuttosto ampio;
  • piccolo volume morto per rendere minimo l'allargamento di banda dopo l'uscita dalla colonna: al termine della corsa cromatografica infatti non c'è più alcun elemento che garantisca il mantenimento della separazione, per cui un tratto lungo tra l'uscita della colonna e il rivelatore favorirebbe il rimescolamento dell'eluato e quindi fenomeni di diffusione con il conseguente slargamento dei picchi;
  • tempi di risposta rapidi e indipendenti dalla velocità del flusso;
  • bassi limiti di rivelabilità;
  • alta affidabilità e facilità d'uso;
  • preferibilmente non distruttivo.

Bisogna tenere conto del fatto che si cerca inoltre sempre di evitare di derivatizzare il campione per non rischiare di eccedere nella manipolazione ed introdurre ulteriori errori. Il grande vantaggio di questa tecnica è però dato dal fatto che si aumenta molto la specificità dell'analisi perché si può scegliere un agente derivatizzante ad hoc per l'analita.

Tra i rivelatori più usati ci sono:

  • Fotometro UV-visibile a λ fissa - misura l'assorbanza dell'eluato a lunghezza d'onda fissa. La sorgente più usata è la lampada a vapori di mercurio la quale è una sorgente a righe: l'intensità maggiore che si registra con questa sorgente corrisponde alla lunghezza d'onda di 254 nm.[26] La radiazione attraversa la cella contenente il campione per poi arrivare al fotodiodo diminuita di intensità: secondo la legge di Lambert Beer infatti l'intensità della luce assorbita è proporzionale alla concentrazione dell'analita. Il grande vantaggio di questo rivelatori è il fatto che sia estremamente sensibile grazie all'elevata intensità della radiazione che viene prodotta dalla lampada a vapori di Hg, per contro però è caratterizzata da una scarsa selettività dovuta al fatto che si può lavorare solamente ad una lunghezza d'onda.
  • Spettrofotometro UV-visibile a λ variabile - è il rivelatore più usato in HPLC. La sorgente luminosa è costituita da una lampada a deuterio che genera una radiazione UV continua che copre un intervallo di lunghezze d'onda che vanno da 190 a 425 nm.[27] La radiazione così ottenuta viene poi indirizzata ad un monocromatore a reticolo: in questo modo viene scissa nelle sue componenti, il che consente di selezionare la lunghezza d'onda desiderata in un range piuttosto ampio. La radiazione selezionata incide sulla cella a flusso contenente il campione, la attraversa e viene parzialmente assorbita: la diminuzione dell'intensità della luce trasmessa viene misurata da un fotodiodo ed è proporzionale alla concentrazione di analita. Il fatto che si possa lavorare a diverse lunghezze d'onda presenta numerosi vantaggi: elevata versatilità in quanto si può lavorare a diverse λ, elevata sensibilità data dal fatto che si può scegliere la λ ottimale per un determinato analita, elevata selettività in quanto in caso di sovrapposizione di picchi si può cambiare λ di lavoro per minimizzare l'assorbimento degli interferenti.
  • Spettrofotometro UV-vis con Diode-Array - la sorgente impiegata è costituita da una lampada a deuterio che genera una radiazione UV che viene indirizzata ad un monocromatore a reticolo: in questo modo viene scissa nelle sue componenti. Il fascio luminoso non monocromatico passa nella cella a flusso, interagisce con l'analita, esce dalla cella e viene scomposto da un policromatore. A questo punto ogni λ viene focalizzata su un diverso fotodiodo di un array e misurata simultaneamente. I vantaggi di questo rivelatore sono gli stessi dello spettrofotometro UV-visibile a λ variabile ma i costi sono più elevati. Con questo rivelatore si riesce però ad ottenere lo spettro completo di assorbimento dell'eluato in ogni istante dell'analisi.
  • Spettrofluorimetro - usato solo per sostanze fluorescenti o derivatizzabili. È però uno dei rivelatori più sensibile e selettivo, molto più dei rivelatori UV.[28] Si consideri il fatto che qualora la sostanza in esame possa essere rivelata sia con un rivelatore a fluorescenza sia con un rivelatore UV, si tende a preferire il primo dei due in quanto la sensibilità che questo ha nei confronti dell'analita è dalle due alle dieci volte maggiore.[29]
  • A indice di rifrazione - viene utilizzato molto raramente in quanto essendo un rivelatore universale risponde ad ogni sostanza presente nell'eluato. È infatti molto poco sensibile e non selettivo, per questo motivo si usa solo per sostanze che non assorbono nell'UV-vis. Misura la differenza dell'indice di rifrazione tra la cella del campione e una cella contenente l'eluato, il quale agisce da riferimento. Nella cella viene fatto passare una radiazione monocromatica: se nell'eluato non è presente alcuna sostanza oltre all'eluente il raggio non viene deviato, se invece sopraggiunge un analita, il raggio viene deviato proporzionalmente alla sua concentrazione la quale viene rivelata dal rivelatore. Il grande limite di questo rivelatore è dato dal fatto che non può essere usato per la cromatografia a gradiente di solvente [30] perché non è possibile avere due flussi identici nel riferimento e nella colonna, il che ne limita molto l'applicabilità. È inoltre estremamente sensibile a variazioni di pressione e temperatura.
  • Elettrochimici - sono rivelatori molto selettivi e sensibili.[31] A seconda della proprietà che misurano si dividono in:
    • Amperometro - sfrutta l'ossidazione o riduzione dell'analita a seguito dell'applicazione di un potenziale noto.
    • Conduttometro - misura la conducibilità della fase mobile ed è particolarmente utile per rivelare analiti ionici.
    • Potenziometro - misura la variazione di potenziale dell'eluato quando l'analita reagisce con un opportuno ossidante o riducente.
    • A costante dielettrica - misura la polarità dell'eluato che attraversa la cella.
  • Accoppiamento con spettrometria di massa - fornisce in ogni istante lo spettro di massa dell'eluato e permette di ottenere molte informazioni in più rispetto agli altri rivelatori.
  • Spettrofotometro IR - usato molto raramente, ovvero quando si ha a che fare con analiti non centrosimmetrici. L'applicabilità è inoltre limitata dall'assorbanza della fase mobile nel range dell'infrarosso.

Esempio di applicazione

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Un esempio di applicazione dell’HPLC prevede la separazione di una miscela di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) e loro successiva identificazione e quantificazione. Nel caso suggerito la strumentazione utilizzata e le condizioni operative sono le seguenti:

  • colonna 4,6 x 150 mm, fase stazionaria RP C18 con granulometria 4 μm;
  • fase mobile 40% mix H2O con 0,1% H3PO4, 60% CH3CN;
  • flusso 1 mL/min;
  • volume di iniezione 20 microlitri;
  • rivelatore UV diode array con acquisizione nell’intervallo di lunghezze d’onda compreso tra 190-500 nm;
  • analisi isocratica a 40°C.

La miscela proposta contiene i seguenti analiti: naprossene, diclofenac e ibuprofene. Innanzitutto si analizzano separatamente soluzioni standard contenenti gli analiti per determinare i tempi di ritenzione che serviranno in seguito a identificare i composti. I dati ottenuti sono i seguenti:

Analita Tempo di ritenzione[min]
Naprossene 2,45
Diclofenac 3,68
Ibuprofene 4,18

Si esegue quindi l’analisi della miscela incognita lasciando invariate le condizioni operative e si confrontano i tempi di ritenzione ottenuti nella miscela incognita con quelli relativi agli standard, in questo modo si riesce quindi a svolgere un’analisi qualitativa che prevede l’identificazione degli analiti presenti nella miscela di partenza.

Analita Tempo di ritenzione[min] Area [mAU*s]
Naprossene 2,448 400
Diclofenac 3,686 183
Ibuprofene 4,177 424

Successivamente, per svolgere anche l’analisi quantitativa, si procede andando a preparare e poi ad analizzare diverse soluzioni standard a concentrazione nota crescente. Si ottengono in questo modo i punti necessari alla costruzione di una retta di taratura la quale viene costruita riportando su un grafico l'area media del picco (mAU*s) in funzione della concentrazione (ppm). Tale metodo viene eseguito per tutti gli analiti oggetto di analisi (nel caso presentato si dovranno quindi preparare tre rette di taratura, una per analita). In questo caso verrà proposto come esempio la costruzione della retta di calibrazione per l’ibuprofene ma la stessa metodica può essere applicata agli altri analiti.

Concentrazione [ppm] Tempo di ritenzione[min] Area [mAU*s]
5 4,185 177
10 4,186 400
20 4,186 794

Ottenuta una retta di taratura del tipo y = mx + q si procede al calcolo della concentrazione dell’analita con la seguente formula:

Dove y è l’area del picco dell’analita nella miscela oggetto di esame.

Per cui nel caso dell’ibuprofene essendo l’equazione della retta di taratura si avrà:

1) Indicare l’ordine di eluizione dei seguenti composti da una colonna HPLC contenente un impaccamento in fase normale:

(a) Benzene, dietil etere, n-esano
(b) Eptano, esanolo, toluene
(c) Benzene, nitrobenzene, fenolo
(d) Acetato di etile, acido acetico, dietilammina

2) Quali sono le principali differenze che esistono tra eluizione isocratica e a gradiente di solvente e in quali casi va preferita l’una rispetto all’altra? Per quali tipologie di composti sono maggiormente indicati l’uno e l’altro metodo di eluizione?

1) Essendo la colonna a fase normale i composti verranno eluiti in ordine dal meno polare al più polare ovvero secondo il seguente ordine:
(a) n-esano, benzene, dietiletere
(b) Eptano, toluene, esanolo
(c) Benzene, nitrobenzene, fenolo
(d) Acetato di etile, dietilammina, acido acetico

2) In un'eluizione isocratica la composizione della fase mobile rimane costante durante tutta l’eluizione ed è il metodo più semplice da utilizzare per un HPLC. In una eluizione a gradiente di solvente la composizione della fase mobile viene fatta variare nel tempo e, sebbene sia più complicata da realizzare, rimane la tecnica più adatta per campioni in cui vi sono composti con tempi di ritenzione molto diversi gli uni dagli altri: bisogna infatti tenere a mente il fatto che, per tempi di ritenzione molto lunghi, può esserci uno slargamento dei picchi, con il rischio di perdere informazioni non solo quantitative ma anche qualitative sulle sostante più saldamente trattenute dalla fase stazionaria (il rischio è infatti che il segnale si confonda con il rumore di fondo e la sostanza non venga rivelata).

  1. McMaster 2007, p. 3
  2. McMaster 2005, p. 10
  3. Skoog, p. 916
  4. Skoog, p. 916
  5. Skoog, p. 916
  6. Sadek, p. 40
  7. McMaster 2007, p. 35
  8. McMaster 2007, p. 9
  9. Skoog, p. 917
  10. McMaster 2007, p. 5
  11. McMaster 2007, p. 74
  12. McMaster 2007, p. 82
  13. McMaster 2007, p. 84
  14. Sadek, p. 29
  15. McMaster 2007, p. 77
  16. Skoog, p. 918
  17. Skoog, p. 924
  18. Sadek, p. 5
  19. Sadek, p. 169
  20. Sadek, p. 169
  21. Skoog, p. 927
  22. McMaster 2007, p. 58
  23. Skoog, pp. 917-918
  24. McMaster 2007, p. 71
  25. Skoog, p. 919
  26. Skoog, p. 687
  27. Grotti, p. 162
  28. Miller, p. 246
  29. McMaster 2007, p. 122
  30. Miller, p. 246
  31. Miller, p. 247