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Missione a Israele/Contesti sociali

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Indice del libro

Contesti sociali e geoeconomici

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Galilea, Giudea e Gesù

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Se esaminiamo le testimonianze partendo dalle lettere di Paolo "inserite" nel materiale evangelico e poi andando oltre, verso la missione ai Gentili, vediamo emergere elementi della prima tradizione cristiana che possono plausibilmente riportare a Gesù di Nazareth. La maggioranza delle testimonianze è testuale: che fossero da documenti neotestamentari, Scritture ebraiche, Flavio Giuseppe o altri storici antichi, i Manoscritti del Mar Morto o varie opere pseudoepigrafiche, i dati furono mediati attraverso scritti, e l'interpretazione si concentrò su come leggere un testo.

Il progetto qui è differente. Sebbene i testi giochino di nuovo un ruolo chiave – e Flavio Giuseppe, ancora una volta, fornisce spesso la prova primaria – lo scopo è una ricostruzione non tanto di idee (Regno di Dio, Mesdsia, e via dicendo) ma di contesto sociale. "Contesto sociale" significa l'ambiente umano collettivo di Gesù e dei suoi contemporanei: le loro opere, la loro cultura materiale significativa, le loro vite comunitarie economiche e religiose, le loro percezioni e reazioni a varie situazioni ed eventi. Questo sforzo di ricostruire un contesto sociale specifico conduce l'indagine ad alcuni nuovi tipi di testimonianza ed alcuni nuovi tipi di argomentazione. In poche parole, la ricerca ora si volge verso gli artefatti archeologici e a questioni di teoria e metodi sociali.

L'archeologia, rispetto alle ambiguità dell'interpretazione testuale, potrebbe a prima vista sembrare positivamente empirica; e, in un certo senso, lo è. Gli oggetti possiedono un tipo di data realtà che i testi non hanno. E le prove materiali possono risolvere certe argomentazioni. Gli scavi intorno al Monte del Tempio, per esempio, possono aiutare a decidere se basarsi su Flavio Giuseppe o sulla Mishnah per una descrizione della sua planimetria fisica. Su questo problema, vince quasi sempre Flavio Giuseppe. Piuttosto che estrapolare da testi che potrebbero semplicemente conservare le vedute di una élite religiosa su ciò che la gente comune dovrebbe fare, la testimonianza fisica assiste a rendere visibile ciò che la gente comune in effetti fece. Pertanto, le numerose vasche a gradini scavate nella roccia che punteggiano la terra d'Israele, rivelano una vasta preoccupazione per la purezza, poiché queste mikvaot sono vasche costruite manualmente per l'immersione rituale.[1] Oppure le iscrizioni possono correggere ciò che altrimenti sarebbe oscurato da ricostruzioni troppo semplificate. La vecchia discussione che le sinagoghe quali istituzioni particolarmente farisaiche sfidassero in qualche modo o antagonizzassero il Tempio (come se quello fosse un'istituzione esclusivamente "sacerdotale" – e come se i sacerdoti non potessero essere anche Farisei!) è più difficile da sostenere alla luce dell'iscrizione greca sinagogale del primo secolo, scoperta vicino al Monte del Tempio, che proclama la sua fondazione da parte del sacerdote e capo-sinagoga Teodoto.

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Iscrizione di Teodoto: "Theódotos Ouettínou, ierèfs kaí archisynágogos, yiós archisynagógoy, yionós archisynagógou, oko dómise tín synagogín eis anágno sin nómou kaí eis didachín entolón, kaí tón xenóna, kaí tá dómata kaí tá chri stíria tón ydáton eis katályma toí schrízousin apó tís xénis, ín etheme límosan oi patéres aytoú kaí oi pre svýteroi kaí Simonídis" → "Teodoto, figlio di Vetteno, sacerdote e governatore della sinagoga, figlio di un governatore della sinagoga, figlio del figlio del governatore della sinagoga, costruì la sinagoga per la lettura della Legge e per l'insegnamento dei comandamenti, anche l'alloggio di stranieri e le camere ed i servizi delle acque per una locanda per coloro che ne necessitano venendo da fuori, della quale [sinagoga] i suoi padri e gli anziani e Simonide misero le fondamenta."
Questa iscrizione del primo secolo, rinvenuta a Gerusalemme, attesta l'interesse di una famiglia sacerdotale (di cui si invocano qui tre generazioni) per la costruzione di una sinagoga alquanto vicino al Tempio quale luogo atto all'istruzione della Torah (presumibilmente in greco, lingua dell'iscrizione stessa) e come alloggio in città di pellegrini ebrei di lingua greca.

Interpretare un oggetto, però, dipende tanto dal contesto quanto lo è interpretare un detto in un testo. Gli oggetti raramente comunicano la loro propria interpretazione. Per esempio, molti ossari (scatole di ossa usate in sepolture secondarie) danno i nome dei deceduti in greco. Ciò dimostra forse che il greco fosse un vernacolo corrente in Palestina? Oppure testimonianza di una risepoltura di ebrei della Diaspora ritornati? Gli ossari stessi non risolvono il problema.

Anche la teoria sociale ed i metodi comparativi importati da altri campi ad uso dei vari dati dell'ebraismo del I secolo e del paleocristianesimo promettono di dare risultati investigativi migliori. Se gli studi del millenarismo in altre culture dimostrano che la percezione di deprivazioni economiche contribuisce alla mentalità del movimento, per esempio, questi possono essere usati per fornire una griglia interpretativa su cui mappare le realtà sociali dell'antica Palestina. Secondo questa teoria, anche i membri del pubblico di Gesù, nella misura in cui avevano ricevuto il suo messaggio del Regno imminente, sarebbero stati o si sarebbero sentiti deprivati economicamente o socialmente: da qui il suo particolare appello ai peccatori, ai gabellieri, alle prostitute e ai poveri. Oppure, se imperi aristocratici funzionavano sullo sfruttamento sistematico e spietato dei contadini, e l'Impero romano aveva proprio tale sorta di struttura di classe, allora anche i contadini nell'ambito dell'Impero – tutti i contadini, non solo quelli ebrei – dovevano essere sfruttati. In questa ricostruzione, Gesù, quando parlava ai contadini (galilei), si sarebbe rivolto non soltanto ai poveri, ma agli impotente e indigenti. Oppure, se i testi e le istituzioni di una Grande Tradizione – conoscenza della Torah, alfabetizzazione, sacrifici, o accesso al Tempio, nella cultura e periodo di Gesù – si basano su una élite identificabile (sacerdoti aristocratici, scribi, e Farisei), coloro che sono impotenti a causa di questa struttura di potere combatteranno la loro oppressione con controtradizioni sovversive che non sono naturalmente visibili nei dati, poiché testi e costruzioni sono residui delle élite. Secondo questa costruzione, Gesù quale insegnante contadino avrebbe parlato e agito in modi sovversivi per le istituzioni della Grande Tradizione. Ed i suoi seguaci avrebbero reagito perché anche loro si sentivano alienati — dal Tempio, per esempio, o dalle leggi della purezza, o dalle tradizioni scribali letterate quando le loro proprio "piccole" tradizioni erano popolari e orali, e così via.

Il metodo che scegliamo, in altre parole, organizzando i nostri scarsi dati secondo questo criterio, possono aiutarci a svelare motivi o significati o dinamiche sociali che sono mascherate, solo implicate, o forse altrimenti invisibili nello studio una volta che si esaurisce la testimonianza positiva. L'applicazione del metodo fornisce un tipo di "trama" secondo cui i dati possono essere organizzati in una data storia.: le attrazioni del messaggio di Gesù, o le ragioni della sua esecuzione, possono quindi essere spiegate ricorrendo ai criteri metodologici di significato — antagonismo di classe, ostilità tra un insegnante contadino sovversivo e i rappresentanti della Grande Tradizione (sacerdoti, Farisei), e via dicendo. Il pericolo, naturalmente, è che, se mancano le testimonianze, non abbiamo modo di testare le conclusioni che il metodo ci offre. Se cominciamo con la teoria che organizza i dati, gli argomenti per convalidarla possono facilmente iniziare a correre in cerchio.

Questa combinazione di testi antichi, dati archeologici, e modelli di interazione sociale presi da altre discipline ha solo moltiplicato le possibilità interpretative. Rinvii agli stessi identici dati spesso supportano proprio le ricostruzioni opposte. Gli studiosi non solo hanno difficoltà nel discernere anche le grandi linee di missione e messaggio di Gesù; ma non riescono neanche ad accordarsi semplicemente su una descrizione del contesto sociale, culturale e religioso in cui egli agì e parlò. La ricerca del Gesù storico ha quindi dato avvio a ricerche altrettanto complesse, altrettanto controverse, della Galilea storica e del Tempio storico.

Esaminare quelle tradizioni dei Vangeli che non sono confermate o supportate da Paolo aumenta grandemente l'ammonto di materiale biografico su cui lavorare: il contatto iniziale di Gesù con Giovanni il Battista, i suoi vari itinerari durante la sua missione, la sua ricezione da parte dei contemporanei, le sue attività a Gerusalemme, il suo fatale confronto coi sommi sacerdoti e con Pilato. Di nuovo, dobbiamo soppesare e testare queste informazioni rispetto ad altre cose che possiamo sapere, sia da Flavio Giuseppe, o da altri documenti ebraici o paleocristiani, da Tacito o da altri scrittori pagani, o da reperti archeologici. Lo scopo è di posizionare Gesù realisticamente e plausibilmente entro il suo contesto degli inizi del I secolo, onde vedere quando e perché egli potesse essere considerato Messia mentre era in vita. Ed il test di riprova per la nostra ricostruzione sarà il suo potere esplicativo, il modo in cui illumina i tre fatti che si riscontrano senza ambiguità nel registro storico: che Gesù fu crocifisso, che i suoi seguaci non lo furono, e che, dopo pochi anni dalla sua morte, anche i Gentili entrarono nel movimento ebraico che si formò successivamente basandosi sul suo messaggio e la sua memoria.

Economia, politica e potere

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Tutti e quattro i Vangeli presentano Gesù che inizia la sua missione in Galilea; due, Luca e Giovanni, specificamente pongono parte della sua missione in Samaria; e tutti e quattro la fanno terminare in Giudea, in Gerusalemme durante la Pesach. Distillare il contesto sociale di Gesù dalla tradizione evangelica richiede una certa conoscenza della storia che formò queste tre regioni. Dobbiamo quindi tornare nuovamente indietro, agli eventi sotto l'Assiria e la Babilonia.

Il Regno settentrionale di Israele capitolò sotto l'invasione assira del 722 p.e.v. L'Assiria prese le élite israelite e le ristabilì altrove nell'ambito dell'impero, insieme ad altre popolazioni (2 Re 17). L'impero incorporò queste regioni – sia la Galilea che la Samaria – come province. Alcuni studiosi assumono che la maggioranza della popolazione israelita in queste aree rimasero indietro; altri studiosi affermano che una nuova popolazione si ristabilì in tutta questa area. Il dibattito continua a tutt'oggi.

Antichi conflitti irrisolti tra Re Davide (che verso il 1000 p.e.v. aveva cercato di consolidare il culto del Dio di Israele a Gerusalemme) e le tribù del Nord (che avevano adorato in vari siti cultici, comprovati biblicamente) riemersero nella successiva storia della regione. Quando nel tardo sesto secolo p.e.v. la Persia rilasciò i giudei esiliati a Babilonia e permise loro di ritornare a Gerusalemme e ricostruire il Tempio, gli Israeliti che erano rimasti nella provincia di Samaria protestarono: loro avevano già il proprio sito di culto a Shechem. In seguito, dopo la sconfitta della Persia per mano di Alessandro Magno (m. 323 p.e.v.), questi Israeliti costruirono uno splendido tempio sul Monte Gerizim che rivaleggiava con quello di Gerusalemme (AJ 11.297; 307-11. Alcuni sacerdoti ostili lasciarono Gerusalemme e si insediarono nel tempio di Samaria). I Vangeli riecheggiano questa vecchia rivalità. "I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte" dice la donna samaritana a Gesù, "e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare" (Giovanni 4:20). E in Luca, i Samaritani si rifiutano di ricevere Gesù, "perché egli camminava con la faccia rivolta a Gerusalemme" (Luca 9:53).

Nel periodo dell'espansione giudea dopo la rivolta maccabea, l'autonomia religiosa samaritana soffrì e le relazioni con Gerusalemme peggiorarono drasticamente. L'asmoneo Giovanni Ircano sottomise la città capitale della Samaria, distruggendo il tempio sul Monte Gerizim nel 128 p.e.v., prima di rivolgersi a meridione verso l'Idumea (la biblica Edom) che, parimenti, sottomise, costringendo gli Edomiti ad accettare l'ebraismo (BJ 1.62-63; AJ 13.254-58; questa conquista fu occasione di conversione per la famiglia di Erode). In seguito, il figlio di Ircano, spingendosi verso Nord, si assicurò la Galilea e forzò la conversione degli Iturei (AJ 13.318-19). Questa fase della consolidazione militare e culturale degli Asmonei intorno a Gerusalemme andò molto meglio di quanto non fosse avvenuto in Samaria: la Galilea non aveva siti cultuali rivali. Né, evidentemente, fu richiesta una conversione forzata, forse perché quei Galilei che adoravano il Dio di Israele, come prima i Samaritani, rappresentavano quella rimanenza israelita che gli Assiri avevano lasciato indietro.

Il contesto galileo

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Nel primo secolo della nostra era, la popolazione complessiva della Galilea, come generalmente in questa regione, era mista. Gentili ed ebrei coabitavano certe città in varie proporzioni. Le prime di queste nell'area vicina alle attività di Gesù erano Zippori e Tiberiade. Altre dieci città, chiamate Decapoli, formavano una federazione. Una città si trovava geograficamente nell'ambito della Galilea, le altre la circondavano nella Transgiordania. Queste vennero fondate quale conseguenza della conquista di Alessandro Magno: per cultura, politica e popolazione, erano in gran parte gentili.[2]

Consapevolezza di queste città, aumentata dalla ricerca archeologica, ha recentemente portato a parlare della "urbanizzazione" della Galilea e, di conseguenza, la sua "ellenizzazione" rappresentata, più specialmente, dalla penetrazione della lingua greca. I resti architettonici, le iscrizioni, le monete; le opportunità commerciali che una buona padronanza del greco avrebbe offerto; il traffico umano lungo le maggiori rotte commerciali dalle aree più a Est alle città sul Mediterraneo: tutto ciò suggerisce l'interazione di routine tra gruppi differenti che solo il greco avrebbe potuto facilitare. Già al tempo di Gesù, grazie ad Alessandro Magno, il greco si era ben stabilito nel vicinato per più di tre secoli.

Con la loro architettura ellenizzata (teatri, bagni, stadi e simili), le loro funzioni amministrative e commerciali, e la loro popolazione mista, Zippori e Tiberiade si focalizzano su questa questione dell'urbanizzazione ed ellenizzazione della Galilea. Distrutta dai romani durante le rivolte che seguirono alla morte di Erode il Grande nel 4 p.e.v., Zippori era stata ricostruita in splendore da Erode Antipa che, come tetrarca ("sovrano di un quarto", funzionalmente un re cliente minore) governò questa porzione dell'ex regno di suo padre dal 4 p.e.v. al 39 e.v. Fece di Zippori "l'ornamento di tutta la Galilea" (AJ 18.27) e la usò come sua prima città capitale. Si trovava a poca distanza dal villaggio di Nazareth, distante meno di quattro miglia; e infatti, insieme al periodo della sua ricostruzione, ha portato alcuni studiosi a ipotizzare che il padre di Gesù e/o Gesù stesso, poiché erano (forse) artigiani o falegnami, avrebbero potuto essere coinvolti nella sua ricostruzione. In tal caso (dice l'ipotesi) Gesù avrebbe potuto essere esposto durante tutti i suoi anni formativi al greco parlato e a questa cultura urbana.

Tiberiade, la nuova capitale che Antipa aveva costruito e in cui si era trasferito verso il 26 e.v., era situata sulla sponda occidentale del Mar di Galilea. Anche questo avrebbe potuto influenzare Gesù, poiché ad un certo punto prima di iniziare la sua missione, egli sembra essersi spostato da Nazareth a Cafarnao (כפר נחום - Kefar Nahum), un villaggio sulle sponde del lago appena a Nord di Tiberiade. Secondo Marco e Matteo, Gesù presa casa a Cafarnao (Marco 2:1; cfr. Matteo 4:13), e Marco vi apre l'attività pubblica di Gesù (Marco 1:21). Ancora una volta, sulla base di semplice prossimità, si può vedere Gesù che opera perlomeno alla penombra di un grande sito urbano ellenizzato, dove si parlava greco per ragioni commerciali e anche culturali. Alcuni studiosi sostengono inoltre che l'esistenza di queste città aiuta a spiegare la prominenza dei poveri nell'attività missionaria di Gesù, a causa del loro effetto sulla vita economica galilea. Centri di tassazione, dipendenti dalla produttività contadina rispetto alle cibarie, in effetti (secondo questa opinione) parassitici sulla campagna intorno a loro, queste città avrebbero oppresso e impoverito coloro su cui dipendevano.[3]

Aggiungiamo a questo scenario l'ellenizzazione di una città in cui sappiamo che Gesù insegnava: Gerusalemme. Gerusalemme era stato il centro degli sforzi di ellenizzazione perlomeno dal secondo secolo p.e.v., quando i sacerdoti aristocratici si erano rivolti al seleucida Antioco affinché sostenesse i loro sforzi di "modernizzare" il loro culto. Tali sforzi furono bloccati dalla vittoriosa rivolta maccabea, ma gli stessi aristocratici Asmonei erano parimenti biculturali politicamente e temperamentalmente. Una volta che Erode il Grande prese il potere, il suo ambizioso programma di ricostruzione massiccia, specialmente concentrata sul Tempio, sparse lo stile architettonico monumentale greco-romano per tutta la nazione. Inoltre, come suggerisce il suo status di maggior sito di pellegrinaggio ebraico e come attesta l'iscrizione sinagogale di Teodoto (cfr. supra), il greco fu certamente una delle lingue più diffuse a Gerusalemme. Il sacerdote aristocratico Flavio Giuseppe, cresciuto a Gerusalemme, in effetti parla specificamente della sua educazione bilingue: oltre ad imparare le tradizioni native del suo popolo in ebraico e aramaico, egli studiò anche grammatica, prosa e poesia greche (AJ 20.263).

Possiamo spostarci da questi dati archeologici presi dalla cultura materiale, e le inferenze che deduciamo da commercio e governo in Giudea e Galilea in questo periodo, e concludere che Gesù stesso avrebbe padroneggiato bene il greco e avuto una ragionevole familiarità coi Gentili e la loro cultura urbana? Alcuni studiosi hanno proposto ciò, aprendo nuove possibilità interpretative nella ricerca corrente del Gesù storico. Primo, il presupposto padroneggiamento del greco chiude il divario linguistico tra la sua missione ed i Vangeli. Il residuo aramaico nei Vangeli – Talita cumi! (Fanciulla, alzati! Marco 5:41); Ephphatha! ("Apriti!" 7:34); Abba! ("Padre!" 14:36) – indica una delle lingue di Gesù, ma non l'unica; e quando andò nei mercati e, soprattutto, nella cosmopolita Gerusalemme, egli avrebbe potuto e voluto parlare anche in greco.[4]

Alcuni spingono oltre le implicazioni di questa prospettiva. La lingua greca più la cultura urbana ellenizzata nella Galilea, prese insieme a certe tradizioni ancora visibili nei Vangeli, sostengono una interpretazione specifica di Gesù quale insegnante e una specifica storia redattiva delle storie su di lui. Di tutti i tipi di insegnanti popolari nell'antichità (afferma tale teoria), Gesù fu effettivamente molto simile ad un filosofo cinico. I cinici avevano abitato il paesaggio urbano ellenistico dal quarto secolo p.e.v. Itineranti, volontariamente poveri, insegnarono servendosi di spirito caustico e aforismi, in tal modo "sovvertendo" i valori della cultura maggioritaria. Le loro vesti – mantello lacero, sacco, bastone – erano particolari quanto il loro stile senzatetto, ma simili a quello che i Vangeli affermano Gesù raccomandasse ai suoi discepoli ("E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa", Marco 6:8 e segg.). Data l'urbanizzazione della Galilea in stile greco, e gli insegnamenti aforistici di Sapienza ottenibili specialmente dai detti in Q, alcuni studiosi hanno ipotizzato che Gesù stesso sia meglio compreso come una sorta di saggio cinico. Questa ipotesi poi suggerisce una storia redattiva dei Vangeli. La narrativa evangelica, la parte di "storia" nella storia, non è autentica quanto la parte dei "detti" nella storia, perché Gesù come insegnante di tipo cinico controcultura avrebb e insegnato usando aforismi e brevi storie spiritose e inquietanti. I detti-Q apocalittici, secondo questa interpretazione, avrebbero rappresentato accrescimenti successivi conservativamente ebraici rispetto ad un precedente strato autentico "sapienziale".[5]

Questa interpretazione si basa in parte sulla sua inferenza da cultura materiale a cultura linguistica e intellettuale, cioè, dall'archeologia della regione per concludere che la Galilea nel periodo di Gesù era ellenizzata e urbanizzata. Ma quanto può questo fondamento supportare la tesi? Sì, Zippori, Tiberiade e Gerusalemme erano architetturalmente ellenistiche, e sì, i loro rispettivi ruoli amministrativi assicuravano un certo uso del greco. Ma cosa significa questo per la cultura di vita dei loro residenti? Le popolazioni delle due città galilee erano miste, ma in entrambe gli ebrei rappresentavano la maggioranza più significativa, e la popolazione di Gerusalemme era soprattutto ebrea. L'uso degli stili greco-romani, particolarmente per l'architettura monumentale, non attesta una cultura ebraica ellenizzata (linguaggio, letteratura, attività abituali, modelli di pensiero, indici di significato, e così via) di quanto le finestre palladiane di Monticello non attestino che Jefferson fosse culturalmente italiano.

Né le testimonianze scritturali danno la misura del suo mezzo umano. Oggigiorno, ogni segnale della stazione ferroviaria di Milano appare sia in italiano che in inglese. Un archeologo, qualche millennio dopo, potrebbe sostenere l'argomentazione che la popolazione di Milano fosse palesemente bilingue: come spiegare altrimenti tali segnali? Un qualsiasi turista anglofono che abbia veramente cercato di ottenere informazioni da impiegati delle Ferrovie a Milano capirebbe quanto sia errata tale deduzione! Le iscrizioni greche a Gerusalemme (come i segnali in inglese a Milano) ci dicono semplicemente ciò che già sappiamo: che la città attraeva un grande numero di visitatori stranieri.

Una confortevole familiarità col greco variava certamente da zona a zona, da mestiere a mestiere, e da classe a classe. Possiamo immaginarci che almeno gli aristocratici, come le loro controparti romane, usassero il greco tra di loro nello stesso modo che, diciamo, la nobiltà russa del diciannovesimo secolo usava il francese. Tuttavia qui di nuovo Flavio Giuseppe ci fornisce un caso interessante da contemplare. Egli conosceva il greco letterariamente, avendolo appreso da bambino; e conosciamo le sue storie in greco. Ciononostante, la lingua parlata gli rimaneva difficile, anche dopo alcuni decenni a Roma: "L'uso abituale della mia lingua madre mi ha impedito di raggiungere la precisione nella pronuncia" (AJ 20.263). Scrisse La Guerra Giudaica, la sua storia della rivolta, originalmente nella sua lingua madre (probabilmente l'aramaico) e tradusse una versione greca solo con l'aiuto di assistenti (c. Ap. 1.50). Inoltre, durante l'assedio stesso, Tito lo impiegò come emissario speciale: mentre Tito cercava di persuadere in greco gli ebrei ad arrendersi, Flavio Giuseppe, per assicurare che capissero bene il messaggio, faceva lo stesso "nella lingua dei loro antenati" (di nuovo, quasi sicuramente l'aramaico, con l'ebraico quale alternativa meno probabile; BJ 5.361).

Se persino un gerosolimitano erudito, letterato e delle classi abbienti trovavano difficile il greco; se persino gli ebrei di Gerusalemme trovavano più comodo trattare affari in aramaico, allora è difficile immaginare Gesù, artigiano ebreo, che svolge una missione di successo presso i compatrioti galilei in greco. Forse Gesù conosceva un greco per commercianti — una padronanza rudimentale dei numeri, una conoscenza semplificata degli elementi della lingua parlata. Ma questo significa forse che egli potesse insegnare in greco, esporre concetti filosofici (quale saggio sapienziale) o biblici (quale profeta carismatico)? Non possiamo sapere per certo che non lo conoscesse, ma mi sembra estremamente improbabile.

Inoltre, i Vangeli non citano mai Zippori e Tiberiade. I luoghi che citano in merito all'itinerario di Gesù, fatta eccezione per Gerusalemme, consistono soprattutto di villaggi ebraici – Cafarnao, Cana, Corazin, Nazareth. Ricca zona agricola, la Galilea stessa era dominata da villaggi – secondo Flavio Giuseppe, circa duecento (Vita 235). "Le città sono molto dense e i numerosi villaggi che ci sono lì, sono ovunque così pieni di popolazione a causa della ricchezza del suolo, cosicché il più piccolo conteneva almeno 15000 abitanti" (BJ 3.43; la [[w:Naturalis historia|Naturalis historia di Plinio riporta lo stesso, 5.75). Quest'ultima cifra è la solita esagerazione di Flavio Giuseppe. Ma la ricerca moderna, e in maniera specifica i calcoli della densità di popolazione realizzabile per unità di terreno agricolo necessaria per sostenerla, supportano l’impressione data dalla stima di Flavio Giuseppe: la Galilea nel periodo di Gesù era fertile e ben popolata, con la sua vita sociale organizzata principalmente in villaggi che ospitavano artigiani di basso livello (come per la famiglia stessa di Gesù), contadini con proprietà, e fattori locatari (coloro che lavoravano la terra per conto d'altri). Stime demografiche delle antiche popolazioni sono notoriamente inaffidabili (non che quelle moderne siano migliori), ma possono darci perlomeno una qualche stima immaginaria. Alcuni studiosi, quindi, pensano che la popolazione pre-bellica di Nazareth si aggirasse sulle duemila anime; la due grandi città galilee forse dieci volte di più; la maggior parte dei villaggi, almeno alcune centinaia.[6]

Quale era la vita economica di questo mosaico di villaggi? Qui ancora una volta gli studi divergono ampiamente. Alcuni speculano che Zippori e Tiberiade avrebbero prosciugato la popolazione contadina del circondariato delle loro risorse tramite tassazione o appropriazione dei beni. Altri sostengono, al contrario, che le città avrebbero "rinvigorito" l'economia galilea. L'edilizia avrebbe procurato lavoro, le popolazioni urbane avrebbero fornito mercati e impieghi, cosicché il loro effetto netto sarebbe stato positivo. Gli stessi identici dati archeologici supportano entrambe le ipotesi: differisce solo il loro contesto interpretativo, poiché anche i loro modelli economici differiscono. E appellarsi ai Vangeli non serve a niente. È vero che alcuni discorsi di Gesù si riferivano ai poveri in modo particolare, ma ciò non fornisce una chiara visione delle vere condizioni esistenziali del suo pubblico o dei suoi seguaci. La cura dei poveri è un tema profondamente tradizionale ed un indice di compassione articolato nell'ebraismo in generale. E se alcuni dei seguaci di Gesù non fossero stati, in contrasto, alquanto abbienti, le sue esortazioni alla povertà volontaria non avrebbero avuto alcun senso.

Forse il miglior indizio del tenore di vita generale in Galilea è ciò che non accadde. Sotto Erode Antipa – il che vuol dire dal 4 p.e.v. al 39 e.v., virtualmente l'intero periodo della vita di Gesù – la Galilea fu tranquilla. Sia i Vangeli che Flavio Giuseppe narrano della sua esecuzione di Giovanni il Battista, e questo fatto a sua volta (speculando per un momento) potrebbe alludere al perché Gesù evidentemente non portò mai la sua missione nelle due città erodiane di Zippori e Tiberiade: forse, dopo l'esperienza di Giovanni, egli pensò fosse meglio evitare del tutto il tetrarca (sebbene ciò non servì granché al Battista). Tuttavia Antipa non dovette mai sopprimere una rivolta con le armi, né i romani dovettero dargli assistenza per abbattere una rivolta usando le legioni di Antiochia. Una tassazione eccessiva, un governo duro o, in tale zona ebrea, una violazione flagrante della legge religiosa avrebbe provocato disordini: di nuovo, non abbiamo testimonianze di nessun disordine. In contrasto a suo fratello Archelao in Giudea, Antipa godette di un lungo regno senza turbolenze.

Il contesto giudeo

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La Giudea fu differente. Fu più dura da governare proprio a causa di Gerusalemme, che era una calamita di disordini. Inoltre, amministrativamente, la nuova provincia romana dal 6 e.v. conteneva anche la Samaria, con tutto il potenziale di conflitto che implicava. E il suo trasferimento ad Archelao nel 4 p.e.v. fu traumatizzato da ripercussioni scaturite da una serie di incidenti sanguinosi che avevano macchiato gli anni finali del regno di suo padre, Erode il Grande. Nel 5 p.e.v., Erode fece bruciare vivi alcuni protestatari che avevano distrutto la grande aquila d'oro che egli aveva fatto mettere sopra il portale del Tempio. Fece inoltre giustiziare i loro noti e amati insegnanti, Giuda e Mattia, e deporre il sommo sacerdote corrente per aver permesso che la situazione degenerasse così tanto (BJ 1.651-55; AJ 17.149-67). Sempre timoroso per la propria sicurezza, alcuni mesi prima di morire nel 4 p.e.v., Erode aveva ordinato l'esecuzione di uno dei suoi figli (AJ 17.187); altri due – l'ultimo dalla sua moglie Mariamne – li aveva fatti giustiziare per cospirazione appena tre anni prima. Archelao, il successore nominato da Erode, ereditò insieme alla Giudea le conseguenze della repressione erodiana.

Prima che Augusto potesse ratificare il testamento di Erode e confermare la successione dei figli rimasti, scoppiò altra violenza. I gerosolimitani, irati per le morti causate dall'incidente dell'aquila d'oro, richiesero che Archelao annullasse l'ultima nomina di Erode all'ufficio di sommo sacerdote. Erano "indignati per essere stati deprivati dei loro cari quando Erode era in vita e per essere stati deprivati della loro vendetta per questo dopo la sua morte" (AJ 17.211). La Pesach si avvicinava, la città si riempiva di devoti e adoratori, e Archelao si preoccupava che queste persone ancora in lutto per Giuda e Mattia avrebbero incoraggiato disordini tra i pellegrini che si radunavano al Tempio per la festa. Inviò una coorte di soldati a sorvegliare la folla, che la folla presa dalla furia lapidò. La confusione aumentò; Archelao allora fece uscire "tutto il suo esercito inclusa la cavalleria" onde prevenire che i pellegrini accampati fuori città aiutassero gli ebrei nel Tempio. Flavio Giuseppe afferma che ci furono circa tremila vittime, e Archelao sospese sommariamente il resto della festività che sarebbe dovuta durare una settimana. E su questa nota infausta, salpò per Roma ad assicurarsi la sua eredità (AJ 17.213-19).

Mentre gli eredi di Erode contestavano il suo testamento davanti ad Augusto, agitazione e ribellione scoppiarono in tutta la nazione. Dopo soli cinquanta giorni dallo sfacelo di Pasqua, durante la successiva festa di pellegrinaggio, Shavuot/Pentecoste, una folta moltitudine di ebrei ("decine di migliaia") – "Galilei, Idumei, una folla dalla Transgiordania e dalla stessa Giudea" – mise in atto una battaglia campale contro il sopraintendente romano temporaneo, Sabino, sempre nel complesso del Tempio. Il legato romano in Siria, Varo, dovette portare a Sud l'esercito nello sforzo di contenere la confusione; dando battaglia ai ribelli in Galilea, Varo bruciò Zippori. In Giudea, i veterani del precedente esercito di Erode combatterono con quelli già in forza. Due differenti pretendenti regali, Simone, un ex schiavo, e Atronge, un pastore, entrambi rappresentati da Flavio Giuseppe come uomini straordinariamente forti, crearono caos nella regione, Simone saccheggiando i palazzi reali, Atronge e i suoi fratelli, insieme alle loro bande armate ("poiché un gran numero di persone si radunarono intorno a loro") massacrando le truppe dei romani. La nazione, dice Flavio Giuseppe, piena di briganti, incappò in anarchia e rapina. Varo alla fine ristabilì l'ordine in Giudea solo dopo aver rastrellato la campagna dagli insorti, infine crocifiggendo circa duemila di loro (AJ 17.250-89).

All'indomani di tali convulsioni, Varo permise ad una delegazione di cinquanta ebrei di lasciare la regione e andare a Roma a dire la loro sulla controversa disposizione della volontà di Erode. La loro posizione era là sostenuta, dice Flavio Giuseppe, da più di ottomila ebrei romani. Questi uomini raccontarono ad Augusto il lungo malgoverno (secondo la loro prospettiva) di Erode e, indicando il recente massacro di migliaia di ebrei da parte di Archelao durante la Pesach, supplicarono Augusto affinché, invece di essere sottoposti a suo figlio, alla nazione venisse invece concessa autonomia (AJ 17.295-314).

Autonomia non significava in tale contesto quello che significa oggi per noi, e questo fatto ci dovrebbe avvertire quanto poco il concetto moderno di "nazionalismo" serva per capire gli ebrei nell'antichità o, finanche, i popoli antichi in generale. Questi Giudei non cercavano un'indipendenza politica per la loro nazione: ciò era chiaramente da escludersi, aldilà delle loro possibilità. La loro richiesta era semplicemente che non fossero più governati da re erodiani, ma piuttosto dall'amministrazione romana quale parte della provincia di Siria (AJ 17.314). Ciò potrebbe sembrare controintuitivo: perché preferire un dominio straniero, addirittura pagano, rispetto ad uno ebraico? In effetti, la loro petizione dà la misura dell'attrattiva dei bei tempi prima che gli Asmonei prendessero il potere. Questa precedente forma di governo – incorporazione in un impero con il governo locale lasciato nelle mani del sommo sacerdote – era persistito senza molte controversie per secoli sotto il dominio persiano, e persino per gran parte del periodo sotto i Seleucidi. Secondo questi ebrei giudei dissidenti, un governatore politico gentile remoto avrebbe garantito la pace nella terra, e l'integrità e indipendenza del Tempio e conseguentemente del sommo sacerdozio, molto di più di un re erodiano.

In ritardo, e solo in parte, questi uomini ottennero ciò che desideravano. Dopo aver ratificato Archelao come etnarca ("sovrano del popolo") nel 4 p.e.v., Augusto lo depose nel 6 e.v. a causa di malgoverno. A quel punto egli aggiunse proprio la Giudea, Samarie e Idumea alla provincia romana della Siria. A differenza delle parti settentrionali e orientali del vecchio regno di Erode, ancora governato dai suoi due figli Antipa e Filippo, il Sud sarebbe stato governato da Roma. Per amministrarlo localmente Augusto nominò un governatore coloniale preso dallo strato della classe governante romana inferiore a quella del legato senatoriale della Siria. Questo ufficiale coloniale, chiamato "prefetto" o (dopo il 44 e.v.) "procuratore", doveva supervisionare il precedente dominio di Archelao. Ma qui Augusto ordinò una procedura probabilmente non anticipata dagli ebrei che gli avevano richiesto di rendere la Giudea una provincia nel 4 p.e.v. Per comprendere l'azione di Augusto, dobbiamo comprendere anche quelle di Erode e, prima di lui, degli Asmonei.[7]

Il Sommo sacerdote coi suoi paramenti durante le festività ebraiche. Da notare anche la Menorah, le trombe ed il pane di proposizione

Gli Asmonei come cohanim erano stati in grado di consolidare doppiamente il loro potere e autorità servendo sia come sommi sacerdoti sia come re. Erode quale ebreo idumeo – cioè, da una discendenza di convertiti – ovviamente non apparteneva a tale clan, l'unico designato biblicamente a servire nel Tempio. Una volta preso il potere dagli Asmonei, egli non poteva svolgere la loro opzione. Erode dunque chiarì qualsiasi persistente confusione riguardo al suo controllo trattando palesemente l'ufficio del sommo sacerdozio come una nomina politica. Ancor di più al punto, egli mantenne il controllo dei paramenti del sommo sacerdote. Questi avevano un grande significato religioso. I dettagli della loro costruzione e apparenza erano stati ordinati da Dio stesso nella Torah (si veda Esodo 39); in un certo senso incarnavano la santità, dignità e autorità dell'ufficio e della sua funzione. I suoceri stessi di Erode, come sommi sacerdoti, avevano custodito questi paramenti, poiché erano i soli ad indossarli e ne erano responsabili. La purezza di queste vesti come anche il loro mantenimento fisico erano di primaria importanza, poiché il sommo sacerdote doveva indossarli quando si trovava dinanzi all'altare di Dio quale rappresentante di tutto il popolo nei Yamim Noraim (ימים נוראים‎ - grandi festività ebraiche) e durante lo Yom Kippur ( (יום כפור - "Giorno dell'Espiazione"). Quando Erode andò al potere come re, si prese anche i paramenti "credendo che per questa ragione il popolo non sarebbe mai insorto contro di lui" (AJ 18.92). L'osservazione di Flavio Giuseppe da un'idea del prestigio e dell'autorità dell'ufficio stesso, indipendentemente da chi deteneva la carica. Il ruolo di sommo sacerdote era così santi ed importante che anche i suoi paramenti, parimenti santi ed importanti, comandavano rispetto.

Ma dopo il 6 e.v., il governatore romano doveva servire al posto del monarca ebreo. Augusto, di conseguenza, ordinò che questi dovesse esercitare anche le vecchie prerogative di Erode. Il prefetto avrebbe quindi nominato o destituito il sommo sacerdote ebreo, e avrebbe supervisionato il controllo anche dei suoi paramenti.

I romani capirono perfettamente l'importante significato di questa decisione amministrativa: anche la loro cultura religiosa prescriveva sacrifici, offerte e regolo di purezza. Gestirono quindi gli indumenti con attenzione e cooperarono col personale del Tempio nel mantenerli in ordine. Di nuovo, Flavio Giuseppe dice:

« Quando i romani assunsero il governo, essi mantennero il controllo dei paramenti del sommo sacerdote e li conservarono in un edificio di pietra, dove venivano tenuti sotto sigilli dei sacerdoti e dei custodi del tesoro e dove il guardiano delle guardie accendeva la lampada di giorno in giorno. Sette giorni prima di ogni festival i paramenti erano consegnati ai sacerdoti dal guardiano. Dopo essere stati purificati, il sommo sacerdote li indossava; poi dopo il primo giorno del festival egli li riponeva nuovamente nell'edificio dove stavano prima. Questa era la procedura durante le tre festività ogni anno e nel giorno del digiuno. »
(AJ 18.93-94)

Ciononostante, sia per i romani che per gli ebrei, questa disposizione segnalava un livello senza precedenti di coinvolgimento straniero nel culto di Gerusalemme. Col passare del tempo sarebbe diventata una fonte di turbolenze.

Un altro cambiamento imposto sulla Giudea a causa del suo nuovo status politico fu il tributo a Roma. Il primo passo necessario nel sussumere la regione meridionale al controllo romano era quindi la valutazione della proprietà per questa tassa. Che fosse in contanti oppure (sicuramente la parte più considerevole) in derrate, il tributo stesso non sarebbe mai uscito dalla nazione, poiché la sua funzione era quella di pagare i costi del mantenimento dell'esercito nella provincia.

Non dobbiamo però pensare né ad un numero massiccio di truppe né finanche di truppe disperse, per quanto esiguamente, in tutto il territorio. Roma non occupava la Giudea nella maniera che gli eserciti moderni occuparono nazioni durente la Seconda Guerra Mondiale. La maggiore concentrazione di truppe era in Siria, sotto il legato romano. Comandava quattro legioni – approssimativamente ventimila uomini – e circa cinquemila di cavalleria; in tempi d'emergenza, se ne avesse avuto bisogno, egli poteva contare su contributi di truppe ausiliarie da clienti locali di Roma (come Agrippa o Filippo; si veda BJ 2.500-503). Il prefetto giudeo, in contrasto, aveva circa tremila uomini presidiati con lui sulla costa della Cesarea.

Infine, un piccolo numero di forze armate erano stanziate in fortezze nella regione e in particolare a Gerusalemme, dove l'esercito manteneva un presenza esigua ma permanente come forza di polizia. Basate vicino al Tempio, queste truppe dovevano incoraggiare la sua operazione senza incidenti. Durante le tre principali festività, il prefetto insieme alla sue truppe arrivava dalla costa per rinforzare questo contingente, "poiché è in queste occasioni festive", afferma Flavio Giuseppe, "che la sedizione è più propensa a scoppiare" (BJ 1.88).

L'assorbimento della Giudea da parte di Augusto – erroneamente presentato dalla storia della natività narrata da Luca come se riguardasse anche la Galilea – in effetti minacciava di far scattare un altro episodio di ribellione. Con iol grido di battaglia "Nessun re tranne Dio!" Giude il Galileo e Zadok il Fariseo incoraggiarono i Giudei a ribellarsi. Dal racconto di Falvio Giuseppe vediamo, una volta ancora, due caratteristiche estremamente prominenti degli ebrei e dell'ebraismo del Secondo Tempio: primo, il loro mescolare – o, piuttosto, identificare – ciò che i moderni potrebbero reputare aspirazioni politiche e religiose separate distintamente; e, secondo, la loro violenta litigiosità reciproca.

Questi capi popolari impostarono la ribellione in termini del tutto religiosi. Sostenevano che sarebbe stato empio e finanche servile cooperare pagando la tassa; il rifiuto era così giusto religiosamente che di sicuro Dio sarebbe intervenuto in loro aiuto. "Il Cielo sarebbe stato il loro zelante aiuto... nell'assicurare la loro impresa finché non avesse avuto successo — ancor di più se, con grande devozione nel cuore, non si fossero sottratti dallo spargimento di sangue necessario" (AJ 18.5). Flavio Giuseppe continua a raccontare che la popolazione "reagì volentieri" alla sua chiamata alle armi — alcuni, cioè, ma non tutti. Guardando poi al futuro, alla guerra del 66 contro Roma, Flavio aggiunge che questa rivolta fiscale gettò i semi di una guerra civile e "il massacro di concittadini" (AJ 18.8). Commentando nella sua storia di tale guerra, Flavio Giuseppe afferma:

« Giuda...indusse le moltitudini a rifiutare di iscriversi, quando Quirino venne mandato come censore in Giudea. Poiché in quei giorni i Sicarii ["uomini dalla sica"] si unirono insieme contro coloro che consentivano a sottomettersi a Roma e in tutti i modi li trattavano come nemici, saccheggiando le loro proprietà, razziando il loro bestiame, e dando fuoco alle loro abitazioni; protestando che tali persone non erano altro che stranieri che sacrificavano così indegnamente la libertà conquistata duramente dagli ebrei e ammettevano la loro preferenza per il giogo romano »
(BJ 7.253-55)

La autonomia ricercata così strenuamente dalla delegazione giudea a Roma nel 4 p.e.v. fu precisamente il tradimento ripudiato così violentemente da questi insorti nel 6 e.v. Come per gli incidenti sotto Antioco Epifane nel secondo secolo p.e.v., così di nuovo, ora, con Roma: la lotta apparente contro una potenza straniera serviva allo stesso momento quale veicolo per la guerra civile ebraica. Il pagamento del tributo rimaneva quindi un problema ostico religiosamente quanto politicamente. Tale è il punto della storia evangelica, ambientata correttamente a Gerusalemme, in cui a Gesù viene chiesto cosa ne pensi. "È lecito o no dare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare o no?" (Marco 12:14-15 e parall.). Favorire il pagamento insulterebbe il sentimento religioso popolare; negare il pagamento sembrerebbe un consiglio a ribellarsi. Da cui, nel Vangelo di Luca, le accuse dei sacerdoti a Pilato: "Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare" (Luca 23:2).

Roma prevalse e completò il censimento. Inoltre nominò un nuovo sommo sacerdote. La Giudea iniziò a pagare il tributo, che pagava i costi della truppe del prefetto a Cesarea. Il "sistema", così com'era, iniziò la sua funzione diu governare la nuova provincia.

Queste varie autorità e le loro interrelazioni rese il governo della Giudea un affare alquanto complicato. Il sommo sacerdote era particolarmente responsabile di mantenere il tranquillo funzionamento del Tempio e di Gerusalemme. A tal fine, egli stesso comandava diverse migliaia di guardie templari, che servivano quale forza di polizia a Gerusalemme. Insieme a coloro che servivano nel suo consiglio, il sommo sacerdote era anche responsabile di supervisionare la raccolta e consegna del tributo (BJ 2.407). In linea di principio, egli rispondeva al prefetto, che lo nominava.

Il prefetto, a sua volta, rispondeva direttamente all'imperatore e al legato della Siria, che anch'egli manteneva stretto contatto con Roma. E il breve periodo della ripristinata monarchia ebraica durante l'effimero regno di Agrippa I (41-44 p.e.v.) introdusse anche un'altra complicazione. Il comando della forze armate fu trasferito dal prefetto (poiché in quel caso non ce n'era uno) al re ebreo (AJ 19.356-66). Alla morte di Agrippa, Roma concesse a suo fratello Erode, re di Chalcis (una piccola area nel Libano meridionale), autorità sul Tempio, i suoi fondi, e la selezione del sommo sacerdote (AJ 20.10-14). Tuttavia, il governatore romano nuovamente reinstallato, ora chiamato procuratore, ebbe riassegnato anche il comando militare.

Queste linee di autorità concorrenti e occasionalmente in conflitto tra loro non resero facile il governo della regione. Peggio: questo difficile equilibrio poteva in un qualsiasi momento venire destabilizzato arbitrariamente dal carattere personale del prefetto. Ponzio Pilato (c. 26-26 e.v.) ne è un esempio calzante. Riproducendo un riassunto del carattere di Pilato dato dal contemporaneo del prefetto, Agrippa I, Filone d'Alessandria lo descrive come uomo "di natura inflessibile, testarda e crudele", la cui amministrazione fu segnata dalla sua "venalità, ladrocinii, assalti, comportamento offensivo, e i suoi frequesti omicidi di prigionieri senza processo" (Legatio 38.302). Il suo primo atto dopo la nomina fu consapevolmente provocativo. Ignorando la tradizionale esenzione di Gerusalemme da immagini imperiali, egli ordinò ad alcuni delle sue trupp, di nascosto la notte, di portare in città le insegne con l'immagine di Cesare. Ciò sobillò città e nazione, con un gran numero di ebrei che lo seguirono a Cesarea e si sedettero fuori della sua residenza in protesta per cinque giorni. Convocandoli al tribunale, Pilato li fece circondare dai suoi soldati ordinando che estraessero le spade. A tutta risposta gli ebrei "scoprirono il collo ed esclamarono di essere pronti a morire piuttosto che trasgredire la Legge" tollerando l'azione di Pilato. Questi lasciò perdere e fece ritirare le insegne. (BJ 2.169-74; AJ 18.55-59).

Pilato in seguito provocò altre proteste quando usò fondi dati in dedica al Tempio (ebr. קרבנות -korbanòt, "offerte") per poter costruire un acquedotto per Gerusalemme. A parer suo, sembrava probabilmente giusto farlo. Il Tempio usava un'enorme quantità d'acqua e avrebbe sicuramente beneficiato di una maggiore fornitura; e grazie soprattutto alle donazioni ebraiche della tassa templare, il Tempio possedeva grandi depositi di denaro. Molti ebrei avevano un'opinione diversa. Questi fondi erano stati dedicati a Dio e al Suo servizio nel Tempio. L'azione di Pilato – usando denaro sacro per progetti municipali – ai loro occhi era un sacrilegio. Nuovamente si affollarono nel suo tribunale, questa volta a Gerusalemme. Ma Pilato era pronto e non fece marcia indietro. Fece sparpagliare soldati armati e in abiti civili tra la folla; ad un suo segnale, si misero a picchiare gli ebrei. Molti morirono, alcuni per le percosse, altri a causa del fuggi fuggi che ne seguì (BJ 2.175-77; AJ 18.59-62).

Indine, in una data successiva – forse rammaricandosi di aver ceduto alle richieste ebree nella faccenda delle insegne – Pilato portò a Gerusalemme scudi votivi con il nome dell'imperatore (ma senza immagine) e le appese nella sua residenza là. Gli ebrei ancora una volta protestarono, ora anche insieme a quattro figli di Erode che si trovavano in città (probabilmente per una delle festività). Pilato rimase risoluto. Questi principi, insieme ad importanti personalità della città, mandarono una petizione all'imperatore Tiberio. Tiberio stesso ordinò a Pilato di levare gli scudi e portarli a Cesarea (Filone, Legatio 38.299-306).

La Samaria, e non Gerusalemme, accelerò la rimozione di Pilato dal suo incarico e, in un certo senso, dalla storia. Nel 35 e.v., un profeta samaritano aveva raccolto una grande folla sul Monte Gerizim con la promessa di produrre i vasi sacri ivi sepolti da Mosè. Pilato fece disperdere il gruppo con la cavalleria e la fanteria pesante, facendo prigionieri e giustiziando il capi principali. I Samaritani allora protestarono presso il legato siriano, Vitellio, che Pilato aveva fatto massacrare pellegrini disarmati, e non ribelli in sommossa. Vitellio mise un amico in carica quale sostituto prefetto e ordinò Pilato a Roma, che si presentasse davanti all'imperatore (AJ 18.85-89). E con questo le informazioni su Pilato finiscono. Andando a Gerusalemme per la Pasqua, Vitellio accomodò le cose condonando alcune tasse e restituendo i paramenti sacri del sommo sacerdozio alla custodia dei sacerdoti. Infine, egli depose Yosef Bar Kayafa, il sommo sacerdote che aveva operato durante tutto il mandato in carica di Pilato. Per un periodo, la Giudea rimase traquilla.

Roma e gli ebrei

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Come ha rivelato questa breve panoramica, il dominio romano nel primo secolo e in questa parte dell'impero non fu uniforme. Roma non aveva una presenza militare in Galilea e una presenza minore in Giudea. Gran parte delle truppe stavano più che altro nella città costiera di Cesarea. Tuttavia, la presenza imperiale veniva percepita inevitabilmente durante le Grandi Festività, poiché l'attenzione si concentrava necessariamente sul Tempio aumentandone la visibilità. E sebbene gli imperatori da Augusto in poi erano personalmente coinvolti in tutte le decisioni di interesse regionale – assegnando le eredità reali, ricevendo petizioni di intervenire in dispute locali – questa stessa procedura di necessità attenuava il loro effetto, poiché rallentava tutto. Roma poteva essere contattata solo per lettera, e la velocità della corrispondenza via mare variava grandemente secondo il tempo, le stagioni e il caso. La solita rotta marittima, andando in senso antiorario da Roma ad Alessandria e poi fino alla costa mediterranea orientale, non era affidabile e quindi le comunicazioni erano lente.

Inoltre, gli interessi di Roma erano alquanto circoscritti: l'impero voleva una pace interna, confini sicuri e tributi regolari. Finché tali condizioni venivano rispettate, i suoi innumerevoli sudditi e clienti erano in generale lasciati ai loro culti, ad osservare e praticare ciò che desideravano e come desideravano. Nonostante il suo aggrovigliamento col culto ebraico a causa delle specifiche questioni che riguardavano la gestione del Tempio, l'impero mantenne questa politica anche in Giudea. La belligeranza di Pilato – e certamente di Caligola, quando tentò di porre la sua propria statua nel Tempio – erano eccezioni estreme. Per ragioni pratiche sia amministrative che religiose (chi mai voleva provocare l'ira degli dei di un'altra nazione?), Roma non desiderava affatto disturbare osservanze regionali e di solito faceva del tutto per lenire la sensibilità ebraica. Si consideri l'esempio di Vitellio, il succitato legato siriano, che venne in aiuto di Antipa nel 39 e.v. quando Antipa fu attaccato dal suo ex suocero, il re nabateo Areta.

« Vitellio si preparò ad una guerra contro Areta... Poiché egli aveva iniziato a condurre il suo esercito attraverso la terra di Giudea, gli ebrei di alto rango andarono ad incontrarlo e lo supplicarono di non marciare nella loro terra. [Nota: Vitellio si era mobilitato per assistere il regnante ebreo.] Poiché, questi dissero, era contrario alla loro tradizione permettere che immagini, di cui ce n'erano molte sugli stendardi militari, fossero portate sul loro suolo. Cedendo alla loro richiesta, egli abbandonò il suo piano originale e ordinò al proprio esercito di marciare attraverso la Grande Pianura mentre egli stesso, insieme ad Erode il tetrarca e ai suoi amici, andò a Gerusalemme a far sacrifici a Dio durante la festività tradizionale. »
(AJ 18.120-22)

Claudio, che successe a Caligola come imperatore nel 41, pubblicamente e specificamente denunciò la "grande follia e pazzia" del suo predecessore. Nel primo impero, era d'uso che gli imperatori venissero deificati dopo la morte; la richiesta di Caligola che egli venisse adorato mentre era in vita aveva disgustato il suo stesso popolo, e il suo tentativo di erigere la propria statua nel Tempio di Gerusalemme provocò una crisi per gli ebrei. Claudio non perse tempo ed emise editti, sia per la città di Alessandria in Egitto e anche "per il resto del mondo", riaffermando la politica tradizionale dell'impero riguardo alla tolleranza religiosa. Secondo Flavio Giuseppe, Claudio per prima cosa si rivolse agli alessandrini greci, che avevano violato i diritti civili degli ebrei durante la turbolenza provocata da Caligola. Claudio proclamò il suo desiderio che "le varie nazioni suddite [in quella città] si attenessero alle proprie usanze e non fossero costrette a violare la religione dei loro padri". Apprendendo dell'insurrezione dei greci alessandrini

« contro gli ebrei che erano tra loro durante il tempo di Gaio Cesare [Caligola]. che a causa della sua grande follia e pazzia umiliò gli ebrei perché si rifiutarono di trasgredire la religione dei loro padri rivolgendosi a lui come a un dio, io desidero che nessuno dei loro diritti debba esser tolto agli ebei a causa della pazzia di Gaio, ma che i loro precedenti privilegi siano a loro riservati; ed esorto entrambe le parti affinché stiano accorti onde prevenire qualsiasi turbolenza dopo l'affissione del mio editto. »

Il suo secondo editto pronunciava generalmente lo stesso principio. Claudio spiegava di aver acceduto alla richiesta del suo amico, il monarca ebreo Agrippa I, che aveva chiesto che i privilegi goduti dagli ebrei alessandrini fossero mantenuti anche per gli ebrei di tutto l'impero.

« Io consentii con molto piacere, non solo per accontentare coloro che mi avevano presentato la petizione, ma anche perché secondo me gli ebrei meritano di ottenere la loro richiesta a ragione della loro lealtà e amicizia per i romani. In particolare, lo feci perché ritengo giusto che neanche le città greche debbano essere private di questi privilegi, sapendo che in effetti vennero loro garantiti al tempo del divino Augusto. È giusto quindi che anche gli ebrei di tutto il mondo sotto il nostro controllo debbano osservare le usanze dei loro padri senza alcun impedimento. Ingiungo loro anche con questi regali di avvalersi di questa gentilezza con uno spirito più ragionevole e di non annullare le convinzioni sugli dei detenute da altri popoli, ma di attenersi alle proprie leggi. »

Per assicurare che la sua volontà venisse ampiamente trasmessa, Claudio chiudeva ordinando agli gli organi di governo di tutte le città e colonie in Italia e oltre, e a tutti i re clienti tramite i loro propri ufficiali, di inscrivere il suo editto e affiggerlo per almeno trenta giorni "in un posto dove possa essere letto chiaramente dal suolo" (AJ 19.283-91).

Questa tolleranza religiosa pratica e di principio contrasta notevolmente col sentimento che la maggioranza della gente aveva dell'Impero Romano. La cultura maggioritaria del moderno Occidente è cristiana. Ciò significa che, sia nei sondaggi scolastici sulla storia antica, l'istruzione elementare nelle chiese tradizionali, sia nelle rappresentazioni sensazionali delle epiche di Hollywood, le persecuzioni anticristiane di Roma appaiono ingigantite.

Questa impressione di Roma quale persecutrice religiosa oscura sia le nozioni antiche di culto sia le realtà pratiche della conduzione dell'impero. "Roma" in quanto tale non aveva una politica di persecuzione cristiana fino all'imperatore Decio nel 250 e.v. Prima di allora, alcuni cristiani nelle varie città dell'impero potevano essere bersagli di risentimenti locali e di paure poiché come gentili non onoravano i loro dei ancestrali, da cui il benessere della comunità infine dipendeva. Come si lamentava Tertulliano, un cristiano latino del secondo secolo: "Se il Tevere straripa fino alle mura, se il Nilo non inonda le campagne; se il cielo non si muove o la terra invece sì; se c'è carestia o peste, il grido si alza subito — Mandate i cristiani ai leoni!" (Apologeticum 40.2). Ed i cristiani ebrei non erano altrettanto perseguitati, perché come ebrei la loro esenzione dal culto pubblico era antica, tradizionale e protetta dalla legge. L'obbligo ancestra era ciò che contava.

Inoltre, quando nel 250 Decio ordinò la partecipazione nel culto pubblico di tutti i residenti dell'impero (di nuovo, eccetto gli ebrei e, quindi, i cristiani ebrei), egli non proibì la pratica dei cristiani. Piuttosto, egli ordinò semplicemente che i cristiani gentili, oltre alla loro specifica religione personale, osservassero anche i culti tradizionali del proprio popolo e dll'impero. Il suo scopo non era l'uniformità religiosa, ma la conservazione del benessere dell'impero, che era supervisionato dagli dei.

Infine, l'ecumenismo di principio da parte di Roma rifletteva il pluralismo tollerante del tutto tipico del paganesimo antico con il suo atteggiamento "se un po' va bene, di più va meglio" verso gli altri dei (che a sua volta spiega il durevole interesse gentile verso la sinagoga). Più che soltanto congeniale culturalmente, tale pluralismo religioso era anche pragmatico politicamente. Ciò che importava soprattutto era la pace e la sicurezza — il che spiega perché Decio prese quell'iniziativa senza precedenti. A metà del terzo secolo, l'inflazione impazzava e gli eserciti invasori avevano penetrato le frontiere dell'impero. L'editto di Decio intendeva ingaggiare tutti a pregare il cielo affinché proteggesse Roma ancora una volta.

Ma essere preoccupati in modo proattivo di tutte le infinite pratiche ancestrali dei suoi popoli sudditi avrebbe però interferito con il buon funzionamento dell'impero. A parte le attività illecite come l'omicidio cultico, il cannibalismo, o la castrazione, gli imperatori non pwersero troppo tempo su ciò che comunque non era di loro interesse. Il culto della dea Roma e i giorni festivi imperiali che onoravano la divinità di imperatori deceduti semplicemente presero posto nei calendari liturgici delle sparse municipalità dell'impero. Nel frattempo, le comunità ebraiche pregavano per il benessere di Roma e, a Gerusalemme, offrivano sacrifici per suo conto.

La nostra seconda conclusione semplicemente riassume ciò che abbiamo visto presentato nei particolari supra: l'esperienza politica e sociale della Galilea in questo periodo contrastò sostanzialmente con quella della Giudea. A differenza della Giudea, con le sue amministrazioni governative complesse e conflittuali, la Galilea godette di un regime lungo, ininterrotto e stabile sotto Erode Antipa. Non apparvero soldati romani nella Galilea durante la vita di Gesù, né la regione affrontò mai un censimento o pagò un tributo a Roma. E nonostante le preoccupazione del tetrarca in merito a Giovanni il Battista, il suo regno non fu contrastato da ribellioni o proteste. In confronto alla Giudea, la Galilea fu pacifica e tranquilla.

Terzo e ultimo, dobbiamo notare che Giudea e Galilea, a parte le esperienze politiche, erano nondimeno accomunate religiosamente, cosicché che apparentemente concernevano solo i giudei, potevano comunque provocare azioni da parte dei galilei, e viceversa. La loro intensa interazione esprimeva il potere vincolante della loro cultura religiosa unica, che generalmente distingueva gli ebrei dai loro vicini e li identificava tra loro, non importa quanto fossero sparpagliati. Anche questo punto necessita enfasi, perché la recente attenzione degli studiosi sul regionalismo galileo, o la sua cultura contadina presumibilmente alienata e ostile alla (élite giudea della) Torah e al Tempio, fa sembrare Alessandria, Roma, o persino Babilonia più vicine religiosamente e culturalmente a Gerusalemme di quanto non lo fossero alla Galilea. Esaminiamo ancora una volta ciò che si può estrarre dalle testimonianze antiche.

Che gli ebrei fossero un solo popolo, non importa dove vivessero, sembrava vero tanto ai loro occhi quanto a quelli dei loro contemporanei gentili. Erano uniti sia per parentela sia per culto — che in antichità erano strettamente correlati. "Ottomila" ebrei residenti a Roma al tempo di Augusto si coinvolsero immediatamente con la petizione di "autonomia" giudea da parte della delegazione visitante: ciò che interessava la patria, e specialmente il Tempio, interessava loro.[8] Ulteriore testimonianza dell'interesse dalla comunità diasporica per la Giudea può riscontrarsi nella strana storia che Flavio Giuseppe racconta su un pretendente erodiano (BJ 2.101-10; AJ 17.323-38). Dopo che Augusto aveva dato esecuzione al testamento di Erode nel 4 p.e.v., apparve un giovane che affermava di essere Alessandro, uno dei figli di Erode avuti dalla principessa asmonea Mariamne. Il vero Alessandro, insieme a suo fratello Aristobulo, era stato giustiziato per cospirazione da suo padre tre anni prima. Ma la somiglianza fisica al principe morto era così forte che gli ebrei di Creta, Melos, Pozzuoli e Roma gli si affollarono intorno, aprendogli i loro cuori e i loro portafogli. Alcuni di questi sostenitori, osserva Flavio Giuseppe, speravano semplicemente di avere un vantaggio per il loro patrocinio quando "Alessandro" fosse diventato re (AJ 17.327). Ma molti altri ("l'intera popolazione" di Roma) lo accolsero a braccia aperte, con gioia "a causa del suo legame razziale con la madre" (17.330: il termine tradotto con "razziale" nel testo orig. è genos, "etnico"). Questi ebrei, sebbene lontani da Gerusalemme, erano molto coinvolti.

L'unità religiosa di questo popolo disperso era ugualmente evidente a stranieri: per uqesta ragione Flavio Giuseppe rappresenta la pubblicizzazione da parte dell'imperatore Claudio dei principi del suo decreto relativo agli ebrei alessandrini in tutto l'impero. Tale fatto spiega anche il modello di alcuni dei benefici di Erode il Grande a favore di fondazioni pagane nella Diaspora. Quale re degli ebrei, Erode finanziava progetti nelle città della Diaspora con grandi popolazioni di ebrei. Oltre a aumentare il proprio prestigio, egli desiderava che questi progetti acquisissero la benevolenza dei suoi beneficiari gentili verso gli ebrei residenti.

La Bibbia, la conoscenza della Torah mediata attraverso la sinagoga, l'interesse quasi universale per il Tempio di Gerusalemme — tutto ciò era sia espressione sia agente della singola identità del popolo ebraico nell'antichità:

« I nostri libri, quelli che sono giustamente accreditati, non sono che ventidue, e contengono la registrazione di tutto il tempo. Di questi, cinque sono i libri di Mosè, che comprendono le leggi e la storia tradizionale dalla nascita dell'uomo fino alla morte del legislatore... Dalla morte di Mosè fino ad Artaserse, che succedette a Serse quale re di Persia, i profeti successivi a Mosè scrissero la storia degli eventi dei loro tempi in tredici libri. I rimanenti quattro contengono inni a Dio e precetti per la condotta della vita umana... Noi abbiamo dato prova della nostra devozione alle nostre proprie Scritture. Poiché, sebbene siano ora passate tante e lunghe età, nessuno si è mai azzardato ad aggiungere, o togliere, o alterare una sola sillaba; ed è un istinto per ogni ebreo, dal giorno della sua nascita, di considerarle quali decreti di Dio, di rispettarle e, se necessario, persino morire per loro. »
(c. Ap. 1.38-42)

Il loro riconoscimento universale di santità della Legge e la loro conseguente "uniformità perfetta in usi e costumi", afferma Flavio Giuseppe – senza ironia! – è la causa della "ammirevole armonia" degli ebrei (c. Ap. 2.179). Tutto ciò dobbiamo prenderlo nella "giusta" prospettiva. Del resto, questo scritto – la sua risposta alle calunnie pubblicate dal greco Apione, che aveva usato una quantità di fonti anti-ebraiche – era una robusta apologia del suo popolo da parte di Flavio Giuseppe. Altrove, nelle sue storie, i suoi particolari di screzi fratricidi e dispute settarie forniscono un'abbondante testimonianza a confutazione delle sue asserzioni di "ammirevole armonia" fatte nell'apologia.

Ma questo punto basilare – che gli ebrei in generale conoscessero le loro leggi ancestrali; che rispettassero Shabbat, circoncisione, e leggi alimentari; che sostenessero fedelmente il Tempio – è ampiamente comprovato anche da testimonianze non-ebraiche. Gli imperatori promulgarono leggi che proteggevano l'osservanza ebraica dello Shabbat, la santità dei rotoli della Legge, e i fondi che essi dedicavano al Tempio (per es. AJ 16.162-66). Osservatori gentili da un ampio spettro di periodi e luoghi, che fossero ostili o ammiratori, pagani o cristiani, greci o latini, commentano tutti sulle stesse caratteristiche credenze o comportamenti come li espone Flavio Giuseppe.

Forse il miglior indice della vasta fedeltà ebraica al Tempio è il denaro che ebrei da tutto il mondo contribuivano volontariamente a favore del suo mantenimento, la cosiddetta tassa del Tempio di mezzo siclo o due dracme. Matteo nel suo Vangelo semplicemente presume che la tassa sia familiare ai suoi lettori. Quando Gesù e i suoi discepoli ritornano a Cafarnao, Matteo scrive: "Venuti a Cafarnao, si avvicinarono a Pietro gli esattori della tassa per il Tempio e gli dissero: «Il vostro maestro non paga la tassa per il tempio?». Rispose: «Sì»" (Matteo 17:24-25). Ebrei in tutto l'impero cercavano di ottenere dal governo imperiale la garanzia legale del loro diritto di raccogliere e inviare questa donazione. Grazie ancora a Flavio Giuseppe, il linguaggio di molti di tali decreti sopravvive. Come principio legale asserivano che "il denaro sacro [degli ebrei] sarà inviolabile e può essere inviato a Gerusalemme e consegnato ai tesorieri di Gerusalemme" (così proclama Augusto – nel suo ruolo di pontifex maximus, "supremo sacerdote" e custode di tutti i culti legittimi nell'impero – alle città dell'Asia proconsolare, AJ 16.163). Le città di loro residenza, tentate da tale quantità di contante, a volte se ne appropriarono per uso più locale. Per cui il decreto del proconsole:

« Gaio Norbano Flacco, proconsole, ai magistrati e al consiglio di Sardi, saluti. Cesare mi ha scritto, ordinando che agli ebrei non sarà impedito di raccogliere somme di denaro, per quanto grandi esse siano, secondo lo loro costumanza ancestrale, e inviarle a Gerusalemme. Vi ho quindi scritto per farvelo sapere affinché ciò venga fatto secondo la volontà di Cesare e mia. »
(AJ 16.171)

E un altro decreto:

« Ai magistrati, consiglio e popolo di Efeso, saluti. Quando io amministravo giustizia a Efeso nelle Idi di Febbraio, gli ebrei che risiedevano in Asia mi fecero sapere che Cesare Augusto e Agrippa [nobile romano, e non il successivo re ebreo dallo stesso nome] aveva permesso loro di seguire le loro proprie leggi e usanze, e di portare le offerte, che ciascuno di loro fanno di propria libera volontà e per devozione verso la loro Divinità, viaggiando insieme con scorta a Gerusalemme senza essere ostacolati in alcun modo. E hanno chiesto che io confermi con mia personale decisione i diritti concessi da Augusto e da Agrippa. Pertanto desidero che conosciate che, in accordo con la volontà di Augusto e di Agrippa, io permetto loro di vivere ed agire secondo le loro costumanze. »
(AJ 16.172-73)

Questa tassa generava così tante entrate che i romani, a seguito della guerra giudaica, insistettero di continuare a raccoglierla. Il loro Tempio non esisteva più, la tassa non pi volontaria, e Gerusalemme non più la sua destinaqzione, ma comunque gli ebrei continuarono a pagarla: frammenti di papiro dall'Egitto ci fanno intravedere alcuni registri locali. Ora, però, Roma reindirizzava i fondi in modo che la tassa degli ebrei finanziava il tempio di Giove sul Campidoglio.

Sia i Vangeli che Flavio Giuseppe parlano di una presenza galilea al Tempio durante le festività di pellegrinaggio. I Galilei vi si radunavano in grandi moltitudini per la Pentecoste/Shavuot, cinquanta giorni dopo la prima triste Pasqua di Archelao quale erede designato di Erode nel 4 p.e.v. Loro e altri con loro – Flavio Giuseppe cita gli Idumei, gente da Gerico e dalla Transgiordania e, soprattutto, Giudei naturalmente – furono infiammati dalla "insolenza sconsiderata di Sabino", il prefetto installato temporaneamente a supervisionare la regione mentre Archelao si presentava da Augusto a Roma. Questo Sabino provocò indignazione locale e regionale usandfo i suoi soldati e i propri schiavi per molestare gli ebrei, e cercare di accaparrarsi il tesoro reale (BJ 2.40-46; AJ 17.253-54). Di conseguenza, "non fu tanto il consueto rituale quanto l'indignazione che attrasse la popolazione in moltitudine verso la capitale" (BJ 2.42).

Il punto qui da notare è che i Galilei, specificamente, erano interessati a quanto accadeva in Giudea. Lo stesso punto è comprovato dalla rivolta contro la tassazione in Giudea nell'anno 6 e.v., in protesta per il censimento di Augusto e la riscossione fiscale nella Giudea. Il principale istigatore fu Giuda il Galileo. Egli considerò tale tassa di tributo quale offesa religiosa e non esitò ad esortare i Giudei ad unirsi a lui in rivolta (BJ 2.117-18; AJ 18.4-10). Infine l'uccisione in Samaria di pellegrini galilei che l'attraversavano alla volta di Gerusalemme conferma sia che esistesse un simile traffico tra Nord e Sud e che i Giudei da parte loro si interessassero a ciò che succedeva ai loro correligionari settentrionali (AJ 20.119-36).

Tuttavia, la più vasta e drammatica dimostrazione di solidarietà tra Giudea e Galilea avvenne nel 40 e.v., provocata da Caligola. L'imperatore aveva già cominciato ad insistere che venisse riconosciuta la sua divinità, richiesta che i suoi sudditi non ebrei nell'Est greco e in Egitto non avevano difficoltà ad esaudire. Quando Filone insieme ad un piccolo gruppo di altri ebrei alessandrini vennero in Italia come delegazione a cercare riparazione per la violenza antiebraica nella loro città, Caligola li snobbò. La delegazione alessandrina pagana capeggiata da Apione (contro le cui calunnie Flavio Giuseppe avrebbe poi diretto la sua apologia) aveva incitato l'imperatore, dicendo che solo gli ebrei tra tutti i suoi sudditi avevano rifiutato di onorarlo come dovevano.

Caligola bruscamente decise di correggere la situazione. Ordinò che il legato siriano, un uomo di nome Petronio, prendesse metà del suo esercito – due legioni, o circa dieci-dodicimila uomini – e si imbarcasse verso la Giudea.Evidentemente Caligola era disposto ad usare forza violenta per ottenere il suo scopo: erigere una statua di se stesso nel tempio ebraico di Gerusalemme. Onde poter eseguire la sua missione, Petronio doveva prima marciare attraverso la Galilea; e lì, come poi risultò, egli si bloccò.

Agli inizi dell'estate del 40 c.e., a Tolemaide (città portuale del Nord e punto d'ingresso nella Galilea) e di nuovo, durante la stagione autunnale di semina, a Tiberiade, Petronio dovette affrontare una grande folla di ebrei decisi a resistere passivamente l'ordine di Caligola. "Uccidici prima di eseguire queste risoluzioni!" (AJ 18.264). La popolazione non si sarebbe mai mossa.

« "In nessun caso combatteremmo", dissero, "ma moriremo piuttosto che violare le nostre leggi". E buttandosi a faccia in giù e scoprendosi le gole, dichiararono di esser pronti a morire. Continuarono con queste suppliche per quaranta giorni. Inoltre, trascurarono i loro campi, sebbene fosse il tempo della semina. Poiché dimostrarono una determinazione ostinata a morire piuttosto che veder eretta l'immagine. »
(AJ 18.271-72)

Petronio alla fine presentò una petiione all'imperatore affinché rescindesse il suo ordine. Caligola rispose ordinando a Petronio di suicidarsi. Ma la morte sopraggiunse prima per Caligola stesso, quando fu assassinato nel gennaio del 41. Petronio ricevette notizia della morte di Caligola all'inizio di marzo – circa quattro settimane prima di ricevere la precedente lettera dell'imperatore che ordinava il suo suicidio (AJ 18.307-8). La prima lettera ci aveva messo tre mesi per raggiungerlo, rallentata dal cattivo tempo: l'inaffidabilità della rotta marittima aveva funzionato a favore di Petronio, il quale abbandonò felecemente entrambe le direttive di Caligola.

Nessun ebreo, ovunque si trovasse nell'impero, era indifferente al piano di Caligola. Filone speculò che, a meno che l'imperatore avesse cambiato idea, si sarebbe dovuto confrontare con ribellioni di protesta ebraica in tutto l'impero (Legatio 214-20). Il punto da notare qui è la forte reazione unita di Galilei e Giudei in particolare contro questa minaccia al Tempio. Manifestanti si riversarono in massa a Gerusalemme e nel resto della nazione, come afferma Filone in Legatio 222-49. Flavio Giuseppe nota la preoccupazione dei nobili e dei capi, che ammoniscono Petronio che "poiché la terra non era stata seminata, ci sarebbe stato un aumento di banditismo, poiché il tributo non poteva essere raccolto" (AJ 18.274) — un chiaro riferimento all'identità giudea di alcuni degli sciperanti, poiché solo i Giudei pagavano il tributo. Questi Giudei si unirono agli ebrei galilei per persuadere Petronio a non eseguire i suoi ordini. Altri Galilei devono aver assistito un tale gruppo massiccio – "decine di migliaia", secondo Flavio – mentre si sedettero in sciopero a Tiberiade per quaranta giorni.

Allora, man mano che esaminiamo le storie dei Vangeli sulla missione di Gesù, dobbiamo tenere in mente che questo è il contesto sociale generale. La Galilea del periodo di Gesù era stabile politicamente e, specialmente quando confrontata con la Giudea, relativamente tranquilla. La terra stessa era fertile e densamente popolata, e queste due cose vanno messe insieme: con la mancanza di cibo, le popolazioni diminuiscono. Ciò a sua volta implica che l'economia della regione, qualsiasi metodo moderno decidiamo di utilizzare per analizzarla, non compromise la sua fecondità basilare. Le due grandi e nuove città nella parte della Galilea di Gesù – Zippori e Tiberiade, entrambe costruite durante la vita di Gesù – quasi sicuramente non ebbero quindi un effetto del tutto negativo sulla vita dei villaggi intorno a loro, poiché le fonti non riportano nulla di movimenti protestatari contadini, o di turbolenze, carestie, o rivolte.

La vita sociale in Galilea era organizzata soprattutto intorno ai villaggi, come ci si deve aspettare in aree primariamente agriculturali; su questo sono d'accordo Flavio Giuseppe, i Vangeli, e i dati archeologici. L'osservanza in famiglia e la vita religiosa di gruppo coincidevano durante le assemblee settimanali del villaggio nello Shabbat (la "sinagoga"). Queste erano contrassegnate da lettura pubblica (e quindi, per la maggioranza degli astanti, da ascolto pubblico) della Torah; l'istruzione e l'interpretazione dei suoi precetti da parte di coloro che avevano conoscenza e quindi autorità per insegnare (un cohen residente nel villaggio, forse; o uno scriba; o laici eruditi, forse Farisei); la preghiera (sia comunitaria che individuale); e forse anche lezioni prese da alcuni degli altri scritti tradizionali autorevoli, come quelli elencati da Flavio Giuseppe, succitati: Profeti, Salmi ("inni"), Proverbi.

Il calendario agricolo degli abitanti del villaggio scorreva insieme alle stagioni di importnza spirituale e storica nella vita della nazione mediante il ciclo annuale delle festività di pellegrinaggio prescritte biblicamente. Sukkot/Capanne, dopo la raccolta autunnale, celebrava i frutti della Terra mentre richiamava il periodo in cui Israele, senza terra, vagava per il deserto. Pesach/Pasqua agli inizi della primavera, in vari modi la festività fondamentale della nazione, richiamava la redenzione dall'Egitto, quando Dio aveva portato Israele fuori dalla schiavitù "con mano potente e con braccio teso". E Shavuot/Pentecoste, che cadeva dopo la prima raccolta d'orzo nella tarda primavera o prima estate, celebrava le parole di Dio al Sinai, la Sua "istruzione", la Sua Torah. Misurando le proprie vite con questo ciclo di semina, raccolta ed il ricordo rivissuto, il popolo usciva dai villaggi della Galilea per celebrare presso il Tempio, cantando salmi di pellegrinaggio in lode a Gerusalemme. I rituali e le tradizioni delle stesse festività, come gli inni, le preghiere e gli speciali cibi festivi (come il pane azzimo per Pasqua), tutto serviva quale mezzo d'istruzione religiosa e orientamento spirituale. Pertanto, mentre Zippori e Tiberiade dominavano la regione geograficamente, spiritualmente e religiosamente (usando una distinzione moderna che non avrebbe avuto senso per la gente dell'antichità), la città principale della Galilea era Gerusalemme.

Camminando dalla Galilea a Gerusalemme metteva questi pellegrini in contatto con la potenza suprema governante di quel periodo: Roma. Quando vi si recavano per le feste maggiori, vi si recava anche il prefetto, marciando da Cesarea con la maggior parte delle tremila truppe messe a guardia nei pressi del Tempio. Il periodo di purificazione lungo una settimana, più la durata della festività (sette o otto giorni), significava che la popolazione della città si ingrossava per almeno due settimane per volta. Alcuni pellegrini trovavano alloggio nell'ambito della città; molti altri si accampavano nella valle appena più giù; altri cercavano alloggio temporaneo nei villaggi vicini. (Secondo Marco 11:12, per esempio, Gesù alloggiò nel villaggio di Betania, durante la sua ultima Pasqua; Giovanni 7:10 implica che Gesù stette in città per il Sukkot.) La polizia ebraica del Tempio manteneva l'ordine nella stessa Gerusalemme; i soldati romani, presidiati vicino al Tempio, pattugliavano il suo perimetro dal tetto della stoa. Il loro contatto con le folle, se tutto andava bene, era minimo: la loro stessa visibilità aveva lo scopo di scoraggiare qualsiasi commozione popolare.

Il periodo prima della festività era caratterizzato dalla cerimonia di purificazione da inquinamento per cadavere.[9] Nel terzo e settimo giorno di questa settimana, gli adoratori venivano aspersi con la speciale "acqua della purificazione" che era mescolata con le ceneri di una giovenca rossa (פָּרָה אֲדֻמָּה‎ - para adumma).[10] Una volta completate queste aspersioni, l'adoratore/adoratrice si immergeva, immergendo anche i propri abiti. Dopodiché, purificati erano pronti ad entrare l'area del Tempio per le relative offerte festive. Il primo e ultimo giorno della settimana festiva stessa erano "feste alte", coi loro protocolli particolari. Eccetto lo Shabbat, i giorni festivi intermedi, come il tempo durante la settimana preparatoria, erano periodi di tempo libero non strutturato: studiare, socializzare, godere della tregua dagli obblighi quotidiani usuali. Con la conclusione della festa, la popolazione cittadina diminuiva man mano che i pellegrini tornavano a casa. Anche il prefetto, insieme al suo esercito, ritornava a Cesarea.

Per il periodo successivo, se tutto era andato bene, anche Gerusalemme rimaneva tranquilla.

La missione di Giovanni

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San Giovanni evangelista, di Vladimir Borovikovsky
San Giovanni Battista, di El Greco, 1605

Galilea e Giudea forniscono i contesti più ampi – geografici, politici, sociali, economici – per comprendere il messaggio e il significato della missione di Gesù. Due figure storiche che stanno agli estremi della sua missione le danno un contesto più focalizzato e personale: Giovanni il Battista agli inizi, Ponzio Pilato alla fine.

Perché considerare affidabili storicamente le storie di Gesù che incontra questi due uomini? In primo luogo, tali storie sono attestate in fonti molteplici. Non solo i Vangeli, ma anche Flavio Giuseppe e Tacito citano Pilato quale autorità responsabile dell'esecuzione di Gesù; sia Marco che Giovanni parlano della missione del Battista che precede, e in un certo senso dà inizio a quella di Gesù. Inoltre, entrambe passano un esame approssimativo di autenticità che gli storici usano per tale materiale, noto come il "criterio di dissomiglianza" o "discontinuità". Nella sua formulazione classica, questo criterio afferma che, se un detto o una storia su Gesù è dissimile sia dall'ebraismo contemporaneo del primo secolo e dagli insegnamenti su di lui da parte della chiesa successiva, allora potrebbe essere autentico/a. Applicato meccanicamente, di certo tale criterio non avrà senso. Privilegiando una definizione di "autentico" nel senso di "unico", può in effetti presentare Gesù come uomo senza un contesto religioso o storico nativo, o come insegnante i cui insegnamenti non ebbero incidenza sul movimento che si formò in seguito intorno alla sua memoria. Applicato giudiziosamente, però, può assistere a chiarire i dati. Per esempio, niente nel primo ebraismo parla di un messia battezzato o crocifisso; pertanto, gli evangelisti non avrebbero motivo di inventarsi tali storie. E allora da dove provengono? Forse da eventi ricordati.

Il criterio dell'imbarazzo, versione modificata di quello della dissomiglianza, sostiene che una tradizione che è chiaramente non negli interessi della chiesa successiva – per esempio, osservazioni denigratorie sui Gentili; oppure dichiarazioni esplicite della Fine imminente – potrebbero essere autentiche. Perché la comunità successiva avrebbe dovuto inventarsi delle storie che le avrebbero solo creato difficoltà? La fonte di tale materiale scomodo potrebbe quindi essere reminiscenza storica. Possiamo rintracciare il crescente imbarazzo che il battesimo e la crocifissione di Gesù causò a successive comunità nel modo in cui gli evangelisti trattarono tali tradizioni. Pertanto, la semplice asserzione di Marco che Gesù venne da Giovanni per battezzarsi suggerisce discorsi esplicativi a Matteo quando ripete l'evento:

« In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: "Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?". Ma Gesù gli disse: "Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia". Allora Giovanni acconsentì. »
(Matteo 3:13-15[11])

Luca cita in fretta e furia il battesimo in una frase subordinata, oscurando l'agenzia di Giovanni Battista (Luca 3:21); il Vangelo di Giovanni elimina la scenda del battesimo completamente. E, man mano che si sviluppa la Passione di Gesù, vediamo la loro tendenza crescente a discolpare Pilato e incolpare le autorità ebraiche — una ragionevole ripartizione di ostilità e biasimo poiché, quando scrivono gli evangelisti, le autorità sacerdotali di Gerusalemme non c'erano più e il nuovo movimento doveva trovare il suo posto in un mondo governato da Roma. Se gli evangelisti fossero stati completamente liberi di inventarsi le loro storie su Gesù, possiamo solo supporre che si sarebbero risparmiati la fatica e le difficoltà poste sia da Giovanni il Battista che da Pilato.

Secondo blocchi di tradizione conservati in Q, Giovanni stesso predicò un messaggio di pentimento in vista del prossimo arrivo del regno di Dio, e si rivolse a gabellieri e peccatori che reagirono alla sua chiamata. Anche Giovanni morì violentemente, giustiziato dell'autorità governante. E oltre al fatto della loro sincronicità storica e queste somiglianze condivise nelle loro rispettive missioni, Giovanni si pone in un rapporto iniziatico nei confronti di Gesù: solo dopo la sua immersione "per il perdono dei peccati" (Marco 1:4,9 e parall.), Gesù stesso si impegnò a portare il messaggio del Regno a Israele. Pertanto, più chiaramente comprendiamo Giovanni, tanto più chiaramente potremo comprendere Gesù.

Testimonianza riguardo a Giovanni la si ritrova in molte fonti differenti: in brevi passi narrativi su Marco, ripetuti da Matteo e Luca; in Q, che contiene alcuni degli insegnamenti di Giovanni (Matteo 3:7-12//Luca 3:7-9,15-18) come anche osservazioni di Gesù su di lui (Matteo 11:2-19//Luca 7:18-35); in altre tradizioni indipendenti nel Quarto Vangelo; ed infine nel brano del contemporaneo degli evangelisti, Flavio Giuseppe, in AJ 18.116-19 (già precedentemente citato).

L'introduzione di Giovanni Battista fatta da Marco ben si adatta alle informazioni presenti in Flavio Giuseppe:

« Si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, si cibava di locuste e miele selvatico. »
(Marco 1:4-6)

Le frasi in corsivo nel passo di Marco sono coerenti con il riassunto fatto da Giuseppe Flavio sulle prediche di Giovanni: Flavio Giuseppe dice che Giovanni "aveva esortato gli ebrei a condurre una vita retta, praticare la giustizia verso i propri simili e la pietà verso Dio, e così facendo di unirsi al battesimo. Secondo lui, questo [comportamento] era necessario se il battesimo doveva essere ben accetto a Dio". Questa immersione, Flavio specifica, non conferiva il perdono dei peccati, ma serviva invece "alla purificazione della carne una volta che l’anima fosse stata precedentemente mondata da una giusta condotta". Pentimento e contrizione sincera davanti a Dio, Giovani ed i suoi contemporanei credevano, avrebbero ottenuto il perdono. Il precedente peccatore, avendo ascoltato la chiamata di Giovanni al pentimento, avrebbe aumentato la sua nuova purezza morale con l'immersione ottenendo purezza corporea. In poche parole, sia Marco che Flavio Giuseppe descrivono un rituale di purificazione che si associa così immediatamente alla missione di Giovanni che l'attività stessa venne ad identificarlo: Giovanni l'Immersore, o Battezzatore. L'acqua del Giordano purificava i corpi dei precedenti peccatori solo dopo che la loro precedente ammissione di peccato e conseguente pentimento avessero già "purificato" le loro anime.

La descrizione delle vesti e del cibo di Giovanni fatta da Marco in questo passo può avere ulteriore coesione con la testimonianza di Falvio Giuseppe in merito alla preoccupazione di Giovanni per la purezza corporea. Una veste di peli di dromedario, tessuto a trama larga, avrebbe facilmente permesso all'acqua di penetrare completamente tale indumento durante l'immersione, assicurando quindi il pieno contatto del corpo con l'acqua (cosa desiderata per l'immersione di purificazione). Preoccupazioni di purezza potrebbero spiegare inoltre i dettagli della dieta di Giovanni. Vero è che locuste e miele si adattano soprattutto al deserto in cui si trovava: erano di facile reperibilità. Ma Q aggiunge informazioni alla nostra conoscenza delle abitudini alimentari di Giovanni, affermando che "è venuto infatti Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino" (Luca 7:33//Matteo 11:18). In altre parole, il Battezzatore evidentemente non mangiava cibi preparati dall'uomo o coltivati. Anche questo può riflettere le sue preoccupazioni di purezza: tali cibi – locuste, miele, acqua – non corrono il rischio di essere impuri, cioè di violare in nessun modo le leggi del kasherut.

Perché Giovanni si trovava "nel deserto" — specificamente nel deserto della Giudea, vagando per entrambe le sponde del Giordano vicino al Mar Morto? Le sue immersioni di purezza ovviamente richiedevano acqua in abbondanza, cosicché l'operato di Giovanni nei pressi del fiume stesso è facilmente comprensibile. Ma se l'acqua abbondante era la sua unica preoccupazione, egli avrebbe potuto altrettanto facilmente scegliere una qualche riva del Mar di Galilea: invece scelse il deserto della Giudea. Tale scelta di locolità era condivisa anche da altri ebrei la cui devozione religiosa era particolarmente segnata da preoccupazioni di purezza e da immersioni: la comunità di Qumran, e anche il santone solitario Banno, con cui Flavio Giuseppe visse tra l'età di sedici e diciannove anni. Nella sua autobiografia, Flavio scrisse di aver studiato in modo vario con Sadducei, Farisei ed Esseni:

« Pensavo che, dopo una indagine approfondita, io dovessi essere in una posizione da poter scegliere il meglio. Pertanto mi Mi sottoposi a un duro allenamento e ad esercizi laboriosi e superai i tre corsi. Però, non contento dell'eseprienza così acquisita, sentendo parlare di uno chiamato Banno, che viveva nel deserto, indossando solo indumenti forniti dagli alberi, consumando cose che crescevano da sole, e facendo abluzioni frequenti di acqua fredda, notte e giorno, per amor di purezza, io ne divenni il suo devoto discepolo. »
(Vita 2.10-12)

Gli ebrei avevano molte ragioni per associare il deserto con la purezza e la prossimità a Dio. Era stato il luogo di eventi fondamentali nella vita della nazione: il posto delle peregrinazioni di Israele dopo l'Esodo, il sito dove Dio aveva dato la Sua rivelazione a Mosè, e la Sua Torah, o istruzione, al Suo popolo. Anche altri profeti di questo periodo chiamarono i loro ascoltatori a seguirli nel deserto, "per ricevere lì i segni della loro redenzione" (BJ 2.259; AJ 20.168). Era un luogo che fondeva insieme significato storico e spirituale, che Giovanni stesso, battezzando lì, potrebbe aver scelto deliberatamente per richiamarlo alla mente.

Tali rilievi dati da Giovanni il Battista – pentimento dal peccato, purificazione – non erano certo preoccupazioni stravaganti nell'ambito dell'ebraismo del Secondo Tempio. Il particolare rilievo che Giovann evidentemente poneva sul suo stesso ruolo quale agente di tale rito purificatorio, tuttavia, è insolito. Altre immersioni purificatrici o abluzioni, effettuate da settari (Farisei, Esseni), o ebrei della Diaspora (che occasionalmente improvvisavano rituali di purificazione con acqua, come l'"aspersione"), o ebrei osservanti in generale, erano auto-somministrati: la persona si immergeva e si aspergeva da sola. Ma Giovanni apparentemente immergeva i penitenti — per cui il soprannome "il Battista". Cosa intendeva con tale azione?

Qui ci spostiamo leggermente da Flavio Giuseppe e Marco per esaminare anche il materiale degli insegnamenti attribuiti a Giovanni il Battista. Secondo Q, il messaggio di Giovanni sul prossimo arrivo del Regno veniva dato con avvisi di giudizio finale con fuoco e fiamme. Rivolgendosi a coloro che venivano a lui per l'immersione, Giovanni dice:

« Chi vi ha insegnato a sfuggire all'ira imminente? Fate dunque opere degne della conversione e non cominciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre. Anzi, la scure è già posta alla radice degli alberi; ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco. »
(Luca 3:7-9//Matteo 3:7-10)

L'insegnamento di Giovanni in base a Q ripete quello che Flavio Giuseppe disse di lui: il suo battesimo o immersione non era accettabile (cioè, a Dio) se non fosse stato preceduto da una purificazione interiore di pentimento. Il pentimento a sua volta porta ad azioni di devozione (verso Dio) e giustizia (verso il prossimo) secondo il linguaggio di Flavio Giuseppe; i "frutti che si addicono al pentimento" o "buoni frutti" nella versione Q.

Per "devozione" e "giustizia", Flavio intende ben più di virtù generali. Queste sono parole in codice per la Torah, e più specificamente per i Dieci Comandamenti. Devozione (gr. eusebeia) definisce il proprio rapporto con Dio, espresso nella "prima tavola" della Legge; giustizia o rettitudine (gr. dikaiosynē), il proprio rapporto con gli altri, la "seconda tavola" della Legge.

Il decalogo emulato in una pergamena del 1768 di Jekuthiel Sofer
Prima Tavola: Devozione verso Dio Seconda Tavola: Giustizia verso gli altri
1. Non adorare altri dei 6. Non uccidere
2. Niente idoli né immagini 7. Non commettere adulterio
3. Non pronunciare invano il nome di Dio 8. Non rubare
4. Rispettare lo Shabbat 9. Non mentire
5. Onorare il padre e la madre 10. Non desiderare l'altrui

La chiamata di Giovanni ad un rinnovo morale in preparazione all'arrivo del Regno, significava precisamente l'osservanza della Torah — di certo non un tema raro nelle esortazioni morali ebraiche. Ciò che caratterizza la sua particolare predicazione è il suo collegare l'osservanza specificamente con la purificazione corporea e gli ammonimenti apocalittici. Fintanto che un o non si pente e cambia, insegnava il Battista, la purificazione corporea di per se stessa non serviva a niente. Per questo la caratterizzazione di Q di coloro che venivano da Giovanni che non avevano ancora cambiato il proprio comportamento: "razza di vipere", queste persone ancora non "portano frutti che si accordino al pentimento". Se il giudizio finale arriva prima che abbiano prodotto "buoni frutti" (le buone azioni che si accordano al vero pentimento), il loro far parte di Israele (figli di Abramo) non servirà a niente: saranno condannati al fuoco eterno e "bruceranno".

Bisogna qui fare alcune osservazioni, prima di ipotizzare sulle ragioni di Giovanni nel sottolineare la propria agenzia nel suo rito di purificazione. In primo luogo, questa preoccupazione di occuparsi della dimensione interiore (quella che noi chiameremmo "morale") di pentimento prima di rivolgersi ai protocolli esteriori di espiazione (purezza, offerte, e simili) è un tema di riferimento della tradizione penitenziale ebraica in tutti i periodi. Nel primo secolo, lo troviamo espresso nei Manoscritti del Mar Morto, in Filone d'Alessandria, in Flavio Giuseppe, e naturalmente (ricordandoci che i documenti neotestamentari sono testi del primo secolo) anche nei Vangeli. Scritturalmente, lo troviamo nei profeti classici dal tempo del Primo Tempio. Pertanto,

« Io detesto, respingo le vostre feste
e non gradisco le vostre riunioni;
anche se voi mi offrite olocausti,
io non gradisco i vostri doni
e le vittime grasse come pacificazione
io non le guardo.
Lontano da me il frastuono dei tuoi canti:
il suono delle tue arpe non posso sentirlo!
Piuttosto scorra come acqua il diritto
e la giustizia come un torrente perenne. »
(Amos 5:21-24)

Il profeta non stipula qui una scelta "o questo—o quello" — o fate offerte immolate (che Dio odia) o ricercate la rettitudine (che Dio ama e preferisce). L'uomo che è devoto verso Dio e retto verso il suo prossimo fa entrambe le cose. Tuttavia, gli scrittori cristiani, sia antichi che moderni, hanno spesso interpretato i profeti come se si pronunciassero contro il rituale stesso, valutando la "purezza morale" (interiore) più della purezza "rituale" (solo esteriore), come se le due si escludessero a vicenda, o come se la vera pietà interiore, secondo i profeti, annullasse qualsiasi necessità di purificazioni, riti e offerte che nella narrazione biblica sono anch'essi comandati da Dio. Ma qui l'enfasi di Giovanni proprio sull'immersione sembra comprovare il caso opposto. La persona che dovrebbe essere salvata nell'ultimo giorno necessitava più di pentimento e comportamento modificato: necessitava anche di essere purificato nel corpo.

Non sappiamo granché d'altro sulla missione e sul messaggio di Giovanni Battista. Quant'altro abbiamo nelle fonti evangeliche appare sospetto. Tutti e quattro i Vangeli presentano Giovanni con una figura tipo Elia, che funziona soprattutto a preparare Israele per il Messia/Gesù. Giovanni si subordina, dicendo:

« Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non son degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo. »
(Marco 1:7-8)

Una prefigurazione più drammatica per il soggetto principale dei Vangeli. Tali pronunciamenti falliscono completamente il test di autenticità basato sul succitato criterio di dissimilarità, poiché presentano Giovanni che enuncia precisamente le credenze proprie della successiva comunità cristiana su di lui, e sulla superiorità di Gesù rispetto a lui. Di nuovo, la testimonianza di Flavio Giuseppe sembra implicare che il caso fosse l'opposto mentre erano in vita (tardi anni 20 e inizia anni 30 e.v.) e anche un mezzo secolo dopo: la sua nota su Giovanni in Antichità è molto più lunga della sua nota su Gesù.[12]

Né possiamo sapere molto di più dai Vangeli né da Flavio Giuseppe in merito alle purificazioni di Giovanni. Il penitente poteva immergersi tante volte quanto lo avesse desiderato, o di nuovo se e quando peccava ancora (come succedeva per altre immersioni ebraiche di purificazione)? Oppure si poteva immergere solo una volta (in analogia del molto successivo battesimo cristiano)? Le fonti non dicono nulla i nessuna delle alternative; ma se la pratica del battesimo cristiano non adombrasse così tanto l'attività di Giovanni, non ci sarebbe ragione di pensare alle sue immersioni come un singolo evento. Le immersioni multiple si adattano molto meglio al contesto religioso nativo di Giovanni.

Infine, nulla nel messaggio di Giovanni il Battista o nella sua pratica di purificazione rituale presuppone una critica o ostilità verso il Tempio, sebbene studiosi neotestamentari asseriscano che le vedano "implicite". Tale implicazione mi sembra che si basi più sulla nostra conoscenza del modo in cui poi sviluppò il cristianesimo piuttosto che su qualcosa presente nei testi antichi. Mancandone la testimonianza, possiamo di certo sostenere il contrario basandocvi sul forte nesso positivo tra purezza e cilto nel periodo fino al 70 e.v. Dopo essersi pentito, riconosciuto il proprio peccato, riparato le sue vie, e poi tramite Giovanni purificato il proprio corpo, l'ex peccatore poteva benissimo completare i suoi rituali di espiazione comandati biblicamente quando si fosse recato a Gerusalemme la prossima volta. Tale comportamento sarebbe coerente col messaggio di Giovanni di devozione verso Dio. Ma non lo sappiamo, dato che non abbiamo prove in un modo o nell'altro. Tuttavia, alla luce del successivo atteggiamento complesso e a volte apertamente ostile degli evangelisti verso il Tempio – atteggiamento che imputano anche a Gesù – possiamo esser certi che essi avrebbero usato volentieri tali tradizioni su Giovanni, se ne avessero avuto sentore.

Allora, cosa possiamo apprendere da queste testimonianze? Primo, che Giovanni sembra aver enfatizzato il proprio ruolo nell'immergere peccatori penitenti: venivano da lui per battezzarsi; non si immergevano da soli (come succedeva per i più tradizionali riti purificatori ebraici). Forse la sua prominenza in questo rituale si riferisce al suo messaggio del Regtno in arrivo. Quale profeta della Fine e convocatore di Israele al pentimento, Giovanni possedeva un'autorità singolare: ricevere il suo messaggio significava allo stesso tempo accettare Giovanni come il profeta autorevole del Regno. Sto ipotizzando, ma con ragione: vedremo lo stesso modello ripetuto nelle tradizioni su Gesù.

Secondo, mentre sia Flavio Giuseppe che i Vangeli dicono che Giovanni venne giustiziato da Antipa, è difficile vederne il perché. Marco e, seguendolo, Matteo raccontano una storia di Giovanni che aveva criticato il matrimonio di Erode con Erodiade. La storia folclroristica narra di come Antipa fu in effetti intrappolato dalla sua incauta promessa alla figlia di Erodiade che gli chiese la testa di Giovanni (Marco 6:17-29//Matteo 14:3-12). Non chiarisce affatto il resoconto di Flavio Giuseppe: timoroso dell'effetto che Giovanni potesse avere sulla gente – "eloquenza che aveva un tale grande effetto sull'umanità poteva portare a qualche forma di sedizione, poiché sembrava che tutti potessero essere guidati da Giovanni in qualsiasi cosa facessero" – Antipa lo eliminò in una sorta di attacco preventivo.

Tuttavia, un messaggio di "devozione" e "rettitudine" non suona come una chiamata alla sedizione. Cercando una spiegazione adguata per l'esecuzione di Giovanni, gli storici tipicamente combinano le storie evangeliche con il testo di Flavio Giuseppe. Forse Giovanni, che si preoccupava veramente tanto di purezza, criticò Antipa per aver fatto un'unione non consentita da Levitico 18:16: matrimonio con la (precedente) moglie di suo fratello. Tale unione era "impura" (Levitico 20:21). Forse Antipa aveva timore che la condanna di Giovanni contro l'impurità maritale avrebbe minato la sua autorità sui suoi sudditi — specialmente (se possiamo basarci sul resoconto di Luca che il Battista si rivolgesse in particolare a "pubblicani e soldati", Luca 3:10-14) su quei sudditi del cui operato dipendeva particolarmente il suo potere. O forse il messaggio apocalittico di Giovanni, predicendo l'arrivo imminente del Regno di Dio, fu "implicitamente" abbastanza critico o minaccioso per le correnti relazioni di potere che Antipa decise di agire rapidamente. La questione problematica qui è perché i romani, sul cui territorio (la sponda occidentale giudea del Giordano) operava anche Giovanni, non lo giustiziarono loro stessi. (Forse il fatto che i seguaci di Giovanni andavano e venivano, e non si ammassavano mai nello stesso tempo, era sufficiente agli occhi dei romani da farlo sembrare innocuo; ma allora, perché non anche agli occhi di Antipa?) Tutto ciò che sappiamo per certo è che questa figura manifestamente profetica morì per mano di un sovrano laico.

Giovanni, Gesù e il pentimento

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Ciò che sappiamo senza alcun dubbio è che Giovanni il Battista ebbe un impatto crucialmente importante su Gesù. Secondo la tradizione sinottica, Gesù in un certo senso ricevette la sua chiamata durante o appena dopo il suo battesimo. La voce dal cielo lo proclama "Figlio mio prediletto" mentre emerge dal Giordano (Marco 1:9-11 e parall.); poco dopo, lo spirito di Dio conduce anche lui nel deserto per un periodo solitario prima di iniziare la sua missione (Marco 1:12-13 e parall.). Su testimonianza di Q, Gesù ritenne Giovanni un profeta "e più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco io mando davanti a te il mio messaggero, egli preparerà la via davanti a te" (Malachia 3:1; Luca 7:26-27//Matteo 11:9-10). Il Quarto Vangelo presenta Giovanni e Gesù che si immergono insieme: "Gesù andò con i suoi discepoli nella regione della Giudea; e là si trattenne con loro, e battezzava. Anche Giovanni battezzava" (Giovanni 3:22-23 ma cfr. il successivo disconoscimento aggiunto a 4:2). E in Q, Gesù mette insieme le due missioni:

« È venuto infatti Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: Ha un demonio. 34 È venuto il Figlio dell'uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. »
(Luca 7:33-34//Matteo 11:18-19)

Infine, i Vangeli suggeriscono che anche i sacerdoti a Gerusalemme – gli antagonisti ultimi di Gesù nelle narrazioni della Passione – erano ostili a Giovanni. Contestando i sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani nel Tempio nei giorni prima della Pesach, Gesù li imbarazza chiedendo loro pubblicamente se pensassero che "il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini? Rispondetemi." Il resto della storia indica in modo interessante l'attrattiva e l'autorità di Giovanni anche dopo la sua morte:

« Ed essi discutevano tra sé dicendo: "Se rispondiamo ‘dal cielo’, dirà: Perché allora non gli avete creduto? Diciamo dunque ‘dagli uomini’?». Però temevano la folla, perché tutti consideravano Giovanni come un vero profeta. Allora diedero a Gesù questa risposta: ‘Non sappiamo’. »
(Marco 11:30-33)

Il Gesù di Matteo condanna questi uomini più specificamente per non avere "ricevuto" Giovanni. Nella sua ripetizione di questa scena nel Tempio, Matteo presenta Gesù che rimprovera i sommi sacerdoti, dicendo che pubblicani e prostitute entreranno nel Regno prima di loro. "È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose [cioè, gli effetti del messaggio di Giovanni], non vi siete nemmeno pentiti per credergli" (21:32).

Cosa rappresentava quindi Giovanni per Gesù? Un mentore di sorta: entrambi condividevano il messaggio del Regno in arrivo. Un modello? Sì e no. Se dobbiamo basarci su Giovanni 3:22 succitato, anche Gesù battezzava, almeno per un periodo; ma chiaramente tale attività non era una parte centrale della sua missione e non ha lasciato traccia alcuna nei sinottici. Parimenti, questo dato indicherebbe che anche la purezza corporea era importante per Gesù, ma che non orientò la sua missione e messaggio su tale tipo di purezza.

Alcune delle loro istruzioni etiche erano simili: le direttive di Giovanni alla "moltitudini", i pubblicani, e i soldati che venivano da lui (riportato unicamente da Luca in 3:10-14) – condividere vesti e cibo coi poveri, desistere da corruzione, violenza e avidità – riecheggiano le tradizioni attribuite anche a Gesù ("Da' a chiunque ti chiede" 6:30; cfr. molte delle istruzioni date nel Sermone della Montagna in Matteo). Come conviene a una missione di pentimento, entrambi si rivolsero specialmente ai peccatori (cfr. Marco 2:17 "Non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori").

Ma il loro modus operandi differiva. Giovanni viveva come un asceta; Gesù chiaramente no, come il detto-Q succitato conferma. Egli evidentemente non era un entusiasta del digiuno volontario. "Ora i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Si recarono allora da Gesù e gli dissero: Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?" (Marco 2:18 e parall.). Digiuni comandati biblicamente, tuttavia, come durante Yom Kippur – il digiuno, nella tradizione ebraica – erano altra cosa, e il Gesù di Matteo istruisce i suoi seguaci sul modo corretto di osservarli:

« E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. »
(Matteo 6:16-18)

I "discepoli" di Giovanni – costoro erano solo persone che ricevevano l'immersione da lui e tentavano di vivere secondo i precetti che annunciava, o si distinguevano per altri motivi? – non stettero con lui nel deserto: i Vangeli li presentano nella Galilea (per es. Marco 2:18 succitato). Gesù sembra viaggiasse con un entourage e un gruppo specialmente scelto di dodici. E mentre Giovanni girava per le sponde del Giordano, Gesù sembra portasse il suo messaggio a villaggi, sinagoghe, e luoghi di mercato in Galilea e dintorni, e al Tempio a Gerusalemme (Marco 11:27-12:24 e parall.; molte volte in Gv, come vedremo).

Infine, entrambio richiamavano Israele al pentimento in attesa della venuta del Regno, sebbene i loro stili ed enfasi caratteristiche differissero. Il messaggio apocalittico di Giovanni Battista sembra incoraggiasse la riforma specialmente con la minaccia di un duro giudizio. "Egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco" dice Giovanni del più potente che verrà dopo di lui, "Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile" (un'altra tradizione-Q, Matteo 3:12//Luca 3:17).

Le tradizioni evangeliche attribuiscono anche a Gesù tali minacce. Egli pronuncia ammonimenti terribili contro villaggi che non ricevono il suo messaggio. Quando verrà il Regno, "il paese di Sòdoma e Gomorra avrà una sorte più sopportabile di quella città" (Luca 10:12//Matteo 10:15). Annuncia disgrazie contro città galilee – Chorazin, Bethsaida, Cafarnao – che non rispondono al suo richiamo al pentimento, "perché, se a Tiro e a Sidone fossero stati compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza, ravvolte nel cilicio e nella cenere" (Matteo 11:20-24//Luca 10:13-15). Ammonisce peccatori recidivi: "Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato" (Matteo 12:36-37). "Quelli di Nìnive sorgeranno nel giudizio insieme con questa generazione e la condanneranno; perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, ben più di Giona c'è qui" (di nuovo Q: Luca 11:32//Matteo 12:41). Nella parabola di Matteo della zizzania mescolata con il grano (13:24-30,36-43) e del pesce buono e cattivo raccolto in una sola rete (13:47-50), Gesù si sofferma sul modo in cui, "alla fine del mondo", i giusti saranno separati dai malvagi, che bruceranno nel fuoco escatologico, dove sarà pianto e stridore di denti (vv. 49-50). Il ricco che non dà carità viene giustamente condannato alle fiamme (la parabola dell'uomo ricco e di Lazzaro, Luca 16:19-31); il fico che non dà buon frutto sarà abbattuto (Luca 13:9). Meglio levarsi un occhio, tagliarsi una mano o un piede, piuttosto che essere portati da loro al peccato e quindi rischiare di esser gettati nell'inferno, "dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue" (Marco 9:42-48 e parall.).

Tuttavia, generalizzando anche da altri detti e parabole attribuiti a lui, Gesù inoltre parlò di sorprendenti rovesci di fortuna che il regno avrebbe causato. Prostitute e pubblicani avrebbero preceduto sommi sacerdoti nel Regno (Matteo 21:31). Quando il Regno fosse arrivato, molti dei primi sarebbero stati gli ultimi, e gli ultimi primi (Marco 10:31 e parall.; Matteo attacca questo detto alla conclusione della sua parabola dei lavoratori nella vigna, dove coloro che sono ingaggiati per ultimo vengono pagati la stessa paga piena di quelli che erano nella vigna sin dal primo mattino, 20:1-16). Inoltre – di nuovo in base alle tradizioni evangeliche a lui attribuite – Gesù non solo riecheggia il tema di Giovanni Battista sull'ira e il giudizio di Dio; ma egli richiama anche i peccatori al pentimento incoraggiandoli a considerare l'inestinguibile amore Dio, clemenza e compassione. "Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!" (Matteo 7:11). Il cielo gioisce per il peccatore pentito, proprio come una donna gioisce nel ritrovare una moneta perduta, o un padre per il ritorno del figliol prodigo (Luca 15:8-32). Dio giudica, ammonisce Gesù, come anche Giovanni. Ma a differenza di Giovanni, egli aggiunge: Dio è misericordioso oltre che giusto; sebbene ami il giusto, Egli ama anche il peccatore e lo cerca (proprio come fece Gesù nella sua missione, a differenza di Giovanni). Di conseguenza, il peccatore che ascolta la chiamata di Gesù non deve aver timore dell'ira di Dio — in verità la deve temere meno del giusto che non ha ricevuto il messaggio di Gesù.

Tuttavia, più della certezza dell'arrivo della Fine spinge il Gesù dei sinottici ad invocare la giustizia di Dio contro i peccatori recalcitranti. Stessa cosa anche per il temperamento e la tendenza di coloro che si pentono. Il primo ammonimento di Gesù ai peccatori è: Dio giudica. Ma il suo ammonimento conseguente, al pentito, è: Dio giudica. E quindi non gli uomini — e se anche gli uomini giudicano, è bene che sappiano che Dio li giudicherà secondo gli stessi standard che loro stessi hanno applicato agli altri: "Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati" (Matteo 7:1-2). Tante le volte che tuo fratello pecca contro di te, altrettante le volte che tu gli devi perdonare ("Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette", Matteo 18:22). In altre parole, la chiamata al pentimento esposta sia da Giovanni Battista e, successivamente da Gesù, asseriva che Dio perdonava il peccatore penitente. Ma questa grande caratteristica del Padre in cielo, Gesù esorta, stabilisce un principio di reciprocità tra i Suoi figli peccatori in terra. Anche loro devono perdonarsi a vicenda, generosamente e sinceramente — "di cuore" (Matteo 18:35)

Che Dio perdoni coloro che si pentono non è una novità per il pubblico di Giovanni o di Gesù: gli ebrei avevano raccolto scritture, salmi, e preghiere a lode di Dio per la Sua misericordia e compassione, per quasi un millennio. Inoltre, il pentimento dei peccati faceva parte integrale della religione ebraica, inserito nelle caratteristiche dell'anno. Tutto il popolo, ovunque vivesse, doveva mettere da parte "il decimo giorno del settimo mese" quale giorno di espiazione, come Dio aveva istruito:

« Il decimo giorno di questo settimo mese sarà il giorno dell'espiazione; terrete una santa convocazione, vi mortificherete e offrirete sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore. In quel giorno non farete alcun lavoro; poiché è il giorno dell'espiazione, per espiare per voi davanti al Signore, vostro Dio. Ogni persona che non si mortificherà in quel giorno, sarà eliminata dal suo popolo. Ogni persona che farà in quel giorno un qualunque lavoro, io la eliminerò dal suo popolo. Non farete alcun lavoro. È una legge perenne di generazione in generazione, in tutti i luoghi dove abiterete. Sarà per voi un sabato di assoluto riposo e dovrete mortificarvi: il nono giorno del mese, dalla sera alla sera dopo, celebrerete il vostro sabato. »
(Levitico 27-32)

La ragione per cui il messaggio di Giovanni e di Gesù suonava alle orecchie dei loro contemporanei come profezia piuttosto che una semplice chiamata a riformarsi, non era quindi il suo contenuto morale – ciò era, per sottolinearlo ancora una volta, un tema profondamente tradizionale nella devozione ebraica – ma la sua urgenza, il modo in cui entrambi vincolarono la loro chiamata al pentimento con il loro autorevole pronunciamento che i tempi si erano compiuti e il Regno del Cielo era in arrivo (Marco 1:15; Matteo 3:2 [Giovanni Battista], 4:17 [Gesù]). Coloro che venivano da Giovanni per farsi battezzare, cercandolo nel deserto nel Giordano inferiore, avevano già riconosciuto l'autorità del suo messaggio: in effetti, questa era la ragione per cui venivano. Allora Giovanni personalmente li immergeva, purificando il loro corpo poiché mediante il pentimento avevano già purificato le loro anime.

Gesù, in contrasto, andò a cercare i suoi ascoltatori. Secondo i Vangeli, egli li andava a scovare, dato che non erano i primi a venire. Chiamando coloro che non lo avevano già riconosciuto – o che, forse, non ne avevano sentito parlare – egli affermò la sua autorità di pronunciare questo messaggio tramite guarigioni ed esorcismi, compiendo "azioni mirabili" e "opere potenti" (caratterizzazioni di Flavio Giuseppe e dei Vangeli); ed autorizzò i suoi discepoli a diffondere il vangelo dell'arrivo del Regno compiendo le stesse cose. Secondo la tradizione sinottica, questa strategia funzionò: quando Gesù iniziò la sua missione, la gente iniziò ad affollarsi intorno a lui a causa del suo potere di guarire. E, secondo Q, egli indicò questa sua potenza, che legittimava la sua missione, anche a Giovanni, i cui discepoli chiedevano di lui a causa delle sue opere:

« Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me. »
(Matteo 11:4//Luca 7:22-23)

Forse è anche per questo che gli evangelisti presentano così tanti dei suoi primi esorcismi ambientati "nella sinagoga" dove la gente si raduna — vale a dire, di Shabbat. Poiché – di nuovo, a differenza di Giovanni Battista – Gesù incontrava gente nelle loro abitazioni usuali, l'unica volta (come ben sapeva) che si riunivano in assemblea, e quindi in grado di assistere alle sue azioni e udire il suo messaggio, era di Sabato: qualsiasi altro giorno li avrebbe trovati sparsi nelle loro varie occupazioni. Piuttosto che ritenere conflittuali le sue comparse tra assemblee in sinagoga (come i commentatori spesso ipotizzano), la sua scelta poteva semplicemente essere di natura pratica. Poteva innanzi tutto predicare ("entrato proprio di sabato nella sinagoga, Gesù si mise ad insegnare", Marco 1:21), e poi, quando e se i suoi ascoltatori si fossero meravigliati del suo insegnamento ("Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità", v. 22), egli poteva rinforzare il suo messaggio con una dimostrazione di potenza:

« Allora un uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito immondo, si mise a gridare: "Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio". E Gesù lo sgridò: "Taci! Esci da quell'uomo". E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: "Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono!". La sua fama si diffuse subito dovunque nei dintorni della Galilea. »
(Marco 1:23-28)

L'ultima frase dell'evangelista conferma che fu in questo modo che la sua fama si diffuse.

Qual'era dunque, e infine, la relazione di Gesù rispetto a Giovanni? Gesù rimpiazzò Giovanni, una volta che quest'ultimo fu arrestato? Oppure era in un certo senso il collega minore di Giovanni, che operava accanto a lui dopo il suo stesso battesimo al fine di diffondere il messaggio dell'arrivo del Regno? Marco presenta il primo scenario ("Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo», Marco 1:14-15); il Quarto Vangelo, il secondo scenario ("Dopo queste cose, Gesù andò con i suoi discepoli nella regione della Giudea; e là si trattenne con loro, e battezzava. Anche Giovanni battezzava a Ennòn, vicino a Salìm, perché c'era là molta acqua; e la gente andava a farsi battezzare. Giovanni, infatti, non era stato ancora imprigionato", Giovanni 3:22-24). Ma quale che fosse la sequenza delle rispettive missioni, quale che fossero le differenze delle loro strategie di presentazione, Gesù condivise con Giovanni il Battista lo stesso urgente messaggio di prepararsi per l'arrivo del Regno di Dio.

Gesù e la purezza

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Data la forte associazione delle immersioni con la missione del Battista, potremmo benissimo chiamarlo "Giovanni il Purificatore". Giovanni fu una figura-chiave nella vita di Gesù e, in un certo senso, il punto d'inizio della sua stessa missione. Cosa possiamo dedurre quindi dalla loro relazione, come anche da altre testimonianze nei Vangeli, sulla prospettiva che Gesù aveva riguardo alle leggi bibliche della purezza?

I codici di purezza erano allineati intimamente con l'antico sistema di sacrifici, ed entrambi sono remoti e spesso sconosciuti alla maggioranza dei lettori moderni dei testi neotestamentari. A complicare la questione, il temine "impurità" nei testi biblici ebraici possono funzionare in due modi differenti. Il primo non aveva contenuto o implicazione morali, ma piuttosto esprimeva uno stato contagioso obiettivo e specifico: gli studiosi spesso si riferisco a ciò come impurità "rituale" o "levitica". Molte di queste impurità venivano contratte involontariamente tramite le funzioni corporee – mestruazione, eiaculazione, parto, flusso genitale, malattia della pelle – sebbene a volte potevano essere il risultato anche di azioni deliberate.[13] La maggioranza delle persone, in circostanze normali, si trovavano in questo stato di impurità la maggior parte delle volte.

L'effetto pratico principale di molte di queste impurità nel periodo di Gesù era di impedire l'accesso al Tempio. Ma la maggior parte delle persone (eccettuati cioè i sacerdoti che servivano a Gerusalemme) non erano nel Tempio nella maggior parte del tempo. Quando vi entravano, per prima cosa facevano ricorso alle varie procedure – di solito una certa combinazione di lavaggio e attesa – prescritte dalla Bibbia per eliminare tali contaminazioni. Il rimedio per questo tipo di impurità, quindi, era la purificazione, che coinvolgeva anche particolari offerte.[14]

Gli studiosi designano il secondo tipo di impurità col termine "morale" o "spirituale" per distinguerlo dal primo. L'impurità morale ha a che fare con la natura contaminante del peccato. Tali contaminazioni, poiché si presume che siano contratte volontariamente, riguardavano esclusivamente il peccatore individuale. Il suo rimedio aveva un duplice punto centrale, che noi potremmo interpretare come "morale" e "rituale". Il rimedio morale era il pentimento, il rimedio rituale l'espiazione. Ma le prescrizioni bibliche e, possiamo immaginarci, i popoli antichi che le osservavano, le considerano due aspetti di un singolo movimento di "ritorno", di far ritornare il cuore a Dio. Era l'idea e l'attività di purificazione che univa il morale/interiore e il rituale/esteriore in un solo processo, come in effetti afferma Flavio Giuseppe riguardo a Giovanni Battista: Giovanni immergeva i penitenti per la purificazione della carne una volta che essi avevano già purificato le proprie anime con la rettitudine (AJ 18.117). Attraverso l'atto interiore di pentimento il peccatore scacciava da sé l'attività contaminante; mediante purificazione ed espiazione – una qualche sorta di offerta, spesso misurata secondo i mezzi economici del peccatore – il penitente rimuoveva l'inquinamento del suo peccato dall'altare di Dio, dove si era accumulato.

Giovanni il Battista aveva collegato i suoi ammonimenti apocalittici e la sua chiamata al pentimento con un rituale di purificazione. Se Gesù in effetti praticava l'immersione di peccatori penitenti, come afferma il Quarto Vangelo, allora anche lui aveva fatto tale collegamento. Ma anche se non l'avesse fatto, entrambi gli uomini, quali ebrei che chiamavano i propri correligionari a pentirsi, essortavano comunque i loro ascoltatori a ritornare "alle vie del Signore" — alle istruzioni di pietà e rettitudine come enunciate dalla Torah. Parte integrante di questa istruzione erano le leggi di purezza.

Cioò potrebbe sembrare un'osservazione incontrovertibile. Tuttavia è stata contestata vigorosamente in molte recenti ricostruzioni del Gesù storico. Queste ricostruzioni sostengono che, come parte della sua missione a Israele, Gesù prese posizione precisamente contro le leggi bibliche di purezza. Quale che sia il contenuto morale che questi studiosi attribuiscono alla missione di Gesù – un ethos e una politica di compassione; un impegno ad egalitarismo sociale radicale; un ripudio di nazionalismo ebraico violento – le leggi di purificazione funzionano come rappresentazione del suo opposto. Valutazioni di stato, gerarchia sociale e sessuale, distribuzione ingiusta di potere che si cristallizza specialmente intorno al Tempio di Gerusalemme: le leggi di purezza ed il tipo di religione e società che supportavano, affermano questi studiosi, incarnano letteralmente tutto ciò che Gesù ricusava.

Tale interpretazione delle testimonianze aggiungeva una profondità morale alle rappresentazioni dell'attività di Gesù da parte degli evangelisti. Cosa fece veramente Gesù durante la sua missione? Viaggiò, mangiando insieme alla gente che incontrava e condividendone la loro tavola ("praticando commensalità"). Guarì gli infermi, spesso toccandoli. Chiamava le donne, insieme agli uomini, a ricevere il messaggio del Regno. Ad infine, nell'ultima settimana di vita, contestò la costruzione sacerdotale della corretta adorazione ribaltando i banchi dei cambiavalute nel Tempio.

Codificate in questa attività, sostengono questi studiosi, sono i contorni della visione di Gesù. Egli combatté contro le stratificazioni sociali, economiche e sessuali della sua società. Di conseguenza, egli combatté anche contro i codici di purezza. Mangiando coi poveri, abbracciando gli emarginati ed i peccatori, Gesù in effetti ignorò le distinzioni di purezza. Toccando e guarendo gli infermi – il lebbroso, il posseduto, l'emorroissa – "infranse" o "sovvertì" la legge rituale. E dimostrando il suo disprezzo per il monopolio del perdono proclamato dal Tempio con il suo sistema di sacrifici espiativi, Gesù indipendentemente proclamò il perdono del peccato, sapendo che Dio desiderava misericordia e non sacrifici.

In queste ricostruzioni revisioniste, il Tempio stesso si prefigura come bersaglio ultimo della critica di Gesù. Più di un semplice locus privilegiato della "élite della purezza" (cioè i sacerdoti), il Tempio secondo la sua visione sosteneva esattamente quella gerarchia oppressiva economicamente e socialmente che questo Gesù vuole minare. Irato per il suo splendore, disgustato dalla sua grandiosa prodigalità, ripugnato dal monopolio del perdono sfruttato col culto dei sacrifici, o forse allarmato dal nazionalismo belligerante che incoraggiava, Gesù simbolicamente ribaltò la funzione del Tempio – o forse dei sacerdoti – quando ribaltò i tavoli dei cambiavalute. E quindi infuriò i sacerdoti e corteggiò la propria morte.

Una virtù di questa interpretazione è che può unire coerentemente la missione galilea di Gesù con la sua morte giudea. Le leggi di purezza forniscono la trazione all'intero movimento della carriera pubblica di Gesù, che di conseguenza deve essere ricostruita basilarmente su linee marciane, poiché la sua azione nel Tempio è ciò che provoca la sua morte.[15] Inoltre, concentrandosi sulle leggi di purezza, queste ricostruzioni uniscono insieme ciò che Gesù predicò col perché morì, o perlomeno con la ragione per cui i sacerdoti lo volessero morto: la sua posizione anti-purezza, messa in scena praticamente davanti a loro, minava la loro autorità e insultava il loro servizio.

Un'altra virtù è il modo in cui questa interpretazione chiude il divario tra il tempo di Gesù e il nostro. Un tale Gesù – amorevole, fermamente egualitario, antinazionalista – è immediatamente e confortevolmente pertinente coi nostri interessi. Infatti, egli combatte gli stessi mali sociali che affliggono persone riflessive nel moderno Occidente: disparità economica, pregiudizio razziale e nazionale, persino il sessismo. E lo fa – terza virtù – ripudiando energicamente i codici di comportamento religioso che sono stati in gran parte insignificanti nella pratica del Cristianesimo a partire dal 70 e.v., vale a dire, le regole riguardo alla purezza e l'etichetta da seguire nell'appropinquarsi all'altare sacrificale.

Tuttavia questa interpretazione del materiale evangelico viene compromessa, prima di tutto, dal fallimento di pensare concretamente. Se le storie degli evangelisti su Gesù colmano il divario tra il tempo della loro composizione (c. 75-90 e.v.) e la sua missione (c. 28-30 e.v.) – presupposizione di qualsiasi ricerca del Gesù storico – allora devono essere interpretate nell'ambito del contesto sociale che pretendono di descrivere, cioè l'ebraismo del Secondo Tempio nel primo secolo. Pertanto: perché supporre che Gesù, toccando qualcuno (per esempio, il lebbroso di Marco 5:41) o venendo toccato da qualcuna (la donna emorragica di Marco 5:25) che era ritualmente impura, in tal modo "ignorasse" e quindi "sovvertisse" le leggi della purezza? Al suo tempo e nella sua cultura, dopo tali contatti contaminanti, Gesù avrebbe semplicemente svolto un rituale di purificazione per riacquisire purezza. Assente l'ipotesi di ostilità verso i codici di purezza, perché pensare che egli non l'avrebbe fatto o voluto fare? Parimenti, col mangiare insieme con noti peccatori e/o cambiavalute: Gesù facendo così non correva alcun pericolo di contrarre una contaminazione (morale) da tale associazione. Né tale suo comportamento doveva scandalizzare altri. Come i Vangeli rappresentano la sua missione, Gesù non disse "Continuate a peccare ed entrerete comunque nel Regno di mio padre". Al contrario, mettere da parte un comportamento peccaminoso sarebbe stata misura del grado in cui tali persone avevano "ascoltato" il messaggio di Gesù. Nella vita reale (nella misura in cui queste storie evangeliche ci si avvicinano), nessun esempio del suo comportamento costituisce una "violazione flagrante" o "disprezzo radicale" delle regole di purezza, che per Gesù e i suoi contemporanei erano legge di Dio.

Comprendere le regole di purezza nell'ambito del loro proprio contesto sociale rende difficile vederle principalmente come un codice per l'opposizione morale di Gesù. Per esempio, entro l'antico sistema eb raico la purezza non corrisponde a classe sociale e quindi non può coerentemente servire come supporto primario di presunte strutture di classe. Le regole di purezza incombevano su tutto Israele; e i sacerdoti – in queste ricostruzioni i presunti autori e beneficiari di questo sistema oppressivo – avevano più regole di purezza di qualsiasi altra persona a causa delle loro responsabilità nel Tempio.

Poiché impurità e purezza erano condizioni che andavano e venivano, non servivano dicerto a stratificare la società in classi sociali. In effetti, si potrebbe dire il contrario: poiché colpivano tutti, il loro effetto era radicalmente equalizzante. Il contadino più misero che aveva appena completato il rituale della giovenca rossa era puro, il sacerdote più aristocratico, avendo appena seppellito un genitore, non lo era. Il Fariseo più meticoloso, il sommo sacerdote più importante, non erano né più né meno impuri dopo un rapporto sessuale del pescatore galileo più burbero. Inoltre, in tutti e tre i casi, solo la normale attività sociale del sacerdote ne veniva influenzata, perché il suo posto di lavoro era il Tempio. Per il Fariseo o per il pescatore, questa impurità non aveva un'incidenza sociale. Vedere quindi l'impurità come uno stato quasi permanente, o immaginare tale stato come se corrispondesse ad una classe sociale, è del tutto errato.

Ma che dire del sessismo dell'antica società ebraica? Secondo il costrutto di Gesù come femminista, la società e religione ebraiche del primo secolo escludevano o svalutavano le donne, e le leggi di purezza erano parte integrante di tale oppressione. Ma Gesù, in contrasto (asserisce l'argomentazione) è noto che si rivolse alle donne oltre che agli uomini. Egli quindi infranse le convenzioni di purezza, sovvertì le regole e scandalizzò i suoi contemporanei.

Riflettendoci, anche questa argomentazione risulta forzata. Come abbiamo già visto, la categoria "impurità" non aveva genere maschile o femminile. Una sana donna adulta ebrea incorreva impurità su base regolare, a causa delle mestruazioni; ma così anche il marito, con suo stesso seme, dopo il rapporto sessuale. L'impurità viene trasmessa sia dal sangue mestruale e sia dallo sperma. Durante la gravidanza, a parità di condizioni, una moglie era pura mentre suo marito, dopo una polluzione notturna, non lo sarebbe stato. Alcune impurità erano specifiche solo per un genere, mentre altre – lebbra, contaminazione da cadavere – si applicavano ugualmente a tutti e due i generi. Come per la classe, stessa cosa per il genere: le regole di purezza erano in linea di principio vincolanti per tutto Israele (sebbene differenti ebrei interpretassero le varie ingiunzioni bibliche differentemente). Uomini e donne osservanti erano colpiti nella stessa maniera. E gli stessi mezzi di purificazione erano aperti a tutti/e.

Erigere sulle fondamenta di Levitico e Numeri una sovrastruttura di presunto sessismo ebraico ovviamente è un modo di far acquisire un immediato rilievo etico a Gesù. Egli può quindi esorcizzare per noi questo demone moderno, conferendo approvazione col suo esempio al nostro proprio programma egualitario. Come le distinzioni oppressive di classe o le gravi disuguaglianze di potere e/o ricchezza, il sessismo dà fastidio alla maggior parte di noi nell'Occidente moderno.

Ma prima dei nostri tempi, quanto universali o moralmente evidenti apparivano tali questioni? A volte ci sforziamo di capire le vedute dei nostri genitori perché i lori istinti e la loro prospettiva può differire così marcatamente dalla nostra — un divario di una solo generazione. Siamo affascinati o allarmati dal mondo sociale della Elizabeth Bennet e Mr Darcy di Jane Austen perché è così distante e differente dal nostro — un divario di meno di due secoli nell'ambito di una cultura discutibilmente continuativa. Siamo colpiti dalla brutalità e ripugnanza dello schiavismo e lavoro di minorenni — sebbene la maggioranza degli americani, appena 150 anni fa, non lo erano affatto. Quanto più differenti da noi, allora, dovranno essere gli istinti e la prospettiva di un popolo antico in una cultura completamente differente? Come possiamo quindi presumere di importare i nostri valori o programmi politici attraverso i millenni a servire quale costrutto esplicativo per le loro azioni?

In breve, più superficiale è la rilevanza etica o politica che presenta un particolare costrutto di Gesù, più sospetto è il suo valore come storia. Solo la testimonianza antica, non gli intenti moderni, possono rivelare ciò che poteva veramente importare ad un popolo antico. Quale che fosse l'insegnamento di Gesù, quale che fosse il modo in cui Gesù visse, il fatto che la sua missione diede inizio ad un movimento significa che egli doveva aver senso prima di tutto per i suoi propri contemporanei. Dobbiamo comprendere loro per poter comprendere lui. E sebbene la lotta di classe o il sessismo possono avere grande peso nelle menti dei liberali-Primo Mondo del ventunesimo secolo, non possiamo ottenere comprensione delle società antiche proiettando su di loro le nostre sensibilità politiche. Ed infine, sebbene potremmo aver difficoltà – a differenza dei popoli antichi – a scoprire un significato religioso o spirituale nel concetto di purezza, o nel rituale in genere, le nostre difficoltà non ci dicono nulla delle loro.

In diversi punti di questo studio, ho raccomandato che la persona in cerca del passato deve simulare un'innocenza del futuro. La nostra conoscenza di come gli eventi alla fine si conclusero ci danno troppo facilmente una falsa prospettiva di come avvennero. In cerca del Gesù storico e, quindi, delle origini cristiane, ciò è particolarmente vero, perché noi usiamo così facilmente quello che il movimento divenne poco dopo come quadro interpretativo di come iniziò e perché. Il suo futuro post-Tempio – matrice di tutti gli scritti neotestamentari eccetto Paolo – pertanto interpreta il suo passato. Gesù (come invero anche Giovanni il Battista) finisce quindi per opporre il suo stesso ebraismo nativo, il suo solo contesto umano, il popolo ebraico, i suoi riti antichi e i suoi protocolli rituali, e il suo stesso sito sacro principale. Il futuro gentile – post-Tempio e post-Torah – del movimento, ben lo sappiamo, sta subito dietro l'angolo, pertanto tale deve essere la direzione che Gesù gli diede da seguire. Giusto?

Sbagliato.

In realtà le narrazioni evangeliche devono essere interpretate con il presupposto opposto in mente. Dobbiamo iniziare dalla premessa che Gesù era veramente un ebreo del suo tempo — se non lo fosse stato, non avrebbe avuto seguaci ebrei del primo secolo. In assenza di specifiche istruzioni sulla purezza in quello che possiamo ricostruire del suo insegnamento, dobbiamo presupporre non che Gesù ignorasse o opponesse i codici di purezza ebraici, ma piuttosto che egli li diede per scontati come fondamentali nell'adorazione del Dio che li aveva rivelati, unicamente, a Israele. In effetti, letti senza il futuro che incide sulla loro interpretazione, i Vangeli stessi, sebbene prodotti di un periodo successivo, ciononostante presentano sempre un Gesù immesso sicuramente e coerentemente nel mondo religioso – e quindi nelle leggi di purezza – dell'ebraismo del tardo Secondo Tempio.[16]

Un chiaro esempio di questo radicamento delle regole di purezza è una storia riportata in Marco 1:40-44, dove Gesù cura un lebbroso toccandolo:

« Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: "Se vuoi, puoi guarirmi!". Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: "Lo voglio, guarisci!". Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: "Guarda di non dir niente a nessuno, ma va', presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro". »
(Marco 1:40-44)

"Quello che Mosè ha ordinato" appare nel dettaglio in Levitico 14, quando Dio, parlando a Mosè, dice: "Questa è la legge da applicare per il lebbroso per il giorno della sua purificazione" (Levitico 14:1). Dopo un esame completo da parte del sacerdote, al (già) lebbroso verranno dati "due uccelli vivi, mondi, legno di cedro, panno scarlatto e issòpo" (v. 4). Un uccello viene sgozzato in un vaso di terracotta con acqua viva, e gli altri elementi del sacrificio (l'altro uccello vivo, il cedro, il panno scarlatto e l'issòpo) immersi nel suo sangue. L'ex lebbroso viene poi asperso sette volte col sangue dell'uccello sgozzato. È quindi dichiarato mondo e si lascerà andare libero per i campi l'uccello vivo (vv. 5-7). Dopo aver lavato i suoi abiti, tosato tutti i capelli e immerso in vasca, l'ex lebbroso aspetta sette giorni e poi si rasa nuovamente (il testo specifica barba, capelli, ciglia, tutto, v. 9). Si immerge un'altra volta, "e sarà mondo".

Ma poi segue una lista più lunga di offerte "nell'ottavo giorno": "due agnelli senza difetto, un'agnella di un anno senza difetto, tre decimi di efa di fior di farina, intrisa nell'olio, come oblazione, e un log di olio". Il sacerdote li usa per seguire un particolareggiato protocollo di macellazione, unzione, aspersione e immolazione arsa sull'altare (vv. 11-20). "Così il sacerdote farà per lui l'espiazione, ed egli sarà puro" (v. 20). Altri dettagli seguono: un elenco alternativo di offerte ("Se quel tale è povero e non può procurarsi queste cose", v. 21) adatto ai mezzi dell'adoratore. "Questa è la legge relativa a colui che... non ha mezzi per procurarsi ciò che è richiesto per la sua purificazione" (v. 32). Dio quindi continua a spiegare la procedura per diagnosticare la lebbra nelle case. (vv. 33-53).

Non c'è modo di sapere se qualcosa di simile a questa conversazione tra Gesù ed il lebbroso avvenne veramente. Ma non è questo il punto. Piuttosto, è la storia stessa di Marco che ci interessa. Il suo Gesù invoca qui una elaborata cerimonia di purificazione. I suoi particolari sono sconosciuti alla maggioranza dei lettori moderni. Ma per chiunque tra gli ascoltatori ebrei di Marco, e forsanche per quei Gentili associati alla comunità diasporica tramite la sinagoga, questi protocolli della legge per la purificazione di un lebbroso sarebbero stati familiari, una questione di pubblica conoscenza: non una volta ma molte nel corso degli anni costoro li avrebbero uditi letti ad alta voce, discutendone l'interpretazione e confrontati con altri comandi simili. Questo apprendimento orale comunitario della Legge era una parte standard della cultura sinagogale, la ragione principale dei raduni comunitari durante lo Shabbat.

Altrove Marco è perfettamente capace di presentare, o interpretare, Gesù che contravviene le leggi di purezza. Nel capitolo 7, il suo Gesù critica l'estensione farisaica di questi codici (abluzione rituale della mani prima dei pasti, purificazione dopo esser tornati dal mercato, immersione degli utensili alimentari, Marco 7:3-4), e Marco lo interpreta come se rifiutasse le leggi alimentari in generale (7:19; cfr. Matteo 15:17-20). Ma quando Marco non elabora una qualche controversia tra Gesù ed i suoi contemporanei ebrei, egli lo presenta come un personaggio che normalmente osserva la Legge. Anche le procedure per l'ex lebbroso citate in Marco 1:44, sebbene ci colpiscano come alquanto complesse, nell'antichità sarebbero state "normalmente osservate secondo la Legge". E così un pubblico antico avrebbe interpretato Gesù in questa storia.

L'osservanza da parte di Gesù dei codici di purezza biblica sottende a livello latente anche i resoconti evangelici. Per "latente" si intende quegli incidenti nella narrazione evangelica che si riferiscono ad una questione di purezza che non figura prominentemente di per se stessa, ma dà forma alla storia in modo discreto. Si consideri l'istruzione che il Gesù di Matteo dà ai suoi seguaci durante il Sermone della Montagna:

« Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono. »
(Matteo 5:23-24)

Attenzione: in questa cultura, un adoratore doveva essere in uno stato/condizione di purezza per poter stare "davanti all'altare". (Finanche gli eventuali ascoltatori gentili ex pagani del Vangelo di Matteo l'avrebbero presupposto, dato che anche il cerimoniale religioso pagano richiedeva la purificazione prima di offrire un sacrificio.) Perché il pubblico di Matteo avrebbe presupposto che il fedele di Matteo che adora all'altare del Tempio dovesse ignorare le leggi bibliche di purezza (che richiedevano la sua immersione prima di entrare nell'area), mentre ottemperavano quelle leggi alle quali erano collegate, le leggi delle offerte? Risposta: per fare le offerte bisogna essere puri. Più probabilmente, quindi, l'antico pubblico originale di Matteo avrebbe supposto che tale adoratore si sarebbe preparato appropriatamente nell'avvicinarsi all'altare; e ciò, pertanto, è quello che avrebbero sentito dire anche dal Gesù matteano.

Stessa cosa per le tradizioni evangeliche riguardo ai pellegrinaggi di Gesù a Gerusalemme, riportati sia nei sinottici che in Giovanni. Giovanni cita quattro di questi viaggi: due volte per la Pesach (2:13;11:55), una volta per una festività non meglio specificata (5:1) e una volta per Sukkot (7:10), quando Gesù si intrattiene nella città dal primo autunno fino all'inverno per la Festa della Dedica (Chanukkah) che celebra la purificazione del tempio fatta dai Maccabei (10:22). L'ingresso nel Tempio durante le festività richiedeva una purificazione speciale; l'ingresso in altre occasioni richiedeva come minimo un'immersione prima di notte del giorno prima di entrare nell'area per fare offerte. Gli adoratori avevano accesso alle vasche di immersione vicino al complesso del Tempio specificamente per questo scopo. Implicita in queste storie di Gesù che va al Tempio in tali giorni festivi è la sua ottemperanza dei protocolli di purezza comandati biblicamente per l'ingresso. Il pubblico antico degli evangelisti non avrebbero avuto ragione di pensare diversamente. Senza il presupposto di un Gesù anti-purezza, nemmeno il loro pubblico moderno lo penserebbe.

Infine, le narrazioni della Passione forniscono altre due istanze in cui l'osservanza delle regole di purezza da parte di Gesù è ipotizzata obliquamente dalla forma della storia. Nella prima, i Vangeli rappresentano Gesù che entra in città con molti altri pellegrini. Questi pellegrini rappresentano le folle che lo introducono a Gerusalemme (il cosiddetto Ingresso Trionfale; Marco 11:7-10 e parall.; Giovanni 12:12-15) e che successivamente si radunano per sentirlo predicare nel Tempio durante i giorni prima della festa (Marco 14:1; Matteo 11:15 segg.; Luca 19:45 segg.; cfr. Giovanni 2:13-17). Cosa ci fa lui lì e cosa ci fanno lì tutti loro?

Il pasto pasquale doveva essere consumato in uno stato di purezza, incluso e specialmente purezza da contatto di cadavere (Numeri 9:6). Ciò richiedeva che i pellegrini fossero in città almeno sette giorni prima dell'inizio della festa, la sera del 14 Nisan, onde poter sottoporsi al rito di purificazione lungo una settimana. Dio tramite Mosè diede i particolari in Numeri 19:11-12: "Chi avrà toccato un cadavere umano sarà immondo per sette giorni. Quando uno si sarà purificato con quell’acqua il terzo e il settimo giorno, sarà mondo; ma se non si purifica il terzo e il settimo giorno, non sarà mondo". L’"acqua" in questione era mescolata con le ceneri della giovenca rossa immolata. I pellegrini a Gerusalemme per la festività avrebbero ricevuto questa aspersione di acqua speciale nei giorni designati. Se in effetti Gesù entrò in città con questi altri pellegrini, e se in effetti predicò alle folle festive durante i giorni prima della festa nell'ambito del complesso templare, allora egli si trovava lì, come loro, per essere purificato tramite questo rito speciale. Questa è la presupposizione della storia; e, se la storia ha una qualche relazione con un fatto reale, tale sarebbe stato anche lo scopo di Gesù.

Il secondo e ultimo esempio di un'ottemperanza di purezza ipotizzata dalle narrazioni della Passione – ottemperanza specifica di questo rito di purificazione da cadavere – ci perviene dalle tradizioni dell'Ultima Cena. Il pasto di Pasqua che Gesù e seguaci celebrano nei Vangeli sinottici presuppone che loro tutti si siano purificati per poter consumare il pasto. E almeno uno di loro avrebbe dovuto andare al Tempio nel tardo pomeriggio dello stesso giorno per sacrificare il Korban Pesach, il capretto o l'agnello, altrimenti non avrebbero potuto svolgere la cena comandata biblicamente.

Tutti questi particolari non sono menzionati nelle storie degli evangelisti. Cionondimeno essi danno forma alle loro narrazioni. Questo potrebbe sembrare ad alcuni lettori un'argomentazione da silenzio, e in un certo senso lo è: nessun evangelista dichiara: "E mentre Gesù e i suoi discepoli erano tutti riuniti nel Tempio per il rito di purificazione nei giorni prima della festività..." (però cfr. Giovanni 11:55). Tuttavia il sonoro volume di questo silenzio in questo caso dà la misura della nostra stessa non familiarità e distanza dal mondo antico sia di Gesù e sia di questi primi cristiani, che fossero ebrei o gentili. Noi rimaniamo al di fuori del contesto religioso che tutti loro condivisero, e quindi dobbiamo darci da fare per ricatturare ciò che loro e il loro pubblico antico avrebbero potuto presumere.

La purificazione del Tempio

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"Ricostruzione di Gerusalemme e del Tempio di Erode", di James Tissot (1894)
"Ricostruzione del Tempio di Erode - Angolo sud-est", di James Tissot (1894)

Se questa argomentazione è giusta – che il Gesù storico mantenne le leggi bibliche della purezza, e che il pubblico originale degli evangelisti, sentendo le loro storie, non ebbero ragione di pensare diversamente – allora che senso ha il resoconto degli evangelisti sull'azione di Gesù nel Tempio? Questa è la versione marciana dell'incidente:

« Andarono intanto a Gerusalemme. Ed entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio. Ed insegnava loro dicendo: "Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!". L'udirono i sommi sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutto il popolo era ammirato del suo insegnamento. Quando venne la sera uscirono dalla città. »
(Marco 15-19)

La versione di Giovanni, più drammatica ed elaborata, vien messa all'inizio del suo Vangelo, anch'essa appena prima della Pasqua:

« Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: "Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato". »
(Giovanni 2:13-16)

Questa scena è inscritta nella tradizione della chiesa come la "purificazione del Tempio". Purificato da che cosa? Le citazioni dai profeti addotte dagli evangelisti sinottici, che combinano Isaia 56:7-8 ("casa di preghiera per tutti i popoli") con Geremia 7:11 ("un covo di ladroni"), forniscono un'interpretazione. Gesù, ribaltando i tavoli di "coloro che vendevano", protestava contro tale commercio all'interno dei recinti del Tempio: apparentemente lo considerava disonesto. Anche l'osservazione fatta dal Gesù giovanneo riguarda questo tema.

Fino a tempi recenti, i commentatori moderni avevano seguito l'esempio degli evangelisti. Tale impresa commerciale, essi sostenevano, veramente avrebbe contaminato il Tempio, o compromesso la sua funzione religiosa. Cacciando via i commercianti e i cambiavalute, Gesù stava quindi ripristinando la sua purezza di culto, "mondando" dal commercio il luogo sacro.

Negli ultimi due decenni, tuttavia, man mano che gli studiosi hanno sempre più interpretato il Nuovo Testamento nell'ambito di un contesto di reale pratica ebraica del primo secolo, la coerenza di questa visione tradizionale si è dissolta. In primo luogo, non ha senso storico. La funzione del Tempio – come, in verità, qualsiasi tempio nell'antico Mediterraneo – doveva servire come un luogo per l'offerta di sacrifici. In Gerusalemme sin dai giorni di Salomone non era mai stato diversamente. Venivano usati solo colombi o animali impeccabili, e ciò è quello che questi servizi fornivano. I pellegrini – come i genitori di Gesù nella storia della natività di Luca – potevano quindi acquistare tale offerte una volta arrivati nell'area del Tempio (Luca 2:24). E poiché il Tempio si basava sul siclo di Tiro (il suo contenuto d'argento era stabile e affidabile), i cambiavalute – senza dubbio con una percentuale – convertivano le varie valute degli adoratori esteri in tale moneta standard. I venditori di colombi e i cambiavalute, in altre parole, facilitavano l'adorazione di Dio da parte dei pellegrini, secondo quanto Egli aveva comandato a Israele tramite Mosè al Sinai. Il gesto di Gesù, quindi, non avrebbe significato un "ripristino" del servizio templare ad un ipotetico puro ideale, poiché non c'era mai stato un tempo in cui il suo servizio non avesse incluso le offerte.

Siclo di Tiro emesso da Alessandro I Bala Epifane, 152–145 p.e.v.

Gli ebrei in tutto l'impero e oltre, contribuivano volontariamente mezzo siclo di tassa al Tempio proprio per il supporto di questi sacrifici. "Pensare di tralasciare quei sacrifici per qualsiasi ebreo è del tutto impossibile", dice Flavio Giuseppe. La gente avrebbe "dato la propria la vita piuttosto che abbandonare quell'adorazione che erano abituati ad offrire a Dio" (AJ 15.248). Anche i sacerdoti prendevano il loro mandato in maniera seria. Flavio Giuseppe riporta come, nel 63 p.e.v., quando il generale romano Pompeo aveva assediato Gerusalemme con successo, i sacerdoti continuarono a fare offerte anche mentre Pompeo prendeva d'assalto il Tempio (AJ 14.65-68). "Proprio nell'ora in cui il Tempio venne preso, mentre venivano massacrati vicino all'altare, essi non desistettero mai dai riti religiosi del giorno" (BJ 1.148). Ancor più incrediblmente, alla luce del più grande caos sociale ed estrema sofferenza e carestia prevalente nella città durante l'assedio finale di Tito, sia i sacerdoti che la popolazione collaborarono a continuare le offerte quotidiane quasi fino alla fine (BJ 6.93-95).

Allora, come inseriamo questo resoconto sull'azione di Gesù nella solida testimonianza che ovunque gli ebrei sostenevano in modo straordinario il servizio del Tempio? Se con tale gesto egli stava ripudiando i sacrifici stessi, sarebbe stato del tutto unico sia tra gli ebrei e sia tra i Gentili del suo tempo: in antichità, il culto comportava offerte. Anche gli Esseni, estraniati dal sacerdozio corrente e mantenendo le distanze dal Tempio, non repudiarono i sacrifici di per se stessi: piuttosto, pensavano che il servizio dovesse essere condotto secondo le loro interpretazioni, e non vedevano l'ora di farlo una volta che Dio li avesse stabiliti a Gerusalemme. Inoltre, un tale ripudio da parte di Gesù sarebbe equivalso a rifiutare i cinque libri della Torah, dove Dio aveva rivelato a Israele i protocolli e i fini di questi sacrifici.

Se, tuttavia, Gesù prendeva di mira non le offerte stesse bensì il commercio nell'ambito dei recinti del Tempio – i servizi di supporto di queste offerte – cosa significava? La sua azione non avrebbe avuto un significato pratico. Allora i pellegrini, che venivano dall'Egitto o dall'Italia o da Babilonia, dovevano forse portarsi appresso i propri uccelli? Prenderli ovunque, lungo la strada? Avere le proprie scorte di sicli di Tiro, o sperare di prenderli da qualche parte durante il viaggio? E in entrambe le ipotesi, contro i sacrifici o contro i relativi servizi di supporto, anche se esaminiamo solo le testimonianze cristiane, un tale Gesù appare un un clamoroso fiasco. Quelli più vicini a lui, i suoi propri discepoli, evidentemente non capirono questa idea religiosa rivoluzionaria. Secondo le testimonianze delle lettere paoline, dei Vangeli, e degli Atti degli Apostoli, questi primi cristiani scelsero di vivere a Gerusalemme, di adorare nel Tempio, di osservare le festività, lo Shabbat, e le leggi alimentari, e di considerare la Torah quale parola rivelata di Dio. Se Gesù agì veramente e insegnò contro il servizio del Tempio, allora i suoi immediati seguaci non se ne accorsero per niente.

Alla luce di tutte queste considerazioni, l'opinione degli studiosi sul significato dell'incidente al Tempio è cambiata. L'attenzione si concentra non su quello che Gesù presumibilmente disse (la maggioranza degli studiosi considera le frasi prese da Isaia e da Geremia come aggiunte evangeliche), ma su quello che fece. Senza quelle linee guida scelte dai profeti e fornite dagli evangelisti, come dobbiamo interpretare il suo gesto, di rovesciare i tavoli?

Gli studiosi interpretano questo incidente rispetto allo sfondo immediato di altri resoconti evangelici su Gesù e il Tempio, e rispetto ad uno sfondo più generale di tradizioni sul Tempio negli scritti apocalittici ebraici. Nei Vangeli, Gesù appena dopo questo primo incidente predice la completa distruzione del Tempio parlando della Fine del Mondo ("Vedi queste grandi costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra, che non sia distrutta", Marco 13:2 e parall.). Un po' dopo, alla sua udienza davanti alle autorità ebraiche, egli viene accusato da "falsi testimoni" di aver minacciato di distruggere il Tempio e di ricostruirlo – Marco aggiunge "non fatto da mani d'uomo" – in tre giorni (Marco 14:57-60; cfr. Matteo 26:60-62; Atti 6:14). Il tema rilevante del Tempio in altri scritti ebraici – i Manoscritti del Mar Morto, vari altri Apocrifi e Pseudoepigrafi – è l'aspettativa che, nella nuova era, nel regno di Dio, Dio avrebbe rinnovato splendidamente il Tempio corrente o stabilito uno nuovo ancor più glorioso ("un tempio glorioso per tutte le generazione, per sempre" Tobia 14:5). Combinando tutti questi dati con il resoconto dell'azione di Gesù, ne emerge un significato simbolico differente. Ribaltando i tavoli, Gesù stava rappresentando simbolicamente una profezia apocalittica: il Tempio corrente sarebbe presto stato distrutto (da interpretare: non da Gesù, non da eserciti invasori, ma da Dio), per cedere il posto al Tempio escatologico (da interpretare: non costruito da mani d'uomo) alla Fine del Mondo.

Questa interpretazione ha il vantaggio di unire il gesto di Gesù con la sua proclamazione del prossimo Regno di Dio. E reintegra ciò che sappiamo del comportamento religioso dei suoi discepoli dopo la morte di Gesù con l'antecedente missione di Gesù (quando era in vita). Ovviamente essi avrebbero continuato ad adorare nel Tempio: Gesù non disse mai di non farlo. L'incidente del Tempio non aveva nulla a che fare con una qualsiasi presunta "purificazione", critica, o condanna. Simboleggiando una distruzione (apocalittica), puntava al futuro, ad un rinnovo e ricostruzione escatologici. Il gesto di Gesù era semplicemente una rappresentazione drammatica del principale messaggio della sua missione, che il Regno era veramente in arrivo.

Comunque, nella ricerca del Gesù storico nessuna interpretazione di consenso unico convince mai al 100 percento l'opinione degli studiosi. Alcuni commentatori sostengono ancora una qualche versione dell'interpretazione tradizionale più vecchia. Altri critici, osservando giustamente il ruolo cruciale giocato dall'incidente del Tempio nella versione marciana della storia di Gesù – senza di essa Marco avrebbe avuto difficoltà nel portare Gesù all'attenzione dei sacerdoti – mettono in dubbio se sia mai veramente accaduto. La storia reale raramente obbliga a trame narrative così esatte: forse l'intera scena è un'invenzione di Marco.[17] Ancora altri hanno polemicamente sostenuto la posizione che l'agitazione provocata da Gesù in verità simbolizzi distruzione. Ma poiché questi supportano un Gesù non apocalittico, di conseguenza devono ridefinire cosa significasse questa profezia di distruzione.

Ecco quindi "Gesù il contadino ebreo cinico" che predica un egalitarismo radicale e usa il linguaggio del Regno per parlare di una comunità religiosa non mediata fu un Gesù che ignorò e quindi sovvertì le leggi di purificazione. Egli stesso, come impresario di questo movimento del Regno, in effetti sta come opponente, alternativa e sostituto del Tempio. Il Tempio rappresenterebbe esattamente l'opposto di ciò che Gesù predicava. Quando rovesciò i tavoli nella corte, Gesù avrebbe rappresentato simbolicamente la sua distruzione. Ispirato da una visione radicalmente differente di cosa e come dovrebbe essere la società, Gesù mediante la sua azione simbolica ripudiò il culto del Tempio. Il Regno etico che egli predicò non lo contemplava affatto.

Oppure si consideri Gesù quale Persona-Spirito etica, egalitaria. Predicava e esortava un'etica di compassione; e inoltre usava un linguaggio del Regno non apocalitticamente ma metaforicamente, come modo per evocare la visione di una nuova società più amorevole. Ma le regole della purezza distinguono e discriminano. Esse rinforzavano la ripida gradazione della piramide di potere del Secondo Tempio, con ai vertici le famiglie sacerdotali aristocratiche e possidenti, e i loro sottoposti – scribi, legali, Farisei – raggruppati vicino a loro il più possibile sui gradienti più alti. Alla base di questa pila stavano le masse deprivate, contadini che l'élite della purezza considerava degradati, impoveriti, sacrificabili e impuri. Gesù quale profeta sociale, impegnato in una critica sociale radicale, predicando un'etica universale di amore e compassione, sovvertì queste regole nella sua missione e insegnamento. Le élite predicavano una politica di purezza; Gesù sosteneva la politica della compassione. Pertanto, quando andò a Gerusalemme quella fatidica Pasqua, questo Gesù rovesciò i banchi, accusando simbolicamente il Tempio ed il sistema religioso che supportava. Il suo gesto simbolizzò non la distruzione del Tempio, ma il suo rifiuto. L'azione di Gesù nel Tempio ripudiava la purezza e tutte le relative opere: l'oppressione politica, sociale e spirituale che incarnava e imponeva.

Oppure consideriamo il Gesù antinazionalista. Questo Gesù cercava di riformare la sua religione natia in parte concentrandosi specificamente sulle leggi della purezza. Tali leggi discriminavano contro gli infermi, ritenendoli impuri ritualmente e quindi tagliati fuori dal popolo di Dio. Ma Gesù, col messaggio "Dio vi ama", si rivolse agli infermi. Accolse i poveri e gli emarginati. Rifiutò le ossessioni dei suoi correligionari per l'esclusività e la purezza (che fosse rituale o razziale; quest'ultima sosteneva le distinzioni tra ebreo e Gentile, puntellando pertanto l'identità minacciata di Israele). Il Tempio supportava tutte queste cose, e anche solo per questa ragione Gesù l'avrebbe condannato. Ma peggio: il Tempio stava quale centro simbolico del violento nazionalismo dell'ebraismo. Quando andò a Gerusalemme per l'ultima Pesach, Gesù mise in atto una profezia della distruzione del Tempio. Se gli ebrei non avessero abbandonato le loro ossessioni nazionaliste, il Tempio sarebbe stato distrutto. Certamente non da Gesù stesso, ma da Dio, che avrebbe operato tramite l'agenzia di un esercito straniero, Roma, come aveva fatto nei giorni dell'Esilio babilonese. (E, ahimè, gli ebrei non ascoltarono; e così la profezia di Gesù si realizzò.) Gesù denunciò l'azione militare; esortò radicalmente che si amassero i propri nemici. Israele doveva essere una luce per le nazioni, non una potenza nazionale arida, cattiva, xenofoba. Allora, con un gesto altamente drammatico, Gesù emanò il giudizio di Dio sul tempio e predisse la sua reale distruzione militare.

Queste ipotesi sono state presentate, ripetute, riaffermate, e pubblicate di sovente in tomi accademici e in formato popolare continuamente a partire dagli anni 1980. Ne ho una delle ultime pubblicazioni qui, sulla mia scrivania. Ma nel considerare il gesto di Gesù come una sorta di giudizio negativo o azione ostile contro Tempio e leggi della purezza, queste proposte revisioniste ricapitolano l'essenza della tesi tradizionale di Gesù che "purifica il Tempio" e quindi sono soggette alle stesse identiche critiche. Fraintendono la purezza. Rimuovono Gesù dal suo contesto natio, sia religioso che sociale. Spostano l'enfasi del suo messaggio da profezia apocalittica ad una qualche sorta di posizione etica astratta[18] – egualitarismo, compassione, antinazionalismo – che, sebbene per noi significativo qui e ora, fa poca presa nell'antichità. E rendono incomprensibile l'osservanza della Legge, ben documentata, dei primi seguaci di Gesù.

Ma forse il problema più serio di qualsiasi proposta che si concentri su uno scontro tra Gesù e "ebraismo" (in qualsiasi modo lo si voglia rendere) – interessi del sommo sacerdozio, purezza e/o nazionalismo, o sacrifici al Tempio, alcuni o tutti i quali Gesù tramite la sua missione e infine mediante il suo gesto profetico presumibilmente sfidò o condannò – è che alla fine non può spiegare due dei fatti fondamentali su Gesù: che ad un certo punto egli fu chiamato "messiah"; e che Roma lo giustiziò.

Il termine "messia" (מָשִׁיחַ‎, mašīaḥ) aveva una vasta gamma interpretativa nel periodo di Gesù. Questa figura poteva essere un sacerdote, un profeta, un guerriero regale, fors'anche una figura angelica non umana.[19] Sebbene tutti questi possano codificare una critica simbolica delle correnti organizzazioni di potere – specialmente riguardo alla combinazione asmonea delle due cariche separate di sacerdote e re – servono anche come marcatori escatologici, personaggi che apparirebbero alla Fine dei Giorni. Questa conoscenza ci aiuta a chiudere il divario tra il presunto Gesù antipurezza e il termine "messia"?

Di queste possibilità interpretative, possiamo scartare subito la vaga figura del messia angelico e celeste non umano: il Gesù umano, pre-Risurrezione non combacia. L'esistenza di questo tipo di messia in testi settari ebraici quasi contemporanei non possono spiegare un Gesù identificato col termine. Il Messia Figlio di Davide – figura fermamente attestata nei testi biblici – funziona escatologicamente come re guerriero (distrugge i nemici di Israele) e, successivamente, principe della pace. Un Gesù che rifiuta le regole di purezza in un qualsiasi modo – antigerarchia, antidiscriminazione e specialmente antinazionalismo (questo re-redentore è proprio nazionalista: il re di Israele) – ha poco a che fare con una tale figura. E il profeta-messia della Fine del Mondo sembra funzionare più che altro come un maestro di giustizia. Il Gesù storico potrebbe ragionevolmente essere interpretato così, ma l'adeguatezza del termine avrebbe ben poco a che fare con l'ipotizzata azione simbolica nel Tempio, a meno che presumiamo che egli tramite le regole di purezza fosse intrinsecamente ingiusto.

Allora, la scelta più plausibile tra queste varie figure potrebbe sembrare quella del messia sacerdotale. I settari del Qumran erano alienati dal Tempio di Gerusalemme e ostile al suo sacerdozio (come sembra essere Gesù stesso, secondo queste ricostruzioni), e di conseguenza sostenevano che le offerte al Tempio fossero impure. Un messia sacerdotale escatologico che servisse nell'immenso Tempio che essi ipotizzavano alla Fine dei Tempi avrebbe fatto, finalmente, offerte "pure", poiché avrebbe seguito i codici di purezza della setta. Il "rimedio" degli Esseni per l'impurità del Tempio di Gerusalemme, in altre parole, non era quello di eliminare le leggi di purezza, ma di intensificarle. Ciò non sembra adattarsi affatto al Gesù antipurità moderno.

E come spieghiamo il coinvolgimento di Roma con la morte del Gesù revisionista? Le proposte qui esaminate tutte affermano che la posizione di Gesù in merito alla purezza, concepita come loro la interpretarono, fu intrinsecamente "politica" perché in tal modo sia l'una che l'altro sfidavano coloro che erano al potere nell'ambito della sua società. E osservano giustamente che gli antichi ebrei non avrebbero fatto distinzioni tra il "politico" ed il "religioso" come facciamo noi.

Tuttavia "politico" in contesto ebraico non si traduce immediatamente in "politico" nel contesto ebraico-romano. Tributo, ordine interno, confini sicuri, supporto militare in tempo di guerra: queste erano le richieste di Roma alle proprie province soggette e agli alleati, e questo è il contesto che importa nel comprendere l'esecuzione di Gesù. Un Gesù che contesta l'interpretazione corrente e l'operazione dei codici di purezza è del tutto irrilevante per questi interessi romani. Perché Pilato doveva preoccuparsi di uno qualsiasi di questi peculiari dibattiti tra ebrei? E se fosse stato per una ragione personale – cioè a causa della sua lunga e supponiamo amichevole relazione con Caifa – che Pilato acconsentì come per un favore a collaborare nella morte di Gesù, perché allora specificamente una morte per crocifissione?

Una speculazione su cosa la purezza avrebbe potuto significare per Gesù qui non ci aiuta. Ma considerazione di un aspetto più contestuale della sua missione potrebbe fornirci una base più solida rispetto alla questione del suo status come "messia" per il suo movimento e, subito collegato a questo, alla questione della sua morte. Cosa sappiamo dei seguaci di Gesù?

I seguaci di Gesù

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Abbiamo già incontrato alcuni seguaci di Gesù nella lista che Paolo ci dà dei primi testimoni del Cristo Risorto: "i Dodici", "i confratelli" ("più di cinquecento"), e "gli apostoli" (1 Corinzi 15:5-7; il testo è citato per intero al prec. capitolo, in "Egli apparve a Cefa e quindi ai Dodici"). Tuttavia, i Vangeli sinottici danno l'impressione che Gesù radunasse un seguito molto più vasto di questo durante la sua missione in Galilea. "L'intera città" si raduna intorno a Gesù dopo il suo debutto di Shabbat a Cafarnao (Marco 1:33). La gente viene a lui "da ogni parte", cosicché egli non può più entrare nelle città ma deve incontrare tutti fuori, nella campagna (1:45). Grandi "folle" si radunano presso di lui ovunque egli parli (2:13,3:7 "una grande moltitudine" e così via). Dobbiamo quindi distinguere probabilmente tra coloro che Paolo nomina – questi rappresentano quasi sicuramente un fedele gruppo centrale – e quegli ebrei da varie cittadine e villaggi della Galilea che "seguivano" Gesù nel senso di andare ad ascoltare il suo insegnamento e/o a chiedergli guarigioni.

Entrambi i gruppi sono alquanto importanti per il susseguente movimento. Di coloro che Paolo menziona, Giacomo e Pietro si sistemano a Gerusalemme, stabilendo il "quartier generale" della nuova comunità (Galati 1:18,2:1-10; e i capitoli d'apertura di Atti). Altri (possiamo includere Pietro anche in questo gruppo) diffondono il vangelo di Gesù come insegnanti itineranti, come forse avevano fatto mentre era in vita; ancora altri tra i confratelli, sia uomini che donne, potrebbero essere residenti che supportavano quegli itinerari. Le folle in Galilea, d'altra parte, formano le comunità locali degli abitanti, i fattori inquilini, e altri lavoratori agricoli che gli studiosi vedono come la matrice umana delle tradizioni-Q (parimenti popolate). Inoltre, forse questi servirono alla fine come le comunità d'origine per il Vangelo di Marco. Se questi gruppi colmano il divario tra il movimento successivo e il Gesù storico, allora chiaramente devono essersi coinvolti con lui, in qualche modo, prima della sua morte.

Precedentemente, quando abbiamo riesaminato le tradizioni di Paolo e dei Vangeli che identificano Gesù come Messia, abbiamo concluso che l'attribuzione del titolo deve essere venuto per la prima volta durante la missione di Gesù, il che vuol dire, tra i suoi seguaci e ad un certo punto prima della sua morte. Ma quando? E perché? Qui, di nuovo, abbiamo solo i Vangeli a cui far riferimento, e la loro duplice condizione di prodotti del movimento post-Risurrezione come anche riserve di tradizione storica, complica il loro utilizzo. Dobbiamo "penetrare" le rappresentazioni teologizzanti di Gesù come Messia fatte dagli evangelisti – il Messia come colui che guarisce (Matteo 12:22-23) o che viene specificamente crocifisso e poi risorge dopo tre giorni (Luca 24:46) – per scoprire cosa ci possono dire sulla sua missione e suoi seguaci che ci possa aiutare con le nostre domande.

Le rappresentazioni dei Vangeli sinottici sui vasti numeri di persone che venivano da Gesù in Galilea devono essere soppesate con ciò che sappiamo che non avvenne: Antipa non si mosse mai contro di lui. Raduni di quattro o cinquemila persone, ammassate tutte insieme in un solo luogo, avrebbero certamente attratto l'attenzione del tetrarca (Marco 7:44, il miracolo dei pani e dei pesci che nutrono cinquemila uomini; 8:9, la ripetizione del miracolo, con quattromila. Marco rappresenta il primo miracolo sulla sponda occidentale del Mar di Galilea — dalla stessa parte, cioè, della capitale di Antipas, Tiberiade). A quel punto, Gesù sarebbe sembrato ad Antipas come gli sembrò Teuda, o l'Egiziano, o i profeti dei segni alle autorità romane, e dobbiamo presumere che Antipa avrebbe reagito in pari modo. Il Battista, senza tali grandi folle, l'aveva già reso così nervoso riguardo ad una possibile sedizione che lo eliminò (AJ 18.116-19).

Anche l'asserzione degli evangelisti che Gesù radunava il suo grande pubblico da tutta la regione – "lo seguì molta folla dalla Galilea. Dalla Giudea e da Gerusalemme e dall'Idumea e dalla Transgiordania e dalle parti di Tiro e Sidone una gran folla, sentendo ciò che faceva, si recò da lui" (Marco 3:7:8) – sembra dubbia, e per la stessa ragione. Inoltre, queste scene sono del tutto irrealistiche. Viaggi da queste regioni fuori della Galilea avrebbero avuto una durata di giorni se non addirittura settimane; lavoratori agricoli, abitanti dei villaggi, e contadini non avrebbero potuto disporre del tempo libero necessario per affrontare il viaggio. Dobbiamo quindi interpretare "vaste folle da ogni parte" non come una descrizione effettiva ma come un tropo evangelico, a segnalare importanza. (Marco per esempio parla in modo simile di Giovanni il Battista, che faceva accorrere "a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme" Marco 1:5). In realtà, quindi, Gesù attrasse le folle? Sì, deve averle attratte, ma non tali vaste convocazioni – diverse migliaia – tutte in una volta.

Antipa ebbe a che fare con Gesù? Marco dice che aveva sentito parlare di Gesù a causa degli esorcismi che faceva insieme ai Discepoli: "Il re Erode sentì parlare di Gesù, poiché intanto il suo nome era diventato famoso" (Marco 6:14; cfr. Luca 9:7). Marco usa questo resoconto come seguito alla sua storia sulla morte del Battista (vv. 16-29), e Antipa stesso fa un collegamento tra la missione di Giovanni e quella di Gesù ("Quel Giovanni che io ho fatto decapitare è risuscitato!" v. 16). E nel capitolo 3, evidentemente infastiditi da Gesù che cura di Shabbat, i Farisei si incontrarono "con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire" (Marco 3:6). Non ci vien detto chi siano questi erodiani, e l'episodio non ha seguito nella storia narrata, sebbene questi si fanno poi vedere, accompagnati di nuovo dai Farisei, sul Monte del Tempio per intrappolare Gesù con una domanda (politica) a trabocchetto sul pagare il tributo romano (Marco 12:13). Dopodiché scompaiono dalla scena.

Solo Luca riporta due ulteriori episodi che connettono Gesù con Antipa. Nel primo, ambientato in Galilea, alcuni Farisei vengono ad avvertire Gesù: "Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere", al che Gesù risponde con aria di sfida: "Andate a dire a quella volpe: Ecco, io scaccio i demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno avrò finito... perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme" (Luca 13:31-33). Nel secondo, ambientato a Gerusalemme, in effetti si incontrano, ma su iniziativa di Pilato:

« Saputo che [Gesù] apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anch'egli a Gerusalemme. Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla. C'erano là anche i sommi sacerdoti e gli scribi, e lo accusavano con insistenza. Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato. »
(Luca 23:7-12)

Possiamo basare su questi resoconti perlomeno la semplice supposizione che, forse, Antipa era al corrente di Gesù quando questi era attivo in Galilea. Andare oltre questo punto con fiducia è difficile. Evidentemente Antipa non arrestò mai Gesù, né (se confrontiamo il silenzio di Matteo, Marco, Giovanni, e Flavio Giuseppe con questo singolo resoconto di Luca) cercò mai di fermare la sua missione. E questo dato ci permette di avere una qualche prospettiva sulla dimensione delle folle che seguivano Gesù. Dato innanzitutto il fatto che egli fu crocifisso, e visto anche come il messaggio del movimento si sparse velocemente e ampiamente in tutta la regione dopo la sua morte, dobbiamo supporre che Gesù ebbe più seguaci di un semplice gruppo centrale di Dodici, o Dodici più Settanta (Luca 10:1); forse ne ebbe ancora di più degli "oltre cinquecento confratelli" citati da Paolo. Ma enormi seguiti presi da tutta la regione sono del tutto improbabili, soprattutto perché sappiamo ciò che non accadde – la missione galilea fu continua – e anche perché sappiamo ciò che invece accadde: Gesù non morì fintanto che non andò a Gerusalemme.

Quest'ultimo fatto ci può assistere quando valutiamo una proposta di tanto in tanto (e correntemente) avanzata che afferma che la ragione per cui Gesù fu proclamato "messia" così chiaramente e fermamente fu che egli stesso aveva usato il titolo durante la propria missione. L'attraente semplicità di questa proposta deve anche essere valutata alla luce di ciò che conosciamo d'altro. Se Antipa, preoccupato per la sedizione, giustiziò Giovanni quando Giovanni predicava (combinando Flavio Giuseppe coi Vangeli) pentimento, purezza, e la venuta del Giudizio che avrebbe preceduto il Regno, cosa avrebbe fatto con qualcuno che avesse in effetti affermato di essere il Messia? Gesù sarebbe stato giustiziato molto prima di raggiungere Gerusalemme. La controproposta – che Gesù in verità si considerò il Messia, ma definì il termine in contrasto coi significati tradizionali, in un modo radicalmente nuovo e differente – crolla, nuovamente, a causa di ciò che sappiamo: egli ebbe davvero tanti seguaci. Se si fosse attribuito da sé il titolo di messia, il suo significato doveva avere senso anche per loro, non solo per se stesso.

E infine, c'è l'ingegnosità tortuosa di Matteo e Luca, ciascuno che a modo suo reintroduce la messianità di Gesù nella fase galilea della sua missione. Lo fanno con fatica in parte perché usano Marco, il cui Gesù è notoriamente reticente sulla sua identità messianica. Se Gesù di Nazareth, mentre era in Galilea, avesse mai affermato di essere un messia, anche se le folle intorno a lui fossero state tanto esigue da non farlo sapere ad Antipa (che però sapeva dei suoi miracoli?), perché non ne lasciò traccia alcuna in Marco? Tutti gli evangelisti attribuiscono "cristo" come titolo di Gesù. Se Gesù stesso le avesse usato per sé, essi non avrebbero dovuto tribolare tanto per sostenere le loro rispettive, e varie, congetture.

Quest'ultima considerazione ci aiuta a restringere le opzioni su dove e quando "messia" venne collegato alla figura di Gesù. Probabilmente non durante la sua missione in Galilea, per la semplice ragione che egli lì non ebbe mai problemi. Ciò lascia Gerusalemme come luogo di questa affermazione messianica. E se tale acclamazione fu un fattore che contribuì alla decisione di Pilato di farlo crocifiggere, dobbiamo presumere che la sua prima origine furono i suoi seguaci, e non (sardonicamente) i suoi giustizieri. Tuttavia tutte le fonti principali – Marco, Q, e il Vangelo di Giovanni – trasmettono l'impressione che i seguaci di Gesù furono soprattutto galilei; Gerusalemme, in contrasto, sembra o indifferente oppure ostile. Tale è la rappresentazione anche nel Quarto Vangelo, il solo che presenti Gesù in ripetute missioni in città, e poche o niente in Galilea.

Galilei e Giudei in Giovanni

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Il Gesù giovanneo appare a Gerusalemme durante la Pesach già nel secondo capitolo del Vangelo. Giovanni quindi collega esplicitamente la "purificazione del Tempio" con la predizione della sua distruzione quale predizione obliqua della Passione. Produce un commento di incomprensione ("Gli dissero allora i Giudei: "Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?". Ma egli parlava del tempio del suo corpo" Giovanni 2:20-21), ma senza ostilità, sacerdotale o altra.[20] In questa Pasqua particolare, continua Giovanni, "molti, vedendo i segni che faceva, credettero nel suo nome" (v. 23). Gesù poi continua la sua missione in Giudea (Giovanni 3:22-4:2), passa attraverso la Samaria, dove sembra lo proclamino il Cristo (4:3-43 cfr. vv. 25, 29}}, e ritorna a casa in Galilea accolto con calore.

La rappresentazione di Giovanni lascia aperta la possibilità che coloro in Gerusalemme che "credettero nel suo nome, vedendo i segni che faceva" fossero essi stessi galilei. "Quando però giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero con gioia, poiché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme durante la festa; anch'essi infatti erano andati alla festa" (Giovanni 4:45). Poco dopo, le folle in Galilea vogliono "prenderlo per farlo re" (Giovanni 6:15). La Giudea, in contrasto, è territorio ostile e Gesù comincia ad evitare di andarci. "[Gesù] non voleva più andare per la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo" (7:1, non dice perché).

Nonostante l'assenza di supporto locale, Gesù continua a frequentare la stessa Gerusalemme. Andato là ancora una volta, insegnando nel Tempio durante Sukkot/Tabernacoli, provoca di nuovo una controversia: il "popolo di Gerusalemme" dibatte se egli sia "il cristo" (Giovanni 7:25-31) o "il profeta" (7:40-42). Alcuni gerosolimitani, in particolare i Farisei e i capi sacerdoti, vogliono arrestarlo. Ma non avviene alcun arresto (vv. 43-48), e la mattina presto Gesù è di nuovo nel Tempio (8:2). Dopo un lungo dialogo giovanneo classico, ostile e e teologicamente elaborato, gli Ioudaioi prendono delle pietre per lapidarlo, ma Gesù li elude (8:59); nel frattempo, continuano a dibattere se egli sia profeta o cristo (9:17,22). Evidentemente Gesù sta in città per diversi mesi tra i Tabernacoli agli inizi dell'autunno fino al festival invernale che celebra la purificazione maccavea del santuario, poiché lo vediamo di nuovo che cammina verso il Tempio durante quest'ultima festività (10:22). A questo punto gli Ioudaioi lo importunano: "Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente" (10:24). Un altro intenso dialogo teologico si svolge tra di loro, l'umore diventa turbolento, e questi cercano di arrestarlo, ancora una volta invano (v. 39).

Gesù lascia Gerusalemme verso la Perea (Giovanni 10:40) e ritorna a Betania in Giudea per far risorgere dai morti il suo amico Lazzaro (11:1-44). Questo avvenimento, inspiegabilmente, provoca una riunione del "consiglio" a Gerusalemme. I capi sacerdoti e i Farisei si preoccupano che i "segni" che opera Gesù faranno intervenire Roma pesantemente e porteranno alla distruzione del Tempio e della nazione (vv. 45-48). Decidono quindi che egli debba morire (vv. 50-53).

La Pesach finale di Gesù, come nei sinottici, inizia con l'Ingresso Trionfale: folle di pellegrini inneggianti lo accolgono con "Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele!" (12:12-13). E Giovanni, similmente a Matteo, cita Zaccaria 9:9 quando Gesù cavalca in città sul dorso di un'asina: "Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d'asina!" (12:15). Gesù dice alla folla che egli deve morire per crocifissione; gli altri controbattono "che il Cristo rimane in eterno" (vv. 32-34).

Questa è l'ultima volta che vediamo un grande raduno di seguaci di Gesù nel Vangelo di Giovanni. Tre lunghi capitoli di alta cristologia intervengono tra l'ingresso di Gesù in città ed il suo arresto la notte prima della notte del seder da un gruppo misto di soldati romani e ufficiali della guardia templare. (18:1-11). Lo conducono ad un breve interrogatorio davanti ad Anna, precedente sommo sacerdote; da lì all'attuale sommo sacerdote, suo genero Caifa (vv. 13-24); e infine da Pilato. Il dialogo tra Gesù e Pilato, e la successiva scena della Crocifissione, ridondano di titoli, immagini e linguaggio regali (18:33-19:21). Gli Ioudaioi, radunati fuori dal praetorium di Pilato, insistono nel richiedere la morte di Gesù. Gesù viene appeso sotto il titulus scritto dallo stesso prefetto romano: Gesù il Nazareno, Re dei Giudei.

Riassumendo: nonostante le differenze nelle rispettive presentazioni dell'itinerario di Gesù, sia i sinottici sia Giovanni chiaramente presentano quella porzione della popolazione ebraica favorevole a Gesù come, in maggioranza, galilea. I suoi seguaci giudei chiaramente non erano così numerosi, sebbene in effetti ne avesse.[21] Pertanto, il Vangelo di Giovanni rende esplicito ciò che Luca riporta brevemente e che gli altri due implicano soltanto: Gesù portò la sua missione a sud, in Giudea e anche a Gerusalemme, come anche ai villaggi della Galilea, e radunò seguaci anche da questi luoghi.

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Ecce Homo, dipinto di Antonio Ciseri (1880), raffigurante Ponzio Pilato che presenta Gesù flagellato alla gente di Gerusalemme

Il Gesù di Giovanni, il Gesù di Marco, la crocifissione

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In che misura possiamo basarci su Giovanni per informazioni storiche su Gesù? Né la narrazione dell'evangelista né i suoi discorsi ispirano fiducia come storia. L'itinerario del suo Gesù è frammentato e a volte senza senso.[22] Ed i suoi dialoghi e lunghi soliloqui, stracolmi di teologia, sono virtualmente impossibili da immaginare in un ambiente realistico. Se il Gesù storico ebbe veramente dei seguaci, egli non avrebbe potuto far loro questo tipo di discorsi.

Talmente congeniale all'autore è il simbolismo teologicolo che egli sussume l'importanza dell'azione di Gesù nel Tempio completamente nella cristologia ("Ma egli parlava del tempio del suo corpo", 2:21). La scena è altamente drammatica, ma narrativamente non ha senso. Nessuno si oppone all'azione di Gesù né gli diventa ostile come risultato. In effetti, nonostante il dramma più forte di questa scena in confronto a quella di Marco – la sferza di cordicelle, le pecore ed i buoi imbizzarriti (vv. 14-15) – l'azione di Gesù è totalmente senza conseguenze nella storia. Persino i suoi stessi discepoli non capiscono cosa egli voglia significare fino a "quando poi fu risuscitato dai morti" (v. 22).

Inoltre, il Gesù di Giovanni non si occupa mai di volgari esorcismi. Egli preferisce segni drammatici: acqua in vino a Cana (Giovanni 2:1-11), guarigioni a distanza (da Cana a Cafarnao, Giovanni 4:46-47, resuscitare il morto (da tempo) Lazzaro, sepolto già da quattro giorni (Giovanni 11:17-44. Sereno, calmo, invero ultraterreno, questo Gesù tiene sempre tutto sotto controllo. Davanti a Pilato, egli essenzialmente dice al prefetto come comportarsi (Giovanni 19:11). Sulla croce, coscientemente orchestra le sue azioni ad adempiere la Scrittura (Giovanni 19:28-30) e muore con un tranquillo "È compiuto".

C'è quindi poco da meravigliarsi che la maggioranza degli studiosi al momento occupati nella ricerca del Gesù storico preferiscano la tradizione sinottica a quella di Giovanni. Marco (accresciuto in modo vario da Q) e il Gesù di Marco sono semplicemente più utilizzabili. Compiendo guarigioni con esercismi, parlando nelle sinagoghe, proclamando l'arrivo del Regno di Dio: il Gesù di Marco, nonostante tutte le sue peculiarità, è un riconoscibile ebreo del primo secolo. E questa preferenza per la sostanza della rappresentazione marciana ha portato anche ad una notevole preferenza per la cronologia di Marco in generale (per cui una visione della missione di Gesù concentrata estensivamente se non esclusivamente nella Galilea), ed in particolare per la sua presentazione dell'ultima settimana di Gesù a Gerusalemme. Che il Gesù degli studiosi moderni sia un profeta apocalittico, un hassid galileo, un attivista sociale di qualsiasi banda, o un antinazionalista antipurità, egli rimane comunque nella Galilea soprattutto, poi va a Gerusalemme ed esegue la sua azione nel Tempio durante la sua ultima Pasqua, e di conseguenza ne muore, essendosi attirata l'attenzione dei capi sacerdoti.

Questo consenso sulla presentazione di Marco è tanto più sorprendente quando la questione si volge verso le valutazioni del processo ebraico nelle narrazioni della Passione. Qui di nuovo gli studiosi moderni si trovano in accordo; ma si uniscono nell'opinione che, in questo caso e su questa questione – adeguatezza storica – Giovanni debba essere preferito.

Le ragioni non sono difficili da trovare. Il resoconto di Marco così com'è non è credibile. Presenta due sessioni complete del "consiglio" (il sommo sacerdote, i capi sacerdoti, gli anziani e gli scribi), il primo nella tarda notte del seder, il secondo presto quella mattina (Marco 14:53,15:1). "Molti" testimoni spergiurano con false testimonianze contraddittorie dato che il consiglio cerca di metterlo a morte (Marco 14:55-59). E quando Gesù finalmente risponde alla domanda del sommo sacerdote - "Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?" dicendo: "Io lo sono! E vedrete il Figlio dell'Uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo" – il sommo sacerdote la chiama blasfemia ed il consiglio lo condanna sentenziando "che era reo di morte" (vv. 61-64). Dopo un secondo plenum del consiglio "appena fu mattina", condussero Gesù davanti a Pilato.

Questa scena è incoerente anche solo in termini dello stesso Vangelo di Marco. Marco aveva usato i precedenti capitoli per sviluppare un quadro di crescente minaccia da parte degli scribi e dei Farisei. Dopo che Gesù rimette i peccati di un paralitico, gli scribi "nei loro cuori" accusano Gesù di blasfemia. (Marco 2:3-7). Dopo che guarisce la mano rinsecchita di un uomo, i Farisei complottano con gli erodiani "per distruggerlo" (Marco 3:1-6). Lo seguono da vicino, gli fanno domande ostili, cercano di intrappolarlo verbalmente. Fino a 11:18, i Farisei sono chiaramente i furfanti della situazione. Ma con l'azione di Gesù nel Tempio, l'onere passa ai sacerdoti e lì rimane. Non ci sono Farisei nella scena del processo ebraico, né come testimoni né come membri del consiglio; nemmeno si mostrano a deriderlo quando è sulla croce. E anche il tema delle violazioni (dello Shabbat, per esempio, o delle regole di purezza), cosi attentamente sviluppato in precedenza, scompare: nessuna accusa riguardo a queste questioni viene proposta al sommo sacerdote.

Inoltre, come faceva il sommo sacerdote di Marco a sapere di dover fare quella domanda? A questo punto della storia, Gesù non ha detto a nessuno che egli era un "messia" e/o "figlio di Dio", imponendo il silenzio ai discepoli (Marco 8:30) e agli spiriti immondi (1:34,3:11) quando lo identificavano così. E più importante: la domanda non ha niente a che fare con l'apparente ragione del suo arresto, cioè la sua azione nel Tempio. Secondo la maggioranza dei commentatori, la domanda del sommo sacerdote si adatta meglio con la professione di fede nell'ambito della comunità stessa di Marco. L'evangelista, al momento del più grande dramma, presenta Gesù che confessa la sua propria identità cristologica, in effetti morendo per il cristianesimo.

La ragione marciana della furtività necessaria ai sacerdoti per portare Gesù davanti a loro – timore di indignazione popolare se venivano visti ad arrestare Gesù (Marco 14:1-2) – viene minata dall'uso delle "folle" davanti a Pilato fatto da Marco. In 15:8, si materializzano dal nulla all'alba del 15 Nisan; arrivati a 15:11 i capi sacerdoti, con minimo sforzo, hanno tirato l'opinione popolare completamente a loro favore. Il Pilato marciano è così ansioso di placare questa massa di gente che persino rilascia Barabba, noto omicida e insurrezionalista, condannando a morte Gesù solo perché la folla insiste 15:15. Le alleanze vacillanti di tale folla, sviluppate implausibilmente, ciononostante sono assolutamente necessarie alla presentazione di Marco: altrimenti non avrebbe modo di condurre Gesù dal consiglio ebraico alla croce romana.

Rimossa dalla strutturazione del suo Vangelo e riflettendoci criticamente e storicamente, la presentazione di Marco diventa sempre più inverosimile. Si prenda per esempio il culmine dell'udienza ebraica. Anche se il sommo sacerdote avesse avuto ragione di chiedere a Gesù se egli fosse il messia (secondo la teoria, per esempio, che ne fosse venuto a sapere quando i pellegrini lo declamavano celebrando l'entrata di Gesù in città la settimana prima), e anche se Gesù (per una qualche ragione) avesse detto "Sì", l'affermazione stessa non sarebbe contata come blasfemia. Abbiamo un ampio resoconto da parte di Flavio Giuseppe riguardo ad altre figure messianiche nel periodo che porta e include la rivolta; in seguito, abbiamo l'esempio di Bar Kokhba. La storia aveva falsificato le affermazioni di questi personaggi, ma mai tali affermazioni vengono considerate blasfeme. E anche la scena marciana davanti a Pilato non convince. Rilasciare Barabba, noto insurrezionalista, sarebbe stato un comportamento del tutto incompetente da parte del prefetto. E il Pilato che conosciamo da altre fonti antiche, sia ebraiche (Filone, Flavio Giuseppe) e sia romane (Tacito), non fu mai troppo preoccupato della sua popolarità presso i suoi sudditi ebrei (cfr. supra: "Il contesto giudeo").

Infine, secondo la cronologia di Marco, i sacerdoti avrebbero appena finito la settimana più intensa, frenetica, estenuante dell'anno.[23] Responsabili della preparazione del Tempio per l'arrivo in massa dei pellegrini, essi avrebbero passato la settimana precedente supervisionando le necessarie purificazioni. Il giorno dell'arresto di Gesù il giovedì, 14 Nisan, avrebbero sorvegliato la macellazione di decine di migliaia di agnelli e capretti nelle poche ore prima del tramonto, inizio della notte della cena. Avrebbero poi dovuto assicurarsi che il Tempio – tutte le corti usate quale teatro dei sacrifici – fosse stato lavato e purificato per il giorno successivo delle funzioni; e poi avrebbero dovuto ritornare dalle loro famiglie ad osservare la festività commemorativa comandata. Dopo tutto ciò, quella stessa notte secondo quanto riporta Marco, avrebbero poi dovuto andare alla casa del sommo sacerdote, non una volta ma due, per i due incontri del consiglio riunito al completo, tutti a deliberare su qualcuno che avevano già intenzione di condannare e che comunque doveva essere mandato da Pilato! Difficile da immaginare.[24]

Il resoconto dell'udienza di Gesù davanti ai sacerdoti fatta da Giovanni, parsimonioso e semplice, è molto più credibile. L'azione della sera, ancora giovedì, viene retrocessa secondo i termini della festività: in Giovanni, il 14 Nisan, data della Pesach, è giovedì notte e tutto il venerdì. (I giorni ebraici iniziano la notte, dopo il tramonto. Nella cronologia sinottica, il 14 Nisan cade di mercoledì notte e continua tutto il giorno di giovedì; giovedì dopo il tramonto inizia il prossimo giorno, 15 Nisan, col pasto pasquale.) Il drappello combinato romano ed ebreo arresta Gesù e lo porta davanti ad Anna, il precedente sommo sacerdote. Anna quindi interroga Gesù "riguardo ai suoi discepoli e alla sua dottrina" (18:19). Gesù risponde semplicemente che i suoi insegnamenti sono sempre stati pubblici, nelle sinagoghe e nel Tempio, e invita Anna a chiedere ai suoi ascoltatori ciò che aveva predicato. Viene poi mandato da Caifa (v. 24) e, senza altro indugio, da Pilato (v. 28). Niente confessioni cristologiche. Niente melodrammatiche accusa di blasfemia. Niente accuse di falsi testimoni. E niente folla inutile di capi sacerdoti.

Ovviamente, nessuna dei due resoconti, quello di Marco o quello di Giovanni, potrebbero essere veri. Logicamente, è difficile vedere come potrebbero essere veri tutti e due. Ma se solo uno è vero, il candidato più probabile è Giovanni — ecco perché così tanti studiosi, nonostante la loro predilezione generale per la tradizione marciana, si attengono al Quarto Vangelo per le loro ricostruzioni del "processo" ebraico di Gesù.

Questo mescolare le due differenti tradizioni evangeliche – Marco per il carattere e la missione di Gesù; Giovanni per il "processo" di Gesù – aiuta quando si vuol costruire un resoconto più credibile dell'udienza di Gesù davanti al sommo sacerdote. Tuttavia, comporta la complicazione di evidenziare, sia narrativamente che logicamente, ciò che precede l'arresto di Gesù, ma solo in Marco, non in Giovanni: vale a dire, l'azione di Gesù al Tempio.

Nelle ricostruzioni recenti, questo incidente ha sopportato tutto il peso di dover spiegare come e perché Gesù finisce per morire in questa particolare Pesach. L'azione del Tempio serve simbolicamente a riassumere il significato essenziale della missione di Gesù, interpretata dalla maggioranza degli studiosi come missione esclusivamente galilea. E quale che sia il significato centrale che gli studiosi vedono in questo gesto (apocalittico, politico, critico — le interpretazioni variano molto), tale significato serve a spiegare cosa succede dopo: l'arresto di Gesù, i "processi", e la crocifissione. Il messaggio trasmesso nel ribaltare i tavoli e sconvolgere i venditori di colombi e i cambiavalute – quale che sia – deve quindi allarmare o offendere i sacerdoti così tanto che essi non solo vogliono morto Gesù, ma riescono anche a convincere Pilato a giustiziarlo.

Concentrandosi così sul gesto di Gesù al Tempio come ragione immediate per il suo arresto e morte, gli studiosi moderni hanno incoerentemente fuso due cronologie della Passione mutuamente esclusive, quella di Giovanni e quella di Marco. Quella di Marco domina; il presunto gesto di Gesù assume un'enorme im portanza interpretativa; il peso della congettura accademica influenza come Gesù debba aver affrontato i sacerdoti. Noi possiamo fare di meglio. Concentrandoci su ciò che veramente sappiamo – che Gesù fu crocifisso, ma che i suoi seguaci non lo furono – possiamo ritornare al dramma della presentazione marciana e allo scenario confuso delle circostanze finali di Gesù di Nazareth. Una volta ancora, quindi, dobbiamo ritornare al Monte del Tempio, poco dopo l'entrata iniziale di Gesù in città. Cosa fece lì, e cosa significò?

Ancora il Tempio

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Crocifissione di Yehohanan ben Hagkol (I sec. e.v.): immagine del calcagno e rappresentazione dell'inchiodamento. L'osso è stato rinvenuto a Givat ha-Mitvar (Gerusalemme) nel 1968.
«Nel ricostruire la crocefissione abbiamo utilizzato i reperti scheletrici assieme a osservazioni di Haas, di Barbet e delle fonti storiche antiche. Secondo tali fonti il condannato non portava mai la croce completa, come si ritiene di solito, invece veniva portata la traversa, mentre il palo verticale era permanentemente nel sito, dove era utilizzato per le esecuzioni successive. Inoltre, sappiamo da Giuseppe Flavio che durante il primo secolo il legname era così scarso a Gerusalemme che i Romani furono costretti a recarsi a dieci miglia da Gerusalemme per procurarsi il legname necessario per le macchine d'assedio. Perciò si può ragionevolmente assumere che la scarsità di legno possa essersi tradotta nell'economia della crocefissione nel fatto che la traversa e il palo verticale venissero usati ripetutamente. Così la mancanza di lesioni traumatiche nell'avanbraccio e nei metacarpi della mano sembra suggerire che le braccia del condannato fossero legate alla croce anziché inchiodate. Vi sono ampie evidenze letterarie e artistiche sull'uso di corde al posto di chiodi per fissare il condannato alla croce. Inoltre, in Egitto, dove secondo una fonte ebbe origine la crocefissione, la vittima non veniva inchiodata ma legata. È importante ricordare che la morte per crocefissione era il risultato del modo in cui il condannato era appeso alla croce e non delle ferite traumatiche causate dai chiodi. La sospensione dalla croce determinava un penoso processo di asfissia, in cui i due sistemi muscolari utilizzati per respirare, i muscoli intercostali e il diaframma, si indebolivano progressivamente. Col tempo il condannato moriva per l'incapacità di continuare a respirare adeguatamente.» (J. Zias e E. Sekeles, 1985)

Nelle ricostruzioni moderne come nella narrazione di Marco, la scena al Tempio è la chiave per il resto della storia. Quegli storici che vedono l'azione di Gesù come un gesto profetico che predice la distruzione apocalittica del Tempio allora devono spiegare perché ciò adirò i sacerdoti. Forse ipotizzarono la sua scena di distruzione in effetti come una sorta di minaccia profetica? Questo spiegherebbe la ricorrenza di tale tema, messo in bocca ai "falsi testimoni" nelle successive tradizioni del processo. "Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d'uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d'uomo" Marco 14:58. Questa minaccia riecheggia nella successiva tradizione cristiana. Nel processo a Stefano nel Libro degli Atti, Luca scrive: "Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno distruggerà questo luogo", cioè il Tempio (Atti 6:14). Pertanto, in questa ultima Pasqua della vita di Gesù, forse insultati dal gesto di Gesù, forse offesi dalla (implicita?) minaccia, ansiosi di passare la festività senza incidenti, i capi sacerdoti e/o Caifa si mossero per arrestare Gesù, consegnarlo a Pilato, e raccomandargli la sua esecuzione quale potenziale istigatore.

Quegli studiosi che vedono il gesto di Gesù come un atto profetico non apocalittico, basano la propria interpretazione sulla loro ricostruzione della sua missione più in generale. L'opposizione di Gesù al Tempio o quello che poteva essere il suo significato in queste ricostruzioni – un monopolio ingiusto dell'espiazione, una gerarchia spirituale ed economica, le oppressioni della cultura purificatrice, la base di partenza delle élite del potere, il centro di nazionalismo virulento – diventa in effetti l'indizio definitivo non solo della sua visione della propria missione, ma anche della sua visione di se stesso. Da questo punto, culmine rappresentativo della sua missione, il salto è breve direttamente dentro la testa di Gesù: "Gesù deve aver pensato che..." oppure "Se fece questo, Gesù deve per forza aver pensato che..." Quindi il Gesù che svolge l'azione nel Tempio è un Gesù che in verità – e secondo alcuni studiosi, in intento – offre se stesso e/o il suo movimento quale alternativa al Tempio o suo rimpiazzo. Non c'è quindi da meravigliarsi che i sacerdoti fossero così arrabbiati.

(Peccato che non persero tempo a riflettere concretamente. Il loro amato Tempio veniva forse messo in pericolo dalla audace mossa interpretativa di Gesù? E le comunità ebraiche in tutto il Mediterraneo avrebbero veramente iniziato a interpretare la Torah differentemente, cessando di andare a Gerusalemme per adorare? Avrebbero le carovane da Babilonia forse depositato a Cafarnao i loro grandi carichi di donazioni monetarie da parte dei devoti? Se Gesù pensò che egli o la comunità dei suoi seguaci fossero l'alternativa al Tempio, cosa voleva significare in pratica? E chi, fuori dal suo gruppo, avrebbe potuto capirlo? E se il suo significato era così idiosincratico per la sua missione, quanto poteva essere pericoloso?

Il problema fondamentale nel concentrarsi in questo modo sull'incidente del Tempio è che, in qualsiasi tesi, ci presenta il pesante problema di Gesù coi sacerdoti. Considerando la faccenda primariamente come un problema tra i sacerdoti e Gesù aumenta solo la difficoltà di capire perché Pilato l'avrebbe giustiziato per crocifissione. Penso sia tempo di riconsiderare l'importanza di Gesù che rovescia i tavoli dei venditori nel Tempio, il presunto collegamento di ciò con le predizioni della distruzione del Tempio, e la verosimiglianza che il suo insegnamento riguardo al Tempio, sia che fosse in parole (Marco 13:2: "Non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà diroccata") o in azioni (ribaltare i tavoli, come interpretato dagli studiosi moderni), portò direttamente alla sua esecuzione.

Alla luce del modo in cui gli evangelisti interpretano e presentano l'azione di Gesù al Tempio, dobbiamo prima di tutto chiederci: chi avrebbe compreso il simbolismo di tale gesto? Se Gesù, ribaltando i tavoli dei cambiavalute, aveva inteso simbolizzare una prossima distruzione – che fosse del Tempio stesso o un qualche aspetto del suo universo simbolico (purezza, gerarchia, nazionalismo, e via dicendo) – come avrebbero potuto gli altri indovinare il suo significato? Sia i sinottici che Giovanni, evidentemente indipendenti l'uno dall'altro, interpretano l'azione imputata a Gesù come una condanna dei servizi di supporto del Tempio. Il Gesù di Marco cita Isaia 56:7 e Geremia 7:11 a questo fine ("il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli; ma voi l'avete ridotta a una spelonca di ladri"); il Gesù di Giovanni, severo e insolitamente diretto, dice semplicemente: "Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato" (2:16; cfr. Marco 11:17). Se il gesto di Gesù avesse veramente simboleggiato distruzione, il suo significato fu così oscuro per gli scrittori dei Vangeli che lo fraintesero costantemente, perdendo questa opportunità di far interpretare questa azione del loro eroe come altrimenti già gli avevano fatto dire chiaramente, cioè che il Tempio sarebbe stato distrutto. Quanti degli stessi contemporanei di Gesù, specialmente quelli al di fuori del suo proprio circolo, l'avrebbero compreso? E se il significato simbolico del gesto di Gesù non poteva essere prontamente e pubblicamente compreso, come poteva causargli dei guai?

Complicata è anche la relazione del gesto di Gesù (specialmente se con esso metteva profeticamente in atto la distruzione, Marco 11 e parall.); la sua profezia della prossima distruzione del Tempio (Marco 13 e parall.); il resoconto della sua profezia come minaccia, ripetuta da falsi testimoni, al suo processo davanti ai sacerdoti (Marco 14:57-58); e il modo in cui tutti questi motivi marciani si adattano al fatto che i romani distrussero veramente il Tempio nel 70. I nostri problemi iniziano col fatto che non possiamo sapere quando i Vangeli – Marco in particolare – furono scritti. Il consenso accademico, sebbene contestato, data tutti e quattro i Vangeli all'ultimo terzo del primo secolo. Alcuni studiosi fanno risalire la composizione di Marco appena prima della Guerra giudaica contro Roma, spiegando il suo tono apocalittico quale misura della sua anticipazione angosciata del conflitto; altri pensano che tutti i quattro furono composti (o redatti) un po' di tempo dopo il 70.

Un'ambientazione post-70 può spiegare molto bene quelle parti dei sinottici che predicono la distruzione del Tempio ("ex post facto", col senno di poi...). La revisione di Marco da parte di Luca ("Ma quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina" Luca 21:20) sembra chiaramente aggiornata alla luce della guerra succitata. Inoltre, antichi scritti scritti profetici spesso "predicono" un evento che in realtà è già avvenuto. L'accuratezza delle loro predizioni fa quindi risaltare maggiormente l'autorità del testo. E, infine, è pratica accademica standard datare la composizione di tali testi ad un periodo appena dopo ma non prima dell'evento predetto. Sembra ovvio, no? Abbiamo già visto queste caratteristiche, antiche e moderne, attuate nel testo di Daniele. Lo pseudonimo dell'autore colloca la profezia nel sesto secolo p.e.v., con la generazione della Cattività Babilonese. La decodificazione dei riferimenti simbolici del testo indicano eventi del tardo periodo seleucida. Gli studiosi, orientando le loro stime dell'"abominio della desolazione" di Daniele (Daniele 12:11, datano il testo verso il 167 p.e.v., quando Antioco Epifane profanò l'altare a Gerusalemme.

Contro tali argomentazioni, coloro che datano questi temi marciani a prima dell'effettiva distruzione del Tempio, forsanche generate da tradizioni di vero insegnamento da parte di Gesù, indicano due fatti che supportano il loro caso. Primo, la letteratura apocalittica ebraica prima e dopo la vita di Gesù parlano anche dell'attuale distruzione del Tempio e, occasionalmente, anche del suo rimpiazzo con un Tempio finale superiore (cfr. il Tempio "non fatto da mani d'uomo" in Marco 14:58). L'esistenza di questo motivo apocalittico tradizionale accresce la possibilità che Gesù, predicando la venuta del Regno, possa aver pensato in termini della distruzione del Tempio. Secondo, in Flavio Giuseppe, troviamo prove sicure di un'irrefutabile profezia genuina della distruzione del Tempio nella storia bizzarra di un altro Gesù — Gesù figlio di Anania.

Durante la festività di Sukkot nell'autunno del 62 e.v., "quando la città stava godendo una pace profonda e grande prosperità", scrive Flavio Giuseppe, questo Gesù, entrato nel Tempio, improvvisamente iniziò a gridare

« "Una voce dall'est! Una voce dall'ovest! Una voce dai quattro venti! Una voce contro Gerusalemme e il santuario, una voce contro lo sposa e la sposa, una voce contro tutto il popolo!" Giorno e notte andava in giro per tutti i vicoli con sulle labbra questo grido. Alcuni dei cittadini principali, irritati a queste parole nefaste, arrestarono l'uomo e lo castigarono severamente. Ma questi, senza una sola parola a sua discolpa o in privato con coloro che lo avevano colpito, continuò comunque le sue grida come prima. Allora i magistrati, supponendo (come era infatti il caso) che l'uomo fosse sotto l'influenza di un impulso sovrannaturale, lo portarono davanti al governatore romano. Colà, sebbene flagellato a sangue con sferze, non chiese misericordia né pianse, ma semplicemente... reagì ad ogni sferzata con "Guai a Gerusalemme!... Albino [il procuratore romano] lo dichiarò maniacale e lo lasciò andare. Durante l'intero periodo fino allo scoppio della guerra... egli ripeté il suo lamento... Le sue grida erano più forti durante le festività. Così per sette anni e cinque mesi egli ripeté il suo urlare, senza mai perderer la voce o le forze, fintanto che durante l'assedio trovò requie. »
(BJ 6.300-309)

Infine, a difesa dell'autenticità della predizione di Gesù in Marco, gli studiosi osservano che la descrizione di Marco non è sufficientemente esatta, mentre le predizioni post facto sono tipicamente molto esatte, proprio perché possono esserlo. "Vedi questi grandi edifici? " chiede il Gesù marciano, "Non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà diroccata" (13:2). Non proprio, come io stesso sono stato in grado di vedere: i muri di sostegno del Tempio di Erode stanno ancora in piedi. Sebbene ora ci sia una moschea a dominare la cima del monte, gli ebrei pregano davanti al Kotel, o Muro occidentale (הַכּוֹתֶל הַמַּעֲרָבִי‎, HaKotel HaMa'aravi). E inoltre, il Tempio stesso fu distrutto dal fuoco, cosa che questa profezia – quale tributo alla sua autenticità – manca di citare.

Questa argomentazione sembra meno convincente delle prime due (tradizione apocalittica anteriore e posteriore; la profezia indiscutibilmente autentica di Gesù ben Ananias). Leggiamo la descrizione di Flavio Giuseppe in merito alla fine del Tempio nel Libro 6 della sua storia, La Guerra giudaica: vero, il fuoco è di scena in maniera prominente, ma il tema complessivo in effetti è la devastazione totale. In altre parole, dal resoconto di Flavio Giuseppe quale testimone oculare, non si capisce affatto che i muri di sostegno della montagna artificiale di Erode sia ancora in piedi. Marco, non essendo un testimone oculare, può forse essere scusato. Inoltre, anche secondo il resoconto di Flavio, il Gesù marciano predisse accuratamente: nessuno degli edifici sul monte rimasero in piedi.

Se la predizione di Gesù riguardo alla distruzione del Tempio, articolata chiaramente in Marco 13, è veramente dopo il fatto, un prodotto degli eventi del 70, allora la possibilità che la stessa profezia fosse codificata nell'azione di Gesù al Tempio – oscurata dagli evangelisti, ma rivelata tramite l'interpretazione degli studiosi – diminuisce di conseguenza. Ma ancora da spiegare è la presenza di questa scena in due testimonianze indipendenti, Marco e Giovanni.

L'ipotesi di una data post-distruzione della composizione si basa precisamente su questo punto. Entrambi gli evangelisti, scrivendo nel periodo postbellico, sapevano che il Tempio aveva drammaticamente cessato di esistere. La sua inesistenza è un importante dato religioso che essi devono affrontare.

Altri cristiani del tardo primo secolo parlano del Tempio in vari modi. L'Epistola agli Ebrei svaluta il Tempio terreno, affermando che esso era non altro che una semplice parvenza del Tempio celeste, dove ora Gesù serva da sacerdote perfetto e perfetto sacrificio. L'autore di Rivelazione, in confronto, prevedendo l'imminente discesa dalla Gerusalemme celeste dopo le tribolazioni apocalittiche, specifica che "non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo tempio", cioè, il Cristo apocalittico (Apocalisse 21:22). Il vero Tempio nella Gerusalemme terrena è inutile nel primo caso, non necessario nel secondo. Le lettere pseudonime che trovano posto nel canone del Nuovo Testamento scritte a nome di figure della prima generazione – "Pietro", "Giacomo" e il "Paolo" delle epistole pastorali, Efesini, Colossesi e 2 Tessalonicesi – non possono parlare della distruzione del Tempio senza compromettere la loro falsa identità. Ma le prime comunità cristiane quali tipi di comunità ebraiche dovevano dare un senso a questa terribile perdita.

Un altro modo era di avere Gesù che già "conosce" il fato del Tempio e predice la sua distruzione come uno degli eventi che devono precedere il suo ritorno glorioso. La tradizione presentata in Marco 13, seguito da Matteo e Luca, in un certo senso prende questa interpretazione; il collegamento fatto da Giovanni della distruzione del Tempio con la risurrezione di Gesù (Giovanni 2:19-21) ne prende un'altra. Ancora un'altra interpretazione è quella di avere Gesù che asserisce che i sacrifici fatti al Tempio sono una maniera inferiore di adorare Dio (dichiarazione prudente e sicura, dato che dopo il 70 non fu più possibile farlo comunque); la preghiera, al confronto, come anche la giusta condotta, poteva essere svolta ovunque. Questo tema entra ed esce in tutti i Vangeli, e la scena del Tempio è uno dei modi da parte degli evangelisti di affermarlo.

Giovanni chiaramente conosceva una data versione della tradizione che viene proposta in Marco 11. Ma come? Come al solito, non lo sappiamo. Presumere che Giovanni avesse in effetti conosciuto Marco è un modo di rispondere alla domanda, ma lascia in sospeso quella più difficile: perché allora il quarto evangelista avrebbe usato così poco di Marco e tralasciato così molto? Trovo meno difficile ipotizzare che questo episodio di Gesù che rovescia i tavoli dei venditori nel Tempio fu una storia che girava liberamente, trasmessa oralmente e, quindi, senza un contesto fisso. Ciò può spiegare la sua differente funzione nei due Vangeli (in Marco, introduce la Passione; in Giovanni, serve come veicolo per la cristologia), le sue collocazioni contrastanti (il finale di Marco, il debutto di Giovanni), mentre spiega i due discorsi differenti di Gesù che ciononostante puntano ad un significato simile, cioè la condanna dei servizi di supporto del Tempio ("addomesticando" quindi la distruzione del Tempio).

Esistono testimonianze di altre storie "fluttuanti" dello stesso tipo. Le autorità più antiche del manoscritto di Giovanni, per esempio, omettono Giovanni 7:53-8-11, la storia di Gesù e della donna scoperta in adulterio. Altri manoscritti successivi mettono la storia dopo Giovanni 7:36; ancor altri dopo Giovanni 21:25. E a volte la storia appare nei manoscritti di Luca, dopo Luca 21:38. Apparentemente questa storia viaggiò liberamente – vale a dire, oralmente – per un bel po' di tempo dopo che i Vangeli ottennero la loro forma scritta. Come divenne nota nelle comunità che avevano uno o più Vangeli scritti, fu incorporata in varie guise. Tale percorso non dice nulla sulla sua autenticità, ma potrebbe spiegare la sua presenza nei vari Vangeli.

Nel caso della storia sull'azione di Ges nel Tempio, Matteo e Luca chiaramente si servono di Marco. La usano nello stesso modo che fa lui, per iniziare gli eventi che conducono alla Passione portando Gesù all'attenzione ostile dei capi sacerdoti; e presentano le stesse citazioni da Isaia e Geremia. Giovanni e Marco, in contrasto, ne condividono solo i minimi dettagli: Pesach, un gesto violento contro i venditori nel Tempio, una certa condanna del commercio nei recinti del Tempio. La storia stessa potrebbe essere autentica, cioè, risalente a Gesù verso il 30 circa, e Marco e Giovanni di conseguenza ne conoscono una qualche versione. Oppure si potrebbe essere cristallizzata insieme ad altre tradizioni che parimenti sviluppano il tema delle presunta ostilità di Gesù contro certe forme di adorazione e pratica tradizionali ebraiche, in un dato periodo tra la sua esecuzione e la composizione di questi due Vangeli. O potrebbe essere originale in Marco, un modo drammatico escogitato per portare la storia al suo culmine, che Giovanni, leggendo Marco adotta in seguito e lo adatta per i suoi scopi. Non riusciremo mai a saperlo. E non abbiamo prove in entrambi i casi.

Se Gesù predisse veramente la distruzione del Tempio e, quindi, se codificò simbolicamente tale distruzione con una qualche azione nel Tempio stesso, allora rimangono ancora due problemi. Il primo è il silenzio assoluto di Paolo sulla faccenda. Ecco qui Gesù che fa una profezia spettacolare in un momento cruciale della sua missione, e Paolo fa scena muta!? Ecco qui Pietro, Giovanni, e probabilmente altri tra i discepoli originali, che devono aver conosciuto la profezia e che certamente avevano conosciuto Paolo (Galati 1:18,2:9). E per giunta ecco qui Paolo stesso, che nelle sue lettere parla spesso della venuta del Regno. Perché allora non disse assolutamente niente della profezia di Gesù?

Abbiamo solo sette lettere di Paolo — sei, se consideriamo quella a Filemone una specie di promemoria. Paolo fu un apostolo attivo per circa trent'anni. Chiaramente egli deve aver scritto ben più di sette lettere in tutto questo tempo. La maggior parte della sua corrispondenza è andata persa — tra cui, per quanto ne sappiamo, la sue descrizione definitiva della profezia di Gesù sull'imminente distruzione apocalittica del Tempio.

Ciononostante, ci sono numerosi punti nelle poche lettere che comunque abbiamo dove egli avrebbe potuto citare questo drammatico segno della prevista Fine del Mondo. Per esempio, consolando i suoi infelici Tessalonicesi, un po' dopo 4:15: "Questo vi diciamo sulla parola del Signore" che il Tempio verrà distrutto e stabilito da Dio quale parte degli eventi della Fine. O anche dopo Filippesi 4:5: "Il Signore è vicino! Una volta che il Tempio non ci sarà più, allora verrà nella gloria ricostruito dal Padre". O in 1 Corinzi 15, dove nuovamente ripete la sequenza di eventi alla Fine. O perlomeno in Romani — capitolo 8, quando parla della trasformazione dell'universo? Dopo il capitolo 11, quando Israele viene reincorporato nella redenzione e tutti sono salvati? Nel capitolo 15, quando porta le offerte dei Gentili a Gerusalemme come se svolgesse un servizio sacerdotale "non presso questo Tempio terreno, che voi sapete il Signore ha detto che non esisterà più, ma al Tempio Eterno". Invece niente, non dice proprio nulla di sorta. Da nessuna parte. Data la coincidenza dell'evidenza storica che sopravvive in merito a questo periodo del movimento, uno non dovrebbe dare troppa enfasi al "silenzio" di Paolo. Ma comunque silenzio è.

E infine, c'è il problema della corte stessa del Tempio. Quest'ultimo punto è in realtà un esercizio a pensare concretamente. Se esaminiamo il modello del Secondo Tempio riportato nel Capitolo 2, i cambiavalute e i venditori di colombi quasi sicuramente si trovavano o nel Portico Reale o sotto la stoa e lungo il colonnato: fuori dalla pioggia durante l'inverno, fuori dal sole cocente che si rifletteva dal muro di pietre della corte, in primavera ed estate.[25]

Ora immaginiamoci il luogo totalmente stipato da una moltitudine immensa di gente – decine di migliaia di pellegrini – durante i giorni tra l'otto ed il 14 di Nisan. Immaginiamoci poi Gesù che va verso i tavoli di alcuni dei venditori e li ribalta. Chiediamoci allora: quante persone sarebbero state in grado di vederlo? Quanti l'avrebbero notato? Diciamo al massimo le persone appena vicine a Gesù avrebbero potuto vederlo. E i pellegrini al piano terra se ne sarebbero accorti, anche cinque o sei metri da lui? Avrebbero sentito il trambusto? E quelli distanti 15-20 metri? O nel mezzo della corte, o finanche un'altra sezione della stoa?

L'area del Tempio racchiusa dalle mura era enorme: circa 16000 metri quadrati. Un archeologo ha stimato che 12 campi di calcio ci sarebbero entrati comodamente. Tale misura eccezionale pone la domanda: se Gesù fece quel gesto, che l'avrebbe visto? I suoi seguaci e coloro che stavano vicino a lui, Altrimenti le persone con la migliore veduta – se Gesù si fosse trovato vicino agli orli del tetto dei colonnati ovest ed est piuttosto che più in là, nell'interno – sarebbero stati, ironicamente quei soldati romani che pattugliavano sul tetto della stoa nella parte opposta della corte. L'effetto del gesto di Gesù a livello d'occhio – dove stavano tutti gli altri – sarebbe stato ovattato, attutito e coperto dalla folla pressante dei pellegrini. Quanto dovevano preoccuparsi quindi i sacerdoti?

Stiamo ancora cercando una ragione del perché Pilato avrebbe giustiziato Gesù con la crocifissione. La scena nella corte del Tempio, se storica, lascia comunque un vuoto nel quadro d'insieme: se Caifa volle eliminare Gesù a causa di una qualche offesa che la sua azione aveva prodotto, e Pilato acconsentì a giustiziarlo, perché non assassinarlo in privato, senza tante storie? E se la scena nella corte non è storica – molte considerazioni lo fanno pensare – allora come si coinvolsero i sacerdoti, e perché?

A questo punto, ricordiamoci della descrizione fatta da Flavio Giuseppe sul fato degli ebrei che scappavano da Gerusalemme durante l'assedio, e i pensieri di Tito sulla questione. Quando venivano catturati, scrive Flavio

« di conseguenza venivano flagellati e sottoposti a torture di ogni tipo prima di essere uccisi e poi crocifissi davanti alle mura... La principale ragione [di Tito] per non fermare le crocifissioni era la speranza che lo spettacolo poteva forse indurre gli ebrei ad arrendersi, per paura che essi continuando a resistere avrebbero fatto la stessa fine»
(BJ 5.450)

La crocifissione era una forma romana di annuncio pubblico di servizio: non fate sommesse come questa persona, altrimenti il vostro fato sarà simile. Lo scopo dell'esercizio non era tanto la morte del colpevole, quanto attirare l'attenzione di coloro che guardavano. La crocifissione è innanzitutto indirizzata ad un pubblico.

Penso che è qui che dobbiamo cercare una spiegazione per la morte di Gesù. E non in una presunta protesta o profezia messa in atto al Tempio che, anche se avvenne, non spiega il suo fato. Non nella psiche di Gesù o nelle sue più profonde convinzioni su se stesso e sulla sua identità, alle quali non abbiamo comunque accesso. Anche se per qualche ragione Gesù fosse stato convinto di essere il messia, sebbene in un qualche modo radicalmente nuovo ed inanticipato, la sua immagine di sé non avrebbe interessato nessuno di chi era al potere, e non avrebbe avuto senso per nessuno al di fuori di se stesso. Né per il suo programma, come noi possiamo ricostruirlo dalle tradizioni sulla sua missione: se tale programma fosse stato pericoloso, finanche minaccioso, anche soltanto implicitamente per le autorità al potere, Antipa l'avrebbe levato di mezzo per primo. Dovremmo invece rivolgerci alle folle in Gerusalemme. Queste sono il pubblico a cui si rivolge Pilato. In tale senso, esse sono la ragione per la morte di Gesù.

I pellegrini ebrei salutarono Gesù come messia a Gerusalemme. Pilato lo uccise come messia pretendente — di nuovo, non perché Gesù pensava di essere il messia (che gliene importava a Pilato di come Gesù si identificava?), ma perché altri lo pensavano e lo proclamavano tale. Ma Pilato lo sapeva meglio di loro, o sapeva che i pellegrini sbagliavano, perché egli non uccise nessun altro di questo gruppo se non Gesù stesso. Qual è il significato di questi fatti? Cosa c'entrano i sacerdoti? E perché Gerusalemme durante la Pesach — o proprio questa particolare Pesach?

Per approfondire, vedi Biografie cristologiche, Interpretare Gesù in contesto e Riflessioni su Yeshua l'Ebreo.
  1. Sulle mikvaot a Israele, si veda Ronny Reich, "The Great Mikveh Debate", Biblical Archaeological Review 19 (1993): 52-53.
  2. Quando Marco vuole prefigurare la missione ai Gentili nel suo Vangelo, egli parla di Gesù che va sulla sponda orientale del Mar di Galilea e poi "all'altra riva del mare, nella regione dei Gerasèni", Marco 5:1. Il branco di maiali in cui egli fa andare il demone "Legione" indica un insediamento pagano: gli abitanti ebrei non avevano ragione di allevarli. E l'indemoniato gentile guarito in seguito proclama "per la Decàpoli ciò che Gesù gli aveva fatto" 5:20.
  3. Meyers & Strange, Archaeology, the Rabbis, and Early Christianity, partic. pp. 48-61; su Cafarnao in partic. cfr. Sanders, The Historical Figure of Jesus, p. 103; sulla popolazione dei villaggi galilei, cfr. Horsley, Galilee, pp. 189-95.
  4. Su Gesù e la lingua greca, si veda spec. Meier, A Marginal Jew, vol. I, pp. 255-68.
  5. Su Gesù come cinico, si veda anche Burton Mack, A Myth of Innocence, pp. 66-77.
  6. Si veda spec. Freyne, Galilee, Jesus and the Gospels, pp. 145 e segg.
  7. Sulle leggi romane applicate agli ebrei, si veda A. Linder, The Jews in Roman Imperial Legislation, 1986, passim.
  8. Sulla "autonomia" si veda supra, alle sezioni precedenti.
  9. Per una descrizione biblica si veda Numeri 19.
  10. La giovenca rossa o vacca rossa (ebraico: פרה אדומה - parah adumah) era un sacrificio citato nella Bibbia ebraica, le cui ceneri erano usate per un rituale di purificazione di antichi israeliti che erano venuti in contatto con un cadavere. L'esistenza di una giovenca rossa che sia conforme a tutte le rigide regole e requisiti imposti dalla Halakhah, è un'anomalia biologica: l'animale deve essere interamente di un solo colore ed i rabbini eseguivano una serie di test per assicurarsi, tra l'altro, che il pelo della vacca fosse completamente liscio (per accertarsi con non fosse stata sottoposta al giogo, il che l'avrebbe squalificata). Mosè, il maggiore dei profeti, conobbe il mistero del significato della giovenca rossa. Secondo una tradizione ebraica, solo nove giovenche furono macellate dal periodo che inizia da Mosè e finisce alla distruzione del Secondo Tempio. L'assoluta rarità dell'animale, insieme al rispettivo rituale, attribuisce alla giovenca rossa un'importanza particolare nella tradizione ebraica: è infatti citata come esempio basilare di un khok, o una legge biblica per la quale non esiste logica apparente e quindi è considerata di assoluta origine divina. Poiché lo stato di purezza rituale ottenuto attraverso la cenere di una giovenca rossa è un prerequisito necessario per la partecipazione al servizio del Tempio, in tempi moderni sono stati compiuti sforzi da parte di ebrei, che desiderano una purezza rituale biblica e in previsione della costruzione del futuro Terzo Tempio, per individuare una giovenca rossa e ricreare il citato rituale.
  11. Si confronti quindi Marco 1:9.
  12. Sull'argomento si veda il capitolo successivo.
  13. Seppellire i morti, o bruciare la giovenca rossa per preparare l'acqua di purificazione da usare nell'inquinamento da cadavere, sono due attività comandate divinamente che rendono i loro agenti tameh — immondi o impuri.
  14. Vedremo in seguito come, nel considerare un caso di lebbra in Marco 1:40-44.
  15. Ricordiamoci che il Vangelo di Giovanni presenta una cronologia alquanto diversa. Il suo Gesù ribalta i banchi già al capitolo 2 e successivamente fa molti viaggi a Gerusalemme.
  16. Chi scrisse i Vangeli, ebrei o gentili? Nessuno lo sa, sebbene gli studiosi, sulla base di testimonianze interne, ipotizzino identificazioni "etniche". L'autore di Matteo è universalmente considerato ebreo; negli ultimi 30-40 anni, anche l'autore di Giovanni. Le argomentazioni su Luca vanno in entrambe le direzioni, sebbene la padronanza della Septuaginta da parte dell'autore mi inclina a supporre che anch'egli fosse ebreo: la Bibbia era una voluminosa raccolta di libri – scrolli in realtà – che non sarebbero circolati o resi accessibili al di fuori di una sinagoga in questo primo periodo. E Marco? Di nuovo, la risposta è ipotetica. Molti studiosi presuppongono che egli fosse un Gentile; Marco dimostra poca della familiarità sulle tradizioni e scritture ebraiche dimostrata vistosamente da Luca e Matteo, né dimostra relazioni ravvicinate (anche se ostili) con le comunità della sua sinagoga locale nel modo che lo fa Giovanni. Se Marco era ebreo, doveva essere un ebreo estremamente ignorante. L'ignoranza naturalmente non rispetta persone o gruppi etnici, e non tutti nel primo movimento potevano avere l'istruzione di Paolo. La prima data della composizione del Vangelo (appena dopo il 70), le sue fondamenta scritturali (evidenti specialmente nella narrazione della Passione), e lo stimolo a comporre dato dalla recente distruzione del Tempio, tutto ciò mi fa pensare che anche questo autore fosse ebreo. Perché è importante? In parte, perché la collocazione implicita sociale e religiosa dell'autore ci dà un punto di partenza per speculare sulla sua comunità – se anch'essa fosse ebrea, gentile, o una mescolanza – e su cosa essi avrebbero potuto comprendere ascoltando il Vangelo. La mia ipotesi qui, tuttavia – che i Vangeli esponessero una conosciuta prassi di purificazione – richiede solo che il pubblico degli evangelisti fosse antico. Nessuno nell'antichità, specialmente nei giorni cultici sacri dedicati alla divinità, faceva l'equivalente di "parcheggia l'auto e corri in chiesa". La prossimità ad un altare richiedeva universalmente (una qualche sorta di) purificazione preparatoria. Ascoltatori ebrei (quelli di Matteo sicuramente, quelli di Luca e Giovanni probabilmente, e penso anche quelli di Marco) avevano connessioni specifiche, mediante la loro cultura biblica, con quello che ciò avrebbe comportato, come anche l'avrebbero avute quegli ascoltatori gentili che si erano associati alla sinagoga. Gentili di estrazione puramente pagana avrebbero comunque presupposto anche loro delle purificazioni.
  17. Una tale ipotesi, tuttavia, richiede che il Quarto Evangelista conoscesse il Vangelo di Marco o almeno questa tradizione da cui si origina, poiché l'incidente del Tempio, sebbene reinterpretato, appare anche in Giovanni 2.
  18. Per rendere il suo messaggio più attuale e consono ai tempi. Anche perché l'apocalisse non si è verificata ed il suo messaggio diventa obsoleto.
  19. Si veda prec. sez. "I significati di Messia".
  20. Nei sinottici, in contrasto, questo evento, messo alla fine della missione di Gesù, lo porta alla fatale attenzione dei sommi sacerdoti, che pertanto si decidono ad ucciderlo.
  21. Il Quarto Vangelo specifica Maria, Marta, Lazzaro, e "molti" dei loro conoscenti, Giovanni 11:1,18,45; e Luca, che non sviluppa mai una missione giudea come fa Giovanni, cionondimeno fa protestare il consiglio dei capi sacerdoti e scribi davanti a Pilato che Gesù "solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea fino a qui [Gerusalemme]" 23:5.
  22. Famosamente, nel sobbalzo tra 5:47 e 6:1, Gesù va direttamente da Gerusalemme "all'altro lato del Mar di Galilea", con la moltitudine de rigueur già al seguito.
  23. In effetti, il giorno dopo il seder, segnato dall'udienza mattutina davanti a Pilato il venerdì, avrebbe richiesto la presenza dei sacerdoti davanti all'altare per svolgere altre funzioni.
  24. Infatti, adattando la versione di Marco, Luca riduce l'incontro dei sacerdoti ad un solo consiglio di mattina, Luca 22:66. Inoltre tralascia il dialogo tra Gesù e il sommo sacerdote, l'imputata minaccia al Tempio, e l'accusa di blasfemia.
  25. Un altro punto contro la rappresentazione di Giovanni in 2:14: grossi animali sacrificali, come pecore o buoi, non sarebbero mai stati tenuti nell'ambito della corte stessa. Avrebbero insozzato i recinti. Piuttosto, sarebbero stati venduti nell'area del mercato sotto al Tempio, nella parte occidentale dell'area, e i buoi in ogni caso sarebbero stati utilizzati solo raramente.