Cambiamento e transizione nell'Impero Romano/Capitolo I

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"MXIMIANVS AVGVSTVS / CONSVL IIII Pater Patriae PROCOnSul - SMAZ"
— Aureo con l'effigie di Massimiano (294-295); il rovescio mostra Massimiano Erculeo Rector Orbis, e relativi attributi

Cambiamento e transizione: l'inizio della Tarda Antichità[modifica]

Edward Gibbon, di Joshua Reynolds
Karl Otfried Müller
Henri Pirenne
Fustel de Coulanges
Theodor Mommsen
Alfred von Gutschmid
John Bagnell Bury
Michael Rostovtzeff
Eduard Meyer, di Lovis Corinth
Gordon Childe
Martin Persson Nilsson
Marc Bloch
Frank William Walbank
W. W. Rostow
Ranuccio Bianchi Bandinelli

Introduzione[modifica]

Nel porre domande al Passato che il Passato stesso non ha mai posto, ci si chiede se un simile atteggiamento nei confronti della storia non sia anacronistico. Credo, comunque, che il rischio di anacronismo non sia grande, a patto che vangano applicati i giusti metodi creativi. Alla fine, la fonte dell'eterna giovinezza delle scienze storiche è che ogni epoca pone nuove domande al Passato e che, per trovare le risposte a tali domande, essa applica nuovi metodi, scoperti di recente da dette scienze. Non è importante che le domande siano anacronistiche, ma è certamente importante che le risposte non lo siano. Affinché le domande non siano anacronistiche, i metodi devono essere applicati al materiale storico non in maniera meccanica, ma in maniera creativa. e questo è ciò che ho fatto col presente studio, usando come premessa che non è la coscienza dell'essere umano che determina il suo essere, ma, al contrario, è il suo essere sociale che determina la sua coscienza. Ad un certo punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in conflitto coi rapporti di produzione esistenti, cioè, con le relazioni di proprietà entro cui esse funzionato precedentemente. Da forme di sviluppo delle forze produttive queste relazioni si trasformano nelle proprie limitazioni e inizia quindi un'epoca di cambiamento sociale, di trasformazione sociale. Con il cambiamento delle fondamenta economiche, qualsiasi grande sovrastruttura viene trasformata più o meno rapidamente, ma tali trasformazioni devono sempre essere analizzate accuratamente per ciò che sono veramente, distinguendo tra loro in modo da comprendere meglio l'importanza dei cambiamenti in corso. Come lo stesso Marx ebbe a dire, nessun ordine sociale è mai perito prima che tutte le forze produttive per le quali c'è spazio si siano sviluppate; e nuovi, più elevati rapporti di produzione non appaiono mai prima che le condizioni materiali per la loro esistenza si siano "maturate in seno alla stessa vecchia società" (Marx/Engels, Werke, V. 13, pp. 7segg.).

Invocare il nome di Marx per questo studi potrebbe sembrare di cattivo gusto. Tuttavia posso dire che, nello scrivere il mio testo, ho tentato, come dovrebbe fare qualsiasi persona dell'Età Moderna, "venire a patti con Marx", profittare dalla sua lezione metodologica e ricreare in qualche modo quella "chimica" vitale che egli riuscì a produrre tra analisi economica ed analisi storica.

La metafora biologica di "crisi" in genere condiziona l'interpretazione storiografica del III secolo, da parte di storici antichi e moderni. In questo studio, ho cercato di liquidare tale metafora, in tutti i suoi sensi equivoci, approssimativi, deterministici; ho tentato, in effetti, di evitare l'uso del termine stesso, a meno di non esserne costretto per ragioni di pura intelligibilità. Quale fu veramente questa "crisi" del terzo secolo, cosa significò concretamente, quali furono le vere forze economiche e sociali e quale fu il loro reale intreccio, la loro dinamica reale — ciò costituisce il problema affrontato dal presente studio.

Molti storici hanno considerato tale "crisi" come fosse una grande febbre che afflisse l'organismo dell'impero, ma da cui si riprese, sebbene tramite sforzi debilitanti; altri l'hanno considerata una malattie perniciosa, che portò al collasso. In realtà, si potrebbe dire che la "crisi" del III secolo fu le lotte sociali che la sconvolsero; e che frantumò il vecchio ordine politico e sociale, così da crearne uno nuovo, quello dello Spätantike, il mondo della Tarda Antichità. Tuttavia, bisogna sottolineare che queste lotte sociali furono simultaneamente il risultato delle contraddizioni interna alle strutture socioeconomiche del mondo romano-ellenistico "classico" – cioè nel sistema lavorativo prodotto dagli schiavi e le sue dinamiche interne – e di agenti esterni. Per tali fenomeni, uno parla giustamente di trasformazione; tuttavia, anche in questo caso uno dovrebbe definire il termine. Ci fu una trasformazione, certamente, sia nella base strutturale e sia, specialmente, nella sovrastruttura. Eppure, quand'è che la società non si trasforma, in un qualsiasi dato momento? È il senso di questa trasformazione che deve essere definito: poiché determina la fisionomia della nuova società. Come cercherò di dimostrare, la trasformazione avvenne nell'ambito e nella forma di una restaurazione: vale a dire, nell'ambito e nella forma di una riaffermazione autoritaria dei privilegi della classe dirigente, che era stata minacciata dall'eruzione di contraddizioni intestine al sistema economico e sociale culminante, e generato dalla riforma augustea.

Questa credo sia la valenza della Tarda Antichità, di Spätantike. La storiografia moderna ha ormai acquisito il concetto dell'autonomia e originalità di questo periodo e ne sta definendo con pazienza i contorni. Il mio sarà un piccolo contributoa questa impresa, come anche un tentativo modesto di interpretare la fine del mondo "classico", della società romano-ellenistica. Ad ogni modo, senza pretese di definizioni ambiziose, questo studio rappresenta un'indagine sulle strutture sociali ed economiche del terso secolo e sulla loro dinamica; pertanto, non una "storia ragionata" degli eventi, ma piuttosto un'analisi delle strutture e loro dinamica.

L'Impero tardo-antico[modifica]

Da umili origini nell'ottavo secolo p.e.v. quando un piccolo popolo si sistemò su alcune colline che davano sul fiume Tevere, i romani progressivamente conquistarono la penisola italiana, estendendo il loro dominio su tutto il bacino mediterraneo, espandendo l'impero in tutta l'Europa continentale fino all'Atlantico. Le loro conquiste permisero a romani non solo di dominare ma anche di civilizzare un grande numero di popolazioni, su cui lasciarono un'impressione duratura. Gli storici moderni possono ancora riuscire a distinguere quelle regioni che furono penetrate in profondità dalla lingua latina e dalla legge romana da quelle che invece rimasero intoccate. Tuttavia, molti studiosi moderni tuttora sono in disaccordo quando vien loro chiesto di identificare il "momento" del declino, della decadenza, che preannunciò il successivo collasso dell'Impero Romano: il III secolo e.v. viene comunemente considerato il punto cardine del cambiamento, in cui profonde trasformazioni sociali influenzarono così tanto la società del Tardo Impero da creare tensioni irreversibili generanti una decadenza terminale. Ciononostante, il declino economico del mondo romano non fu ovvio nel IV secolo, né lo fu il degrado della forma di governo o i difetti dell'amministrazione. L'Impero comunque stava cedendo sotto il peso della sovrastruttura statale e della tassazione che era troppo pesante per il mondo antico, dove la produzione e gli standard di vita erano entrambi molto bassi.

In effetti, al livello di sovrastrutture, la trasformazione del mondo classico, del mondo greco-romano, appare molto più comprensibile. Per così dire, il dibattito sull'idea della decadenza si evolse dal piano sovrastrutturale all'ambito della storia della cultura. I primi a rifiutare una concezione di "decadenza" e sostituirvi la visione di un processo ininterrotto di trasformazione, che avrebbe collegato in un continuum l'età di Marco con quella di Costantino, furono gli studenti della storia spirituale del mondo antico, specialmente gli storici dell'arte. Alois Riegl ed i teorici della cosiddetta "Scuola Viennese"[1], già all'inizio del XX secolo, affermavano con insistenza la validità e l'autonomia delle esperienze intellettuali avvenute durante tale periodo e che segnavano nella sostanza l'inizio di una nuova concezione mondiale e, correlativamente di una nuova forma artistica; gli storici della filosofia, della religiosità e della cultura, ora si spostano nella stessa direzione e adottano una prospettiva che non è più quella assolutamente negativa e pessimista mantenuta dai loro predecessori.[2] Nell'ambito di questa sfera di ricerca, il terzo secolo non è più una "epoca oscura", in cui tutto si sgretola e collassa, ma costituisce un momento importante e cruciale per la creazione di una visione di mondo nuovo e di una nuova cultura; da questo, infatti, si genera una nuova fase della storia del mondo antico e di quelle fondamenta statali che gravitano intorno all'Impero Romano: cioè Spätantike, l'epoca in cui l'unità prima culturale e poi politica dell'impero universale scomparve gradualmente e fu rimpiazzata, su fondamenta "tardo-antiche", da nuove strutture economiche e sociali.[3]

Il concetto di "decadenza", come ho già detto, ovviamente è comprensibile soltanto nell'ambito di una visione "classicista" del mondo antico; e, a sua volta, appre alquanto evidente che tale visione classicista dell'antico è una dei lasciti più logori ed imbarazzanti del razionalismo illuminista.[4] Questo però non è un sillogismo; nel corso di questo mio studio si vedrà, più di una volta, come il vincolo illuminista ha pesato potentemente in senso negativo sull'interpretazione del terso secolo. Non è stata sviluppata, per quanto ne so, una ricerca significativa sulle componenti illuministe della storiografia del XIX secolo e tardo XIX secolo in merito al mondo antico (includendoci dentro anche Meyer e Rostovtzeff agli inizi del XX secolo); tuttavia, potrebbe veramente produrre risultati interessanti e potrebbe chiarire molte di quelle interpretazioni storiografiche proposte dagli insegnanti della nostra scienza. Rostovtzeff, come è stato indicato acutamente,[5] è infine molto meno appartato da Gibbon di quanto ci faccia sospettare lo studio enormemente accresciuto in materia; e, per sua ammissione e vocazione esplicite; Syme, nonostante certe sofisticatezze nelle sue tecniche di ricerca, sembra molto più allineato coi Philosophes scetticamente razionalisti del diciassettesimo secolo che non con alcuni degli inquieti rappresentanti dell'attuale generazione di storici (da Vilar a Kula, a Hobsbawm, ecc.). Per un giudizio sul III secolo, questa prospettiva è stata determinante; a dir la verità, apparve come un'epoca di "decadenza" al confronto con l'ipotizzata e ipotetica perfezione dell'era repubblicana e dei primi due secoli dell'età imperiale, specialmente la mitica "età degli Antonini". Il risultato più consequenziale di questa prospettiva fu che, dopo la "crisi" del terzo secolo, il Medioevo sarebbe iniziato. Tale ful il caso, infatti, per quegli storici totalmente convinti della decadenza irrimediabile di quel secolo e dell'intero periodo che chiamarono Bas-Empire, il "Tardo Impero" (terminologia che risale a Du Cange e LeBeau, con enfasi peggiorativa su Bas).[6] Già nel 1927 F. Lot, illustre storico francese, forse uno dei migliori esperti di tale periodo per la parte gallico-germanica, intitolava il suo resoconto della storia del III secolo e la sua trattazione del periodo da Costantino a Giustiniano, La Fin du Monde Antique et le Début du Moyen Âge.[7]

Possiamo ora tentare di comprendere le difficoltà storiografiche incontrate dalla storiografia moderna nel trattare il terzo secolo, e le incertezze implicite di una sua corretta valutazione storica. Il III secolo è l'inizio di una decadenza ininterrotta, prolungatasi per secoli fino alla dissoluzione dell'Impero Romano (secondo Gibbon, che la fece protrarre fino alla caduta dell'impero bizantino, vero erede dell’imperium universale)? Oppure, rifiutando il concetto "antistorico" di decadenza (e quindi, e più giustamente, quello anacronistico e vuoto del Medioevo), il III secolo fu un periodo di "crisi", un periodo di transizione posto tra due epoche di relativa prosperità, quasi una maladie che nel corso di tale secolo l'Impero dovette affrontare, venendone fuori rigenerato ed rinforzato, per poi cadere nuovamente e definitivamente sotto i colpi dei barbari germanici?[8] E, inoltre, cambiando formula e finanche prospettiva: questa "crisi" del III secolo produsse un impero sostanzialmente immutato nelle sue strutture fondamentali – culturali e socioeconomiche – e nella sua natura essenziale, o segnò veramente la fine di un'epoca per il mondo antico e lo stabilimento, sulle ceneri del vecchio ordine, di un nuovo mondo, caratterizzato da peculiari strutture sociali, economiche e culturali?[9]

Dalla risposta a queste domande dipende in realtà l'interpretazione di questa epoca convulsiva di trasformazioni socioeconomiche e culturali, che convenzionalmente chiamiamo III secolo. In effetti, un problema di periodizzazione, come afferma giustamente K. F. Stroheker, è non solo un momento formale, estrinseco alla ricerca storica, ma costituisce anche e proprio la predicazione del problema.[10] In sostanza, qui abbiamo a che fare con una valutazione storica di un'epoca e delle sue peculiarità, per le quali viene distinta da tutte le altre e costituisce un'entità determinata e in qualche modo autonoma. Per ragioni che spiegherò, non posso accettare la teoria di coloro che credono che, arrivati al IV secolo e particolarmente a Costantino (o a volte persino a Diocleziano) il Medioevo occidentale sarebbe iniziato. La crescente critica del concetto "medievale", ed un'analisi ravvicinata dei "modi" e forme individuali tramite cui avvenne la transizione, in dati ambienti socioculturali, dall'unità dell’imperium romanum alle neoformazioni romano-barbariche,[11] ha fortemente limitato la validità di una tale formulazione — che, tra l'altro, ha goduto del favore dei curatori di una storia "universale" di standard eccellente come il Cambridge Ancient History. Tuttavia, bisogna sottolineare, infatti che Baynes (che fu l'ispiratore e coordinatore del Volume XII e del primo Volume del Cambridge Medieval History),[12] quando propose la formula Crisis and Recovery per l'ultimo volume del CAH, stava riconoscendo il fatto che l'interpretazione negativa, tutta "ombre" e incertezze, del Tardo Impero, non poteva, né doveva, essere più mantenuta; e che, come aveva già indicato nel suo breve ma importante libro del 1926 sulla HA e in altri saggi fondamentali,[13] l'interpretazione di Gibbon di una decadenza continua ininterrotta non poteva più essere sostenuta. Un tale ribaltamento decisivo della prospettiva gibboniana in quest'ultimo volume del CAH fu immediatamente percepito da J. Vogt, che in una recensione importante criticò l'appiattimento indebito della prospettiva storica e il senso di continuità troppo forte.[14] Vogt, sorpreso, osservò che nel volume curato e ispirato da Baynes "il concetto di decadenza era totalmente assente"; ed era vero: ciò che, paradossalmente, stava emergendo con vigore in questa ultima ramificazione dell'albero storiografico bourgeois-liberale, piantato da Lord Acton e J. B. Bury, era proprio la critica dell'idea meccanicistica illuminista della decadenza.[15] Come ad esorcizzare la Dekadenzidee – vecchio demone della storiografia europea – quel volume pubblicato durante i primi mesi di un anno denegatorio (1939), che avrebbe visto riapparire i fantasmi della distruzione e l'annientamento delle civiltà, includeva i risultati fondamentali della ricerca storica ottenuti nel ventennio tra le due Guerre Mondiali, sviluppato sotto l'egida di uno storicismo più o meno consapevole, che comunque lasciava poco spazio a dinterpretazioni storiografiche "negative" o "pessimiste".[16] Il volume includeva opere di Esslin e Alföldi, il primo autore indubbiamente miglior studioso delle strutture politiche e istituzionali del Tardo Impero Romano; il secondo che tendeva a rinnovare lo studio dei suoi aspetti culturali e della mentalità politica.[17] Inoltre, vi figuravano anche Burkitt e Lietzmann (e, dietro di loro, la forte presenza della Scuola Harnack)[18]; e Nock, con le sue proposizioni sulla Conversion (1933) e la sua erudizione profonda sulla complessa materia della religiosità pagana;[19] e J. Bidez (con influenze di Franz Cumont);[20] e Rodenwaldt (cioè, Riegl e la Scuola Viennese, ed il suo rinnovamento degli studi sull'arte romana della Tarda Antichità);[21] c'era anche Collingwood, in una parte comunque secondaria; c'era Oertel, con la sua dichiarata interpretazione "mickwitziana" della storia economica del III secolo.[22] In pratica, tutto stava a documentare, in un momento così contraddittorio per la scienza storica del mondo antico, la conquista dal di dentro di una conoscenza più completa e storicista del mondo spirituale di un'antichità in declino. Un'antichità che però possedeva, nonostante le sue afflizioni, grandezza e vitalità spirituale e che fu creativa tanto quanto qualsiasi altra epoca della storia mondiale, forse ancor di più.[23] Fu in grado di trasmettere le sue esperienze, non solo culturali e artistiche ma anche politiche e sociali ed economiche, ai secoli dominati dalle costellazioni politiche dei nuovi Regna barbarico-romane: secoli non più "oscuri", non ancora medievali, ma tardo-antichi — vale a dire, in cui il lascito politico, economico e sociale del mondo mediterraneonon era ancora scomparso, né la sua peculiare formazione politica con una sfondo preternazionale; in sintesi: l’imperium romanum.[24]

Tuttavia fu specialmente il riesame delle vicissitudini economiche da cui era emerso drammaticamente il Tardo Impero Romano, che impose una profonda revisione dell'attuale valutazione del terzo secolo. La scoperta di uno "stile" economico specifico della Tarda Antichità, contro le interpretazioni pessimiste di Lot, Rostovtzeff e Persson – e ancor prima da Meyer o M. Weber – comportò anche un'analisi più attenta delle fasi mediante le quali tale epoca era stata creata e delle sue forze concomitanti: proprio alla base delle "nuove" strutture dell'economia e società del tardo-romana stava quella perturbazione economica e sociale che gli storici, ancor troppo prevenuti dalle concezioni classiciste, avevano designato con espressioni tipo "decadenza" o "crisi". Nel 1926, quando Rostovtzeff espose la sua propria interpretazione della "crisi" imperiale, gli studi della storia monetaria dell'Impero Romano era ancora in una fase embrionica – o perlomeno, non erano ancora andati oltre la fase descrittiva; mancava ancora un'analisi in prodondità dell'inflazione del III secolo che, come oggi è assai evidente, poteva solo essere risolta con l'implementazione del sistema monetario di Costantino, connesso all'oro, al solidus aureo: la moneta più stabile di 4 grammata d'oro che avrebbe caratterizzato l'intera storia economica del mondo tardo-imperiale e "bizantino".[25] Com'era, questo tema del rapporto tra economia e sistema monetario nel Tardo Impero fu alla base del libro che indubbiamente segnò un punto decisivo nell'interpretazione dell'economia tardo-imperiale, il famoso Geld und Wirtschaft im römischen Reich des vierten Jahrhunderts di Gunnar Mickwitz (1932). In questo studio fondamentale, sebbene alquanto breve, – come anche in altre opere originali connesse a questo problema[26] – il giovane studioso finlandese, reagendo alle interpretazioni "deprimenti" presentate da Persson[27] e Rostovtzeff, insisteva sul fatto che l'economia privata del IV secolo era sempre fondata sullo scambio in moneta e che, in realtà il sistema monetario istituito da Diocleziano e stabilizzato da Costantino aveva tutti i requisiti per costituire un solido supporto alle strutture economiche e sociali del Tardo Impero. Contra Persson, che aveva interpretato le dinamiche economiche del IV secolo in termini della rioganizzazione di un'industria statale e la creazione di un sistema di economia dirigista che impediva la concorrenza (con la conseguente socializzazione dei prezzi di produzione e la relativa vittoria di un economia in natura) – modello in parte continuato dallo storico inglese F.W. Walbank in un libro di ispirazione marxista[28] – Mickwitz notò che non esisteva una documentazione sufficiente per comprovare un socialismo statale, una produzione di merce da parte delle fabbriche statali destinate al commercio privato; e che la base per gli scambi economici nell'economia privata del IV secolo era ancora fermamente radicata nel sistema monetario istituito da Costantino. In realtà, le dinamiche socioeconomiche del quarto secolo – e quelle del Tardo Impero – avrebbero dovuto essere analizzate in una chiave differente dalla dottrina perssoniana della vittoria del socialismo statale e la sparizione dell'impresa privata (e "la morte della coniatura" secondo l'economista Hayek).[29] Mickwitz riprese e sviluppò in tutte le sue implicazioni la nota tesi di M. Weber, secondo cui la politica finanziaria del Tardo Impero "...con gli aumentati bisogni finanziari, assunse sempre più un carattere di economia in natura ed il fisco divenne un oikos, che per le sue necessità si rivolse il meno possibile al mercato, rendendo difficile la formazione di patrimoni monetari con questo mezzo."[30] Mickwitz, tuttavia, preferì sottlineare un contrasto basilare tra l'economia naturale, a cui erano legati lo stato e la burocrazia militare – secondo la dottrina weberiana che "il fisco è un oikos – e l'economia monetaria, possibilmente favorita in generale dai contribuenti. Iniziando dalla premessa di una continuità dell'economia monetaria con sostanziali tendenze inflazionistiche finanche nel IV secolo, e nel Tardo Impero generalmente, lo studioso finlandese credeva che i pagamenti in natura fossero vantaggiosi alla burocrazia e all'esercito, mentre i pagamenti in moneta inflazionata fossero indubbiamente più accettabili e vantaggiosi per i contribuenti. Pertanto, partendo dal famoso brano della Vita Claudii in HA già "scoperto" da Baynes,[31] egli interpretò i testi legislativi sulla aderatio veramente nel senso che la burocrazia e l'esercito richiedevano pagamenti in natura e quindi forzavano costantemente il contribuente a pagare le sue tasse in natura; mentre quest'ultimo di certo avrebbe voluto disperatamente scambiare in contanti, contanti svalutati, quelle tasse richieste dallo stato come servizi in natura. Pertanto, in tale attrito di classe tra burocrazia statale, che cercava di imporre un'economia naturale che la beneficiasse, e i collatores (specialmente i possessores), generalmente favorevoli all'economia monetaria, si sarebbe sviluppata la dinamica socioeconomica del Tardo Impero. E nella vittoria dei contribuenti contro la burocrazia e l'esercito si riscontra la causa fondamentale, o perlomeno una delle cause fondamentali, della disintegrazione dell'organismo statale imperiale.[32]

Attraverso importanti ricerche sul significato del blocco sociale, S. Mazzarino ha approfondito e modificato l'interpretazione mickwitziana.[33] La prospettiva di studi più aggiornati ora si muove lungo linee che si allontanano dalla visione "neoliberale" di Mickwitz. Il quadro della società tardo imperiale, sebbene sicuramente brillante riguardo alla vita intellettuale e artistica, mostra toni più oscuri e zone d'ombra più depressive nell'area della vita economica e sociale. Tramite Mazzarino si riesce a capir meglio il significato del blocco sociale che, contrariamente all'opinione di Mickwitz, unì la burocrazia statale superiore con la grande aristocrazia dei possidenti contro le classi inferiori – le sole produttive – sotto l'egida di una civilitas che non era altro che la cultura e l'ideologia di una classe che desiderava mantenersi i propri privilegi, contro qualsiasi alleanza con gli oppressi e gli "incivili".[34] Ciononostante, la necessità mickwitziana di una "continuità" tra la storia sociale ed economica del III secolo e la storia del Tardo Impero rimane ferma in tutta la sua validità. Giustamente, tramite lo studio dell'inflazione monetaria del terzo secolo, e le conseguenze economiche e sociali che provocò, Mickwitz cercava le premesse dell'economia e società dell'epoca costantiniana e tardoimperiale. In questo senso, alla visione "catastrofica" della storia del III secolo venne sostituita una più cauta considerazione dei modi e delle forme con cui le strutture economiche e sociali dell'ordine stabilito da Augusto furono trasformate in quelle dell'ordine economico e sociale del Tardo Impero. Questa fu una trasformazione che escluse qualsiasi giudizio di valore e che sostenne, per le strutture politiche, sociali ed economiche della Spätantike la stessa validità, la stessa originalità già riconosciuta per le espressioni coeve dell'arte e cultura; e il III secolo in effetti apparve come il "metro di misura" per questa trasformazione ed una delle chiavi necessarie a facilitarne la comprensione.[35]

È alquanto significativo che, nella revisione dell'attuale opinione sul "Bas-Empire" e nel sostenere un'autonomia "strutturale" per questa ultima fase della staria del mondo antico, i medievalisti possano contribuire in maniera decisiva, in questo periodo entre-deux-guerres. Come notato precedentemente, una critica all'idea di decadenza coinvolgeva a sua volta la convinzione di una continuità, seppur relativa. Una volta che lo spettro di un tardo impero puramente decadente e negativo era stata dissipata, ed il ruolo e significato delle invasioni germaniche ridimensionato, si verificava allora la necessità di una valutazione di quanto fossero durate le strutture antiche, in che misura fossero modificate, e quali strutture nuove fossero state formate — si doveva valutare in altri termini la società della Spätantike, un concetto in questa prospettiva che prendeva corpo e sostanza. Storici illustri del XIX secolo sentirono particolarmente questa problematica, quando si chidevano se le istituzioni medievali potessero essere collegate all'antico edificio della civiltà classica e se i barbari avessero veramente portato agli esausti popoli latini qualcosa di originale e vitale. E se il figlio di Hegel aveva scelto l'originalità delle istituzioni medievali e attribuiva ai suoi avi tedeschi la creazione della nuova Europa Medievale,[36] Fustel de Coulanges, il rivale di Mommsen, nello studiare le antiche istituzioni politiche della Francia, considerò giusto affermare che le invasioni barbariche non avevano avuto effetti rimarchevoli e che le antiche istituzioni della sua patria erano dovute alla continuazione della civiltà romana.[37] Senza dubbio, in queste posizioni c'era uno sfondo di nazionalismo romantico; ma c'era anche uno prospettiva storiografica che abbandonava la facile tesi della "catastrofe" e permetteva l'articolazione della ricerca storica su una base di concretezza che sicuramente avrebbe dato risultati. Per lo studioso moderno, questa "questione di continuità" viene espressa specialmente nelle prospettive che emanano da due grandi studiosi dell'economia medievale, l'austriaco Alfons Dopsch ed il belga Henri Pirenne, e rispettivi discepoli nonché seguaci.[38] Si concentrano più che sulle divergenze di natura teorica e fattiva,[39] sul punto di convergenza:[40] secondo entrambi, le migrazioni barbariche avevano provocato discontinuità nell'economia e cultura del mondo occidentale; e come conseguenza, entrambi stavano "ritardando" la fine del mondo antico oltre i limiti cronologici tradizionali, fino all'età di Carlomagno, o almeno fino alle invasioni arabe (Pirenne). Con la massima consequenzialità, Dopsch sosteneva che nel complesso uno non dovesse parlare di una qualche frattura reale nell'evoluzione culturale ed economica dell'Europa antica, dall'età di Cesare a quella di Carlomagno ("Keine Kulturzäsur und keine Katastrophe").[41] I germanici, loro stessi custodi di una cultura antica, confrontandosi con la tarda cultura romana furono non meno ricettivi e docili di quanto i romani non fossero stati una volta nei confronti di quella ellenistica. Avvenne una sostanziale ridistribuzione di terre, ma le relazioni giuridiche di proprietà non cambiarono di molto; la vita continuò nelle città, che rimasero comunque i centri delle attività commerciali ed artigiane nonché centri amministrativi; non ci fu un ritorno all'economia naturale,[42] né ci fu un'interruzione delle grandi rotte commerciali; né cessò la diffusione delle idee (del patrimonio culturale). Continuità e non "catastrofe": "Pertanto, questo periodo che va dal V all'VIII secolo prende forma come l'elemento vero ed organico del collegamento tra Tarda Antichità ed età carolingia". Anche per Pirenne, che seguiva più da vicino i passi di Fustel de Coulanges, le invasioni germaniche non avevano dissolto l'antica struttura sociale greco-romana; non apparvero, nonostante gli sconvolgimenti politici, nuovi principi nel campo economico, o in quello sociale o culturale; al contrario, la frattura della tradizione antica avvenne a causa dell'improvviso ed inatteso assalto furioso degli arabi. La conseguenza fu la fine dell'unità mediterranea e la separazione tra Este e Ovest.

Il Mar Mediterraneo occidentale, essendo diventato un lago mussulmano, cessò d'essere una rotta commerciale ed una culla di idee; l'Occidente si ritirò su se stesso. Secondo questa prospettiva,[43] l'asse della vita civile si spostò per la prima volta dal Mediterraneo al Mare del Nord. Avvenne una regressione economica, che provocò la fine del regno merovingio e la nascita della dinastia carolingia, proveniente dal Nord. La Chiesa, unitasi al nuovo ordine, si separò dall'imperotore bizantino che, occupato ònella sua lotta contro l'Islam, non fu più in grado di proteggerla. A Roma, la Chiesa rimase la sola autorità: e molto più forte, in quanto lo stato merovingio, come conseguenza del suo declino economico, non sarebbe riuscito a conservare la sua struttura burocratico-amministrativa e sarebbe stata assorbita dal feudalesimo. Pertanto l'Europa, dominata dalla Chiesa e dal feudalesimo, iniziò ad assumere, nel secolo a cavallo tra il 650 e il 750, una nuova fisionomia, naturalmente con diverse sfumature nelle varie nazioni. Fu durante questo periodo transitorio che la tradizione antica venne a mancare e fu rimpiazzata dalla nuova: il processo fu concluso da Carlomagno, con la costituzione del nuovo impero, "che simbolicamente fu la risposta occidentale alla sfida dei seguaci di Maometto" (Momigliano): due mondi, due grandi personalità di storia mondiale, Mahomet et Charlemagne.

Comprensibilmente, questa problematica di "continuità" proposta da Dopsch e Pirenne trovò notevole consenso tra alcuni storici dell'antichità. Gli storici della cultura e arte tardo-romana erano già abituati a considerare questo periodo come una realtà unitaria; ora Spätantike veniva "affrontata" anche da storici dell'economia e delle strutture sociali. Poteva finanche risolvere certe difficoltà degli studi medievali tedeschi (vien da pensare alle ricerche di Aubin); risolveva anche le necessità di un nuovo approccio bizantino, abbandonando le vecchie posizioni "orientalistiche", care a Diehl ed a un particolare settore degli studiosi bizantini francesi (si dovrebbe invece pensare alla prospettiva di Baynes e, prima di lui, a H. Gelzer)[44] Inoltre, ripropose parzialmente i temi di un brillante studio di Alfred von Gutschmid,[45] un orientalista che aveva fortemente influenzato gli storici dell'antichità tedeschi e aveva esaminato problemi spesso al di fuori dei limiti del suo Fach. Già nel 1863, questo studioso aveva vigorosamente contestato la fatidica data 476 e.v. che effettivamente segnasse un qualcosa di definito nella storia del mondo antico e che dovesse essere collegata all'inizio di una nuova epoca. Nella società, solo la fondazione del dominio longobardo (568) avrebbe segnato per l'Italia una rottura con l'antico passato; e, per la parte rimanente dell'Occidente, la reale transizione dall'antichità al Medioevo sarebbe avvenuta solo alla fine del IV secolo, Per Bisanzio, allora, l'accessione al trono dell'imperatore "greco" Tiberio (578) e per il Vicino Oriente la conquista dell'impero persiano e dell'Egitto da parte degli arabi (nel 641, anno che segna anche la morte del grande imperatore bizantino Eraclio) avrebbe indicato la frattura con l'ordine antico. Dice Gutschmid: "... la linea tra Antichità e Medioevo, riguardo allo Stato, la Chiesa e la letteratura, non può esser posta prima degli ultimi trent'anni del VI secolo, e non dopo i primi trenta del VII secolo; non c'è dubbio che nell'Occidente questa trasformazione sarebbe avvenuta prima che in Oriente".[46]

Nell'ambito della prospettiva della storia universale coperta da Gutschmid, l'impossibilità di mantenere la datazione tradizionale coincise con l'affermazione vigorosa (quasi una "scoperta", per così dire) dell'unità sostanziale dell'area mediterranea come spazio storico e dell'intima correlazione tra i fenomeni che ne derivano; esattamente cento anni dopo, tuttavia senza ricordarsi troppo di lui, gli antiquari ed i medievalisti saranno indaffarati a dibattere la tesi di R. S. Lopez sulla storia "emisferica"![47] In effetti, quegli storici più sensibili ai bisogni teorici della loro disciplina e più aperti ad una visione "universale" del processo storico, compresero la fecondità delle proposizioni di Gutschmid. Lungo le sue linee si mosse lo storico della Chiesa K. Müller,[48] che infatti postulò l'età di Gregorio Magno per l'Occidente e, per l'Oriente, lo sviluppo delle chiese nazionali e la repulsione della chiesa greca imperiale in Asia Minore e nei Balcani (a seguito degli stanziamenti slavi e l'invasione araba) quale passaggio al Medioevo — anche qui una prospettiva di storia universale, sostenuta dal rinomato storico F. C. Baur.[49] Storici dell'antichità come K. J. Neuman[50] e Walter Otto (Kulturgeschichte des Altertums, Leipzig, 1925) accettarono apertamente questa datazione e la supportarono. I bizantinisti e storici del Tardo Impero l'adottarono e diffusero: Ernst Stein, in seguito accompagnato da G. J. Bratianu, in effetti delimitarono l'epoca tardo-romana – e correlativamente quella proto-bizantina (spätrömisch = frühbyzantinisch) contro la Bisanzio "Medievale" – con la morte dell'imperatore Eraclio, sebbene una morte prematura fermò il piano originale della sua storia prima che potesse raggiungere tale data.[51] Infatti Matthias Gelzer, ricordando l'esempio e la formulazione di Gutschmid, invitò gli storici del mondo antico ad abbandonare la loro prospettiva ed i loro pregiudizi classicisti, e ad impegnarsi nello studio di un periodo ingiustamente trascurato, quel "periodo omogeneo che abbraccia quattro lunghi secoli" – dal terzo secolo al regno di Eraclio, anche per Gelzer – che può sommariamente esser chiamato Spätantike:[52] un'"epoca bifronte", così la chiama Ernst Kornemann, studioso di vasti interessi storiografici, in un suo saggio interessante.[53] Aveva veramente assimilato la lezione di Gutschmid, e nelle sue ultime opere Kornemann la sviluppò collegandola ai nuovi sviluppi proposti da Pirenne. Le sue interpretazioni coprirono tre secoli e mezzo, dall'abdicazione di Diocleziano (305) alla morte di Eraclio (641); il punto di svolta sarebbe sicuramente iniziato dopo Giustiniano, ma "... già l'invasione araba dall'Est, la frattura dell'unità mediterranea che ne conseguì, e l'ascesa carolingia all'impero franco, avevano segnato l'inizio di una nuova epoca storica". L'eco di Pirenne è evidente, finanche nella sua formulazione; e su una prospettiva pirenniana si basa la sua opera postuma Weltgeschichte des Mittelmeeraumes (II, 1948), centrata sull'unità del processo storico e di uno spazio culturale mediterraneo (con Costantinopoli nel mezzo) durante i quattro secoli di Spätantike.

Prospettiva di "catastrofe", prospettiva di "continuità"...
In realtà, il problema del III secolo è nel fatto che costituisce un'epoca di trasformazione irriversibile per la società imperiale romana, per i suoi valori spirituali, le sue fondamenta etico-politiche, le sue strutture socio-economiche. Questa trasformazione è ovviamente discernibile più immediatamente ad un livello suvrastrutturale, a "a breve termine" — e, come notato, gli studenti della cultura antica furono proprio i primi a reagire alla "prospettiva della decadenza". Diventa però più difficile da capire a livello strutturale, diciamo a "lungo termine". Non ci sono catastrofi pure nella storia, proprio come non ci sono stalli puri; ma ci sono anche periodi in cui il processo normale di trasformazione viene accelerato, in cui "le forze materiali produttive della società entrano in conflitto con i rapporti di produzione esistenti, cioè, con quei rapporti di proprietà nel cui ambito tali forze si sono mosse precedentemente".[54] Allora entrano in "crisi", vale a dire, certi "valori" spirituali su cui si basa l'organizzazione ideologica di quella società, sono messi da parte e rifiutati; e ne sopraggiungono dei nuovi. Inizia quindi un'"epoca di rivoluzione sociale": una società si destruttura, per poi ristrutturarsi secondo nuovi rapporti di produzione e secondo i nuovi "valori", secondo la sovrastruttura ideologica rigeneratasi su questi nuovi rapporti. Umwälzung aller Werte; che, a seconda da quale prospettiva uno guardi, può anche essere considerata "rivoluzione", sebbene non accompagnata da una violenta presa di potere (nell'ambito della prospettiva "progressiva" di coloro che desiderano cambiare l'organizzazione della vecchia società). Una volta che i nuovi elementi sono ristrutturati, allora ne consegue una nuova "epoca", con la sua fisionomia peculiare. Tuttavia, questa nuova epoca, come in ogni momento di realtà storica, opporrà dentro di sé, più o meno visibilmente, il vecchio ed il nuovo.

In effetti, il vecchio ed il nuovo si contrasteranno in modo macroscopico durante epoche di destrutturazione, durante le fasi iniziali di un'epoca di rivoluzione sociale; il nuovo che si manifesta in ambiti sovrastrutturali, nell'area ideologica, mentre il vecchio che affiora nella resistenza di strutture organizzate ed inveterate, sebbene in disfacimento — quest'ultimo comunque capace di opporre una resistenza disperata alle nuove forze sociali che propongono nuove strutture a rimpiazzarlo. La lotta può durare a lungo; e, se non c'è una presa di potere da parte delle forze rivoluzionarie, ed il rimpiazzo dell'apparato giuridico-istituzionale entro la struttura di potere statale, allora questa lotta pervaderà le strutture a vasto livello ideologico, più che a livello politico o culturale. Quelle classi che detengono il potere, potrebbero mentenerselo e vincere quindi il primo round di cambiamento istituzionale; ma ciò, comunque, sarebbe temporaneo e non una vittoria definitiva di un ordine sociale che deve fare i conti con le forze rivoluzionarie e deve adattarsi, assorbendone l'impatto, a tali forze — che siano funzionali o oppisitive. L'ordine sociale in ogni caso sarebbe trasformato, spesso ed inizialmente in modo periferico, ma a lungo termine in modo decisivo.

Le tensioni sociali, tuttavia, continueranno clandestinamente, crescendo in forza e più disintegrative dove meno sentite o meno propagate ideologicamente. Il divario tra le varie classi aumenterà, e non guarderanno alla struttura statale come potere capace di mediare i loro interessi ed agire a beneficio della collettività; la classe dirigente e la classe sfruttata comunicheranno solo nella misura in cui la prima necessita della seconda; e lo stato, per quest'ultima, sarà rappresentato dall'oppressione della prima, un'oppressione da cui cercherà di sfuggire o per reazione o per inazione. Lo stato sopravviverà mentre prevaglono le forze coesive su queste tendenze centrifughe; ma, a lungo termine, il processo si concluderà nella dissoluzione dell'organismo statale in formazioni autonome, o nell'arrendersi a forze esterne. In quest'ultimo caso, tali forze otterranno una vittoria molto semplificata, in quanto possono trarne profitto da tali tendenze centrifughe.

Concretamente, nell'ambito della struttura di tale fenomenologia uno può includere le dinamiche socio-economiche di Spätantike e la dissoluzione politica dell'Impero Romano Occidentale.[55] Che la Tarda Antichità sia un'epoca di "rimarchevole" mobilità sociale, come crede A. H. M. Jones,[56] e la legislazione "coercitiva" degli imperatori interpretata come un tentativo di ostacolarla,[57] o che sia tout court un'"epoca di rivoluzione sociale" come sostiene W. Seyfarth,[58] ciononostante è un'epoca in cui le forze centrifughe e le tensioni sociali – più forti in quanto più represse – riuscirono in primo luogo a opporre le classi sfruttate alla classe dirigente, culture "nazionali" a quelle "classiche", religioni salvifiche – e il cristianesimo soprattutto – al politeismo "politico" della religiosità greco-romana e la religione imperiale ufficiale; e, in secondo luogo, riuscirono a dissolvere l'organismo statale dell'Impero consegnando un cadavere ai "barbari". Bisogna enfatizzare che ciò non fu un processo "naturale", un processo "predeterminato" da chissaà quale Provvidenza immanente o trascendentale; al contrario, è tutto alquanto verificabile, senza riserve, su un piano storico. Il compito dello studioso nell'analizzare questa "morte", questa "fine", sta nel chiarire e stabilire le precise responsabilità delle classi in lotta e le rispettive ideologie antagoniste. Prima di tutto, iniziò a frantumarsi il guscio della cultura "classica" greco-romana, e la sua struttura di supporto, le città e l'economia cittadina (o piuttosto, l'egemonia della città sulla campagna rurale). Questa fu la fase iniziale di quel processo che portò alla Spätantike: e questo è, credo, il significato storico del III secolo, di questa "epoca bifronte", che guarda due mondi, il mondo classico e quello Tardo Antico. Un'epoca di rottura, quindi, che inizia la Spätantike e pertanto ha tutte le contraddizioni e ambiguità delle epoche transizionali, epoche di trasformazione — qui la forma classica svanisce e l'antichità rimane in strutture pseudomorfiche. G. Rodenwaldt, quando affermò che "spirito e forma della Tarda Antichità sono rimaste antiche, piuttosto che classiche"[59] era certamente nel giusto, a parte la sua proposta datazione; tuttavia, il compito che spetta allo storico del terzo secolo, se desidera comprenderne la sua storia "reale", è quello di investigare e determinare il momento in cui avvenne la frattura di Geist e Gestalt classici, i modi in cui avvenne e, specialmente, le forze che vi agirono.

La trasformazione è evidente in tutti i settori della vita culturale. I profondi cambiamenti dei valori stabiliti affiorano nel comportamento religioso e filosofico, nella produzione letteraria, nell'espressione artistica. La natura di questa trasformazione deve essere chiarita. Alcuni studiosi l'hanno vista come risultato di un'evoluzione lineare di vita spirituale nel mondo classico; altri, tuttavia, hanno preferito applicare il deus ex machina dell'antica (tardo-antica) spiritualità, l'"orientalizzazione". In realtà, anche se nella ricerca concreta uno possa anche muoversi lungo queste linee interpretative, d'altra parte è nel "riorientamento" sostanziale del quadro culturale, nel capovolgimento del sistema di riferimenti ideologici del III secolo, che uno deve valutare la natura e le implicazioni di tale trasformazione.

Alcuni esempi possono aiutarci ad illustrare sommariamente ciò che ho appena esposto. Da un punto di vista intelligentemente freudiano, E. R. Dodds ha indicato come le agitazioni religiose e spirituali che attraversarono quell’Età dell’Ansia che fu il periodo da Marco Aurelio a Costantino, furono risolti proprio dal cambiamento di prospettiva mentale, mell'affermazione di nuove relazioni col mondo materiale e con quello soprannaturale: vale a dire, infine, nella ridefinizione del ruolo dell'uomo rispetto alla sua esperienza sia sensoriale che spirituale. Era veramente nato l’Homo Novus, come richiedevano quei testi filosofici mistici comunemente raggruppati nel cosiddetto Corpus Hermeticum e che certamente rappresentava una delle manifestazioni più strane della spiritualità del III secolo?[60] In effetti, era nato un uomo tardo-antico, per il quale la relazione col mondo era differente da quella dell'uomo classico; un tipo d'uomo la cui esperienza spirituale costituirà la base della cultura medievale. Il razionalismo glorioso classico greco-romano, in cui veniva mantenuta l'alterità soggetto/oggetto e in cui il soggetto tentava un'appropriazione "razionale" dell'oggetto, lasciò il posto al misticismo, che permea ogni esperienza spirituale di questa nuova epoca del mondo antico. Dodds giustamente osserva, "... se accettiamo come ‘mistico’ in senso lato qualsiasi tentativo di costruire un ponte psicologico tra uomo e Divinità, allora si può dire che il misticismo sia endemico in quasi tutto il pensiero religioso del periodo, crescendo in forza da Marco Aurelio a Plotino e da Giustino a Origene".[61] Possiamo spiegare tutto ciò con la formula di Festugiére, che "miseria e misticismo sono fatti correlati"?[62] E meccanicamente derivare tale complesso comportamento spirituale – che presuppone una nuova visione del mndo e del ruolo assegnatovi all'individuo[63] – dalle difficoltà materiali, dalle guerre e dall'inflazione del III secolo? O bisogna vederci il prodotto di "una nevrosi endogena, un indice di senso di colpevolezza intenso e dilagante..."[64] (spiegazione questa che a sua volta dovrebbe essere spiegata, in quanto si devono determinare le cause della nevrosi "endogena" e le origini del "senso di colpevolezza dilagante").[65]

Credo tuttavia che le cause del ribaltamento della struttura ideologica della società classica e le origini della nuova spiritualità si debbano identificare nelle tensioni interne della società imperiale, nelle disarmonie strutturali latenti, anche durante l'"età d'oro" degli Antonini, nelle reazioni che questa società repressa e repressiva,[66] stabilita da Augusto e alzatasi al suo apice evolutivo nel II secolo, risvegliò nelle coscienze più tormentate e instabili dei suoi membri; deve inoltre essere identificata nella lenta trasformazione sotterranea di certe strutture socio-economiche (per esempio: la modificazione delle relazioni tra produzioni agrarie, ed il nuovo rapporto tra città e campagna; l'emergere di nuove strutture municipali, con la relativa assunzione di numerosi uffici da parte della curia municipale; la creazione ed imposizione forzata del sistema liturgico).

È stato osservato che la Romanza rappresenta la forma letteraria peculiare del III secolo.[67] In essa si esemplifica la disintegrazione della forma artistica classica. La Romanza, in effetti, non venne mai inclusa nella stilistica classica tra i generi letterari, e quindi mai vincolata dalle leggi che li regolavano: non è mai condizionata dalle unità aristoteliche di tempo, luogo, azione, né da una rigida selezione linguistica come quella dell'epica o lirica classiche. La Romanza, al contrario della forma "chiusa" di altri generi letterari classici – come l'epica o la tragedia – non è soggetta a norme generali: è una forma "aperta" (Lukács), che trova la propria forma in sé, parimenti la sua lingua, la sua unità e la sua struttura. In un saggio rinomato, Franz Altheim associa romanza e decadenza; la predominanza della prima nella vita letteraria del III secolo, dovrebbe essere l'indizio di una decadenza formale.[68] Io preferisco non parlare di decadenza, termine che ritengo ambiguo; piuttosto, preferirei sottolineare, seguendo Lucien Goldmann, le omologie tra la struttura della Romanza classica, e il Weltanschauung basilare della società del terzo secolo. Queste omologie possono veramente chiarire il significato ed il ruolo della Romanza quale struttura dinamica significativa (sempre nel senso goldmanniano)[69] per la trasformazione spirituale che segnò la disintegrazione della forma artistica classica ed il passaggio alla visione estetica Spätantike. La forma "aperta" di romanza, e la destrutturazione della società urbana, nel III secolo, sono infine aspetti della stessa "realtà storica"; proprio come le "avventure" dei protagonisti nelle romanze tardo-antiche con scenari di una società ostile, "straniera" e "disgregata" traducono in un qualche modo le pressioni e reazioni delle varie classi sociali coinvolte in questa destrutturazione.[70] Se la Romanza, come suggerì Lukács, è la storia di una ricerca "degradata" ("demoniaca", secondo il filosofo ungherese), di una ricerca di valori "autentici" in un mondo anch'esso degradato, ciò può essere ancor più valido per la difficile situazione dell'epoca in questione, per questo inizio di Spätantike in cui la ricerca di nuovi valori si incontra con la critica e l'abbandono dei valori antichi, e col tentativo ansioso di creane di nuovi, nell'ambito del sistema di una nuova spiritualità. In questo senso, la Romanza, più che un'espressione di decadenza, potrebbe essere paradossalmnete chiamata l'espressione di una rivoluzione; o, almeno, la struttura ideologica di una data società. Tuttavia in questo senso, come per la romanza moderna, anche la romanza antica accompagna e commenta l'ascensione e gli atti di nuove classi sociali e di una nuova società.[71]

In effetti, nel III secolo – nei decenni cha vanno dall'arrivo di Commodo alla Tetrarchia – avvenne la "dissociazione della koinè artistica ellenistico-romana"[72] (R. Bianchi Bandinelli) e la nascita della forma artistica Tardo-Antica. B. Schweitzer scrisse delle pagine interessanti dedicate a questo evento, in cui le fondamenta tardo-antiche furone gettate per l'arte medievale e l'arte antica fece una svolta irreversibile verso il Medioevo: "un evento di importanza universale" (B. Schweitzer).[73] Lo smantellamento del mondo classico figurativo, l'abbandono del naturalismo a favore di una forma simbolica e di un'espressione spirituale al di là di una qualsiasi misura e norma classiche, sono il risultato di una tensione implicita nel "carattere dualistico" dell'arte tardo-antica. Questo è il processo della trasformazione spirituale del mondo classico, nell'ambito della sfera artistica, e dell'istituzione del nuovo ordine mondiale aclassico futuro e delle immagini che rappresenteranno una delle principali strutture del sistema ideologico Spätantike.

Parallela alla destrutturazione della società urbana ellenistico-romana e la sua egemonia ideologica, si verifica la distruzione della forma artistica "classica": e ovunque appaia la nuova arte, così affiorano anche dissoluzione e dispersione. La figura umana, questa creazione di una visione artistica di società "borghese" della Grecia del V secolo[74] – ed il suo patrimonio di immagini plastiche – si disintegra e sparisce, perde la sua funzione figurativa, mentre avanza l'espressività facciale, la spiritualità che l'artista ottiene nella sua trasposizione; ai suoi limiti, diventa l'espressione di un simbolo del carisma di cui l'individuo è solo portatore. La figura organica si disintegra: ed è "come se nello spazio liberato dalle energie corporee èe plastiche, si stabilisca il dominio dell'invisibile".[75] L'unità di corpo e anima, come era realizzato dal sistematismo dell'"individuo classico", viene annullato:[76] il linguaggio dell'anima si stacca dai gesti plastici del corpo. La contrapposizione del corpo all'anima, questo aspetto dualistico dell'arte e della spiritualità tardo-antiche, annulla l'individuo e lo proietta nella trascendenza; si afferma la dichotomia tra il mondo corporeo di questa vita e il mondo spirituale al suo al di là. E, mentre l'uomo classico si disintegra – questo meraviglioso synolus di anima e corpo creato dalla filosofia greca – si dissolve anche la spazialità unitaria di quello splendido naturalismo con cui i dipinti ellenistico-romani avevano trasfigurato la realtà per tanto tempo: l'arte Spätantike tenta l'incorporeo, la spiritualità; vive per il simbolo, per il trascendentale. Frontalità, stilizzazione, allegoria, trasfigurazione, visione "carismatica"; tutte espressioni della rivoluzione artistica della Tarda Antichità, della scomparsa della visione classica e della spiritualizzazione della nuova visione artistica.

In un libro interessante, H. P. L'Orange ha tentato di dimostrare come la disintegrazione della società durante il terzo secolo e l'istituzione del nuovo ordine, come la Tetrarchia di Diocleziano, furono accompagnate da una concomitante disintegrazione e riorganizzazione del mondo artistico; nel percorso che portò alla Spätantike, le forme artistiche e la vita civile, secondo lo studioso norvegese, si sarebbero sviluppate in parallelo: massiccia semplificazione e cristallizzazione meccanica sarebbero stati i due aspetti fondamentali delle modificazioni strutturali occorse nella transizione da Principato a Dominato.[77] tale tesi presenta senza dubbio alcuni aspetti evocativi; ma alla fine propone una corrispondenza troppo diretta e meccanica (appunto) entro aspetti di un processo che sicuramente si dovette sviluppare in una maniera complessa e contraddittoria. Come risultato del suo approccio unidimensionale, esclude l'intervento di qualsiasi fattore esterno, "orientale", nella genesi della visione artistica tardo-antica, considerandolo quale risultato di una profonda evoluzione logica dello stesso mondo artistico. Il famoso dilemma di Stryzgowski, Orient oder Rom,[78] non poteva aver avuto una risposta più chiara e decisa di questo breve libro di uno studioso della generazione post-rodenwaldtiana.

Il problema puramente teorico della trasformazione della visione artistica classica non deve indurre a sottovalutare i fattori sociali che vi agirono. Spesso, che sia per una trasformazione attribuita principalmente all'azione di fattori allogeni (influenze orientali), o per un processo interno di causazione, uno viene indotto quasi inavvertitamente a tralasciare questo aspetto sociale di un processo che ovviamente presenta un carattere globale. In effetti, sebbene non sempre definibile con esattezza – e soprattutto non in un rapporto causa/effetto – le trasformazioni sovrastrutturali implicano sempre un cambiamento nelle strutture socio-economiche. Tramite una souplesse spesso non incontrata in molti archeologi, l'italiano Bianchi Bandinelli, studioso particolarmente attento e sensibile dell'arte antica e delle sue dialettiche di struttura e sovrastruttura, ha sottolineato l'azione di due fattori in tale cambiamento di visione artistica classica: il primo in relazione alla prevalenza della corrente "plebea" dell'arte romana; il secondo, in relazione alle influenze ideologiche della derivazione orientale, principalmente attive nel concetto di sovranità e, di conseguenza dell'immagine dell'imperatore.[79] Di certo, nella costituzione dell'ideologia "carismatica" della sovranità tardo-antica, dell'imperatore del Dominato, certe influenze e concetti orientali ebbero un ruolo; ma ciò consistette principalmente nella sussunzione di elementi ideologici secondo il maturare di un problema formale nell'ambito dell'arte romana, e parallelo al consolidamento di un concetto ideologico. Vale a dire, l'accettazione di un'ideologia non porta necessariamente – afferma Bianchi Bandinelli – all'assorbimento di forme plastiche, in questo caso l'arte parthiana o sassanide. Esiste una distinzione precisa tra iconografia e stile, che in problemi di questo genere deve sempre essere tenuta in mente:[80] La prima si riferisce ad un elemento esterno all'arte, collegato ad un'ideologia o ad una clssifica o, semplicemente, ad una tradizione di laboratorio; il secondo, tuttavia, è effettivamente una manifestazione di creazione artistica. Tuttavia, un'iconografia, una volta accettata – per motivi ideologici – può trovare la sua espressione in "stili" differenti. Pertanto, nell'ambito della sfera artistica di scultura e pittura, fino all'epoca costantiniana, l'arte romana non prende da nessuna forma plastica specificamente orientale, mentre alcuni motivi iconografici (la posizione frontale del monarca, cfr. monete illustrate nei miei Capp. II-III) sono affermati secondo l'acquisizione di certe ideologie generate da questo ambiente.[81]

Infatti, in questa dissolvenza di forme classiche e nella costituzione della forma tardo-antica, è specialmente il primo elemento, la corrente "plebea", che gioca un ruolo estremamente significativo. Quest'ultimo ha coabitato, per così dire, con l'arte ufficiale dei circoli senatoriali e poi della corte imperiale, durante tutto il corso delle età repubblicana ed imperiale. Coloro che ne godettero e l'appropriarono furono i magitrati provinciali, la nobiltà provinciale, i militari, i liberti: in sostanza, la "borghesia" o gli strati plebei della società romana. Differisce dall'arte "ufficiale" di Roma, dall'"arte romana nel centro del potere"[82] (per usare una formula che dà titolo ad una delle ultime opere fondamentali di Bandinelli). Fiorisce con questa tendenza la cosiddetta "arte provinciale"; l'arte dell'Occidente romanizzato. Vive le sue esperienze artistiche autonome, ha i suoi schemi formali che differiscono da quelli creati dalla società greca del V secolo p.e.v. e accettati dalle classi superiori del mondo ellenistico, e dalla società romana — che ne aveva vinto la guida. In tale arte vivono, totalmente funzionali, formule e schemi formali che verranno di nuovo incontrati nell'arte tardo-antica: ricorre alla frontalità in modo da enfatizzare il personaggio celebrato; alterando le proporzioni naturali in modo da ottenere proporzioni pressappoco simboliche, pertinenti a concetti vincolati dalla corrente chiarezza della narrativa, abolendo l'illusionismo della prospettiva. Questa forma d'arte tende verso la chiarezza: è didattica, quindi simbolica; è irrazionalista, nella misura in cui esprime i sentimenti e le emozioni delle masse popolari che non hanno ottenuto la paideia classica, fondata su valori "razionali", e su quella prospettiva "razionale" (Schweitzer)[83] che ne traduce la sua visione spaziale. È polimorfica, nella misura in cui esprime le vedute artistiche di quelle culture che stanno iniziando ad acquisire – o a recuperare – il loro particolare linguaggio artistico, in concorrenza con l'arte "ufficiale" delle classi dirigenti. È anche "democratica", proprio perché, mediante essa, l’ethne (le demokratiai citate da Ippolito di Roma)[84] riescono a liberarsi dalla egemonia culturale della paideia — divennero per così dire "decolonizzati": uniti per forza dall’imperium romanum, ora riuscivano a recuperare e rielaborare il tessuto delle loro culture nazionali.[85]

Note[modifica]

  1. A. Riegl, Spätrömische Kunstindustrie, Vienna, 1901. Sulla cosiddetta "Scuola viennese" si vedano: G.V. Schlosser, La storia dell'arte nelle esperienze e nei ricordi di un cultore, trad. ital., Bari, 1936; R. Bianchi Bandinelli, Archeologia e cultura, Milano-Napoli, 1961, pp. 189segg. (sulla crisi artistica alla fine del mondo antico); pp. 234segg. (su Wickhoff e l'arte romana). per un esame del concetto di "Kunstwollen", cfr. E. Panofsky, La prospettiva come forma simbolica, trad. ital., Milano, 1961, pp. 157segg.; D. Ainalov, Ellinisticheskie osnovy visantiiskogo iskusstva (trad. ingl. E.S. Sobolevitch, The Hellenistic Origins of Byzantine Art, New Jersey, 1961).
  2. Sulle varie posizioni degli storici riguardo alla filosofia antica, cfr. The Cambridge History of Later Greek and Early Mediaeval Philosophy, cur. A.M. Armstrong, Cambridge, 1967; W. Theiler, Forschungen zum Neuplatonismus (Quellen u. Stud. z. Gech. d. Philos., 10, Berlino, 1966; S. Sambursky, The Physical World of Late Antiquity, Londra, 1971;spec. Cap. II, pp. 49-114. Sui nuovi approcci alla religiosità del III secolo, cfr. E.R. Dodds, Pagan and Christian in an Age of Anxiety, Cambridge, 1965; W.H.C. Frend, Martyrdom and Persecution in the Early Church, Oxford, 1995; P. Brown, The Making of Late Antiquity, Cambridge, 1978; A. Momigliano (cur.), The Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, Oxford, 1963.
  3. S. Mazzarino, La democratizzazione della cultura del Basso Impero, pp. 35segg.; F.G. Maier, Die Verwandlung d. Mittelmeerwelt, pp. 9segg.; 15segg.; 398. Sulle svariate interpretazioni di Spätantike, cfr. Lynn White, The Transformation of the Roman World, pp. 179; 204; 248; 301; W.C. Bark, Origins of the Medieval World, Stanford, 1958; C.D. Burns, The First Europe (400-800), Londra, 1936; A.H.M. Jones, The Later Roman Empire, Oxford, 1964; S. Katz, The Decline of Rome and the Rise of Medieval Europe, Ithaca, 1995; H.St.L.B. Moss, The Birth of the Middle Ages, Londra, 1945; J. Vogt, Der Niedergang Roms, Zurigo, 1975; J.M. Wallace-Hadrill, The Barbarian West, 400-1000 AD, Londra, 19774.
  4. P. Gay, The Enlightenment: An Interpretation. The Rise of Modern Paganism, New York, 1967, passim; P. Brown, The World of Late Antiquity, pp. 70-81.
  5. A. Momigliano, op. cit., p. 9; "Aspetti di Michele Rostovtzeff", su Contributo, III, p. 333.
  6. Su questo tema cfr. P. Gay, op. cit., spec. la parte "The Appeal to Antiquity. The Useful and the Beloved Past". Si veda anche M. Gigante, Introduzione alla filologia bizantina, Napoli, 1956, pp. 13segg.
  7. F. Lot, La Fin du Monde Antique et le Début du Moyen Âge, Parigi, 1951. Successivamente troviamo autori che intitolano le proprie opere con The Decline of Rome (A.M.H. Jones; J. Vogt, 1966), oppure Corruption and the Decline of Rome (R. MacMullen, 1988).
  8. A. Piganiol, L’Empire Chrétien, 1947, p. 422. Tuttavia, si veda anche la sua spiegazione "economica" nel suo successivo Historie de Rome, Parigi, 19622, p. 522, in cui la rigidità della prima tesi viene molto ridotta: "Penso che la causa essenziale [della caduta di Roma] fosse lo spostamento dell'asse commerciale. Agli inizi, la ricchezza era concentrata intorno al Mediterraneo. Ma ora l'attività viene trasferita all'asse Reno-Danubio, lungo il quale nascono gli stati metà romani e metà barbari, ai confini tra Germania e Romania". Implicito è che la causa di tale spostamento sarebbe stata la necessità di evitare le minacce degli "assassini" barbari.
  9. Si veda infine F. G. Maier, Die Verwandlung, pp. 7segg.; 9
  10. K.F. Stroheker, "Um die Grenze zwischen Antike und abendländischen Mittelalter", Saeculum, 1950, pp. 433-465, aggiornato in Germanentum und Spätantike, Zürich-Stuttgart, 1965, pp. 275-308 (studio fondamentale, ma molto difficile da capire nella versione originale tedesca). Si veda anche A.F. Harvighurst, The Pirenne Thesis. Analysis, Criticism and Revision, Boston, 1958; Lynn White (cur.), The Trasformation of the Roman World, Berkeley, 1966. Sulla "periodizzazione" cfr. A. Dopsch, Wirtschaftliche und soziale Grundlagen der europäischen Kulturenwicklung, II ediz., Vienna, 1923-24.
  11. Cfr. per es. la prospettiva "aperta" di Hermann Aubin, Vom Altertum zum Mittelalter, München, 1949 (e la sua scuola).
  12. Cfr. Epilogue del Vol. XII, p. 705.
  13. Cfr. specialmente The Hellenistic Civilisation and East Rome, Oxford, 1945; The Byzantine State, Cambridge, 1935; "Some Aspects of Byzantine Civilisation", JRS, 1930; "The decline of the Roman Power in Western Europe: some modern explanations", JRS, 1943, ora raccolti in Byzantine Studies and Other Essays, Londra, 1955.
  14. J. Vogt, HZ, 161, 1940, p. 565.
  15. Cfr. il famoso Inaugural (1895)di Lord Acton, in Modern History, Londra, 1906, ed un altro Inaugural (1903) di J.B. Bury, The Science of History (ora in Selected Essays of J.B. Bury, cur. H. Temperley, 1930, rist. Hakkert, 1964), pp. 3segg.
  16. Cfr. l'influenza di Mainecke sugli storici tedeschi in P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Milano, 1956, pp. 473segg. Su Febvre e Bloch, e la Scuola "Annales" si dovrebbero consultare direttamente le loro opere; tuttavia, si veda H.D. Mann, "Lucien Febvre, La pensée vivante d'un historien", Cah. des Ann., 31, Parigi, 1971. Sulle idee storiografiche di Piganiol, cfr. "Qu’est-ce l'historie", Rev. de Metaph. et Mor., 1955, p. 228segg.; si veda anche S. Mazzarino, "Hommage à A. Piganiol" in Allocutions pronuncées le 18 juin 1966 au Collège de France, pp. 13-17. Sulla storiografia inglese, si veda l'articolo polemico di G.S. Jones, "The Pathology of En glish History", New Left Rev.. n. 46, 1975.
  17. Si veda spec. A. Alföldi, A Conflict of Ideas in the Later Roman Empire, Oxford, 1952, e anche i suoi Studien z. Geschichte der Weltkrise des 3. Jahrh. nach Christus, Darmstadt, 1967 (raccolta di opere sul III secolo).
  18. Sulle relazioni tra Lietzmann, Harnack e Holl, si veda K. Aland, "Aus der Blütezeit d. Kirchenhistorie in Berlin. Die Korrespondenz A. von harnacks und K. Holls mit H. Leitzmann", Saeculum, 1970, pp. 235-271.
  19. Cfr. anche la sua pubblicazione, insieme a Festugière, del Corpus Hermeticum.Per una valutazione globale dell’opus di Nock, cfr. il necrologio di E.R. Dodds e H. Chadwick, JRS, 1963, pp. 168segg.
  20. Sull'importanza degli studi della storia delle religioni riguardo alla prospettiva Spätantike, cfr. S. D'Elia, Il Basso Impero nella cultura moderna, pp. 373segg.
  21. Cfr. supra n.1 e anche "The Transition to the Late-Cloassical Art", CAH, 1939, pp. 544-570.
  22. CAH, XII, pp. 232segg. (anche pp. 279 e 402-403; Ensslin). L'accettazione delle teorie di Mickwitz anche di M. Gelzer, BZ, 1933, p. 387; Kiessling, Gnomon, 1939, p. 372; ecc. Parimenti, ma con interessanti limitazioni, A. Bernardi, "The Economic problems of the Roman Empire at the time of its decline", SDHI, 1965, pp. 110-170; L. Cracco-Ruggini, Economia e Società nell'Italia Annonaria, Milano, 1962.
  23. Cfr. l'ipotesi di Jaeger nel suo "Humanism and Theology", Humanistische Reden u. Vorträge, Berlino, 1960, pp. 308-9. Si veda anche S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV Secolo, Bari, 1951, pp. 10segg.
  24. Si veda S. Mazzarino, Il Pensiero storico classico. Cfr. anche F.G. maier, Il mondo mediterraneo tra l'Antichità e il Medioevo, pp. 14segg.
  25. Cfr. S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV secolo, pp. 107segg.; L’impero romano, Bari, pp. 666segg., 694.
  26. Die Systeme des röm. Silbergeldes im IV Jhdt. n. Ch., Helsingfors, 1933; ecc.
  27. A.W. Persson, "Staat u. Manifaktur im röm. Reiche", Skrifter utgivan av Vetenskaps-Societaten I Lund, 3, 1923.
  28. F.W. Walbank, The Decline of the Roman Empire in the West, Londra, 1946, successivamente ripubblicato ed ampliato in The Awful Revolution. The Decline of the Roman Empire in the West, Liverpool Univ. Press, 1969. Walbank, riguardo al sistema politico-amministrativo della Tarda Antichità, non esita ad usare, e giustamente, termini come "stato corporativo", "stato autoritario" (e nella prima ediz., persino "fascismo").
  29. Sul pensiero economico di Von Hayek, è sufficiente consultare i suoi scritti in Collectivist Economic Planning, Londra, 1935.
  30. M. Weber, Die soz. Gründe, p. 304.
  31. HA, Cl., XIV, 14 (nella famosa lettera di Valerianus a Zosimio proc. Siriae, XIV, 2). Cfr. N.H. Baynes HA. Its Date and Its Purp. (e JRS, 1929, pp. 229segg., anche in Byzantine Studies and Other Essays, cit., pp. 307segg.). G. Mickwitz, Geld. u. Wirtschaft, pp. 167-168; per una critica a Mickwitz, cfr. partic. S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV secolo, cit. pp. 57-71.
  32. G. Mickwitz, Geld. u. Wirtschaft cit., p. 191.
  33. S. Mazzarino, Aspetti sociali, cit., 1951 (partic. pp. 137-217); L’impero romano, cit., pp. 434-444, 495segg., 588segg., 673-694, 812segg.; La fine del mondo antico, pp. 162segg.; "La democratizzazione della cultura nel Basso Impero", XI Congr. Int. Sc. Hist., II, Stockholm 21-28 agosto 1960, II, pp. 35-54.
  34. Fondamentale per questo sono gli scritti di Staerman, Die Krise der Sklavenhalterordnung e "Programmes politiques à l'epoque de la crise du IIIe siècle", Cah. hist.mond., IV, 2, 1958, pp. 310-329. Il dibattito su questa materia ovviamente è stato molto intenso e prolifico nella storiografia di estrazione o ispirazione marxista: un'analisi degli storici sovietici dopo Stalin è stata presentata anni fa da A. Denman, Latomus, 1966, pp.991segg. Si veda anche P. Oliva, Pannonia and the Onset of Crisis in the Roman Empire, Praha, 1962, pp. 62segg.; 126segg.; 362 segg. Interessanti sono anche le osservazioni di P. Brown, Ec. HR, pp. 362segg., circa l'interpretazione di Jones dell'Impero Romano Tardo-Antico.
  35. S. Mazzarino, L’impero romano, cit., pp. 495segg.; 601segg.
  36. C.F. Hegel, Geschichte d. Städtterverfassung Italiens, I, Leipzig, 1844-47.
  37. N.D. Fustel de Coulanges, Historie des Institutions politiques de l'ancienne France, I, 1875 (e prima, in Revue des Deux Mondes, 1872). Per le premesse a questa visione cfr. A. Dopsch, Wirtschaftliche u. soziale Grundlangen der europäischen Kulturentwicklung, 1923, I, pp. 1 segg. (rist, Aalen, 1961).
  38. A. Dopsch, Wirtschaftliche u. soziale Grundlagen d. europ. Kulturentwicklung, I-II, Vienna, 1923-242; Natural- und Geldwirtschaft in der Weltgeschichte, Vienna, 1930 (partic. Capp. VI-VII). Cfr. anche H. Pirenne, Mahomet et Charlemagne, Parigi-Bruxelles, 1937; "Un contraste économique Mérovingiens et Carolingiens", RBPH, 1923, pp. 223-35; Histoire écon. et soc. du Moyen Age, Parigi, 1963.
  39. Cfr. le critiche di Dopsch, come da nota 38.
  40. In questo senso cfr. l'articolo di R.S. Lopez in The Pirenne Thesis, Analysis, Criticism and Revision, Boston, 1958.
  41. Dopsch, Wirtschaftl. u. soz. Grundl., I, pp. 330 segg.; 412-413.
  42. Dopsch, ibid., II, passim.
  43. Ma per prospettive più recenti, che suggeriscono che questo cambiamento avvenne molto prima, si veda il mio Capitolo II.
  44. H. Gelzer, in Krumbacher, Gesch. d. byzantinischen Literatur, Monaco, 1897, citato da M.A. Levi, L’Impero Romano, Milano, 1963.
  45. A. Von Gutschmid, "Die Grenze zwischen Altertum und Mittelalter", Die Grenzboten, 1863, pp. 330 segg., citato da Levi, ibid., che usa anche la successiva raccolta Kleine Schriften, Leipzig, 1894, V, pp. 393 segg.
  46. Von Gutschmid, "Die Grenze", pp. 330 segg.
  47. R.S. Lopez, La nascita dell'Europa, Torino, 1966.
  48. K. Müller, "Die Grenze zwischen und Mittelalter in der Kirche", Preuss. Jbb., 1877, pp. 257 segg., citato da Levi, ibid.
  49. F.C. Baur, Die Epochen der kirchlichen Geschichtsschreibung, Tübingen, 1852, p. 254, citato da Levi, ibid.
  50. K. J. Neumann, "Perioden römischer Kaisergeschichte", HZ, 117, 1916, pp. 377-386.
  51. Che ora si conclude con la morte di Giustiniano (565); il secondo Volume della Histoire du Bas Empire fu pubblicata postuma da J-R. Palanque.
  52. M. Gelzer, "Altertumswissenschaft und Spätantike", HZ, 135, 1927, pp. 173-187.
  53. E. Kornemann, "Zwischen zwei Welten", in Gestalten u. Reiche, Leipzig, 1943, pp. 367 segg.
  54. K. Marx, Zur Kritik d. politischen Oekonomie, Einleitung, trad. ital.
  55. E, nell'ambito di un'altra area di ricerca, le dinamiche socio-economiche della società agraria nel XVIII secolo, studiato da P. Vilar con metodi analitici marxisti nel suo La Catalogne dans l'Espagne moderne, Parigi, 1962.
  56. A. H. M. Jones, The Later Roman Empire, I-III, 1964 (cfr. I, VII; II, pp. 105 segg.)
  57. Jones, Lat. Rom. Emp., pp. 1049-1053; sul problema cfr. anche R. MacMullen, "Social mobility and the Theodosian Code", JRS, 1964, pp. 49-53; M.H. Hopkins, "Social Mobility in the Lat. Rom. Emp.: The Evidence of Ausonius", CQ, 1961, pp. 239-248; "Elite mobility in the Roman Empire", Past & Present, 1965, pp.12-26.
  58. W. Seyfarth, "Um die Problematik der Spätantike", F & F, 1966, pp. 177-180; "Der Begriff ‘Epoche sozialer Revolution’ und die Spätantike", Klio, 1967, pp. 271-284. In contrasto, cfr. A. Alföldi, A Conflict of Ideas in the Later Roman Empire, Oxford, 1952, p. 28, che mantiene l'interpretazione tradizionale che il mondo romano fu "una società collassata... nelle morse di ferro della caste separate tra di loro da barriere che non potevano essere sormontate". Si veda anche F. Lot, La fin du monde antique, cap. 6; S.L. Utčenko, Krisis i padienie rimskoii respubliki, Mosckau, 1965, pp. 17-28 (trad. ital, Roma, 1976).
  59. G. Rodenwaldt, "Zur Begrenzung und Gliederung der Spätantike", JDAI, 1944-45, p. 87.
  60. Corp. Herm., XIII, 1; Plot., Enn., II, p. 5 (Henry-Schwyzer, I, pp. 229, 23 segg.) Su questo tema di παλιγγενεσία e l'uomo "nuovo" nel Corpus Hermeticum (specie l'importante Parte XIII) e gli scritti della filosofia mistica del III secolo, cfr. Festugière, La Révélation d'Herm. Trism., IV, Cap. I, "Les Thémes de la régéneration", partic. ¶ 2-3; J. Zandee, "Gnostic Ideas on the Fall and Salvation", Numen, 1964, pp. 13-74.
  61. E.R. Dodds, Pagan and Christian, p. 100: naturalmente, si dovrebbe consultare tutto il Cap. III, "Man and the Divine World".
  62. Cfr. A.J. Festugiére, "Cadre de la mystique hellénistique", Mél. Goguel, 1950, p. 84; si veda anche Révélation, 19502, I, Cap. I, "Le declin du rationalisme", citato anche da Dodds, op. cit., p. 100.
  63. Sull'aspetto filosofico del misticismo, si veda in generale, W.T. Stace, Mysticism and Philosophy, Oxford, 1960; R.C. Zaehner, Mysticism Sacred and Profane, Londra, 19612
  64. Dodds, Pagan and Christian, p. 36. Dodds giustamente osserva che "i disagi materiali del Terzo Secolo certamente lo incoraggiarono [il senso di colpevolezza], ma non lo causarono, poiché gli inizi, come abbiamo visto, risolgono a molto prima."
  65. Si vedano le acute osservazioni di P. Brown, in Approaches to the Relig. Crisis of Third Century A.D., pp. 544 segg.
  66. In generale, cfr. Ch. G. Starr, Civilisation and the Caesars, Ithaca, 1955; F.W. Walbank, The Awful Revolution, pp. 40 segg. Cfr. anche, sugli sforzi e tensioni della corte imperiale, F. Millar, "Epictetus and the Imperial Court", JRS, 1965, pp. 141-48. Sugli ideali conservatori dell'aristocrazia romana e le municipalità greco-orientali, cfr. F. Millar, A Study of Cassius Dio, Oxford, 1964, pp. 108 segg.; JRS, 1969, pp. 12 segg.
  67. Si veda B.E. Perry, "The Ancient Romances. A Literary-Historical Account of their Origin", Sather Class. Lect., XXXVII, Berkeley, 1967; A. Scobie, Aspects of Ancient Romance and its Heritage. Essays on Apuleius, Petronius and the Greek Romances, Haim, 1969.
  68. F. Altheim, Roman und Dekadenz, Tübingen, 1961; cfr. anche il suo Dall'Antichità al Medioevo (in ital.), Firenze, 1961, pp. 16 segg.
  69. L. Goldmann, Pour une sociologie du roman, Gallimard, 1964.
  70. Cfr. V. Reardon, Courants littéraires, p. 401: "Le roman est le mythe tardif. Le sujet de ce mythe est l'homme individuel dans la vie.. L'homme individuel ne s'occupe plus de problèmes soiaux, mais de problèmes privés. Il se tourne vers la vie spirituelle: vers les questions de salut, de la fin de l'existence, de ce-monde-et-l'autre-monde; de l'âme et de la chair", (Si vedano anche pp. 404-405 e 411: "... le roman, lui est à la fois de destination essentielment populaire et per la place qu'il fait à l'individu, de signification sérieuse – si bien que, s'il fallait absolument caractériser la période, on pourrait avec justesse parler de l'époque du roman.)
  71. Per la Romanza come storia di una ricerca "degradata", "demoniaca" si veda G. Lukács, La teoria del romanzo, Milano, 1962. Cfr. anche le osservazioni fondamentali del filosofo ungherese nel suo Il romanzo storico, Torino, 1965, partic. capp. II e III: le premesse esposte in questa opera appaiono ancora valide ed applicabili all'analisi della Romanza antica.
  72. R. Bianchi Bandinelli, "Naissance et dissociation de la Koiné hellénistico-romaine", Huit. Congr. Intern. Arch. Class., Parigi, 1963; "La crisi artistica del mondo antico", in Arch. e cult., 1961, pp. 189 segg.; "Forma artistica tardo antica e apporti parthici e sassanidi nella scultura e nella pittura", La Persia e il mondo greco-romano, 1966, pp. 319-333; E. Will, "Art parthe et art grecque", Etudes d'Arch. class., 1959, pp. 123-135;E.H. Swift, Roman Sources of Christian Art, 1951, p. 158.
  73. B. Schweitzer, Die spätantike Grundlagen der mittelalterlichen Kunst, Leipzig, 1949, ora in Alla ricerca di Fidia, Milano, 1967, pp. 409-432 (la citaz. a p. 417).
  74. R. Bianchi Bandinelli, "Osservazioni storico-artistiche ad un passo del ‘Sofista’ platonico", nel suo Arch. e cult., pp. 153-171.
  75. B. Schweitzer, Spätantike Grundlagen, pp. 417, 418 segg.
  76. B. Schweitzer, Spätantike Grundl., p. 420; cfr. anche Bianchi Bandinelli, Organicità ed astrazione, Milano, 1956.
  77. H.P. L'Orange, Art Forms and Civic Life in the Late Roman Empire, Princeton, 1965 (cfr. partic. pp. 126, 127 segg.)
  78. J. Stryzgowski, Orient oder Rom. Beiträge z. Gesch. der späteren u. früchristl. Kunst, Leipzig, 1902.
  79. Bianchi Bandinelli, "Forma artistica tardo antica...", pp. 325segg., 329.
  80. Bianchi Bandinelli, ibid., p. 327.
  81. Bianchi Bandinelli, ibid., pp. 326, 327segg.
  82. Bianchi Bandinelli, LArte romana nel centro del potere, Milano, 1969.
  83. B. Schweitzer, Vom Sinne der Perspektive, Tübingen, 1953.
  84. Ippolito, In Dan., IV, 5, 6; IV, 24, 7; Lact., Div Inst., VII, 16, 1. Cfr. S. Mazzarino, La democratizzazione della cultura, pp. 38 segg. Su Demokratiai cfr. anche Oliver, The Ruling Power, p. 92.
  85. M.A. Levi, L'impero romano, Milano, 1963, pp. 574-650; 839-994.