Il Chassidismo di Elie Wiesel/Capitolo 7
Ritratti dei Maestri Chassidici
[modifica | modifica sorgente]Nella discussione sul lascito chassidico di Wiesel che ha aperto questo wikilibro, ho presentato una spiegazione abbastanza approfondita di cosa sia il chassidismo, da dove proviene e dei suoi insegnamenti basilari presentati da Elie Wiesel, come anche da diversi studiosi del chassidismo. Pertanto non ripeterò quanto lì detto. Ciò che qui si può aggiungere e che va tenuto presente, come dice Wiesel, è questo:
Queste parole trasmettono di cosa tratta il chassidismo, di cosa trattano questi ritratti selezionati dei Maestri chassidici e di cosa tratta il patrimonio chassidico di Elie Wiesel: chiunque ama il proprio prossimo, ama Dio.
Una delle principali ispirazioni per i ritratti di questi maestri chassidici presentati da Elie Wiesel sono state le storie che suo nonno Reb Dodye Feig gli raccontò da bambino: "Anche lui raccontava storie. . . . È a lui che devo tutto ciò che ho scritto sulla letteratura chassidica".[1] Essendo un chassid emerso dall’assalto più radicale della storia all'ebraismo e al chassidismo, la sua narrazione definisce il suo lascito chassidico come una risposta all'evento. "Nel raccontare queste storie", scrive, "mi rendo conto ancora una volta che devo loro molto. Consapevolmente o no, ho incorporato una loro canzone, un'eco, una loro parola nelle mie leggende e favole. Sono rimasto, in un regno vinto, un bambino che ama ascoltare".[2] Tratti da reami che trascendono il tempo e lo spazio, per il chassid Elie Wiesel, questi racconti sono manifestazioni della Torah, modalità di preghiera e modi di connettersi con il Santo all'indomani dell'assalto più radicale del mondo al Santo.
Se, come suggerisce Wiesel, i racconti chassidici costituiscono il contesto per la sua narrazione, i racconti chassidici hanno i propri contesti ebraici nelle tradizioni aggadica, midrashica e cabalistica. Anche queste tradizioni pervadono i ritratti di Wiesel: il patrimonio chassidico di Elie Wiesel ha le sue radici non solo nel chassidismo ma in tutta la Torah scritta e orale. "I profeti trasmettono la parola di Dio", dice Wiesel nel suo ritratto di Rabbi Nachman di Breslov. "Uomini Giusti la concepirono. Spesso sotto forma di racconti. Ogni parola è una storia, dicevano a Breslov. Esempio: Torah. O Talmud. O Zohar. Il racconto della Legge è importante quanto la Legge. Ed è più profondo dei commentari".[3] La Torah non inizia con un elenco di comandamenti ma con il racconto della creazione. Perché? Perché il racconto della creazione è parte della Torah, il che significa: la creazione stessa è fatta del racconto della creazione.
Ricevere un racconto, come afferma Wiesel, è "diventare parte del racconto",[4] cosa che accade quando trasmettiamo a nostra volta il racconto. Perché la Torah è chiamata "la Torah di Mosè"? Perché, dice il Talmud, Mosè la offrì agli altri sotto forma di racconti (Shabbat 89a). Creato a immagine e somiglianza del Santo, l'essere umano non solo parla, come dice Maimonide (Moreh Nevuhim 1:51), ma racconta storie. E ascolta: un medaber o "essere parlante" è un essere in ascolto. Se la guerra nazista contro gli ebrei fu una guerra contro la memoria, come sostiene Wiesel,[5] fu una guerra contro la memoria ebraica dei racconti ebraici. Nell'era post-Olocausto, più che mai, ascoltare il racconto trasmesso attraverso questi ritratti è parte del ricordo di chi siamo. "È la memoria", dice Wiesel, "che collega [un ebreo] ad Abramo, Mosè e Rabbi Akiva".[6] Proprio così, lo stesso Wiesel fatica a ricordare, un ritratto alla volta. "Quando scrivo", ha detto Wiesel, "sento i miei insegnanti invisibili guardarmi alle spalle, leggere le mie parole e giudicare la loro veridicità".[7] Proprio così, questi maestri chassidici guardano oltre le sue spalle e nei nostri occhi.
Nei racconti del Baal Shem Tov, sottolinea Wiesel, troviamo molti degli "elementi basilari del chassidismo. La fervida attesa; il desiderio di redenzione; i vagabondaggi irregolari su strade non percorse; il legame tra l'uomo e il suo Creatore; tra l'atto individuale e le sue ripercussioni nelle sfere celesti; l'importanza delle parole comuni; l’accento sul fervore e anche sull’amicizia".[8] Poiché "la forza del movimento non risiedeva nell'ideologia ma nella vita",[9] i racconti dei chassidim, dice Wiesel, non parlano di miracoli ma di amicizia e speranza: "i miracoli più grandi di tutti".[10] A dire il vero, sottolinea, "amicizia è una parola chiave nel vocabolario chassidico. Dibuk-haverim per il discepolo è importante quanto Emunat-tzadikim, la fede nel Maestro. Seguire un certo Rebbe significa relazionarsi con i suoi allievi. Un chassid da solo non è un vero chassid. La solitudine e il chassidismo sono incompatibili".[11] Il segreto dell'ascesa ai regni superiori sta quindi nell'unità del rapporto — proprio ciò che nell'assalto nazista all'anima subì un attacco radicale. Non vediamo qui il lascito chassidico di Wiesel in tutti questi ritratti?
La relazione è centrale. Il Santo entra in questo reame attraverso lo spazio mediano della relazione da uomo a uomo. Solo attraverso tale spazio tra lo spazio si possono aprire la comprensione e l'intuizione. "Amicizia o morte, dice il Talmud. Senza amicizia l'esistenza è vuota, sterile, inutile. L'amicizia è ancora più importante nella vita di un uomo dell'amore. L'amore può spingere a uccidere, l'amicizia mai. . . . Il movimento chassidico deve il suo successo all'enfasi posta sull'amicizia tra i fedeli e sulla fedeltà al maestro. L'amicizia è indispensabile, essenziale".[12] A cosa? Non solo al chassidismo ma anche a questi ritratti dei maestri chassidici, e anche qui sta il lascito chassidico di Elie Wiesel: sta nell'amicizia, così come nel richiamo all'amicizia che sta alla base di questi ritratti.
Menahem bar Rabbi Yose insegna che tra i dieci discorsi che danno vita al cielo e alla terra ci sono le parole di Genesi 2:18: "Non è bene che l'essere umano sia solo" (Bereshit Rabbah 17:1), e i chassidim capiscono perché: è perché tutta la creazione si basa sulla relazione da essere umano a umano. Anche la compagnia di Dio non è bastata ad Adamo per superare la solitudine dell'essere. Per quanto riguarda il significato della vita, desideriamo qualcosa di più della semplice comprensione: desideriamo la profondità e l'amore che si trovano solo nella relazione con l'altro — desideriamo amare l’altro. Quindi "anche questo fa parte del messaggio chassidico: esiste una soluzione alla solitudine – e la solitudine non è una soluzione".[13] Una cosa superata attraverso la redenzione che i chassidim cercano, è la solitudine. "Il ruolo dell'uomo è mitigare la solitudine, chiunque opta per la solitudine sceglie la parte della morte", Wiesel articola l'insegnamento fondamentale del Baal Shem. "Ogni incontro accelera il passo del Redentore, fa che due esseri diventino uno e il mondo non è più lo stesso; lasciamo che due creature umane si accettino e la creazione avrà un senso, il significato che le avranno imposto. Questa è la nuova idea introdotta nella vita ebraica dal chassidismo".[14] E questo è il patrimonio chassidico, il lascito totalmente ebraico, di Elie Wiesel — ma con una differenza post-Olocausto.
Ritratto di Israel ben Eliezer, il Baal Shem Tov
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Ciascuno dei tre versetti relativi alla partizione del Mar Rosso contiene settantadue lettere (Esodo 14:19-21). Da ciò i saggi determinarono che ci sono settantadue nomi di Dio, uno dei quali consiste di settantadue lettere. Una persona che ha padroneggiato il segreto delle varie permutazioni del nome di settantadue lettere può influenzare la creazione stessa (Zohar I, 7b). Nella tradizione mistica ebraica, colui che ha padroneggiato il segreto del nome di settantadue lettere è conosciuto come Baal Shem, o "Maestro del Nome". Tra i più noti ci sono Eliyahu Baal Shem di Worms e Adam Baal Shem di Zamość, il maestro di Israel ben Eliezer, il Baal Shem Tov.
A differenza degli altri baalei shem, il Besht, come è conosciuto con il suo acronimo, è chiamato non solo Baal Shem ma Baal Shem Tov, il "Maestro del Buon Nome". Ciò che distingueva il Besht dagli altri baalei shem, spiega Immanuel Etkes, erano i suoi poteri spirituali: "Con questo intendiamo poteri di natura profetica: visione remota, pronosticazione, capacità di ascoltare decreti dall'alto e così via".[15] Nel suo Shaar Emumah v’Yesod HaChassidut ("La porta della fede e il fondamento del chassidismo") il Radziner Rebbe del diciannovesimo secolo, Rabbi Gershon Henoch Leiner, ci fornisce un indizio più profondo: "Il Baal Shem Tov aprì una porta interna che era rimasta chiusa fino ai suoi giorni. L'aprì davanti all'intera comunità di Yaakov, perché la Torah non è in Cielo, ma è diritto di nascita e fiancée di ogni ebreo. Chiunque cerchi Dio con tutto il cuore troverà nelle parole del Baal Shem Tov la via della comprensione e il sentiero chiaro per i retti al fine di comprendere, discernere, ascoltare, imparare, insegnare, custodire, eseguire e sostenere tutte le parole del Torah."[16] Il Buono nel Buon Nome sta nel riunire ciò che è più alto e ciò che è più umano. Qui nessun volo meditativo nei reami empirei; piuttosto, la "porta interiore" viene aperta nel mezzo delle relazioni umane in carne e ossa, attraverso atti di amorevole gentilezza – attraverso Hesed.
In quanto portatore di questo segreto, nota Wiesel, il Besht "aveva spesso occasione di conversare con il Messia. In una lettera a suo cognato, Reb Gershon Kitiver, il Baal Shem fornisce il suo resoconto di uno di questi dialoghi. Alla domanda: ‘Ma quando, quando verrai?’ il Messia rispose: ‘Quando la tua fonte traboccherà, quando il tuo insegnamento coprirà la terra’".[17] Il Baal Shem fu profondamente turbato da questa risposta, dice Etkes. Significava che "non è necessario aspettarsi che la Redenzione avvenga nel prossimo futuro, poiché è inconcepibile che segreti rivelati dal Messia siano presto conosciuti da tutti!"[18] Questo potrebbe essere il motivo per cui l’Ani Maamin (אני מאמין) è così prezioso per il chassid Wiesel, soprattutto la frase "anche se può tardare, aspetterò comunque.[19]
Significativamente, il ritratto del Baal Shem Tov fatto da Wiesel si apre con uno scorcio di suo nonno Reb Dodye Feig. Suo nonno fu il primo a insegnargli i fondamenti del chassidismo. "Un chassid deve sapere come ascoltare", gli insegnò Dodye Feig. "Ascoltare è ricevere".[20] Non solo ascoltare, ma prestare attenzione — requisito fondamentale di un ebreo: Shma, Yisrael! "Israele, ebrei, ascoltate! Comprendete! Ascoltate!" Perché se non sappiamo ascoltare, non possiamo supplicare Dio di ascoltarci. Un altro ricordo di suo nonno che si ritrova nel suo ritratto del Baal Shem Tov: "Un Hasid oggettivo”, diceva detto Dodye Feig, "non è un Hasid". Il commento di Wiesel: "Aveva ragione. L'appello del Baal Shem era un richiamo alla soggettività, al coinvolgimento appassionato; le storie che raccontava e quelle raccontate su di lui fanno appello all'immaginazione piuttosto che alla ragione. Cercano di dimostrare che l'uomo è più di quello che sembra e che è capace di dare più di quello che sembra possedere".[21] Qui sta il meod: il chassidismo evoca il bekol-meodekha con il quale ci viene comandato di amare Dio nello Shema (Deuteronomio 6:5) — Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze.
E come amiamo Dio con tutto il nostro cuore, tutta la nostra anima e tutti i nostri "di più", amando sempre di più, infinitamente? Amando il nostro prossimo: lì sta l'infinito, il bekol-meodekha, con il quale siamo chiamati ad amare. Quando, ad esempio, un uomo si lamentò con il Besht perché suo figlio aveva abbandonato Dio, il Baal Shem disse: "Allora amalo di più".[22] Questo buon consiglio del Maestro del Buon Nome illustra uno degli insegnamenti più fondamentali del Baal Shem, come sottolinea Wiesel: "Non giudicare gli altri era uno dei principi del Baal Shem; la sua funzione era quella di aiutare, non di condannare".[23] Attraverso il semplice atto di aiutare si rivela il di più, la bontà che è più di tutto ciò che esiste.
"Questa è una delle caratteristiche attraenti del chassidismo", scrive Wiesel, "tutto viene offerto, ma tutto resta da fare".[24] Poiché tutto resta da fare, c'è sempre molt'altro da fare; facendo di più, amando di più, attiriamo la Presenza Divina in questo reame. Qui scopriamo ciò che il Baal Shem Tov ha aggiunto alla nostra comprensione del rapporto tra sopra e sotto e alla nostra comprensione dell'antico insegnamento cabalistico secondo cui il movimento in alto è avviato dal movimento in basso (cfr., ad esempio, Zohar II, 31b; Toledot Yaakov Yosef, Shelah 7, 10). In effetti, il Baal Shem insegnava che il mistero della teshuvah, il movimento del ritorno, è che Dio fa teshuvah (Toledot Yaakov Yosef, Bo 10). Dice Wiesel: "‘Dio è l’ombra dell'uomo’ fu così commentato dal Baal Shem: proprio come un’ombra segue i gesti e i movimenti del corpo, Dio segue quelli dell'anima. Se l'uomo è caritatevole, anche Dio sarà caritatevole. Il nome del segreto dell'uomo è Dio, e il nome del segreto di Dio non è altro che quello iniziato dall'uomo: chi ama, ama Dio".[25] L'amore di Dio richiede l'amore dell'altro essere umano, e l'amore dell'altro essere umano richiede l'amore di Dio.
Questa è una delle ragioni per cui il Baal Shem non scrisse nessun trattato o opera propria: la rivelazione dell'Infinito può avvenire solo nel faccia-a-faccia della relazione umana. Nelle parole di Emmanuel Levinas: "Il faccia-a-faccia è una relazione finale e irriducibile che nessun concetto potrebbe coprire".[26] Se dunque "il senso è il volto dell'Altro",[27] è perché "l'‘esigenza del santo’ emana dal volto",[28] che "entra nel nostro mondo da una sfera assolutamente estranea, cioè proprio da un assoluto".[29] Questo ingresso del volto nel nostro mondo è una rivelazione. Senza tale rivelazione non può esserci redenzione. E così: "Al discepolo che aveva trasposto su carta i suoi insegnamenti verbali, il Maestro disse: ‘Non c’è niente di me nelle tue pagine. . . . Io ho detto una cosa, tu ne hai ascoltata un'altra e ne hai scritta una terza’".[30] Tale insegnamento coinvolge qualsiasi scrittore che pretenda di tracciare un ritratto del Besht mediante l'uso delle parole.
Allora da dove viene questo visionario? Si rivelò all'età di trentasei anni, quando si propose di diffondere non una nuova convinzione ma una rinnovata elevazione del creato attraverso la gioia e la gratitudine. Dice Wiesel: "Più di ogni altra figura storica ebraica, ad eccezione del profeta Elia, il Besht era presente sia nella gioia che nella disperazione; ogni shtibl rifletteva la sua luce, il suo calore".[31] Presente nella gioia? Cosa c'era di cui rallegrarsi? "Traumatizzati dall'incubo dei falsi Messia del XVII secolo", spiega Wiesel, "i rabbini guardavano con sospetto tutto ciò che sembrava nuovo, tutto ciò che era oscuro".[32] Eppure, "il Baal Shem era un momento di estasi ed esaltazione in tempi di muto lamento. . . . Era stato la scintilla senza la quale migliaia di famiglie avrebbero ceduto alla tristezza e alla disperazione – e la scintilla si era trasformata in un'enorme fiamma che squarciò l'oscurità".[33] Sì, lamento muto. Poiché questo mutismo è il mutismo dell'uomo, in esso si nasconde però un grido.
Il Baal Shem Tov non portò tanto speranza agli ebrei dell'Europa orientale quanto restituì loro un senso di scopo, un senso di verità e significato. E dove troviamo il senso di uno scopo? Nella gioia e nella gratitudine, proprio quando non vediamo motivo di rallegrarci o di rendere grazie. Scrive Wiesel: "Il canto è più prezioso delle opere, l'intenzione più importante delle formule. . . . Una lacrima, una preghiera possono cambiare il corso degli eventi; un frammento di melodia può contenere tutta la gioia del mondo. . . . E nessuna élite ha il monopolio del canto o delle lacrime. . . . ‘L’uomo che guarda solo se stesso non può che sprofondare nella disperazione, ma appena aprirà gli occhi sulla creazione che lo circonda, conoscerà la gioia’. E questa gioia conduce all'assoluto, alla redenzione, a Dio; quella era la nuova verità definita dal Baal Shem".[34] La redenzione sta nella gioia e nella gratitudine? Ma cosa può significare questo per qualcuno che si trova in cima a una fossa comune?
Se gioia e gratitudine, scopo e significato, possono essere evocati in un'epoca simile, allora ciò avviene solo con la consapevolezza che "Dio non è neutrale. Né è Egli un'astrazione. Egli è allo stesso tempo alleato e giudice dell'uomo all'interno della creazione. Il legame tra loro è insostituibile, è amore. Dio Stesso ha bisogno di amore. . . . È nell'uomo che Dio deve essere amato, perché l'amore di Dio passa attraverso l'amore dell'uomo. Chi ama Dio esclusivamente, cioè escludendo l'uomo, riduce il suo amore e il suo Dio al livello di astrazione. Il chassidismo beshtiano nega ogni astrazione".[35] Pertanto il Besht insisteva sul fatto che "lo studio finalizzato all'erudizione è una profanazione; è una trasgressione del comandamento di non inchinarsi davanti a dèi estranei".[36] La devozione del Baal Shem Tov per l'umanità in carne e ossa è al centro del suo ritratto in carne e ossa. Nessuno, secondo lui, è più fuori dal contatto con l'umanità in carne ed ossa dei fornitori dell'ufficialità religiosa: "Solo quando si trattava dei rabbini ufficiali il Besht si mostrò spietato. ‘Un giorno non ci sarà misericordia, impediranno la venuta del Messia!’"[37] E tuttavia insegnava che "il Messia è con noi in ogni generazione" (Toledot Yaakov Yosef, Naso 13), sempre presente, pronto a aiutaci ad attingere all'eredità del passato per aprire un orizzonte per il futuro.
"Ciò che non può fare a meno di stupirci", scrive Wiesel, "è che i chassidim rimasero chassidim all'interno delle mura del ghetto, all'interno dei campi di sterminio. All'ombra del boia celebravano la vita. I tedeschi sorpresi si sussurravano tra loro di ebrei che ballavano nei carri bestiame che avanzavano verso Birkenau: chassidim che inauguravano Simchat Torah. E c'erano quelli che nel Blocco 57 di Auschwitz cercavano di farmi unire al loro canto fervente".[38] Ci si ricorda del capitolo intitolato "The Dance of the Rabbis" nelle memorie di Sara Nomberg-Przytyk, dove un gruppo di rabbini chassidici iniziò una danza dopo essere stato scaricato dal treno a Auschwitz.[39] Sì, celebravano la vita in mezzo all'ubiquità della morte, in un reame in cui la morte stessa subiva un attacco radicale. Arrivati a questo punto, è necessario un aggiustamento, un heshbon nefesh o un confronto interiore, da parte del lettore che incontra questi ritratti.
Il che ci porta a un ultimo racconto e insegnamento del Baal Shem Tov. C'era una volta un uomo sordo che attraversava un villaggio. Gli capitò di passare davanti a una casa dove si stava celebrando un matrimonio. Guardò attraverso le finestre e vide gli invitati al matrimonio ballare, ma non riuscì a vedere i musicisti che suonavano la musica. "Questo deve essere un manicomio", concluse, "con tutta questa gente che salta e si gira". Pensava che fossero pazzi perché non riusciva a sentire la musica (Toledot Yaakov Yosef, Shelah 3).[40] Senza dubbio ci sono molti che considerano pazzi coloro che abbracciano questo patrimonio chassidico. Ma non sentono la musica.
Ricordiamoci che in molti dei ritratti dei saggi talmudici fatti da Wiesel abbiamo visto un motif di coppie. Il che ci dice che la trasmissione di un'eredità richiede un abbinamento indicativo di una comunità. Anche qui, nei ritratti dei maestri chassidici, vedremo delle coppie: il Baal Shem Tov è accoppiato con tutti i maestri nelle pagine che seguono. "Ogni chassid", scrive Wiesel, "aveva due Maestri: il proprio e il Baal Shem".[41] Questo faceva parte dello sforzo chassidico di superare la solitudine. Ora, tuttavia, arriva all'indomani di un tempo e di un luogo in cui la solitudine assunse un significato senza precedenti.
Ritratto di Dov Ber, il Maggid di Mezeritch
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Dovber di Mezeritch. |
Il Midrash è un modo caratteristico di pensiero e di vita per un maggid (מַגִּיד). Condividendo una radice con aggadah (אַגָּדָה), un maggid è qualcuno che insegna tramite aggadah, tramite la narrazione, come insegna il Maggid Elie Wiesel tramite la narrazione. Abbiamo già notato l'importanza della narrazione nella tradizione chassidica. Come il suo maestro Baal Shem Tov, Dov Ber non scrisse commentari o manifesti (compilò, tuttavia, una raccolta di racconti sul Besht conosciuta come Shivhei HaBesht o In lode del Baal Shem Tov). I suoi incontri erano sempre occhio a occhio, orecchio a orecchio, faccia a faccia, anima ad anima. In effetti, la relazione umana faccia-a-faccia è la sostanza dell'anima. E la capacità del Grande Maggid di relazionarsi con gli esseri umani era inesauribile: aveva trecento discepoli, trentanove dei quali divennero importanti maestri chassidici.[42]
Nato in Volinia nel 1710, Dov Ber incontrò il Baal Shem nel 1752, otto anni prima della morte di quest'ultimo. Altri due discepoli che potrebbero essere succeduti al Baal Shem furono Yaakov Yosef di Polnoe e Pinhas di Koretz.[43] Yaakov Yosef è l'autore di Toledot Yaakov Yosef, il primo tentativo di raccogliere gli insegnamenti del Baal Shem Tov, e Pinhas di Koretz, autore dei Midrash Pinhas, fu uno dei primi e maggiori maestri chassidici. Con il Maggid di Mezeritch, dice Wiesel, "il chassidismo subì la sua prima mutazione strutturale, se non ideologica: dal reame della leggenda a quello della storia".[44] Si passa, in altre parole, dalla figura carismatica e ipnotizzante al maestro che trasmette un insegnamento e invia discepoli in tutte le parti dell'Europa orientale. Il Baal Shem viaggiò per le campagne alla ricerca di discepoli; il Maggid rimase a Mezeritch, e i discepoli andarono da lui, solo per essere mandati ancora una volta in un mondo spesso ostile, "stabilendo quindi e impiantando saldamente una rete chassidica espansa per tutta l'Europa orientale".[45] Mezeritch divenne una sorta di Terzo Tempio per i chassidim: come la luce del Santo che emanava dalle finestre del Tempio nel mondo, la luce dell'insegnamento chassidico emanava da Mezeritch nel mondo degli ebrei dell'Europa orientale e, nel corso dei secoli, nel nostro mondo, attraverso il lascito chassidico di Elie Wiesel. Sì, l’Olocausto distrusse gli ebrei dell'Europa orientale. Purtuttavia . . .
"Concepita dal Baal Shem", spiega Wiesel, "l'idea chassidica deve al Maggid il suo adattamento, la sua applicazione pratica. Prima di lui il chassidismo era impulsivo, vago, frammentario. Idealizzato all'estremo, era vulnerabile. Il suo nucleo aveva bisogno di essere protetto e rafforzato, aveva bisogno di una struttura di sostegno e dei segni esterni di un movimento in espansione. E soprattutto necessitava di essere ancorato alla realtà".[46] A tal fine, il Maggid di Mezeritch stabilì la categoria di Zaddiq o Rebbe. In un certo senso, il Rebbe è l'opposto di ciò che normalmente potremmo considerare un mistico: è un mistico materialista. Il Rebbe non è una figura angelica o misteriosa; piuttosto, è proprio lui che ancora i chassidim alla realtà. Molte volte ho visto i video del defunto Rebbe di Lubavitcher Menahem Mendel Schneerson che riceveva centinaia di ebrei in fila una domenica pomeriggio, come era sua abitudine. Ogni volta che un ebreo gli diceva quanto aveva realizzato, diceva sempre: "E cosa farai ancora?" Non intendeva più studio o meditazione, ma cosa farai di più? Quella domanda del Rebbe inizia con il Maggid di Mezeritch.
Il Baal Shem Tov una volta disse del Maggid di Mezeritch: "Egli non conosce solo la Torah; lui è la Torah".[47] A uno dei discepoli del Maggid, il grande Rebbe Aharon di Karlin, una volta fu chiesto: "Cosa hai imparato a Mezeritch?" Egli rispose: "Non ho imparato nulla a Mezeritch. O per essere più precisi: ho imparato il significato della parola "nulla", il mistero che avvolge tutte le parole. . . . Io non sono nulla eppure sono in questo mondo creato da Dio, un uomo tra gli uomini – non è strano essere nulla e allo stesso tempo ascoltarti, parlarti e... parlare con Dio? . . . Bene, questo è quello che ho imparato a Mezeritch. Come vi ho detto: ‘Nulla’".[48] Dio crea "qualcosa" diventando "nulla"; in senso mistico, Dio è il "nulla", l’ain che precede la creazione, diversamente da tutto ciò che esiste. Comandati di essere santi come Dio è santo (Numeri 15:40), ci viene comandato di fare una sorta di inversione di tendenza, passando da ani ad ain, da "io" o "ego" a "nulla". Proprio come Dio si sposta da ain ad ani mentre intraprende la Creazione, così dobbiamo spostarci da ani ad ain per avvicinarci a Dio. Come si passa da ani ad ain? Tendendo una mano a un altro essere umano, amando di più. Quindi per Rebbe Aharon di Karlin, non imparare nulla è essenziale per imparare ad amare di più.
Un altro esempio di ciò che dovevamo imparare a Mezeritch ci viene dal Rebbe Levi Yitzchok di Berditchev. In un'occasione, quando tornò a casa da Mezeritch per una vacanza, suo padre gli chiese durante il pasto: "Che cosa hai scoperto alla scuola del Grande Maggid?" Lui rispose che aveva "scoperto che Dio esiste, ed è in questo mondo". Suo padre chiamò la cameriera che stava servendo loro il pasto. Le chiese: "Dio esiste?" Lei rispose: "Sì, certo". Suo padre disse: "Vedi, lo sanno tutti!" Al che Levi Yitzchok replicò: "Lei lo dice, ma io lo so".[49] A dire il vero, anni dopo, quando era diventato il Rebbe di Berditchever, di tanto in tanto mandava il suo servitore in una sinagoga o in un'altra, dove il servitore marciava fino alla bimah, batteva il pugno sul pulpito e gridava fuori: "Sappiate, uomini e donne, sappiate che Dio esiste e che è in questo mondo!"[50] Cioè, Dio è in questo mondo finché Lo si è vissuto, e non semplicemente studiato tra quattro mura.
Come faceva Levi Yitzhchok a saperlo? Lo sapeva perché arrivò a comprendere che conoscere Dio significa essere conosciuto da Dio. Lo sapeva perché ogni mossa a Mezeritch presagiva una mossa cosmica. Lo sapeva perché sapeva che a Mezeritch anche un piccolo spostamento aveva implicazioni importanti: un singolo passo in una direzione o nell'altra avrebbe mandato altri mondi in altre orbite. "Sappi che tutto ciò che è sopra è dovuto a te", insegnò il Maggid. "È la tua vita di santità che crea santità in Paradiso".[51] Ecco perché, quando gli fu chiesto cosa fosse andato a imparare dal Grande Maggid, Reb Leib, figlio di Sara, rispose: "Sono venuto dal Maggid non per ascoltare discorsi, né per imparare dalla sua saggezza; sono venuto a vederlo allacciarsi le scarpe".[52] Se tutto nasce dalla Parola Divina, niente è banale, nemmeno allacciarsi le scarpe.
Qui abbiamo la radice e il motivo dell'insegnamento del Maggid secondo cui "qualunque sia l'evento, tu ne sei l'origine; è attraverso te, attraverso la tua volontà, che Dio si manifesta".[53] È un insegnamento che si estende fino al nostro tempo, come vediamo in questa riflessione di Levinas: "Essere un io allora significa non poter sfuggire alla responsabilità, come se tutto l'edificio della creazione poggiasse sulle mie spalle. Ma la responsabilità che svuota l'io del suo imperialismo e del suo egoismo, anche dell'egoismo della salvezza, non lo trasforma in un momento dell'ordine universale; conferma l'unicità dell'io. L’unicità dell'io è il fatto che nessuno può rispondere per me".[54] Se, come dice Wiesel, "sono venuti a Mezeritch cercando tanto il contatto umano quanto la conoscenza",[55] allora sono arrivati a dichiarare: "Eccomi per voi", in un'affermazione di questa responsabilità infinita. Perché il contatto umano è fatto di questa responsabilità di ciascuno per tutti, e io più degli altri. Laddove lo scopo è solo la conoscenza, l'ego conoscente è imperiale, poiché si appropria dell'oggetto della conoscenza. Conoscere la Torah è l'opposto di padroneggiarla. Significa, al contrario, sapere che la Torah è il mio maestro. Conoscere la Torah, come conoscere Dio, "è sapere cosa deve essere fatto".[56] Pertanto a Mezeritch non c'era apprendere senza fare; a Mezeritch gli ebrei ripetevano ciò che gli israeliti dichiaravano sul monte Sinai: "Naasei v’nishma! Faremo e ascolteremo!" (Esodo 24:7). E fare significava fare per il bene di un altro.
Il Maggid disse: "Se ti accontenti del pane nero e dell'acqua, arriverai alla conclusione che i poveri possono sopravvivere nutrendosi di pietre e acqua di sorgente. Se mangi la torta, darai loro il pane".[57] Così il Maggid cercò modi per trasformare quello che poteva sembrare un atto di autoindulgenza in un atto orientato verso l'altro essere umano. Questo orientamento verso l'altro sta dietro un altro detto del Maggid: "Un buon oratore deve diventare tutt'uno, non con il suo uditorio, ma con le sue parole; nel momento in cui egli si sente parlare, deve concludere".[58] Quando chi parla si sente parlare, non si rivolge più agli altri, ma è piuttosto scivolato nell’autocoscienza. Quando ciò accade, il significato comincia a scivolare via dalla parola. Essere tutt'uno con le nostre parole significa rendere umane le nostre parole, parole pronunciate per il bene dell’altro essere umano. Mi viene in mente una scena de La Nuit di Wiesel. Dopo che Eliezer e gli altri ebbero completato la loro iniziazione al campo e si furono riuniti nel blocco per la notte, il giovane polacco responsabile disse loro: "Siamo tutti fratelli e subiamo la stessa sorte. Sopra le nostre teste aleggia lo stesso fumo. Aiutatevi gli uni con gli altri". E Wiesel commenta: "Quelle furono le prime parole umane".[59] Sono parole umane perché attestano la santità della relazione umana. Sono parole che mantengono il loro legame con il significato, perché il legame di una parola con il significato risiede nella sua capacità di coinvolgere un essere umano in una relazione con un altro.
Questo accento sulle relazioni umane è il segno distintivo della saggezza ebraica. "Chi è saggio?" chiede Ben Zoma. E lui risponde: "Colui che può imparare da ogni persona" (Pirkei Avot 4:1), da ogni persona, dal neonato al malato di Alzheimer. C'è la Torah in tutte le cose e in tutte le persone. Se "l'uomo è il linguaggio di Dio", come insegna Menachem Mendel di Vitebsk, discepolo del Grande Magghid,[60] allora l'uomo è il linguaggio della Torah. Pertanto, come insegna Rabbi Papa nel Talmud, chi ha solo la Torah non ha nemmeno la Torah (Yevamot 109b). Non è così sorprendente che il Maggid commenti non solo ciò che possiamo imparare dai grandi saggi della tradizione ma anche da un bambino e da un ladro. Dal bambino, spiega, impariamo (1) come ridere, (2) come piangere e (3) come tenerci costantemente occupati. Il ladro ci insegna quanto segue: (1) qualunque cosa faccia, lo fa in segreto; (2) ciò che non ottiene oggi cercherà di ottenerlo domani; (3) è leale verso i suoi complici; (4) è pronto a sacrificarsi per l'oggetto del suo desiderio; (5) non ha paura delle difficoltà; e (6) non vuole essere nessuno se non se stesso: niente può fargli cambiare mestiere.[61] Da notare che, sebbene ciascuno abbia saggezza da impartire, ciascuna saggezza è diversa dall'altra. La saggezza del bambino è la saggezza dell'emozione, della ruah o spirito, del fervore. La saggezza del ladro è orientata al raggiungimento di uno scopo o di un compito, la saggezza dell'intelletto e del calcolo, di binah. Entrambi devono contribuire alla ricerca della Torah, del tikkun e della redenzione.
"Chi vuole fervore non lo cerchi sulle vette delle montagne", insegnò il Maggid di Mezeritch, "piuttosto si chini e cerchi tra le ceneri".[62] All'indomani della Shoah, ecco dove siamo, dove cerchiamo di dimorare, dove e come perseguiamo la missione di redenzione: frugando tra le ceneri. Tra gli insegnamenti del Maggid più rilevanti per il nostro mondo post-Olocausto c'è questo: "Sion è assoluta nel mondo; è la vita di tutti i paesi".[63] I nazisti si proponevano di cancellare l'insegnamento e la testimonianza millenaria ebraica che affermava l'assoluta santità di ogni essere umano e l'assoluta responsabilità collegata a tale santità. Nell'era post-Olocausto – nel movimento da Auschwitz a Gerusalemme – la restaurazione dello Stato ebraico è proprio la restaurazione di quell'insegnamento. Ogni volta che gli ebrei prendono i rotoli della Torah dall'arca, pregano questi versi del profeta Isaia: "Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola di HaShem" (Isaia 2:3). Come gli ebrei ritornano a Sion, così la Torah esce da Sion. Così la Torah emana da Mezeritch ben prima della nascita di quello che chiamiamo "il movimento sionista moderno".
Nel romanzo di Wiesel Le cas Sonderberg, il personaggio principale Yedidyah grida: "Come avrei potuto conciliare Auschwitz e Gerusalemme? Il primo sarebbe semplicemente l'antitesi, l'antievento del secondo? Se Auschwitz è per sempre la domanda, Gerusalemme sarà per sempre la risposta? Da una parte l'oscurità dell'abisso, dall'altra la luce abbagliante dell'alba? A Birkenau e Treblinka il roveto ardente si è consumato, ma qui la fiamma continua a scaldare i cuori dei sognatori messianici".[64] La fiamma scalda il cuore perché ora "ci chiniamo e cerchiamo tra le ceneri" una scintilla redentrice. Il ritratto del Grande Maggid di Mezeritch delineato da Elie Wiesel è proprio una scintilla di questo tipo.
Ritratto di Rebbe Pinhas di Koretz
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Rebbe Pinhas di Koretz. |
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Nato nel 1728 a Shklov da una povera famiglia rabbinica, Rebbe Pinhas di Koretz fu uno dei discepoli più vicini al Baal Shem. Come già notato, era uno dei tre candidati che avrebbero potuto succedere al Besht come leader del movimento chassidico. Era un candidato serio per un simile onore perché, come sottolinea Wiesel, "nel suo modo gentile, Pinhas diffidava di tutti i leader. Ecco perché rifiutò di diventarlo lui stesso".[65] Chiunque esercitasse la carica verrebbe per tale motivo inabilitato. Il ruolo di Rebbe o Zaddiq non è qualcosa che un uomo rivendica; piuttosto il ruolo rivendica l'uomo. "Se qualcuno ritiene necessario onorarmi", disse Rebbe Pinhas, "significa che è più umile di me. Ciò significa che è migliore e più santo di me. Ciò significa che dovrei onorarlo. Ma allora perché mi onora?"[66] La domanda del Rebbe era senza dubbio sincera, poiché l'umiltà era una delle sue qualità distintive. Anche quando pregava, racconta Wiesel, "pregava in silenzio, in meditazione, evitando ogni manifestazione visibile di estasi".[67] Non c'era nessuno "spettacolo" da parte di Rebbe Pinhas. A dire il vero, sapeva che più spettacolo, meno verità, e la verità era fondamentale per lui: era la sua "passione divorante", come la descrive Wiesel. "Se tutti gli uomini dicessero la verità", disse Rebbe Pinhas, "non ci sarebbe più bisogno di far venire il Messia; sarebbe già qui. Proprio come il Messia porta la verità, la verità porta il Messia".[68] Come l'umiltà è richiesta per la verità, così è richiesta per la venuta del Messia.
"Tutto quello che so", disse una volta, "l'ho imparato prima, seduto in ultima fila, fuori di vista. Adesso sono qui, a occupare un posto d’onore, e non capisco".[69] Questa affermazione illustra non solo la caratteristica umiltà del Koretzer ma anche la sua profonda saggezza. Aveva la saggezza di rendersi conto che l'apprendimento richiede umiltà. Ci vuole il coraggio di dire: "Non lo so, non capisco". Wiesel, infatti, annota che "il leggendario Reb Leib, figlio di Sarah, lo chiamava ‘il cervello del mondo’. La tradizione chassidica vuole che il Besht lasciasse la sua conoscenza al Maggid di Mezeritch, la sua santità a Reb Mikhel di Zlotchov e la sua saggezza al Rebbe Pinhas di Koretz. Nella letteratura chassidica, Rebbe Pinhas è chiamato ‘il Saggio’"[70] — non perché conoscesse le risposte ma perché conosceva le domande. "In ebraico la parola per ‘domanda’", osserva Wiesel, "è she’elah, e le alef lamed del nome di Dio [el] fanno parte del tessuto di quella parola. Quindi Dio è nella domanda".[71] Per Pinhas di Koretz, se Dio è nella domanda, Egli è anche nel racconto.
"Quando un ebreo non può fornire alcuna risposta", Wiesel apre il suo ritratto di Rebbe Pinhas, "almeno ha una storia da raccontare". E così Wiesel procede raccontando la storia di una storia. Un giorno un giovane venne a Koretz per chiedere aiuto al Rebbe. Era in uno stato di disperazione per l'insensatezza della vita. Il saggio Rebbe, tuttavia, non aveva una risposta per lui: non esiste una formula fissa che possa sbloccare il significato della vita. Solo la capacità di udire può farlo. In effetti, la parola ebraica per "significato" è mashmaut, una parola che ha la stessa radice di shma o "ascoltare". Avere un senso di significato vuol dire avere la sensazione di aver sentito qualcosa: una chiamata, un'invocazione o... un racconto. Allora, non sapendo cosa rispondere, Pinhas gli raccontò la storia dei suoi propri dubbi e della sua disperazione. Spiegò al giovane che aveva provato di tutto – preghiera, studio, pentimento – ma niente aveva funzionato. Poi un giorno, raccontò il Rebbe, sentì che il Baal Shem Tov sarebbe passato per la sua città. Andò allo shtibl per il servizio di preghiera e vide il Besht. Quando Pinhas si avvicinò al Baal Shem, questi non disse nulla ma si limitò a guardarlo negli occhi. "L'intensità del suo sguardo mi travolse", disse il Koretzer, "e mi sentii meno solo. E stranamente potei aprire il Talmud e immergermi ancora una volta nei miei studi. Vedi", spiegò, "le domande sono rimaste domande. Ma sono riuscito ad andare avanti".[72]
Per Rebbe Pinhas il problema non è l’insensatezza. No, il problema è la solitudine e l'isolamento. Rannicchiato nella solitudine solipsistica del proprio essere, l'umano si scontra con il proprio vuoto, con un mormorio di silenzio che è il mormorio di nessuno; non dice nulla e non sentiamo altro che un rombo. Il rombo del "c'è" ci travolge e siamo pieni di orrore di fronte alla radicale indifferenza di ciò che è semplicemente "lì". "L'uomo non è solo", gli disse il Besht quando si incontrarono per la prima volta. "Dio ci fa ricordare il passato per rompere la nostra solitudine".[73] In che modo il ricordo del passato spezza la nostra solitudine? Lo fa perché, come tradizione o mesorah, che è affine di meser o "messaggio", il passato non è dietro di noi: è davanti a noi. Come mai? Perché affida alle nostre cure qualcosa di infinitamente prezioso. Ci convoca a un compito e a un futuro, che è la dimensione del senso: il futuro è la dimensione del divenire che dà alla vita un senso di missione e quindi di significato.
Poiché questo senso di significato è opposto all'orrore del vuoto indifferente, Wiesel scrive: "Dio non è indifferente e l'uomo non è Suo nemico: questa era la sostanza del messaggio chassidico. Era un messaggio contro la disperazione; contro la rassegnazione. . . . Dio è ovunque, diceva il Besht. Anche nel dolore? Sì, anche nel dolore — soprattutto nel dolore. Dio esiste e ciò significa che Egli dimora in ogni essere umano. Anche negli incolti? Sì, anche negli incolti. Anche nei peccatori. Negli umili, soprattutto negli umili, Egli si può trovare. E può essere percepito da tutti".[74] Viene subito da chiedersi: "Anche ad Auschwitz?"
Rebbe Pinhas insegnava che "Dio e la Torah sono Uno. Dio, Israele e la Torah sono Uno".[75] Se è così, allora Dio, Israele e la Torah erano presenti ad Auschwitz? Israele era certamente lì. Lì Israele venne gassato e bruciato. Ma Dio? Se, come insegnava il Koretzer, "nessun uomo può alzare la voce in preghiera se non quando la Shekhinah prega tramite essa",[76] allora nelle preghiere degli ebrei e nella danza dei chassidim che sorse ad Auschwitz, Dio era lì, anche. Quindi Dio e Israele erano lì. Anche la Torah era lì: ad Auschwitz Wiesel studiò la Torah Orale con un rabbino che la conosceva a memoria. Se c'è qualcosa da trasmettere con la testimonianza è perché Dio in qualche modo era presente anche lì. E se era presente anche lì, allora Egli deve essere presente anche nel dopo.
"Colui che aiuta un'altra persona", insegnava Rebbe Pinhas, "crea l'Angelo Azrael (Aiutante Divino)".[77] Questo insegnamento è, ovviamente, basato sull'insegnamento del Besht: "Da ogni buona azione che facciamo, nasce un angelo buono. Da ogni cattiva azione nasce un angelo cattivo" (Toledot Yaakov Yosef, Haye Sarah 3). In che modo un essere umano aiuta un altro a creare l'Angelo Azriel? Proponendosi non di salvare l’anima dell'altro ma di guarire il corpo dell'altro, come quando anche nell'antimondo accadeva che un uomo offrisse a un altro un boccone di pane. "Abbi cura della tua anima", disse Rabbi Pinhas, "e del corpo di un altro uomo, ma non del tuo proprio corpo e dell'anima di un altro uomo".[78] Dal punto di vista chassidico e in linea con il lascito chassidico di Wiesel, la redenzione non sta nel convincere le persone a una particolare fede o credo; infatti, tale visione della redenzione ha portato (e continua a portare) al massacro di milioni di esseri umani. No, la redenzione sta nel nutrire gli affamati, nel vestire gli ignudi e nel curare gli infermi, soprattutto dopo il periodo in cui la fame, la nudità e la malattia affliggevano metà del mondo ebraico. Perché Dio stesso è affamato, nudo e infermo.
Osservando il ritratto del Rebbe Pinhas di Koretz fatto da Wiesel, sono convinto che il Rebbe lo capisse. Una volta la contessa proprietaria di Koretz passò davanti alla finestra del Rebbe e lo sentì erompere in un angoscioso grido di dolore. "Non ho mai sentito un grido pieno di tanta verità", disse ai suoi accompagnatori.[79] La verità richiede angoscia. Angoscia per cosa? Per la condizione fisica dei nostri simili. "Se solo sapessi cantare", sussurrò una volta Rebbe Pinhas, "Lo costringerei a scendere e a stare con i Suoi figli, a testimoniare la loro sofferenza e a salvarli"[80] – salvarli come noi siamo chiamati a salvarli, non da una "fede sbagliata" ma da una sofferenza in carne e ossa, forse da una sofferenza radicale e da un massacro di cui Rebbe Pinhas, come altri Zaddiqim, potrebbe aver avuto qualche premonizione. Wiesel ci ricorda che la comunità ebraica di Koretz fu annientata nel Sukkot del 1941, poche settimane dopo che le unità di sterminio degli Einsatzgruppen si spostarono verso est, con la direttiva principale di uccidere ogni ebreo sul loro cammino. E solleva la questione se Rebbe Pinhas avesse avuto un'intuizione della loro fine. Era per questo che fu afflitto da una tremenda malinconia?[81]
Infatti, più che nella malinconia, alla fine della sua vita il Rebbe Pinhas cadde in uno stato di orrore e disperazione. Colui che aveva raccontato al giovane una storia per sollevarlo dalla disperazione non aveva nessuno da cui ascoltare una storia del genere. Ciò che Wiesel chiama la sua disperata paura della morte è forse la paura dell'insensatezza e dell'isolamento a cui il Rebbe si oppose per tutta la vita.[82] Wiesel conclude il suo ritratto dicendo: "Il suo mistero rimane intatto. Non sappiamo cosa gli sia successo alla fine della sua vita, non lo sapremo mai. Lui che era sempre composto, calmo e sereno, perché alla fine fu posseduto da tanta paura? Cosa aveva intravisto? Quali visioni ebbe e su chi? Quali erano le domande? E c'erano risposte? All'improvviso capì pienamente che gli ebrei non avevano amici, da nessuna parte? Gli era ormai chiaro che il Messia sarebbe arrivato tardi, molto più tardi di quanto avesse previsto, molto più tardi di quanto avesse temuto?"[83] Sì, il Messia. . . . Non abbiamo parlato del Messia o della dichiarazione di Rebbe Pinhas secondo cui "essere ebrei significa collegare il proprio destino a quello del Messia — a quello di tutti coloro che aspettano il Messia".[84] È destino del Messia essere sempre in ritardo? Se è così, è perché noi siamo sempre in ritardo.
Ritratto di Rebbe Aharon di Karlin
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Aharon di Karlin e Dinastia Karlin-Stolin. |
Rebbe Aharon di Karlin nacque nel 1736, l'anno in cui si rivelò il Besht; morì all'età di trentasei anni. Fu famoso per la sua capacità di attirare gli ebrei nell'ambito del chassidismo. Il Maggid di Mezeritch lo mandò a fondare un centro chassidico in Lituania, in mezzo ai Mitnagdim. Ebbe così tanto successo che "per un certo periodo i Mitnagdim chiamarono tutti i Hasidim ‘Karliner’".[85] Scrive Wiesel: "Il Maggid di Mezeritch lo amava — e anch'io. Il Rebbe Aharon aveva il talento speciale di saper riconoscere i migliori giovani studenti, quelli più sensibili, e di avvicinarli al chassidismo. Ma non tenne con sé i nuovi arrivati; li mandò immediatamente a Mezeritch, al grande Maggid".[86] Rebbe Aharon poteva accendere un'anima con solo una semplice parola o due, come quando una volta pronunciò un sermone di una sola frase: "Chi non migliora, peggiora". Quando Reb Chaim-Heykel udì queste parole, corse da Rebbe Aharon e gridò chiedendo il suo aiuto. Disse: "‘Le tue parole ora sono dentro di me, mi fanno a pezzi’. E i due uomini se ne andarono insieme. ‘Vorrei seguirvi’, disse Reb Chaim-Heykel di Amdur. ‘Così sia’, disse Rebbe Aharon. ‘Vai a Mezeritch.’" Reb Chaim-Heykel divenne uno dei seguaci più illustri del Maggid e un amico intimo di Rebbe Aharon.[87] Era la cosa migliore dopo il mandarli al Besht stesso. Rebbe Aharon capì che il nuovo movimento non riguardava lui, nonostante il fatto che i Mitnagdim per un certo periodo si riferissero ai chassidim come "Karliner".
Rebbe Aharon diceva che quando i Hasidim si incontrano, dovrebbero studiare insieme lo Zohar. Se non sono in grado di studiare lo Zohar, allora dovrebbero imparare il Talmud. Se non riescono a imparare il Talmud, allora dovrebbero aprire la Bibbia. Se questo è troppo difficile, allora dovrebbero scambiarsi le storie dei Maestri Chassidici. Se non conoscono alcuna storia, disse, lasciamoli cantare un niggun, una melodia chassidica senza parole che accende il fuoco nell'anima. "Ma cosa succede se, guai a noi, non conoscono un niggun?" chiede Wiesel. "Ebbene, in tal caso", risponde, "lasciamoli . . . amarsi." E aggiunge: "Questo consiglio – più di qualsiasi altro detto pronunciato da qualsiasi Maestro – riassume l'atteggiamento del movimento chassidico: chiedi il massimo all'uomo, ma accettalo così com'è"[88] – amalo così com’è. Perché l'essere umano è già figlio del Santo ed è quindi infinitamente prezioso. Questo è il messaggio che Rebbe Aharon di Karlin fu inviato a consegnare agli ebrei dell'Europa orientale. "Qual è la differenza tra il Mitnagged e i Chassid?" Wiesel ce lo ricorda. "Il Mitnagged ama la Torah, mentre il Chassid ama la persona che ama la Torah. Il Chassid pone l'accento sull'uomo, che è destinato a cambiare, mentre il Mitnagged lo pone sulla Torah, che è al di sopra del cambiamento. Il Mitnagged trova la sua felicità nei libri, il Chassid nelle persone; il Mitnagged cerca la conoscenza, il Chassid l'esperienza."[89] Ricordiamo l'insegnamento talmudico di Rabbi Papa citato sopra: colui che ha solo la Torah non ha nemmeno la Torah (Yevamot 109b). Rebbe Aharon di Karlin venne per riportare gli studiosi del Talmud a questo insegnamento talmudico.
Il ritratto di Aharon di Karlin realizzato da Wiesel è un ritratto dell'amore: l'amore è la chiave del movimento chassidico, concepito non come un sentimento tra tanti ma come una presenza viva tra due. "Sentimenti che uno ‘ha’", spiega Martin Buber. "L'amore accade. I sentimenti dimorano nell'uomo, ma l'uomo dimora nel suo amore".[90] Proprio così, l'anima in fiamme è un'anima che si eleva tra due, e non solo dentro. "Cos'è un vero Chassid?" scrive Wiesel. "Sotto un cappotto strappato, dentro una baracca, un cuore spezzato ma desideroso di perfezione. E questo desiderio di per sé è sufficiente. L'obiettivo dell'uomo è essere degno di Dio, ma Dio lo accetta anche quando non lo è, a condizione che lo voglia veramente; purché, inoltre, ami il suo amico e prossimo. . . . Non tutti sono capaci di Ahavat-Hashem, amore di Dio; o di Ahavat-Torah, amore per la Torah; ma tutti devono essere capaci di Ahavat-Israel, amore per il prossimo".[91] Disse Rebbe Shlomo, un discepolo di Rebbe Aharon: "Vorrei poter amare il meglio dei giusti tanto profondamente quanto Dio ama il peggiore dei malvagi".[92] Cercare quell'amore divino per ogni essere umano è ciò che significa essere santi come Dio è santo. A dire il vero, non c’è Ahavat-Torah, né Ahavat-Hashem, senza amore per il prossimo, per l'essere umano, perché in quell'amore realizziamo la nostra stessa umanità come creata a immagine e somiglianza del Santo. E senza amore per lo straniero, potremmo aggiungere, non esiste Ahavat-Israel. Alla fine, l'amore per lo straniero è la cosa più cruciale. Pertanto il comandamento di amare, prendersi cura e mostrare gentilezza verso lo straniero appare trentasei volte nella Torah, più di ogni altro comandamento.
La Torah ci comanda di amare il prossimo (Levitico 19:18) e di amare lo straniero (Levitico 19:34) k’mokha, "come te stesso". Secondo il Baal Shem, il comandamento di amare k’mokha è la base dell'intera Torah (Toledot Yaakov Yosef, Korah 2). Se esaminiamo la parola ebraica k’mokha, "come te stesso", così come le- in lereakha o leger, "il tuo prossimo" o "lo straniero", una traduzione migliore sarebbe: "Agirai in maniera amorevole" verso il tuo prossimo, verso lo straniero, perché quella relazione d'amore è ciò che sei", come sta scritto (Toledot Yaakov Yosef, Veethanan 5). Il comandamento riguardo sia al prossimo che allo straniero è seguito dalla frase "Io sono HaShem", indicando che la relazione umana e la relazione superiore sono un tutt'uno. Dove crolla la relazione umana, crolla anche la relazione superiore. E in entrambe le relazioni risiede l'umanità dell'essere umano. Questa verità insegnata da Rebbe Aharon era al centro dell'estasi, della letterale danza di gioia, che era così centrale nella saggezza chassidica.
Di cosa è fatta l'estasi chassidica? È fatto di stupore e amore. Ci sono quattro livelli di stupore e amore nell'approccio alla Presenza Divina. Il primo è il timore reverenziale inferiore, che non è altro che paura, dove seguiamo la Torah per paura della punizione. Poi viene l'amore inferiore, che è la contraffazione dell'amor proprio, dove osserviamo i comandamenti nella speranza di una ricompensa. Poi c'è l'amore più elevato, dove abbracciamo i comandamenti spinti dall'amore per Dio. Infine, c'è lo stupore più elevato, dove abbiamo un'idea della grandezza della santità di Dio e dell'amore per la Sua umanità. Al di là del timore reverenziale superiore c'è il reame in cui il timore reverenziale e l'amore di Dio sono un tutt'uno. È lì che dimora lo Zaddiq. È lì che dimora Rebbe Aharon. È lì che si trova il suo ritratto. Dice Wiesel, commentando la paura e l'amore di Rebbe Aharon: "Questa paura terribile, questo stupore totale che provava non soffocò né diminuì il suo amore per Dio. Dopotutto era un chassid, e il chassidismo aveva lo scopo di combattere la paura — e la solitudine. Il chassidismo definiva se stesso e la sua relazione con i propri membri esclusivamente in termini di amore".[93] Di cosa era fatto il fervore estatico dei Chassidim Karliner? Era fatto di stupore e amore, che insieme trascendono la paura e la solitudine. Con questa fusione di stupore e amore, in Karlin il timore di Dio era "il timore per Dio – il timore di non offendere, di non ferirLo. E l'uno non escludeva né negava l'altro: al contrario, l'uno completava e arricchiva l'altro".[94] Sì: timore di non ferirLo. Forse Dio non è così invulnerabile come potremmo supporre. Forse dobbiamo prenderci cura di Lui e vegliare su di Lui come faremmo con un neonato, altrimenti Egli morirà. Qui sta il fervore.
"Questo è ciò che caratterizzava Karlin: hitlahavut — fervore, entusiasmo", Wiesel abbozza il suo ritratto. "A Karlin si viveva sempre in cima alle montagne. A Karlin il chassid veniva costantemente bruciato dal fuoco sacro".[95] Il k’mokha è ciò che porta i chassidim a tali altezze. Il fuoco è fatto del k’mokha, poiché apre l'infinito, quello infinitamente caro, davanti a noi e al di là di noi, di cui siamo infinitamente responsabili. Qualsiasi altra responsabilità del genere ci schiaccerebbe. Forse è per questo che, almeno in alcuni casi, questa passione era così ostile all'isolamento nella yeshivah dei Mitnagdim, per i quali la yeshivah era una sorta di fortezza: i Mitnagdim "non apprezzavano particolarmente il fervore, l'esibizionismo dei Chassidim ai servizi. I Chassidim gridavano, cantavano, saltavano su e giù, danzavano e spesso si rotolavano anche per terra per raggiungere l'estasi".[96] Tale comportamento minacciava la sicurezza del controllo ricercato nella conoscenza, dove chi ha il controllo è il sé conoscente. Tuttavia, quanto maggiore è il controllo del sé raziocinante sul mondo, tanto più fallita è la sua vita spirituale. No, l'anima, la neshamah, trae il suo respiro, il suo neshimah, dall'infinita responsabilità verso e per colui che è stato creato a immagine e somiglianza del Signore Infinito, il che richiede l'uscita dalla fortezza della Casa dell'Apprendimento. Richiede il bitul hayesh che è la totale abrogazione dell'ego, dell'"io" contraffatto, che cerca solo sicurezza.
E così in questo ritratto abbiamo la storia dello straniero che venne da Mezeritch e bussò alla porta del Rebbe Aharon. Il Rebbe disse: "Chi è?" Lo sconosciuto rispose: "Sono io. Non mi riconosci?" Rebbe Aharon rispose: "Solo Dio e Dio soltanto Dio può dire ‘io’ o ‘mi’. E se non l'hai ancora imparato, allora hai sbagliato a lasciare il nostro Maestro. Meglio che tu ritorni a Mezeritch".[97] Perciò "in Karlin", spiega Wiesel, "si cercava di raggiungere la realizzazione interiore attraverso la negazione del sé. Si sperava di creare il silenzio attraverso le parole e una melodia, un niggun, nel silenzio interiore. E la preghiera dentro il niggun.[98] Una preghiera dentro il silenzio: lì si crea il niggun, dentro la melodia senza parole, dentro il niggun che supera l'enunciato.
Se a Karlin vivevi in cima delle montagne, non hai bisogno di andare oltre il tuo soggiorno per salire su tali vette. "Quando un pastore è sopraffatto da un sentimento di meraviglia alla vista di un tramonto", scrive Wiesel in questo ritratto, "quando un bambino vorrebbe dire qualcosa ma non ci riesce, e così ripete una parola più e più volte finché non viene capito – ecco, questo è un segno che lo sguardo di Dio è su di loro. E questo è il segreto di tutti i segreti: il Signore dell'Universo, che ha creato trecento e dieci mondi [cfr. Baal HaTurim in Genesi 1:1] e regna sull'infinito, ha scelto di dimorare nel cuore dell'uomo".[99] Così, il Signore dell'Universo ci segue dal nostro interiore in ogni movimento che facciamo. Perché "ogni uomo è un santuario e spetta all'uomo invitare Dio al suo interno. Come lo ha formulato Rebbe Mendel di Kotzk: Dio è dove Gli è permesso entrare. La dimora preferita di Dio non è né un palazzo d'oro né un edificio di marmo, ma il cuore dell'uomo".[100] Come invitiamo Dio a entrare? Attraverso la gioia e il ringraziamento, anche – o soprattutto – quando non vediamo motivo di rallegrarci o di ringraziare.
Rebbe Aharon una volta tornò a casa da uno dei suoi viaggi nel mondo dei Mitnagdim, solo per trovare ebrei che pregavano senza fervore e studiavano senza concentrazione. Disse loro: "Figli miei, figli miei, voglio che sappiate che la gioia vi eleverà ad altezze vertiginose; voglio anche che sappiate che la tristezza vi trascinerà nell'abisso".[101] Studio? Sì. Comprensione? Sì, assolutamente. Ma senza fervore, gioia e gratitudine, queste altre qualità portano solo alla tristezza. In effetti, chi può guardare il mondo solo attraverso gli occhi della ragione e dell'intelletto e non soccombere alla disperazione? Ci sono momenti in cui la ragione e l'intelletto si rivelano falliti. Ci sono momenti in cui, per andare avanti come testimoni di Dio, dobbiamo cercare la passione che si trova solo nella cenere. Quelle ceneri sono il mezzo per questo ritratto del Rebbe Aharon di Karlin.
"Di cosa morì Rebbe Aharon e perché così giovane?" chiede Wiesel. "Accadde nel mese di Nissan 1772. I discepoli del Maggid scelsero di non tornare a casa dalle loro famiglie per Pesach, ad eccezione di Rebbe Aharon, che decise di trascorrere Pesach con la sua famiglia, i suoi amici e i suoi discepoli. Anche se il Maggid diede a Rebbe Aharon la sua benedizione affinché andasse, più volte inviò dei rappresentanti a supplicare Rebbe Aharon di non andare. Rebbe Aharon tornò a casa e morì due giorni dopo.[102] Allora di cosa morì Rebbe Aharon? Può un uomo, uno Zaddiq, morire di una visione? Lui, il Rebbe Karliner, aveva una visione di cosa ne sarebbe stato dei Karliner Hasidim? Wiesel scrive:
Nessuno di noi potrà mai saperlo. E se dovessimo presumere di saperlo, ciò tradirebbe un profondo disprezzo, una profonda mancanza di rispetto e una profonda incapacità di avvicinarsi a questo ritratto del Rebbe Aharon di Karlin. Perché avvicinarsi al ritratto significa avvicinarsi alla visione profetica del maestro chassidico che ci arriva attraverso il lascito chassidico di Elie Wiesel.
Elimelekh di Lizensk e suo fratello Zusia di Onipol
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Elimelekh di Lizensk, Zusia di Onipol, Zaddiq, Halakhah, Chassidut e Aggadah. |
In Elimelekh di Lizensk e suo fratello Zusia abbiamo una coppia veramente nella tradizione non solo di Chassidut ma anche di Zugot. È una tradizione che riprende da dove ci eravamo lasciati con il Rebbe Aharon di Karlin, come racconta Wiesel. Un giorno i Maestri itineranti, Rebbe Elimelekh e suo fratello Reb Zusia, si fermarono in una locanda di una piccola città mentre stava calando il crepuscolo. "Presto il posto cadde nel silenzio. E buio. All'improvviso si svegliarono in preda al panico, sopraffatti da una paura inspiegabile. La loro paura era così violenta che abbandonarono quella locanda e il villaggio nel cuore della notte. Il nome del luogo: Oushpitsin — meglio conosciuto dalla nostra generazione come Oświęcim, o Auschwitz".[103] Cosa significa? Significa che potrebbe esserci stata tra i maestri chassidici una visione preveggente non solo sulla distruzione del loro mondo, ma anche su ciò che potrebbe essere recuperato dalle ceneri della distruzione, per provvedere al ripristino del suo patrimonio, senza il quale non può esserci redenzione, né per il popolo ebraico né per l'umanità.
E così arriviamo a Elimelekh e suo fratello Zusia. "Senza l'uno o l'altro, il chassidismo sarebbe stato diverso", afferma Wiesel. "Insieme hanno dato un volto al suo futuro. Negli anni a venire, affinché un Rebbe fosse integro, doveva essere sia Rebbe Zusia – l'innocenza e l'umiltà personificate – sia Rebbe Elimelekh, suprema incarnazione di autorità e potere. I loro due ritratti – così distinti e intrecciati – sono rimasti singolarmente vivi nella memoria chassidica".[104] Sì, un futuro – se è futuro – deve avere un volto, un aspetto, una traccia di santità trasmessa attraverso un ritratto. In Elimelekh e Zusia ci rendiamo conto che come l'anima vive nel mezzo di una relazione, così anche il volto emerge solo nel mezzo di una relazione, dallo spazio tra due. Ciò che emerge da questo ritratto di Elimelekh di Lizensk e Zusia di Onipol è il volto.
Wiesel prosegue delineando il contrasto tra i due fratelli dicendo: "Per tutta la vita Elimelekh aspirò a realizzarsi attraverso la sofferenza, che lo scherniva sfuggendogli. Zusia invece, costantemente battuto dalla vita e tormentato da Colui che dà la vita, si considerava il più felice degli uomini".[105] Elimelekh pensava davvero di dover andare a cercare la sofferenza? Non era abbastanza paziente da lasciare che lo trovasse? Zusia è ancora più sconcertante. Quando gli fu chiesto come potesse essere felice quando aveva sperimentato così tanta sofferenza, Zusia non capì la domanda: provava solo gratitudine. E la gratitudine genera compassione. "Zusia, come Levi Yitzhchok di Berditchev", dice Wiesel, "era incapace di trovare difetti negli altri; suo fratello voleva che tutti gli uomini fossero perfetti. Elimelekh predicava la severità. Zusia sosteneva la compassione. . . . Elimelekh era temuto, Zusia era amato. Timore e amore: i due sentimenti a cui uno Zaddiq deve ispirare".[106] Come per la Casa di Shammai e la Casa di Hillel, vediamo la necessità che entrambi comprendano il ritratto, che non è un ritratto né dell'uno né dell'altro; piuttosto è il ritratto di una relazione da cui può emergere un lascito – un insegnamento e una testimonianza.
L'insistenza di Zusia sulla compassione era un'insistenza sulla compassione non per se stesso ma per gli altri. Si racconta che una volta un locandiere maltrattasse un mendicante, senza sapere che il mendicante era in realtà Rebbe Zusia. Quando si rese conto con chi era stato così crudele, andò dal Rebbe Zusia e implorò perdono. Rebbe Zusia gli disse di cercare i mendicanti per strada, invitarli nella sua locanda e implorare il loro perdono.[107] Sotto l'ammonimento di Zusia verso l'oste si intuisce un ammonimento di Zusia verso se stesso. "Ai suoi occhi", spiega Wiesel, Zusia "era il peggiore dei peccatori. . . . Menachem Mendel di Kotzk disse di lui: ‘Come ci sono dei geni scientifici, ce n'è uno in materia di umiltà, e mi riferisco al Rebbe Zusia’".[108] Disse il Rebbe Zusia: "Quando dovrò affrontare il tribunale celeste, non mi verrà chiesto perché non ero Abramo, Giacobbe o Mosè. Mi chiederanno perché non ero Zusia".[109] Mi si chiederà, in altre parole, perché non ho curato meglio il grande tesoro che mi era stato affidato e perché non sono stato più reattivo quando chiamato per nome. Vediamo così la severità verso se stessi necessaria per avere compassione verso l'altro.
Quanto a Elimelekh, se seguiva la via del giudizio e della severità, si giudicava molto severamente. "‘Così tante persone vengono da me con le loro suppliche’, affermò una volta. ‘Uno piange per la salute, un altro per il pane, un terzo per una vita migliore. Perché vengono da me? Perché in verità sono responsabile della loro malattia, della loro fame e della loro miseria!’. Ciò significa che le responsabilità proprie del chassid sono diminuite? Sicuramente no. Solo spostate. È responsabile di ciò che accade allo Zaddiq, delle sue grida, della sua angoscia spirituale".[110] La responsabilità è come una corrente elettrica alternata: va in entrambe le direzioni. Tuttavia, l'insistenza sul rigore e sull'autorità della Halakhah è un'insistenza su una responsabilità infinita che non spetta all'altra persona ma proprio a me. Quindi, dice Wiesel, "Lizensk significava totale preoccupazione da parte di ogni chassid per i suoi simili".[111] E poiché la responsabilità è infinita, è una responsabilità per la redenzione stessa. Ad un certo punto, insegnò Rebbe Elimelekh, "uno Zaddiq deve assumersi la responsabilità della mancata venuta del Messia".[112] Quale colpa più grave può esserci?
Elimelekh disse: Il Tribunale Celeste "mi chiederà se sono stato giusto; dirò di no. Poi mi chiederanno se sono stato caritatevole; dirò di no. Ho dedicato la mia vita allo studio? No. Forse alla preghiera? Ancora no. E il Giudice Supremo sorriderà e dirà: ‘Elimelekh, Elimelekh, tu dici la verità — e solo per questo puoi entrare in paradiso’".[113] Se Elimelekh dice la verità, è una verità che vive in mezzo al faccia-a-faccia di una relazione, a volte di una relazione che richiede più differenze che somiglianze. "La passione di Elimelekh era il Talmud", dice Wiesel, "mentre Zusia era un sognatore e incline alla pura contemplazione".[114] L'implicazione? Elimelekh era più propenso verso Halakhah, o verso la sefirah di Gevurah, di severità e giudizio; Zusia, d'altra parte, propendeva maggiormente verso la Aggadah, o verso la sefirah di Hesed, di misericordia, compassione e gentilezza amorevole.
Riconoscendo la capacità dei fratelli di liberare le scintille della santità dalla materia della creazione, il Grande Maggid inviò Elimelekh e Zusia ad attraversare la campagna polacca, in modo da diffondere il Chassidut in tutto il paese, proprio come aveva inviato Rebbe Aharon di Karlin in Lituania. "Una tradizione vuole", scrive Wiesel, "che ogni luogo in cui soggiornarono, anche per una notte, fu annesso al regno chassidico".[115] Proprio come i fratelli apportarono una trasformazione agli ebrei della Polonia, così, dice Wiesel, "nessuno passò immutato da Lizensk".[116] Rebbe Elimelekh si stabilì a Lizensk nel 1777 e lì morì nel 1788. Tra i suoi discepoli ci fu il famoso Santo Veggente di Lublino. I chassidim erano soliti dichiarare che "dopo il fondatore – il Baal Shem – e l'architetto – il Grande Maggid – venne Elimelekh – il maestro"[117] – che attraverso questo ritratto diventa il nostro maestro.
Ritratto di Moshe-Leib di Sasov
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Il grande scrittore yiddish Isaac Leib Peretz scrisse una famosa storia intitolata "Se non più in alto" basata su un racconto chassidico che riguardava Moshe-Leib di Sassov.[118] L'eroe della storia di Peretz è l'innominato Rabbino di Nemirov. Si svolge durante il periodo delle preghiere penitenziali che portano a Rosh haShana, ai Yamim Noraim (יָמִים נוֹרָאִים, "Giorni del Timore Reverenziale") e allo Yom Kippur. Ogni anno in quel periodo il Rabbino scompariva nelle prime ore del mattino. Alcuni chassidim si chiedevano: dove potrebbe esser andato? Perché, dove altro? Era asceso ai reami più alti dei mondi più alti per perorare la causa del popolo ebraico davanti all'Altissimo, al Santo stesso.
Un certo Mitnagged Litvak, che un anno passò per caso da Nemirov, era ovviamente scettico. Determinato a smascherare il Rabbi di Nemirov come un impostore e i chassidim come degli sciocchi, una notte si intrufolò nella stanza del rabbino, si nascose sotto il letto e attese. Era determinato a scoprire dove fosse scomparso il rabbino. Quando il Rabbi si destò, il Litvak lo guardò vestirsi con abiti da contadino, con una pesante corda che penzolava dalla tasca della giacca. Uscì dalla sua stanza, prese un'ascia dalla cucina e si avviò nell'oscurità prima dell'alba, seguito dal Litvak.
Il rabbino si diresse verso la periferia di Nemirov e nel bosco. Lì il Litvak lo vide abbattere un albero e tagliarlo a pezzi. Il Rabbi quindi preparò un fascio di stecchi, avvolse la corda attorno al fascio e tornò in città. Il Litvak vide poi il rabbino fermarsi presso una baracca fatiscente dove viveva una vecchia ebrea malata. Il Rabbi travestito bussò alla porta. La donna chiese chi fosse lì e lui le disse che era Vasily, un contadino russo che vendeva legna. Lei rispose che non aveva soldi, ma lui disse: "Non importa" ed entrò nella baracca. Il rabbino contadino russo procedette ad accendere il fuoco e, mentre lo faceva, pronunciò la prima delle Preghiere Penitenziali. Mentre il legno bruciava, recitò la seconda parte, e poi la terza — dopodiché Litvak divenne discepolo del Rabbi di Nemirov. Da quel momento in poi, ogni volta che il Litvak sentiva uno dei chassidim di Nemirov dichiarare che il rabbino era scomparso nei reami più alti per perorare la causa degli ebrei, lui semplicemente annuiva, sorrideva e dichiarava: "Sì, se non più in alto".[119]
Nella versione di Peretz, sottolinea Wiesel, il Rabbi di Nemirov è anonimo; secondo il racconto di Reb Zvi-Hersh di Zhidachov, invece, non si tratta altri che di Moshe-Leib di Sassov. La vecchia malata non è ebrea ma cristiana, l'episodio non avviene durante le preghiere penitenziali ma in una notte d'inverno, e colui che segue il Rebbe non è un Litvak ma lo stesso Reb Zvi-Hersh.[120] "Questa è la sostanza stessa del chassidismo", commenta Wiesel. "L'uomo santo non deve necessariamente apparire santo; può apparire come un contadino, un vagabondo, un operaio, un mercante. Non deve necessariamente restare all'interno del Talmud, dello Zohar o delle preghiere: può, e in effetti dovrebbe, lasciare la sua casa, lasciare il suo rifugio, lasciare il suo studio e il suo lavoro, e andare nella foresta, e forse tagliare legna per avvicinarsi a Dio".[121] Se l'uomo santo non appare necessariamente santo, lo stesso vale per l'atto santo.
Un Erev Yom Kippur (vigilia di Yom Kippur) – Wiesel racconta un'altra storia di Moshe-Leib – i Chassidim di Sassov erano riuniti nella sinagoga per ascoltare il rabbino cantare il Kol Nidre, la preghiera che inaugura lo Yom Kippur e la preghiera più sacra dell'anno, cantata come solo Moshe-Leib poteva cantarlo. Tra i fedeli c'era una giovane vedova che aveva un bambino piccolo a casa. Abitava molto vicino alla sinagoga. Mise il suo bambino nella culla e pensò che sarebbe potuta andare alla sinagoga giusto il tempo necessario per sentire il rabbino cantare il Kol Nidre; non avrebbero dovuto volerci più di quindici minuti circa. Dopo aver aspettato cinque, dieci, poi quindici minuti, una voce gridò dentro di lei: "Dove poteva essere il Rabbi, lui che conosceva meglio di chiunque altro l'importanza di essere al posto giusto al momento giusto quando ci si presenta davanti al Santo?" Così lasciò la sinagoga e corse a casa dal suo bambino. "Con sua sorpresa scoprì che il suo bambino non era solo. Un uomo cullava in braccio suo figlio e cantava per lui a bassa voce. Era il Rebbe, che disse: "Cosa potevo fare? Mentre passavo davanti a casa tua ho sentito un bambino piangere: dovevo restare con lui.’"[122] Come saliamo più in alto di quanto ci porta il Kol Nidre? Tenendo tra le nostre braccia un bambino bisognoso di conforto.
Nato a Brody nel 1744, Moshe-Leib non incontrò mai il Besht o il Grande Maggid; era un discepolo del grande studioso talmudico Reb Shmelke di Nikolsburg. Il profondo amore chassidico di Moshe-Leib per l’essere umano era un amore che sembrava solo eclissare il suo amore per Dio; infatti, sapeva che non esisteva espressione più alta del suo amore per Dio dell'amore espresso cullando un bambino tra le sue braccia. Penso che questo sia vero per chiunque abbia tenuto tra le sue braccia una nuova anima entrata in questo reame da non più di cinque secondi, fissando quegli occhi che danno il loro primo sguardo su questo mondo. In quel momento otteniamo la saggezza dei saggi, una saggezza immersa in un amore diverso da qualsiasi altro, immersa nell’amore per Dio. Dice Wiesel: "Moshe-Leib amava camminare, gridare ed essere innamorato. . . con Dio".[123] Il suo amore per Dio lo portò a prendere in braccio il bambino piuttosto che recitare la preghiera più santa dell'anno! Perché l'amore del bambino non è un mezzo per amare Dio: è l'amore per Dio.
Cosa, secondo Moshe-Leib di Sassov, ci lega più profondamente ai nostri simili? È la fame: un insegnamento che, nella nostra epoca post-Olocausto, deve essere pronunciato con una certa paura e tremore e in un certo contesto. "Vedi, Moshe-Leib, si disse, la fame è più importante del cibo. Pensa a tutti i prezzi sovralimentati e supernutriti e ai leader che possono mangiare, mangiare e mangiare fino alla fine della loro vita: sono felici? No, non lo sono. Non sono felici perché non hanno fame. Ma tu hai fame, Moshe-Leib. Fame come un leone, quindi di cosa ti lamenti? Ringrazia Dio per la tua fame! Più forte Moshe-Leib! Hai una voce forte, grida! Dì a Dio quanto sei grato — e non solo quanto sei affamato".[124] Eppure, in linea con la tradizione e l'insegnamento chassidico, noi che viviamo nel mondo post-Olocausto dobbiamo sollevare la nostra protesta contro queste parole che ora sembrano minarne il significato. "Il Lager è fame", dichiara Primo Levi. "Noi stessi siamo fame, fame vivente".[125] Tuttavia, anche in quell'ambito, se un briciolo di significato doveva essere trovato, era nel movimento di ascesa che caratterizza il strappare il pane dalla propria bocca e offrirlo all'altro, movimento che nell'universo concentrazionario potrebbe effettivamente equivalere a morire per un altro. Dove si trova la chiave per aprire la porta più alta che conduce al reame più elevato del Santo? In un pezzo di pane.
"Vuoi sapere, chiese Reb Moshe-Leib di Sassov, se quello che stai facendo è giusto? Chiediti se ti avvicina all'uomo. Se così non fosse, allora stai andando nella direzione sbagliata: ti stai allontanando da Dio. Perché anche l'amore di Dio deve essere misurato in termini umani. Bisogna amare Dio e l'uomo e non agire mai contro l'uomo o senza l'uomo: tale era il chassidismo praticato a Sassov".[126] Rabbi Moshe-Leib poteva essere visto spesso nei mercati di Sassov. "Sentiva che lì c’era più bisogno", spiega Wiesel, "poteva ottenere di più. . . . Ma come puoi assorbire così tanto dolore? gli fu chiesto. Come puoi accettare tanta sofferenza da parte di così tante persone? E lui rispose: Se il loro dolore è solo loro, allora il mio lavoro e la mia vita sono sprecati. Il loro dolore è anche il mio, quindi perché non dovrei cercare di alleviarlo?"[127] Se la santità dell'immagine del Santo ci unisce come benai adam, come figli di Adamo, allora anche la sofferenza, perché la sofferenza non è solo umana, ma è parte della Somiglianza. Il figlio di Moshe-Leib una volta lo sentì pregare in yiddish durante Rosh Hashanah: "Signore dell'Universo, abbiamo pregato e pregato, aspettato e aspettato, e la redenzione non è arrivata. Perché no? Non possiamo più sopportarlo, Signore dell'Universo. Mi senti? Siamo arrivati alla fine".[128] E se Dio non ascoltava le preghiere di Moshe-Leib di Sassov, allora . . . Che fare?
"Impara ad ascoltare" era uno degli insegnamenti più urgenti del Sassover. "Impara a prenderti cura degli altri. Impara a preoccuparti, ad essere coinvolto. L'opposto dell'amore non è l'odio ma l'indifferenza; il contrario della vita non è la morte ma l'insensibilità".[129] Questo atteggiamento di ascolto – questa insistenza su Shma! – è essenziale per la nostra identità di esseri umani. Se il volto è l'origine della parola e la rivelazione della differenza come nonindifferenza, come ha spiegato Levinas,[130] allora l’ascolto dei nostri simili sblocca quella parola e quella rivelazione. Qui il ritratto di Moshe-Leib diventa, ancora una volta, ritratto del volto in quanto tale. Il volto ci ingiunge: "Quando si tratta di aiutare qualcuno nel bisogno, non affidatevi solo alla preghiera. Lasciate che sia la persona bisognosa a pregare, non voi, il vostro compito è aiutare".[131] Come afferma un’altra fonte, Moshe-Leib insegnò che ci sono momenti in cui dovremmo comportarci da atei: "Se qualcuno viene da te, chiedendo aiuto, non dire in rifiuto: ‘Confida in Dio; Lui ti aiuterà,’ ma agisci come se non ci fosse nessun Dio e nessuno che potesse aiutare tranne te".[132] Sì. Nessuno ad aiutare tranne me: nessuno, né sopra né sotto, può portare l'aiuto che io sono chiamato a portare.
Una notte – racconta Wiesel – Moshe-Leib tornò a casa dalla Casa di Studio senza fermarsi al mercato, e i suoi figli gli chiesero: "Papà, papà, cosa hai portato?" Al che "egli svenne. Più tardi spiegò: ‘All'improvviso mi dissi che un giorno, all'arrivo nell'altro mondo, mi sarebbe stata posta la stessa domanda: Moshe-Leib, Moshe-Leib, cosa ci hai portato?’"[133] Ma cosa deve portare a Dio un semplice essere umano? La sua risata? Le sue lacrime? Le sue preghiere e le sue buone azioni? O è qualcos'altro? Forse la sua rabbia e indignazione, le sue domande e le sue ammonizioni, come lascia intendere Wiesel quando scrive: "Il mio problema con Reb Moshe-Leib era che la maggior parte dei racconti su di lui – o da lui scritti – sottolineano la sua gioia, il suo calore, la sua estasi; non sembrava minacciato da nulla, ferito da nessuno. Per sempre sereno, in pace con se stesso e con il mondo, sempre cantando, ballando, consolando e rallegrandosi: come si potrebbe non essere disturbati da lui? Poi ho trovato un indizio che mi ha fatto rivedere la mia percezione di quest'uomo". L'indizio è questo: nei Salmi si dice: "Felice è l'uomo che è castigato da Dio" (Salmi 94:12). "Reb Moshe-Leib lo tradusse in modo diverso: Felice è l'uomo che castiga Dio, mettendoLo in discussione e rimproverandoLo per non aver adempiuto ai Suoi obblighi verso il Suo popolo".[134] Come abbiamo visto, ci sono momenti in cui la sfida che lanciamo a Dio piace a Dio e accelera la redenzione.
Quando accettiamo in silenzio tutto ciò che accade alla nostra comunità – non a noi stessi ma agli altri – allora non solo Dio si astiene dal sorridere, ma si ritira nel Suo nascondiglio per piangere. C'erano momenti in cui Moshe-Leib Lo seguiva lì. "Sì", scrive Wiesel, "anche lui aveva bisogno di essere solo quando si rivolgeva a Dio come difensore del suo popolo, e quando doveva rivelare la sua angoscia a Dio, a Dio solo".[135] Come ha fatto Moshe-Leib a salire a tali altezze? Ballando. Conosciuto per il potenza della sua danza, una volta disse: "Quando qualcuno mi chiede qualcosa di impossibile, so cosa devo fare: devo ballare".[136] Per il chassid, la danza può trasportare l'anima ad altezze irraggiungibili attraverso la sola preghiera. Ricordiamo cosa dice Wiesel del famoso Shpoler Zeide: "È il più grande ballerino della storia chassidica. Mentre Rabbi Barukh lo guardava ballare, disse: ‘Quello che tu ottieni ballando, gli altri non lo ottengono pregando’. Lo Zeide rispose: ‘Questo perché ho avuto un eccellente insegnante: il profeta Elia stesso’".[137] Cosa ottiene? Non solo un'ascesa verso l'alto ma un'elevazione del profondo. Qui l'anima è il corpo danzante che usa la gravità per trascenderla.
La capacità di Moshe-Leib di ascendere attraverso la sua danza poteva portarlo a nuovi livelli di lungimiranza? Come ha fatto in altri ritratti di maestri chassidici, Wiesel lascia intendere che Moshe-Leib intravide ciò che sarebbe accaduto agli ebrei di Sassov: tutti i millecinquecento – tutti – sottolinea Wiesel, morirono a Belzec e Zlotchov.[138] "Verso la fine della sua vita", racconta Wiesel, "aveva due amici che non lo abbandonarono mai; erano giullari. E quando la sua tristezza diventava insopportabile, gli raccontavano storielle divertenti per farlo ridere – e allora la sua risata diventava insopportabile".[139] Mi viene in mente un dialogo da Entre deux soleils di Wiesel che si svolge in un altro reame trascendente:
Ma . . . perché ridi?
In modo che tu possa ricordare la mia risata e lo sguardo nei miei occhi.
Tu menti. Ridi perché stai impazzendo.
Perfetto. Ricorda la mia follia.[140]
Questa è la risata insopportabile che erompe dal Rebbe, il grido di risata che risuona in un silenzio inquietante. "Come disse Reb Moshe-Leib di Sassov, il simbolo della compassione e dell'amore nel chassidismo? ‘Tu che desideri trovare il fuoco, cercalo tra le ceneri’".[141] Facendo eco alle parole del Magghid di Mezeritch, Moshe-Leib sembra aver avuto il presentimento di uno strano fuoco che giaceva nel futuro del popolo ebraico. Desideri ricercare il lascito? Cercatelo in questi ritratti fatti di cenere.
Ritratto di Rebbe Levi Yitzchok di Berditchev
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Levi Yitzchok di Berditchev, Preghiera ebraica, Shema Yisrael e Tefillin. |
Conosciuto anche come Levi-Yitzhak Derbarmdiger (il Misericordioso), Rebbe Levi Yitzchok di Berditchev nacque in Galizia nel 1740. È l'autore del testo mistico Kedushat Levi. Lui e Moshe-Leib di Sassov avevano lo stesso insegnante: Shmelke di Nikolsburg. Fu Shmelke di Nikolsburg a portare Levi Yitzchok a Mezeritch, dove divenne discepolo del Maggid. Sempre presente, come un'ombra, al fianco del Grande Maggid, "Levi Yitzchok scoprì che la condizione ebraica deve essere vissuta piuttosto che studiata",[142] in linea con le parole del mendicante nel romanzo Le Serment de Kolvillàg di Wiesel: "Anche Dio va vissuto. . . . Bisogna viverLo, non studiarLo sui libri, tra quattro mura!".[143] A dire il vero, solo attraverso l'impulso chassidico di portare l'ebraismo oltre quattro mura e nel mondo può esserci un movimento dal nostro reame inferiore verso i reami superiori — al fine di portare i reami superiori in questo reame. Un esempio: Levi Yitzchok una volta vide un cocchiere dire le preghiere del mattino mentre ungeva gli assi della sua carrozza. Non lo sgridò. Invece, alzò gli occhi al cielo e gridò: "Guarda il tuo popolo, Dio d'Israele, e sii orgoglioso. Cosa fa quest'uomo mentre lavora al suo carro? Prega. Dimmi, conosci qualche altra nazione che Ti abbia così completamente nei suoi pensieri?"[144] Abbiamo così un accenno di cosa potrebbe significare vivere Dio.
Qui giace la firma di Levi Yitzchok, il filo che si torce e gira per tessere il suo ritratto. Non è fatta solo di tumulto e di ribellione, come può sembrare a prima vista, ma proprio il contrario: è fatta di grido e di lode, di lode nel grido, di devozione attraverso la ribellione. "I resoconti e i racconti più belli delle sue avventure", dichiara Wiesel, "sono quelli che lo mostrano nel ruolo di avvocato della difesa, sfidando e protestando col Giudice. Da bambino li amavo e non vedevo in loro altro che amore e amicizia. Oggi sento il loro peso di disperazione e di rivolta e li amo ancora di più. Li guardo spesso; devo loro molto. A volte intingo la mia penna nella loro ricchezza prima di scrivere".[145] Come chassid, Wiesel immerge la sua penna nella sorgente di Hesed, dell'amore e della gentilezza amorevole. Questo è ciò che lo attira verso Levi Yitzchok, che, per amore dell'umanità, ribalta la situazione: all'improvviso il Giudice in Alto si trova davanti – non a un giudizio ma a un grido – una supplica per amore del Giudice Stesso.
"Altri", dice Wiesel, "avevano portato avanti dialoghi con Dio. Ma nessuno aveva mai osato prendere posizione contro Dio".[146] Questa è una parte importante dell'eredità chassidica di Wiesel. Ecco come potrebbe essere possibile una devozione a Dio, dopo la Shoah: guardiamo Levi Yitzchok. "Se altri mistici mantenevano rapporti Io-e-Tu con Dio", dichiara Wiesel, "“lui, Levi-Yitzhak, Lo minacciò di interrompere queste stesse relazioni. Voleva così dimostrare che si può essere ebrei con Dio, in Dio e anche contro Dio; ma non senza Dio. Non si accontentava semplicemente di porre domande a Dio, come Abramo e Giobbe prima di lui.Chiese risposte e, in loro assenza, trasse le sue conclusioni".[147] Bisogna aggiungere questo: se uno non può essere ebreo senza Dio, Dio non può essere Dio senza gli ebrei, come sta scritto: "Quando siete Miei testimoni, Io sono Dio, ma quando non siete Miei testimoni, Io non sono Dio" (Pesikta de-Rab Kahana 12:6; cfr. anche Sifre su Deuteronomio 33:5). Nel contesto post-Shoah dei ritratti di Wiesel, queste linee sono particolarmente implicanti per Dio e per l'umanità, come anche queste parole di Levi Yitzchok: "Quando un ebreo vede i tefillin per terra, corre a raccoglierli e li bacia. Non sta scritto che noi siamo i Tuoi tefillin? Non ci innalzerai mai verso di Te?"[148] Sì, secondo l'insegnamento ebraico, anche Dio indossa i tefillin.
Nel Talmud viene sollevata una domanda che fornisce il contesto alla domanda di Levi Yitzchok: cosa vide Mosè quando Dio si rifiutò di mostrargli il Suo volto ma gli mostrò le spalle (Esodo 33:22-23)? La risposta: Mosè vide il nodo legato nella parte posteriore dei tefillin attorno alla testa di Dio, ed è così che sappiamo come legare quel nodo (Menahot 35b). Altrove nel Talmud viene posta un'altra domanda: "Rabbi Nahman ben Isaac disse a Rabbi Hiyya ben Abin: Cosa è scritto nei tefillin del Signore dell'Universo? — egli gli rispose: E chi è come il tuo popolo Israele, unica nazione sulla terra (1 Cronache 17:21)? Canta dunque il Santo, benedetto Egli sia, le lodi d'Israele? — Sì, perché sta scritto: Oggi hai testimoniato il Signore. . . e il Signore ti ha confermato oggi (Deuteronomio 26:17-18)" (Berakhot 6a). Ciò comporta alcuni altri problemi relativi alla posa dei tefillin. Wiesel racconta la storia dei detenuti che avevano acquisito un paio di tefillin nel campo e di come gli ebrei si mettevano in fila per mettersi i tefillin a rischio della propria vita, ognuno, dice Wiesel, pregando con sfida e persino con rabbia.[149] A che ora del mattino, chiedono i rabbini, un ebreo deve indossare i suoi tefillin, quando l'oscurità soccombe alla luce? La risposta: quando c'è abbastanza luce da permettergli di riconoscere il volto del suo vicino (Kitzur Shulchan Arukh 10:2). Quando c'è abbastanza luce perché Dio possa indossare i Suoi tefillin? E quale volto deve poter vedere? Sicuramente è il volto dell'essere umano, soprattutto quando l'oscurità del Regno della Notte ha cancellato l'essere umano.
Parimenti, Levi Yitzchok si rivolge alla Torah del Santo per farGli una domanda: "Tu ordini all'uomo di aiutare gli orfani [per esempio, Deuteronomio 10:18]", grida Levi Yitzchok. "Anche noi siamo orfani. Perché Ti rifiuti di aiutarci?" 151 In effetti, "Noi siamo i tuoi tefillin" viene a significare "Noi siamo i tuoi orfani". Il Dio che canta le lodi di Israele è conosciuto come il "Padre degli Orfani" (cfr., ad esempio, Salmi 68:6). La stragrande maggioranza dei sopravvissuti alla Shoah erano orfani. Come mi è stato detto da numerosi sopravvissuti dei campi sfollati, "Sì, abbiamo avuto molti matrimoni e abbiamo festeggiato, come si fa in tutti i matrimoni. L'unica differenza era: non c'erano genitori".
Per quanto potente sia l'immagine dei tefillin, Yom Kippur – il Giorno dell'Espiazione – lo è ancora di più. Chi, se non Levi Yitzchok di Berditchev, oserebbe sfidare Colui che siede in giudizio sul Trono di Gloria durante lo Yom Kippur? "Nel Giorno dell'Espiazione...", viene raccontata la storia:
Yankel, tuttavia, non era il Rebbe. Levi Yitzchok lo era. Non era una domanda casuale. No, era una domanda centrale nelle preghiere del Rebbe. "Spesso sveniva durante i servizi", ci dice Wiesel. "La minima preghiera lo esauriva; coinvolgeva più della sua fede, coinvolgeva la sua vita".[151] Sì, questo è il punto, e questa è l'eredità: nel confronto con Dio c'è una posta in gioco, di vita o di morte, non solo per l'umanità ma anche per Dio stesso. Sì, Dio stesso può, per così dire, "morire”" Ricordiamo queste righe di Nikos Kazantzakis: "Nell'ambito della nostra carne effimera tutto Dio è in pericolo. Non può essere salvato a meno che non Lo salviamo con la nostra lotta; né possiamo essere salvati a meno che Lui non sia salvato".[152] No, non è solo per il bene di Yankel che Levi Yitzchok esorta il sarto a confrontarsi con il Creatore: è per il bene del Creatore e della Sua Creazione.
Abbiamo visto che la tradizione ebraica della discussione con Dio risale al primo ebreo, allo stesso Abramo, quando discusse con Dio sul destino di Sodoma e Gomorra (Genesi 18:23-32). Perché Dio si prese la briga di consultare Abramo in questa faccenda? Perché, dice Wiesel, "Dio, conoscendo la sorte degli ebrei, voleva insegnare loro la necessità di discutere, anche contro Se Stesso".[153] Pertanto, insegna il Talmud, "quando il Santo è conquistato, Egli si rallegra" (Pesahim 119a). Questa tradizione che nasce in tempi biblici e si sviluppa durante tutto il periodo talmudico, continua nei racconti e negli insegnamenti chassidici; lì, in nome di un amore per l'umanità che è la nostra unica via verso Dio, Rabbi Jacob Joseph di Polonne, discepolo del Baal Shem Tov, sostiene: "È contro il Creatore dell'universo e il Signore della Storia che l'accusa deve essere scagliata. In definitiva, l'esilio – nel corpo e nello spirito – è opera Sua. Alla fine, quindi, Egli deve usare misericordia".[154] Pertanto Levi Yitzchok è l'erede piuttosto che il creatore di una tradizione chassidica di protesta, che si estenderà al lascito chassidico di Elie Wiesel.
Come ho sostenuto, la tradizione chassidica non è un allontanamento e nemmeno un ramo della tradizione ebraica. È un’intensificazione della tradizione ebraica: un’intensificazione necessaria più che mai dopo l'assalto radicale a tale tradizione e la decimazione del mondo chassidico. "La tradizione ebraica", scrive Wiesel, "permette all'uomo di dire qualsiasi cosa a Dio, purché sia a nome dell'uomo. La liberazione interiore dell'uomo è la giustificazione di Dio. Tutto dipende da dove il ribelle sceglie di posizionarsi. Dall'interno della sua comunità, può dire qualsiasi cosa. Se ne esce, gli verrà negato questo diritto. La rivolta del credente non è quella del rinnegato; i due non parlano in nome della stessa angoscia".[155] Non c'è credente la cui passione e fede siano più profonde di quelle di Levi Yitzchok di Berditchev; il suo grido al Santo è radicato in Ahavat Yisrael, un amore per il popolo di Israele, che è proprio l'amore per il Santo.
Ecco perché "le domande del Rebbe Berditchever, e anche le sue sfide, lanciate in faccia a un cielo in fiamme, gli sono sopravvissute. Ci seguono e ci danno la forza e il coraggio di rivendicarle e raccontarle come se fossero nostre".[156] Le domande del Rebbe di Berditchever fanno parte del patrimonio chassidico di Elie Wiesel, poiché egli le fa sue. Il primo sguardo di Wiesel all'antimondo della Shoah fu la visione di un cielo in fiamme, come scrisse in La Nuit:
Vedete laggiù, il camino? Lo vedete? le fiamme, le vedete? (Sì, le vedevamo, le fiamme). Laggiù, è laggiù che andrete. È laggiù la vostra tomba. Non avete ancora capito? Figli di cani, non capite dunque nulla? Vi bruceranno! Vi arrostiranno! Vi ridurranno in cenere! — Il suo furore divenne isterico. Noi restammo immobili, pietrificati. Tutto ciò non era un incubo? Un incubo inimmaginabile?
Qua e là sentivo mormorare:
— Bisogna fare qualcosa. Non dobbiamo lasciarci uccidere, non dobbiamo andare come bestie al macello. Bisogna rivoltarci.
Fra di noi si trovavano alcuni uomini ben piantati. Avevano con sé dei pugnali e incitavano i loro compagni a gettarsi sui guardiani armati. Un ragazzo disse:
— Che il mondo sappia dell'esistenza di Auschwitz. Che lo sappiano tutti coloro che possono ancora sfuggirgli...
Ma i più vecchi imploravano i loro figli di non fare sciocchezze:
— Non bisogna perdere la fiducia, anche se la spada è sospesa sopra le nostre teste. Così parlavano i saggi.
- Wiesel, La Notte, 36–37.
In altre parti del Regno dell'Olocausto, sappiamo che i nazisti non si accontentavano semplicemente di profanare le case di preghiera; le diedero alle fiamme, con dentro gli ebrei in preghiera, e così consegnarono Dio stesso alle fiamme. Nelle sue memorie sull'Olocausto, Judith Dribben racconta quanto segue: "Una mattina alcuni tedeschi mi videro sulle scale. Richard, un giovane biondo e fresco che parlava ucraino, mi fermò. ‘La notte scorsa abbiamo dato fuoco alla tua sinagoga! Ha davvero bruciato meravigliosamente! Il Dio ebreo è ridotto in cenere’".[157] Tuttavia, come la Torah, le domande e le grida ereditate dal Rebbe Berditchever e trasmesse attraverso la testimonianza di Wiesel sono fatte di un fuoco che nessun fuoco può consumare.
C'è più saggezza – e certamente più santità – in queste domande e grida che in tutta l'erudizione dei filosofi. Un famoso filosofo, racconta Wiesel, una volta andò a Berditchev per coinvolgere Levi Yitzchok in una discussione e dimostrare che Dio non esiste. Prima che potesse parlare, però, "il Rebbe lo guardò dritto negli occhi e disse dolcemente: ‘E se dopo tutto fosse vero? Dimmi, e se fosse vero?’ Il filosofo confessò più tardi che questa domanda lo aveva commosso e turbato più di tutte le affermazioni e gli argomenti che aveva mai sentito prima o dopo".[158] Se dopotutto fosse vero, allora tutte le nostre domande e le nostre proteste non avrebbero senso. Se fosse vero, in fondo, non ci sarebbe né lascito, né passato, né futuro, né testimonianza, né problema: senza Dio non può esserci ateismo.
Poiché il grido di Levi Yitzchok era intriso di amore per i figli di Israele, scrive Wiesel, "egli riuscì sempre a invocare circostanze attenuanti per gli altri. Lui stesso non se la cavò così facilmente; era il giudice più severo di se stesso. ‘Perché tutti i trattati talmudici iniziano con la seconda pagina? Per ricordarci che anche se li conosciamo da un capo all'altro, non abbiamo nemmeno cominciato’".[159] Ma non manca la prima pagina. Piuttosto, come la silenziosa alef che precede la beit della Torah (il Silente che precede la voce di pagina due), la prima pagina significa silenziosamente l'infinito. Vale a dire che non importa quante volte ci siamo impegnati in questo compito, non abbiamo nemmeno iniziato a raggiungere il livello infinito di rettitudine e responsabilità per il nostro prossimo che siamo chiamati a raggiungere. Questo, dice Wiesel, era il motto del Berditchever: "L'uomo deve criticare se stesso e lodare il suo prossimo. Egli spinse questa linea di pensiero al punto di ritenersi responsabile se l'umanità si trovava in gravi difficoltà. . . . Migliorando se stesso, il Rebbe influenza gli altri; questo è un principio importante del pensiero mistico. Lascia che un essere umano raggiunga la perfezione e l'intera specie sarà salvata dalla menzogna".[160] Perché? Perché, come abbiamo già visto, ogni essere umano è connesso a tutti gli altri, corpo e anima, fisicamente e metafisicamente. Ciascuno è responsabile di tutti, e io più degli altri.
Il silenzio della prima pagina mancante che precede la seconda pagina del Talmud – il silenzio dell’alef che precede la beit della Torah – potrebbe aver trovato la sua strada in un altro racconto del Rebbe Levi Yitzchok. Aharon di Karlin una volta visitò il Rebbe Levi Yitzchok: "I due uomini si sedettero, uno di fronte all'altro, senza dire una parola. Passarono due ore; non un suono. Poi, obbedendo allo stesso impulso, si scambiarono un sorriso, in silenzio. Ed è così che si separarono: in silenzio. Nessuno dei due mai rivelò il significato di quel sorriso, il contenuto di quel silenzio. Tutto quello che sappiamo è il risultato. L'oscuro visitatore divenne un famoso Tzaddik".[161] C'erano, infatti, maestri chassidici che insegnavano attraverso il silenzio, come possiamo dedurre da un passaggio del romanzo di Wiesel Le Testament d'un poète juif assassiné, dove il suo personaggio principale, il poeta Paltiel Kossover, racconta da una prigione: "Trascorsi ore con un discepolo della scuola chassidica di Worke, il cui rebbe aveva fatto del silenzio un metodo. . . . Più tardi, con Rebbe Mendel-il-Taciturno, abbiamo cercato di trascendere il linguaggio. A mezzanotte, con gli occhi chiusi, il viso rivolto verso Gerusalemme e il suo santuario infuocato, abbiamo ascoltato il canto del suo silenzio: un silenzio celestiale e tuttavia terribile in cui sia le voci che i momenti raggiungono l'immortalità".[162] Naturalmente, come Paltiel, il mondo avrebbe presto scoperto ciò che lui aveva scoperto: "Nessun maestro mi aveva mai avvertito che il silenzio poteva essere nefasto, malvagio".[163] Viene da chiedersi se lo stesso Levi Yitzchok avrebbe potuto prevedere il silenzio nefasto e malvagio che avrebbe gettato il suo sudario sull'umanità. Viene da chiedersi che razza di follia possa esserci stata nel silenzio e nel sorriso scambiati dai due Rebbe.
"Levi Yitzchok ammirava il re Salomone, il più saggio dei nostri sovrani", scrive Wiesel. "Perché? Perché, secondo il Midrash, padroneggiava tutte le lingue? Perché sapeva parlare agli uccelli? No. Perché capiva il linguaggio dei pazzi".[164] Qual è il linguaggio dei pazzi? Forse è il linguaggio di Dio. Come nel caso di altri Zaddiqim, Levi Yitzchok era attratto dal linguaggio dei pazzi perché prevedeva un tempo in cui solo i pazzi avrebbero potuto scandagliare una realtà in cui più era reale di quanto fosse possibile. "Sembrerebbe", scrive Wiesel, "che avesse ceduto a una grave depressione nervosa, più profonda di qualsiasi altra provata prima. Sappiamo, ad esempio, che una notte, smarritosi in quella che era conosciuta come Via del Conciatore, fu colto da una tristezza infinita, quasi disumana, e svenne. Sappiamo anche che era ossessionato dal suicidio di un povero gabbai che si era impiccato al lampadario principale della sinagoga, pensando così di "onorare" Dio. . . . [il Rebbe] si ritirò in se stesso, divenne un recluso. . . . Colui la cui passione aveva acceso scintille in ogni cuore era ora spento; un uomo spaventato e braccato".[165] Braccato? O tormentato? Si rendeva conto che, nonostante tutte le controversie tra lo Zaddiq e il Santo, nulla poteva alterare il corso di ciò che attendeva gli ebrei d'Europa? "Levi Yitzchok aveva scoperto che l'anima può diventare nemica della ragione? O quel fervore, spinto al limite, si apre sull'abisso? Che le transizioni brusche possano generare follia? Avrebbe potuto capire che le sue suppliche non stavano dando i risultati sperati? Che Dio poteva facilmente decidere di non riceverle, di non ascoltarle? Nessuno lo sa. E cosa ancora più sorprendente: nessuno nemmeno provò a scoprirlo".[166] Non che scoprirlo avrebbe risolto qualcosa. In effetti, avrebbe potuto portare a domande ancora più oscure.
Ritratto di Rebbe Nachman di Breslov
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I chassidim considerano Rebbe Nachman di Breslov (noto anche come Nachman di Bratzlav o di Breslav, Nachman Breslover o semplicemente "il Bratzlaver") come l'ultimo di una serie di cinque grandi hakhamim: Mosè, Shimon bar Yohai, l'Ari Isaac Luria e suo nonno il Baal Shem Tov.[167] "Il Rebbe Nahman mi è vicino e prezioso su più livelli", dice Wiesel. "Mi fa sognare. Amo tutto ciò che lo tocca, tutto ciò che si riferisce alla sua vita, al suo lavoro. Amo tutto ciò che è impregnato del suo universo. . . . ‘Prendi le mie storie e trasformale in preghiere’, diceva Rebbe Nachman. Ebbene, per quanto mi riguarda, trasformerò le sue preghiere in racconti".[168] Se i racconti di Wiesel assumono il carattere di preghiera, come quando divide La Ville de la chance in preghiere e non in capitoli, può darsi che sia dovuto alla influenza del Rebbe Nachman di Breslov.
Secondo David Biale e i suoi coautori, la più importante raccolta di racconti di Rabbi Nahman è Sippurei Ma’asiyot (Storie e fiabe, 1815), pubblicata dopo la sua morte. "La redenzione non potrebbe arrivare, insegnò, finché la mente umana, prigioniera di immaginazione peccaminosa, non fosse liberata. I suoi racconti avrebbero fornito un'immaginazione alternativa."[169] Wiesel apre il suo ritratto di Rebbe Nachman con uno dei tanti racconti di follia del Rebbe. Secondo la storia, c'era una volta un re che ebbe una visione dei suoi sudditi colti da follia dopo aver mangiato il raccolto imminente. Condivise la sua visione con il suo consigliere, che gli consigliò di evitare entrambi di mangiare il raccolto, ma il re rifiutò, dicendo che non poteva sopportare di rimanere sano di mente mentre il suo popolo impazziva. Il consigliere vide la saggezza nel pensiero del re e decise che anche lui avrebbe mangiato del raccolto. Il re e il suo consigliere, tuttavia, si segnarono a vicenda con il sigillo della follia in modo che quando si sarebbero guardati l'un l'altro, ciascuno avrebbe saputo che l'altro era pazzo.[170] In una terra dove tutti sono pazzi, la follia verrebbe scambiata per normalità. Immagina di considerarti "normale", come tutti gli altri, ma di realizzare all'improvviso, vedendo il sigillo della follia, che tu e tutti gli altri siete pazzi. Una simile realizzazione aprirebbe la strada alla vera sanità mentale, una sanità mentale che assomiglia alla follia nella terra dei pazzi – come l'apparente follia di essere un uomo in una terra dove non ci sono uomini, per prendere in prestito una frase di Hillel (Pirkei Avot 2:5). Cosa significa essere un uomo, cioè essere un vero essere umano? Significa essere buoni, come ha suggerito Primo Levi.[171] E ci sono, infatti, momenti in cui la bontà sembra essere una follia.
Poi c'è la storia narrata dal Bratzlaver di un principe pazzo che credeva di essere un gallo. Si spogliò dei suoi vestiti, si rannicchiò in una stia e mangiò cibo adatto solo a un gallo. La gente cercava in lungo e in largo una cura. Alla fine arrivò un uomo che, imitando il principe, si spogliò dei suoi vestiti, entrò nella stia con il principe e mangiò solo mangime per polli. Il principe era sospettoso di lui e si chiedeva se potesse essere pazzo. A poco a poco, l'uomo lo convinse ad adottare i costumi degli uomini e ad entrare nella società umana, anche se entrambi sapevano che i pazzi erano in realtà quelli che etichettavano il principe come pazzo.[172] La lezione? Non possiamo sempre dire chi è pazzo o se noi stessi siamo pazzi. Se, tuttavia, siamo pazzi, la cura per la follia sembra risiedere in un movimento verso una relazione umana amorevole l'uno verso l'altro, una relazione intrisa di hesed – un movimento che, ad alcune persone, può sembrare esso stesso follia. Continuando il lascito di Levi Yitzchaok di Berditchev e il suo accento su hesed, Nachman di Breslov disse: "Se non compiamo azioni gentili, non avremo comprensione".[173] La follia clinica risiede nella crudeltà, mentre la follia mistica è radicata nella gentilezza amorevole.
Secondo Reb Nathan, il biografo del Bratzlaver, nel 1806 Rebbe Nachman decise di diventare un cantastorie, dicendo: "Vedo che le mie idee non hanno alcun effetto su di voi, quindi vi racconterò delle storie".[174] Potrebbe essere questo il motivo per cui Wiesel è diventato un cantastorie? Potrebbe essere che le idee non possano trasmettere l'infinita importanza di un tocco umano o di una parola gentile, ed entrambe le cose in un momento di oscurità sembrano essere una follia? Certo, la centralità dell'amicizia nei racconti di Wiesel è legata alla centralità della follia mistica. La centralità della follia mistica per Wiesel, quindi, emerge non solo da Ben Zoma ma anche da Nachman di Breslov. La follia mistica riguarda il ripristino del legame tra parola e significato, tra significato e anima: un articolo di saggezza che Wiesel trae dal Rebbe Nachman di Breslov. Leggiamo queste righe dal ritratto di Wiesel: "‘Le parole possono far tacere i fucili’, dice Rebbe Nachman. E anche: ‘Con le parole si può dare vita alle parole’. Le parole possono abbattere il più solido dei muri. La parola è la più emozionante di tutte le scoperte, ma anche la più terrificante. ‘Sta scritto’, dice il Rebbe Nachman, ‘che gli uomini giusti obbediscono alla parola di Dio’. Questo va letto diversamente: Uomini Giusti fanno la parola di Dio’. Una traduzione letterale, che sulle labbra del Maestro significa: Uomini Giusti compongono il linguaggio con cui Dio crea i Suoi universi".[175] Poiché gli "Uomini Giusti" compongono il linguaggio della creazione, essi compongono il linguaggio della rivelazione: il linguaggio dei comandamenti. Così il racconto della legge è il racconto del comandamento, che a sua volta è il racconto dell'atto di amorevolezza, atto che a molti può sembrare un atto di follia, motivo per cui il suo significato può essere trasmesso solo attraverso racconti.
"‘Il tempo non esiste’, afferma il Bratzlaver, sia nei suoi racconti che nel mondo; arriva fino ad escluderlo dalla creazione primaria. Secondo lui, Dio ha dato all'uomo tutto, tranne il tempo".[176] Come citato in un'altra fonte, il Rebbe aggiunge: "È attraverso gli uomini che compiono buone azioni che nascono i giorni, e così nasce il tempo".[177] Il tempo non è nato fino al sesto giorno della creazione, giorno a partire dal quale misuriamo il tempo nel giorno di Rosh Hashannah, perché solo in quel giorno un essere umano entra in relazione con l'altro. Solo quel giorno è emerso il legame tra parola e significato con il legame tra umano e umano. Ciò, secondo Nachman di Breslov, significa che la relazione umana, fondata sul legame tra parola e significato, è indispensabile alla relazione superiore. Il tempo si svolge in quella relazione. "È come se volesse far capire che per l'uomo è più importante fermarsi a considerare il mistero della propria vita che quello dell'origine del mondo".[178] Certo, l'origine del mondo è nascosta nell'origine di ogni vita. Ecco perché le azioni di ciascuno influiscono su tutti: affinché ciascuno sia responsabile di tutti. "Il dovere spetta a te", insiste il Bratzlaver. "Questa singola persona che si trova in questa generazione a questo punto dell'intera eternità. Deve essere fatto da te. ‘Non un angelo! Non un serafino!’ [Esodo 12:12]".[179] Dov’è il mistero della nostra stessa vita, mistero che trascende anche l’origine del mondo? Sta nel semplice atto di tendere una mano a un altro essere umano, per amore del quale il mondo è stato creato: ogni anima che entra nella creazione è indispensabile a tutta la creazione.
"Come cabalista è accessibile", dice Wiesel di Nachman di Breslov, "come Rebbe non lo è. Asceta, nemico del dubbio, frequenta gli ambienti intellettuali cosiddetti emancipati, la cui vocazione e passatempo è dubitare e opporsi all'ascesi. Credente intollerante, gioca a scacchi con i liberi pensatori; la loro fede nel nulla lo incuriosisce".[180] E i suoi racconti sono le armi a cui attinge in questa partita a scacchi. "I suoi racconti?" Wiesel scrive di questo stratega. "Ciascuno ne contiene molti altri. Immaginate una serie di cerchi concentrici i cui centri fissi sono sepolti nell’intimo dell'uomo: l'io nell'io, la coscienza diventa silenzio e pace, memoria nella memoria".[181] Secondo la tradizione ebraica, raccontare storie è la forma più alta di relazione da umano-a-umano, la forma più alta di parola: raccontare una storia è entrare in relazione. Nello Zohar è scritto che ci sono tre tipi di discorso: dire (lemor), parlare (ledaber) e raccontare [una storia] (lehagid) (Zohar I, 234a). Il Rebbe Menachem Mendel Schneerson spiega: "Parlare e dire provengono dalla superficie, non dal profondo dell'anima. La bocca a volte può dire ciò che il cuore non sente. Anche ciò che dice il cuore può essere in contrasto con ciò che l'uomo vuole veramente nella sua anima. . . . Ma il ‘relazionarsi’ viene dal profondo dell'uomo".[182] Come dovrà sopportare Israele il suo esilio? Raccontando storie.
Non importa quanto sia profonda la sua caduta in esilio, scrive Wiesel, "Israele deve consolarsi tramite e nella Torah. Deve mantenere una forte presa sulla lettera e sulla volontà di Dio".[183] La lettera e la volontà di Dio si trovano nella parola — nella facoltà della parola — che secondo la tradizione mistica scaturisce dalla Presenza Divina, la Shekhinah. "La volontà di Dio", dice il mistico del XII secolo Yehuda Ha-Levi, "è la Sua parola" (Kitav al khazari 4:25). Pertanto, il Rebbe Bratzlaver insegna: "Per quanto in basso cadi, hai ancora la facoltà di parlare. Dovresti usarla! Pronuncia parole di verità: parole di Torah, parole di preghiera e timore del Cielo. Dovresti parlare con Dio. Parla anche al tuo amico, e soprattutto al tuo insegnante. La forza della parola è tale che ti permette in ogni momento di ricordare a te stesso la vicinanza a Dio, e così di dare forza a te stesso, anche nei luoghi che sembrano più lontani dalla santità".[184] Tuttavia, la parola trae il suo potere dalla facoltà dell’udito, come suggerisce altrove Rebbe Nachman: "Il fondamento stesso del legame del popolo ebraico con Dio è attraverso l’udito".[185] Il legame sta nell'udito perché l'ebreo non solo sente la voce ma sa anche di essere ascoltato; anche se può parlare dai confini della sua soffitta, non parla al vuoto.
Tale legame è al centro della preghiera. Se, come dice il Rebbe Nachman, la preghiera "è una battaglia contro il male",[186] è perché la battaglia contro il male è una battaglia contro l'insensatezza, il vuoto, il silenzio e la morte. Uno dei suoi discepoli, Wiesel racconta:
Sì, il Bratzlaver insegnava che "l’essenza di tutto è la gioia",[187] e che "la compassione è alla radice di tutta la Creazione".[188] Tuttavia non si sottraeva al confronto, nemmeno al confronto con se stesso. Infatti, dice Wiesel, più veniva attaccato, più gli piaceva, dicendo cose come: "L'Angelo della Morte si è avvalso dell'aiuto di medici – che demoliscono il corpo – e di ‘celebrità’ – che distruggono la mente".[189] Non era, però, un misantropo, tutt’altro. I suoi confronti con l'umanità erano radicati nell'amore per l'umanità.
Così come lo erano i suoi confronti con Dio. "Sottomettersi ciecamente a Dio, senza mettere in discussione il significato di questa sottomissione", dice Wiesel, "significherebbe sminuirLo. Voler capirLo significherebbe ridurre le Sue intenzioni, la Sua visione al livello delle nostre. . . . La rivolta non è una soluzione, né lo è la sottomissione. Resta la risata, la risata metafisica".[190] A dire il vero, la risata che permea le storie del Bratzlaver ha un suono metafisico. Come sottolinea Wiesel, "La risata occupa un posto sorprendentemente importante nel suo lavoro. Qua e là si incontra un uomo che ride e non fa altro".[191] Secondo uno dei suoi racconti, ad esempio, c'era una volta un paese che conteneva tutti i paesi. In quel paese c'era una città che conteneva tutte le città. Nella città sorgeva una casa che conteneva tutte le case. Nella casa viveva un uomo che incarnava tutti gli uomini e quell'uomo rideva. Rideva e rideva. "Nessuno aveva mai riso così prima", proclama Wiesel. "Chi è quell'uomo? Il Creatore ride della Sua creazione? L'uomo Gli rimanda la Sua risata come un'eco, o forse come una sfida?"[192] Sono domande queste che devono rimanere domande, domande che risuonano esse stesse nelle profondità della risata metafisica.
Tuttavia, un'altra storia raccontata da Nachman di Breslov potrebbe gettare una luce diversa su come comprendiamo la risata metafisica. È la storia di un re che convocò un messaggero per consegnare un messaggio speciale a uno dei suoi sudditi, un uomo noto per la sua genialità filosofica. Forse era troppo brillante, perché a causa della sua eccessiva analisi filosofica di tutto, non poteva credere che il re potesse avere qualche interesse per lui; infatti, dubitava dell'esistenza stessa del re. Quando chiese al messaggero la prova dell'esistenza del re, il messaggero non poté fare altro che indicare il messaggio: né il filosofo né il messaggero riuscirono a trovare nessuno che potesse confermare l’esistenza del re. La loro reazione? "Ridono. Ridono con tale disperazione che, alla fine, capiranno che deve esserci un legame tra la voce e la chiamata, tra l'uomo e la sua strada; alla fine capiranno che il loro sentimento di disperazione non è assurdo, perché potrebbe benissimo essere il legame che li lega al re".[193] Come può una risata intrisa di disperazione legare qualcuno al re, che, ovviamente, è il Re dell'Universo? Può anche la risata del Re dell'Universo essere intrisa di disperazione, se davvero può ridere? Normalmente si potrebbe pensare che la disperazione ci separi dal Santo. Ma potrebbe esserci un luogo in cui la normalità non esiste più e un momento in cui la realtà supera le possibilità. Rebbe Nachman di Breslov, alla fine, ebbe una visione di un tempo e di un luogo simili? È per questo che ciò che Wiesel chiama "risata metafisica" gioca un ruolo così importante nei racconti del Rebbe?
Queste, ci dice Wiesel, sono le ultime parole del Rebbe:
Wiesel ricorda la prima volta che incontrò un Chassid Bratzlaver; era nel mezzo di una terribile montagna di cenere ad Auschwitz. Il Chassid Bratzlaver, dice Wiesel, ripetè un insegnamento del Rebbe: "Due uomini separati dallo spazio e dal tempo possono tuttavia prendere parte ad uno scambio. Uno pone una domanda e l'altro, altrove e più tardi, ne pone un’altra, ignaro che la sua domanda è una risposta alla prima".[194] Le domande che ci poniamo ora, in un'epoca post-Shoah, quando cerchiamo qualcosa come il lascito chassidico di Elie Wiesel, possono forse essere una risposta alle domande e alle grida che si levarono nel cielo silenzioso in fiamme su Auschwitz? Il suo lascito è, in ogni caso, un lascito di domande.
Ritratto del Veggente di Lublino
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Yaakov Yitzchak di Lublino, Ghetto di Lublino, Lublino e Ostjuden (Ebrei dell'Est). |
Il Santo Veggente di Lublino nacque Yaakov-Yitzhak Horowitz nel 1745 in un villaggio polacco vicino a Tarnigrod. Studiò con il famoso talmudista Reb Moshe-Hersh Meisels e poi con Reb Shmelke di Nikolsburg. Reb Shmelke lo mandò a Mezeritch, dove, sotto la guida del Grande Maggid, "imparò l'importanza vitale dell'amicizia nel chassidismo. E della bellezza. E sincerità. Mezeritch era un laboratorio dell'anima: chi veniva come discepolo partiva come maestro. Il Maggid amava Reb Itzikl. Del suo discepolo disse: ‘Un'anima simile non ci veniva mandata dai tempi dei profeti’".[195] Il Santo Veggente era infatti una specie di profeta: vedeva nelle sue visioni cose a volte terrificanti – che nessun altro poteva vedere. Il Santo Veggente poteva scrutare il destino del popolo ebraico e poteva anche intravedere i recessi più intimi dell'anima. "Alla sua presenza", racconta Wiesel, "ci si sentiva scossi, purificati. . . trasformati. Ciò che colpiva di più erano i suoi occhi, uno più grande dell'altro, che spesso assumevano una fissità inquietante quando guardavano qualcuno. I chassidim erano convinti che stesse esplorando le loro profondità interiori".[196] Nulla era nascosto al Veggente.
"Come altri maestri", dice Wiesel, "il Veggente stimolava la passione, la compassione, l'entusiasmo, il fervore – hitlahavut – fervore, soprattutto. "Preferisco un Mitnagged appassionato a un Chasid tiepido", diceva. Poiché l'assenza di fuoco, l'assenza di passione, porta all'indifferenza e alla rassegnazione, in altre parole alla morte. Cosa c'è di peggio della sofferenza? Indifferenza. Cosa c'è di peggio della disperazione? Rassegnazione: l'incapacità di commuoversi, di lasciarsi andare, di lasciare che la propria immaginazione prenda fuoco".[197] Ancora una volta, il fuoco è un'immagine dominante nel ritratto di quest'anima in fiamme. "La gente va a Riminov”, disse il Veggente, "per procurarsi il sostentamento e a Kozhenitz per ottenere cure. Ma vengono a Lublino per prendere il fuoco chassidico".[198] Il fuoco chassidico arde d'amore per Dio e per l'umanità; arde nella consapevolezza che l'amore per l'umanità è l'unico modo in cui possiamo esprimere il nostro amore per Dio.
"Ciò che lui stesso [il Veggente] aveva da dare", spiega Wiesel, "non era l'apprendimento, sebbene fosse erudito, ma l'arte delle relazioni umane, che, ovviamente, va oltre l'apprendimento. Insegnò ai suoi seguaci non come studiare ma come ascoltare, come condividere, come sentire, come pregare, come ridere, come sperare, come vivere. Ciò che il Besht aveva fatto per i suoi seguaci, il Veggente lo fece per i suoi: diede loro un senso di dignità".[199] Trasmettendo ai suoi seguaci un senso di dignità, Rebbe Yaakov-Yitzhak li elevò. Come? Aprendo loro un senso di altezza, che è senso di missione e di significato. "Vicino al Santo Veggente si trovava significato in ciò che sembrava non averne. A Lublino fu nuovamente permesso di vedere l’ebraicità come una magnifica avventura".[200] Conformata da un rapporto di alleanza con Dio, l'ebraicità risiede nel progetto di redenzione. Una tale missione è così scoraggiante proprio perché suscita un profondo senso di gratitudine e gioia – sì, gioia – tra coloro che accettano l'incarico: "A Lublino, i chassidim erano esortati a vivere non solo nel timore di Dio ma anche nel timore per Dio e, soprattutto, nella gioia con Dio".[201] L’hitlahavut – il fervore e la passione che avrebbero trasportato il Veggente attraverso i reami superiori – era immerso in una gioia vertiginosa. "Spesso osservava: ‘Strano, le persone vengono da me tristi e se ne vanno felici; mentre io. . . Rimango con la mia tristezza, che è come un fuoco nero’. Nei momenti di dubbio gemeva: ‘Guai alla generazione di cui sono il leader’. Cercava la gioia con tale intensità che ignorava altre considerazioni. Disse: ‘Preferisco un ebreo semplice che prega con gioia a un saggio che studia con tristezza’".[202]
Paradossalmente, fu la tristezza del Rebbe, il fuoco nero dentro di lui, a spingerlo a insistere con così fervore sul fatto che i chassidim di Lublino dovessero rallegrarsi, anche – o soprattutto – quando non riuscivano a vedere alcun motivo per rallegrarsi. "Il Veggente di Lublino disse: ‘Un Hasid, come un bambino, dovrebbe piangere e ridere allo stesso tempo.’ E spiegò come riuscì a combinare le due cose quando si lamentò per la sofferenza della Shekhinah ogni notte a mezzanotte: ‘Immagina un re esiliato che visita il suo amico; l'amico è triste che il re sia in esilio, ma è comunque felice di vederlo’".[203] Dal ritratto di Wiesel si deduce che man mano che il Santo Veggente invecchiava e l'esilio si faceva più oscuro, il desiderio del Rebbe di rallegrarsi con Dio divenne sempre più intenso, così come la tristezza disperata che alimentava il suo desiderio.
Questo ci porta a una storia raccontata riguardo al Santo Veggente, che è profondamente inquietante, persino spaventosa, come suggerisce Wiesel: "Questo è uno degli episodi più misteriosi e inquietanti della letteratura chassidica, un episodio che cronisti e narratori sono ancora riluttanti a spiegare, o addirittura esplorare".[204] Ma non Elie Wiesel. Questa strana storia, che fa parte del ritratto del Santo Veggente, è centrale nel lascito chassidico di Elie Wiesel.
L'anno è il 1844. Molte centinaia di chassidim si sono riuniti a Lublino per Simhat Torah, il più gioioso di tutti i giorni del calendario sacro: questo è il giorno in cui gli ebrei si riuniscono per celebrare il rinnovamento di un altro ciclo annuale di lettura della Torah. "Attorno al loro Maestro, la gente canta e balla con frenesia. Come lui, con lui, sollevano i Sacri Rotoli sempre più in alto, come per seguirli – e seguire lui – e succede. Li porta via, lontano. Si fidano di lui. Non importa che non conoscano l'esito e nemmeno lo scopo del suo piano segreto. Ciò che conta è essere presenti. Non ha forse insegnato loro che la passione trionfa laddove la ragione fallisce? Questa notte sono consumati dalla passione".[205] Ha insegnato loro la passione, i modi in cui i mondi poggiano sulla capacità umana di gioire. E così il Santo Veggente ordina loro di gioire come non hanno mai fatto prima, come se da questo dipendesse la Redenzione di Dio e dell'umanità. E gli obbediscono.
I chassidim, però, sono così trasportati nel loro volo d'estasi che non si accorgono quando il Rebbe si allontana silenziosamente e sale nel suo studio privato al secondo piano della casa di preghiera. "Nessuno sa cosa abbia fatto lì", dice Wiesel, "nessuno sa cosa gli sia realmente successo allora. Tutto quello che sappiamo è che a un certo punto la Rebbetzin udì strani rumori provenire dallo studio del Veggente, come quelli di un bambino che piange. Si precipitò nella stanza e gridò di paura. La stanza era vuota."[206] Alcuni chassidim si affrettarono su per le scale in risposta al suo grido e confermarono che, in effetti, il Rebbe era improvvisamente e misteriosamente scomparso. Si avventurarono nel buio della notte per cercarlo in strada sotto la finestra del suo studio. Di lui non fu trovata alcuna traccia. All'improvviso, da una quindicina di metri di distanza, sentirono Reb Eliezer di Khmelnik chiedere aiuto: aveva trovato il Rebbe disteso per strada in una sorta di trance. I chassidim corsero da lui, lo presero in braccio e lo portarono a letto. Uno dei chassidim che portava il Veggente tra le braccia era Reb Shmuel di Karov, che sentì il Veggente ripetere più e più volte, con gli occhi pieni di terrore: "E l'abisso reclama un altro abisso".[207] Cosa avrebbe potuto vedere il Santo Veggente? Come poteva essere collegata la sua insistenza affinché i chassidim danzassero con più gioia e fervore che mai prima alla terrificante visione che si era impadronita di lui – una visione che in qualche modo trasportò il Veggente dal suo studio alla strada, al limite del abisso?
"La letteratura chassidica", commenta Wiesel, "ha avvolto questo inquietante episodio nel segreto. È considerato tabù. Una strana congiura del silenzio l'ha avvolta fin da quando ebbe luogo".[208] Lo studioso del chassidismo David Biale, ad esempio, menziona brevemente la caduta dalla finestra ma non dice altro e non fa menzione di una Grande Caduta.[209] Alcune fonti si riferiscono ad esso in modo criptico come "la Grande Caduta – Hanefila Hagdola – senza entrare nei dettagli".[210] 215 Ma perché la Grande Caduta? Una caduta da dove a dove? Sembra che il Santo Veggente non possa essere caduto dalla finestra del suo studio, perché era troppo stretta e sul davanzale c'erano ancora bottiglie vuote. La convinzione generale era che il Rebbe fosse stato punito, in modo soprannaturale, per aver tentato di usare i suoi poteri durante le guerre napoleoniche, quando, considerando le guerre come le doglie del parto del Messia, si unì a Mendel di Riminov e al Maggid di Kozhenitz per usare i loro poteri e forzare la venuta del Messia. In ogni caso, non si riprese mai dalla Grande Caduta: rimase costretto a letto per quarantaquattro settimane e poi morì.[211] Non sapremo mai cosa accadde esattamente in quel Simhat Torah, quando avvenne la Grande Caduta.
Facendo luce su alcune ombre nel suo ritratto del Santo Veggente, tuttavia, Wiesel pone alcune domande:
Come sempre, sullo sfondo di ogni ritratto di Wiesel, come a formare una sorta di tela per le sue pennellate, si annida lo spettro della Shoah. Qui, tuttavia, è più evidente, più inquietante che nella maggior parte dei casi.
"Lublino", afferma Wiesel, "durante le ore più buie divenne un centro di tormento e di morte. Lublino, un centro di raccolta per gli ebrei condannati, portò ai vicini campi di concentramento di Belzec e Majdanek. Lublino significò la grande caduta non di un uomo, né di un popolo, ma dell'umanità".[212] Il regno chassidico dell'Europa orientale fu completamente cancellato, e con esso arrivò una catastrofe di dimensioni cosmiche. Non solo il popolo ebraico ma l'intera umanità fu gettata nell'abisso che grida ad un altro abisso. Tracce di quella distruzione sono destinate a comparire in questi ritratti dei maestri chassidici. Ma nel ritratto del Santo Veggente di Lublino sono più pronunciati del solito. E più inquietanti.
Ritratto di Rebbe Menachem Mendel di Kotzk
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Almeno un altro maestro chassidico è associato alle vertiginose profondità dell'abisso: il Rebbe Menachem Mendel di Kotzk (anche Menahem-Mendl, o semplicemente "il Kotzker"), noto per aver dichiarato: "Sto con un piede nel settimo cielo e con l'altro nelle profondità dell'abisso".[213] Simile anche al Santo Veggente, l'anima del Rebbe Kotzker ardeva di un fuoco singolare. Mentre a Simhat Torah il Veggente stimolava i chassidim a gioire come non avevano mai fatto prima, Menachem Mendel con impazienza ordinava loro di ballare come non avevano mai fatto prima. "Non è questo il modo di ballare!" gridava loro. Diverse volte tentarono di ballare in modo diverso, nel disperato tentativo di compiacere il Maestro. "E il Rebbe esplose", racconta Wiesel, "‘Immaginatevi sulla vetta di una montagna, sul filo di un rasoio, e ora: ballate, ballate, vi dico!’"[214] Il Kotzker capì che l'unico modo per camminare sul filo del rasoio o tenere i piedi su un terreno mutevole è ballare.
Nato a Goray, in Polonia, nel 1787, Menachem Mendel si staccò dal padre e si recò dal Santo Veggente di Lublino; fu il Santo Veggente ad accendere il fuoco dentro di lui. Da Lublino andò a imparare dal Maestro chassidico conosciuto come il Santo Ebreo di Pshiskhe; il suo ultimo Maestro fu Rebbe Simha di Pshiskhe. Wiesel lo descrive come "Maestro-contro-la-sua-volontà, il santo divino, il ribelle divino" e "tra le migliaia di leader chassidici, grandi e piccoli, dai tempi di Baal Shem all'Olocausto, egli è innegabilmente il più figura sconcertante e misteriosa tra tutte. Anche il più tragico".[215] Il mistero e la tragedia che circondano il Rebbe Kotzker pongono una certa sfida a chiunque cerchi di farne il ritratto. Poiché "non ha lasciato nessun ritratto", dice Wiesel, "nessun oggetto personale. È come se non fosse mai esistito".[216] Non aveva beni personali: niente che indicasse che avesse mai camminato su questa terra.
A dire il vero, sembra che abbia voluto cancellare ogni traccia del suo soggiorno in questo mondo: "Si dice che mettesse le sue meditazioni su carta ma che distruggesse le pagine con la stessa rapidità con cui le copriva; bruciava di notte ciò che scriveva di giorno. . . . Sul letto di morte era ancora ossessionato dal timore che i suoi scritti potessero sopravvivergli. . . . Resta solo il suo insegnamento orale. E la sua leggenda. Una leggenda di timore e tremore, priva della gioia caratteristica del chassidismo. Uno lo ascolta e si sente morso, bruciato da un fuoco nero e vivo, protetto da una notte senza alba".[217] Il lascito chassidico di Wiesel porta la cicatrice di tale fuoco nero. "I racconti e i detti del Rebbe Kotzker sono facili da identificare", commenta, "impossibile confonderli con quelli di un altro. Portano il suo segno, la sua cicatrice".[218] È la cicatrice lasciata dall'avvicinarsi troppo al fuoco ardente della passione per la verità. Una cicatrice, ci viene ricordato, è il residuo di una ferita: può un racconto o una verità, il racconto della verità o la verità di un racconto, ferire?
Wiesel sottolinea che "Mendel di Kotzk vuole che l'uomo sia assetato di verità, di assoluto, e non importa se non raggiunge mai il suo scopo e non importa se la verità acceca e uccide chiunque la scopra. . . . Per Mendel di Kotzk tutti i peccati del mondo pesano meno della presunzione dell'autoinganno. L'uomo non si abbassa per i suoi fallimenti ma per gli alibi che invoca. Preferisci perire piuttosto che mutilare la verità: tale è Kotzk".[219] Non importa se la verità acceca e uccide? La verità vale un prezzo del genere? Se la verità uccide, è perché ci sono momenti in cui la verità richiede di essere uccisi, soprattutto quando esige che si abbandoni l'autoinganno. L'autoinganno è inerente alla preoccupazione per la mia persona, il mio spazio, il mio status, il mio essere materiale e persino il mio essere spirituale. Languendo nella sua illusione egocentrica, il sé vive nel caso dativo, tremando sempre davanti alle domande su cosa accadrà "a me" e cosa c'è dentro "per me". Inteso in questi termini, quindi, il sé è proprio l’opposto dell’anima. Come afferma Yitzchak Ginsburgh, bitul, o "l'obliterazione del sé", è la porta verso la verità, e "bitul produce una ‘cavità’ nel sé, un'apertura e un ‘vaso’ in cui la verità può entrare".[220] La verità entra quando l'anima entra in una relazione reattiva con l'altro. Entra dove entra l'altro essere umano per porre a me la domanda posta al primo essere umano: "Dove sei?" (Genesi 3:9). La verità che ferisce è la verità che mi scuote dall'illusione mortale che si spaccia per il mio "sé". È la verità che esige la piena misura della mia devozione: la verità della mia infinita responsabilità verso e per l'altro essere umano.
E così possiamo comprendere la risposta del Rebbe Kotzker a un discepolo che in lacrime andò da lui per chiedere aiuto affinché potesse pregare e studiare. Il Rebbe gli disse: "E chi ti ha detto che Dio è interessato ai tuoi studi e alle tue preghiere? E se preferisse le tue lacrime e la tua sofferenza?"[221] In altre parole, e se preferisse la tua ricerca della verità ai tuoi studi e alle tue preghiere? E allora si vede perché, nel ritratto del Rebbe di Kotzker, Wiesel scrive: "In Kotzk la verità diventa ossessione. Ha la precedenza su tutto, ribalta tutto. Anche la preghiera, anche lo studio. E certamente gioia, estasi e tranquillità. L'uomo è stato creato non per conoscere la felicità ma la verità".[222] Questa denigrazione della gioia è una mossa radicale nel chassidismo. Wiesel ha osservato, ad esempio, che "nelle sue memorie, lo storico Emmanuel Ringelblum fa riferimento a uno shtibel di Bratzlav all’interno del Ghetto di Varsavia. Sopra l'ingresso c'era la stessa iscrizione: EBREI, NON DISPERATE. Per un ebreo, che porta con sé una memoria vecchia di quattromila anni, la disperazione equivale a blasfemia".[223] La gioia non è la stessa cosa della felicità. Né la disperazione è la stessa cosa dell'indignazione, del lutto o della sofferenza. Si può trovare gioia nella ricerca della verità, anche se ciò comporta indignazione e sofferenza.
Infatti, se la verità è legata all'amore, allora è legata alla sofferenza: non si può amare l'altro senza soffrire per l'altro, soffrire per la sofferenza dell'altro. "Tutto può essere imitato tranne la verità", diceva il Kotzker, "perché una verità imitata è una menzogna".[224] Ricordiamo, ad esempio, il racconto midrashico della morte di Haran, fratello di Abramo. Quando Terah, padre di Abramo, scoprì che Abramo rifiutava il culto degli idoli, portò il ragazzo dal re Nimrod. Quando Abramo affermò nuovamente l'unico vero Dio e rifiutò gli idoli, Nimrod lo fece gettare in una fornace di fuoco. Abramo, tuttavia, ne uscì illeso. Suo fratello Haran stava guardando tutto il tempo. Quando Nimrod chiese ad Haran se anche lui rifiutasse di abbracciare gli idoli e adorasse invece il Dio di Abramo, Haran decise che avrebbe imitato suo fratello e affermò l'unico vero Dio. Anche lui fu gettato nella fornace, solo per essere consumato tra le fiamme (Bereshit Rabbah 38:13). No, la verità non può essere imitata — può solo essere vissuta. Poiché la verità si dispiega nel movimento in una relazione che solo io posso intraprendere, si rivela in una responsabilità che solo io posso assumermi. Mi convoca e quindi mi individua. Ed è implacabile.
Così come non esiste relazione senza contraddizione, non esiste verità senza paradosso. Qual è il paradosso di Kotzk? È questo: "Kotzk, all'interno del movimento chassidico, è un'esperienza trasmessa da essere a essere, con le labbra chiuse e gli occhi che incontrano gli occhi. Domanda che continua, non riconciliata né con il tempo né con la vita, Kotzk non è né filosofia né sistema sociale; Kotzk è una strada stretta e solitaria il cui inizio tocca la fine; una strada dove il silenzio entra nella parola e la lacera come l'occhio lacera ciò che vede. Kotzk significa liberarsi della disperazione attraverso la disperazione. Kotzk significa che la prigione diventa santuario".[225] Così "il canto del Baal Shem venne soffocato a Kotzk, trasformato in un richiamo di avvertimento e di disperazione".[226] Come è potuta accadere una cosa del genere? In queste righe abbiamo un suggerimento: Giacobbe "lottò contro l'angelo tutta la notte", scrive Wiesel. "Vittorioso, lo mandò via all'alba. Fu un errore. Avrebbe dovuto immaginare che l'angelo sarebbe tornato più di una volta, in più di un travestimento, forse anche sotto le sembianze di Giacobbe. . . . Per tutta la sua vita Mendel di Kotzk continuò questa lotta notturna con l'angelo. Solo. Solo contro l'uomo, solo contro il cielo, contro generazioni di antenati morti e tradizioni ancestrali che gravano su ogni ricordo".[227] Il soffocamento del canto del Besht avvenne con un ritiro nella solitudine, nell'isolamento e nell'angoscia. "La ricerca a tentoni del Rebbe, piena di angoscia esistenziale", come afferma Wiesel, "procede in una solitudine che culmina nel delirio. Per lui, l'ansia e la solitudine ritrovano i loro diritti nel chassidismo".[228] A Kotzk questo delirio eclissò l'estatico hitlahavut di Lublino. Eppure a Kotzk si continuava a gridare – in silenzio. Wiesel spiega: "A Kotzk non si parla; uno ruggisce o uno tace. . . . Il Rebbe dice: ‘Quando uno ha voglia di gridare e non lo fa, è allora che grida veramente’".[229] Perché il grido trattenuto trascende tutte le parole e ogni silenzio: apre una porta ai regni superiori che altrimenti rimarrebbe chiusa.
"Certe esperienze – aggiungeva il rabbino Menahem-Mendl – possono essere trasmesse dal linguaggio, altre – più profonde – dal silenzio; e poi ci sono quelle che non si possono trasmettere nemmeno con il silenzio".[230] Questa verità sembra aver avuto un impatto enorme su Elie Wiesel e quindi sul suo ritratto del Kotzker, come comprendiamo quando dice: "Scrivere diventa più difficile, più faticoso, più urgente. Ho bisogno di solitudine. Silenzio. Divento profondamente consapevole dell'ambiguità delle parole. Sempre le stesse domande, gli stessi dubbi. Come esprimere ciò che sfugge al linguaggio?"[231] Ha bisogno di solitudine? Colui che apparteneva a un mondo chassidico incentrato sulla mitigazione della solitudine ha bisogno di solitudine? Colui che, come il suo personaggio Paltiel Kossover in Le Testament, è arrivato a capire che "il silenzio potrebbe essere nefasto, malvagio"[232] ha bisogno del silenzio? No. Wiesel somiglia più al Kotzker che al suo personaggio Kossover. Fortunatamente, però, a differenza del Rebbe per il quale nutriva un'immensa ammirazione, Wiesel non distrusse i suoi scritti né si ritirò in un oscuro e debilitante isolamento. Ma, come mi disse una volta, tagliò la maggior parte di ciò che scrisse. "Devi scriverlo", ha detto, "per poterlo tirar fuori. Eppure, rimane. . . rimane."
"Il silenzio a Kotzk", ci dice Wiesel, "è così pesante, così denso che squarcia le notti. Non si sogna, si delira. Non si cammina, si corre. Si procede su una corda tesa ed è lui, il Rebbe, che ne tiene entrambe le estremità. È presente in tutti gli occhi, in tutti i pensieri; lui paralizza. . . . Gli basta guardare negli occhi qualcuno perché l'altro svenga".[233] Se il suo sguardo poteva far svenire un discepolo, come poteva il discepolo seguire la sua insistenza secondo cui se vogliamo che Dio sia nostro Padre, dobbiamo forzarLo? E come costringiamo il Santo, benedetto sia Lui, Creatore del cielo e della terra, a fare qualcosa? Lo stesso Kotzker ce lo mostra con il suo esempio: si dice che una volta gridò a Dio: "Avinu malkainu, nostro Padre, nostro Re, continuerò a chiamarti Padre finché non diventerai nostro Padre".[234] Tuttavia, una volta disse a un altro discepolo che Dio entra dove gli è permesso entrare, come se fossimo noi a impedire a Dio di diventare nostro Padre. Se, come disse una volta il Rebbe, "è più facile estrarre Israele dall'esilio che l'esilio da Israele",[235] allora è vero. Perché il ritorno dall'esilio – la Redenzione di Dio Stesso – accende la nostra capacità di restituire significato alla parola Padre nel nostro grido al Santo nell'Alto. Perché la parola Padre contiene la dimensione stessa dell'altezza.
Una svolta in questo ritratto di Menachem Mendel di Kotzk avviene uno Shabbat dell'anno 1839. Come al solito, i chassidim sono riuniti nella Casa di Studio in attesa dell'apparizione del Kotzker Rebbe. All'improvviso fa il suo ingresso Menachem Mendel: "Si dibatte nel respiro come un malato; i suoi occhi, fissati sulle candele davanti a lui, riflettono un'angoscia antica ma senza nome. Gli ospiti riuniti tacciono, oppressi; qualcosa in lui li mette a disagio, li spaventa. . . . Aspettano che il tempo si squarci, che i pensieri vengano svelati. E poi il Rebbe, sulla cinquantina ma dall'aspetto più vecchio, con il viso feroce e terrificante, getta indietro la testa e. . . . E qui finisce la storia. . . . Quella notte a Kotzk accadde qualcosa di straordinario; qualcosa di incomprensibile, indicibile".[236] Dovette essere trasportato dalla Casa di Studio al suo alloggio, dove rimase in completo isolamento fino alla fine della sua vita, vent'anni dopo. Quale fu la causa del peggioramento del Rebbe? Perché era arrivato a rifiutare ogni contatto con i suoi chassidim, attraverso i quali, come sicuramente sapeva, risiedeva il suo unico contatto con Dio? Come avrebbe potuto, nel più totale isolamento, mantenere la sua straordinaria capacità di ascoltare? Del resto Wiesel ci ricorda che "nel chassidismo tutto è possibile, tutto diventa possibile per la sola presenza di qualcuno che sa ascoltare, amare e donarsi".[237] Perché il Rebbe che conosceva questa verità più profondamente di chiunque altro avrebbe intrapreso un ritiro così radicale?
Wiesel offre una possibile spiegazione: "Prima aveva avuto paura di non scoprire mai la verità; ora aveva paura di averla già scoperta. Pertanto, non c'era soluzione; sia che l'uomo si volti da una parte o dall'altra, incontra comunque la paura. Il legame tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e i suoi simili? Paura. Dio vuole essere temuto piuttosto che amato. E Mendel di Kotzk protesta: ‘Se questa è la vita, non la voglio; la affronterò come un estraneo. Se tale è l'uomo, a che serve salvarlo?’"[238] Anche in quest’ultima disperata protesta il Kotzker era deciso a costringere Dio a essere Padre, non solo per amore di Israele ma per amore di Dio Stesso. Oppure potrebbe esserci qualcos'altro? Una visione simile a quella del suo maestro, il Santo Veggente di Lublino, nella notte della Grande Caduta del Veggente? Wiesel pone la domanda: "Avrebbe potuto prevedere che cento anni dopo il suo ritiro un altro fuoco avrebbe incendiato il continente, e le sue prime vittime sarebbero stati uomini e donne ebrei abbandonati da Dio e da tutta l'umanità?"[239] La stragrande maggioranza dei chassidim fu consumata nel fuoco nero di quella notte impenetrabile.
Le ultime parole del Rebbe furono: "Finalmente Lo vedrò faccia a faccia".[240] Ma cosa poteva significare ciò? Pronunciò queste parole con consolazione o con terrore? Dopotutto, se avesse intravisto il futuro del popolo ebraico, come lascia intendere Wiesel, avrebbe potuto intravedere il volto di Dio prima di presentarsi faccia a faccia davanti a Lui: "Ciò che l'uomo ha fatto all'uomo ad Auschwitz non avrebbe potuto essere al di fuori di Dio; in qualche modo anche Lui era all'opera: interrogava l'uomo? Mostrava il Suo volto? Che volto! In un certo senso, ad Auschwitz Dio aveva paura — paura di Se Stesso".[241] E se Dio ha paura di Se Stesso, come possiamo fare a meno noi di avere paura? Per quanto riguarda quale potrebbe essere la natura di quella paura – se è inondata di terrore e orrore, o intrisa di gioia e gratitudine, o qualsiasi combinazione di queste passioni – tali ritratti dei Maestri chassidici servono come risposta a questa domanda. Anche se è sotto forma di un'altra domanda.
Note
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico e Serie letteratura moderna. |
- ↑ Wiesel, Tous les fleuves vont à la mer (All Rivers Run to the Sea), 42.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 205.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 187. Altrove scrive che, con Rabbi Akiva "la storia della legge diviene parte della legge stessa"; cfr. Elie Wiesel, Sages and Dreamers, trad. (EN) Marion Wiesel (New York: Summit, 1991), 234.
- ↑ Wiesel, Against Silence, 187.
- ↑ Cfr. Wiesel, Le mal et l'exil: 10 ans après (Evil and Exile), 155.
- ↑ Elie Wiesel, L'oublié (The Forgotten), trad. (EN) Marion Wiesel (New York: Summit, 1992), 71.
- ↑ Wiesel, From the Kingdom of Memory, 173.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 5.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 19.
- ↑ Wiesel, 12.
- ↑ Wiesel, 203.
- ↑ Wiesel, Tous les fleuves vont à la mer (All Rivers Run to the Sea), 45.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 21.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 33.
- ↑ Etkes, Besht, 43.
- ↑ "Introduction to Beit Yaakov" in Gershom Hanoch Leiner, Shaar Emumah v’Yesod HaChassidut: V’u HaKadamah v’Petach haShaar l’Beit Yaavov ("The gate of faith and the foundation of Hasidism: Entrance to the gate of Beit Yaakov"), trad. (EN) Betzalel Edwards (Benei Brak: Machon Lehotzet, 1996), 24:2.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 24; cfr. anche Etkes, Besht, 81–82.
- ↑ Etkes, Besht, 86.
- ↑ Questa è la versione (HE, IT)
Ani Maamin אני מאמין
Translitt. ebraico Ani maamin beemuna shlemah
B'viat hamashiach
V'af al pi sheyitmameha
Im kol zeh achake lo
B'chol yom sheyavo
Traduzione
(IT) Credo con fede completa
Nella venuta del Messia
E anche se potrebbe tardare
Lo aspetterò,
quandunque venga
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 6.
- ↑ Wiesel, 7; mio corsivo.
- ↑ Louis I. Newman, cur., The Hasidic Anthology (New York: Schocken, 1963), 116.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 20.
- ↑ Wiesel, 25.
- ↑ Wiesel, 31–32.
- ↑ Levinas, Totality and Infinity, 291.
- ↑ Levinas, 206.
- ↑ Levinas, Ethics and Infinity, 105.
- ↑ Levinas, Collected Philosophical Papers, 96.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 9.
- ↑ Wiesel, 15.
- ↑ Wiesel, 22–23.
- ↑ Wiesel, 27.
- ↑ Wiesel, 26.
- ↑ Wiesel, 31.
- ↑ Newman, Hasidic Anthology, 456.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 18.
- ↑ Wiesel, 38.
- ↑ Sara Nomberg-Przytyk, Auschwitz: True Tales from a Grotesque Land, trad. Roslyn Hirsch (Chapel Hill: University of North Carolina Press, 1985), 105–6.
- ↑ Questa storia appare anche nel classico chassidico Dov Ber, In Praise of the Baal Shem Tov, trad. e cur. Dan Ben-Amos & Jerome R. Mintz (New York: Schocken, 1970), 80–81.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 15.
- ↑ Wiesel, 56.
- ↑ Wiesel, 63.
- ↑ Wiesel, 57.
- ↑ Wiesel, 65.
- ↑ Wiesel, 66.
- ↑ David Biale et al., Hasidism: A New History (Princeton, NJ: Princeton University Press, 2017), 76.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 38–39.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 56; cfr. anche Milton Aron, Ideas and Ideals of the Hassidim (Secaucus, NJ: Citadel, 1969), 168.
- ↑ Aron, Ideas and Ideals, 102.
- ↑ Newman, Hasidic Anthology, 179.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 61.
- ↑ Wiesel, 68.
- ↑ Levinas, Collected Philosophical Papers, 97.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 76
- ↑ Levinas, Difficult Freedom, 17.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 73.
- ↑ Wiesel, 71.
- ↑ Wiesel, La Notte, 46.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 86.
- ↑ Wiesel, 71.
- ↑ Wiesel, 71.
- ↑ Newman, Hasidic Anthology, 301.
- ↑ Wiesel, Le cas Sonderberg (The Sonderberg Case), 46–47.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 17.
- ↑ Wiesel, 17.
- ↑ Wiesel, 15.
- ↑ Wiesel, 23.
- ↑ Wiesel, 18.
- ↑ Wiesel, 13.
- ↑ Wiesel, Against Silence, 3:297.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 11–12.
- ↑ Wiesel, 15.
- ↑ Wiesel, 20.
- ↑ Newman, Hasidic Anthology, 147.
- ↑ Newman, 335–36.
- ↑ Newman, 36.
- ↑ Newman, 451; Milton Aron attribuisce questo insegnamento a Menahem-Mendl di Kotzk. Cfr. Aron, Ideas and Ideals, 256.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 24.
- ↑ Wiesel, 24.
- ↑ Wiesel, 27.
- ↑ Wiesel, 28.
- ↑ Wiesel, 28.
- ↑ Wiesel, 23.
- ↑ Wiesel, 31.
- ↑ Wiesel, 36.
- ↑ Wiesel, 37.
- ↑ Wiesel, 29–30.
- ↑ Wiesel, 43.
- ↑ Martin Buber, I and Thou, trad. Walter Kaufmann (New York: Scribner’s, 1970), 66.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 30–31.
- ↑ Wiesel, 44.
- ↑ Wiesel, 39–40.
- ↑ Wiesel, 41.
- ↑ Wiesel, 41.
- ↑ Wiesel, 35.
- ↑ Wiesel, 39.
- ↑ Wiesel, 42.
- ↑ Wiesel, 40.
- ↑ Wiesel, 41.
- ↑ Wiesel, 48.
- ↑ Wiesel, 46–47.
- ↑ Wiesel, 68.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 115.
- ↑ Wiesel, 115.
- ↑ Wiesel, 117.
- ↑ Wiesel, 126.
- ↑ Wiesel, 119.
- ↑ Wiesel, 120.
- ↑ Wiesel, 123.
- ↑ Wiesel, 127.
- ↑ Wiesel, 123.
- ↑ Wiesel, 120.
- ↑ Wiesel, 116.
- ↑ Wiesel, 115.
- ↑ Wiesel, 127.
- ↑ Wiesel, 122.
- ↑ Cfr. I. L. Peretz, The I. L. Peretz Reader, cur. Ruth R. Wisse, trad. Marie Syrkin (New Haven, CT: Yale University Press, 2002), 178–80.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 95–98.
- ↑ Wiesel, 98; per la versione narrata da Reb Zvi-Hersh of Zhidachov, cfr. Aron, Ideas and Ideals, 106–7.
- ↑ Aron, 106–7.
- ↑ Aron, 106.
- ↑ Aron, 101.
- ↑ Aron, 100.
- ↑ Levi, Se questo è un uomo (Survival in Auschwitz), 74.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 105.
- ↑ Wiesel, 107.
- ↑ Wiesel, 112.
- ↑ Wiesel, 108.
- ↑ Cfr. Levinas, Ethics and Infinity, 87.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 110.
- ↑ Newman, Hasidic Anthology, 494.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 105.
- ↑ Wiesel, 111.
- ↑ Wiesel, 113.
- ↑ Wiesel, 110.
- ↑ Wiesel, Sages and Dreamers, 360.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 99.
- ↑ Wiesel, 113.
- ↑ Wiesel, Entre deux soleils (One Generation After), 48.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 114.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 92.
- ↑ Wiesel, Le Serment de Kolvillàg (The Oath), 129.
- ↑ Wiesel, Souls on Fire, 89.
- ↑ Wiesel, 91.
- ↑ Wiesel, 107.
- ↑ Wiesel, 109.
- ↑ Cfr. David R. Blumenthal, Understanding Jewish Mysticism: A Source Reader, vol. 2 (New York: Ktav, 1982), 95.
- ↑ Wiesel e Eisenberg, Job ou Dieu dans la tempête, 82; cfr. anche Alan Rosen, "Capturing the Fire, Envisioning the Redemption: The Life and Work of Elie Wiesel", in Alan L. Berger, cur., Elie Wiesel: Teacher, Mentor, and Friend" (Eugene, OR: Cascade, 2018), 46–57.
- ↑ Cfr. Harry M. Rabinowicz, Hasidism: The Movement and Its Masters (Northvale, NJ: Aronson, 1988), 63.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 103.
- ↑ Kazantzakis, Rock Garden, 105–6.
- ↑ Wiesel, Sages and Dreamers, 378.
- ↑ Samuel H. Dresner, The Zaddik: The Doctrine of the Zaddik According to the Writings of Rabbi Yaakov Yosef of Polnoy (New York: Abelard-Schuman, 1960), 239.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 111.
- ↑ Wiesel, 112.
- ↑ Dribben, And Some Shall Live, 24.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 99.
- ↑ Wiesel, 96–97.
- ↑ Wiesel, 98.
- ↑ Wiesel, 100.
- ↑ Wiesel, Le Testament d'un poète juif assassiné (The Testament), 207.
- ↑ Wiesel, 207.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 105.
- ↑ Wiesel, 105.
- ↑ Wiesel, 106.
- ↑ Arthur Green, Tormented Master: A Life of Nahman of Bratslov (Tuscaloosa: University of Alabama Press, 1979), 10.
- ↑ Elie Wiesel, Et la mer n'est pas remplie (And the Sea Is Never Full: Memoirs: 1969–), trad. (EN) Marion Wiesel (New York: Alfred A. Knopf, 1999), 291.
- ↑ Biale et al., Hasidism, 116.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 169–70.
- ↑ Levi, Se questo è un uomo (Survival in Auschwitz), 121–22.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 170–71.
- ↑ Newman, Hasidic Anthology, 257.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 179.
- ↑ Wiesel, 187.
- ↑ Wiesel, 181.
- ↑ Meyer Levin, Hasidic Stories (Tel-Aviv: Greenfield, 1975), 344.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 182.
- ↑ Nachman di Breslov, Restore My Soul (Meshivat Nefesh), trad. Avraham Greenbaum (Gerusalemme: Chasidei Breslov, 1980), 47–48.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 175.
- ↑ Wiesel, 180.
- ↑ Menachem Mendel Schneerson, Torah Studies, adattato da Jonathan Sacks (Londra: Lubavitch Foundation, 1986), 74.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 188.
- ↑ Nahman di Breslov, (EN) Restore My Soul, 24.
- ↑ Nahman di Breslov, Tikkun, trad. (EN) Avraham Greenbaum (Gerusalemme: Breslov Research Institute, 1984), 56.
- ↑ Nahman di Breslov, Advice, trand. (EN) Avraham Greenbaum (Brooklyn, NY: Breslov Research Institute, 1983), 285.
- ↑ Nahman di Breslov, Restore My Soul, 109.
- ↑ Aron, Ideas and Ideals of the Hassidim, 160.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 193–94.
- ↑ Wiesel, 198–99.
- ↑ Wiesel, 198.
- ↑ Wiesel, 199–200.
- ↑ Wiesel, 174.
- ↑ Wiesel, 201.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 126.
- ↑ Wiesel, 122.
- ↑ Wiesel, 128.
- ↑ Wiesel, 132.
- ↑ Wiesel, 133.
- ↑ Wiesel, 127.
- ↑ Wiesel, 134.
- ↑ Wiesel, 133.
- ↑ Wiesel, 135.
- ↑ Wiesel, 115; la storia viene anche raccontata da Shlomo Yosef Zevin, A Treasury of Chassidic Tales on the Torah, trad. Uri Kaploun (New York: Mesorah, 1980), 98.
- ↑ Wiesel, 115–16.
- ↑ Wiesel, 116.
- ↑ Wiesel, 117.
- ↑ Wiesel, 117.
- ↑ Biale et al., Hasidism, 154.
- ↑ Wiesel, Somewhere a Master, 117.
- ↑ Wiesel, 118.
- ↑ Wiesel, 138.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 235.
- ↑ Wiesel, 235–36.
- ↑ Wiesel, 231.
- ↑ Wiesel, 231–32.
- ↑ Wiesel, 232–33; alcune fonti dicono che il Kotzker distruggesse i suoi scritti ogni anno alla vigilia della Pesach ebraica; cfr. Rabinowicz, Hasidism, 150.
- ↑ Wiesel, 233.
- ↑ Wiesel, 234.
- ↑ Yitzchak Ginsburgh, The Alef-Beit: Jewish Thought Revealed through the Hebrew Letters (Northvale, NJ: Jason Aronson, 1991), 72.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 235.
- ↑ Wiesel, 240–41.
- ↑ Wiesel, Et la mer n'est pas remplie (And the Sea Is Never Full), 60.
- ↑ Aron, Ideas and Ideals, 253.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 252–53.
- ↑ Wiesel, 237.
- ↑ Wiesel, 236.
- ↑ Wiesel, 238.
- ↑ Wiesel, 248.
- ↑ Wiesel, 240.
- ↑ Wiesel, Et la mer n'est pas remplie (And the Sea Is Never Full), 82.
- ↑ Wiesel, Le Testament d'un poète juif assassiné (The Testament), 207.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 248.
- ↑ Wiesel, Tous les fleuves vont à la mer (Wiesel, All Rivers Run to the Sea), 85.
- ↑ Wiesel, Célébration hassidique (Souls on Fire), 245.
- ↑ Wiesel, 228–29.
- ↑ Wiesel, 257.
- ↑ Wiesel, 254.
- ↑ Wiesel, 254.
- ↑ Wiesel, 254.
- ↑ Wiesel, Against Silence, 3:309.