Il Principe/Niccolò Machiavelli

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Indice del libro

Biografia[modifica]

Infanzia e giovinezza[modifica]

Niccolò Machiavelli nacque a Firenze,[1] terzo figlio, dopo le sorelle Primavera (1465) e Margherita (1468) e prima del fratello Totto (1475-1522); figlio di Bernardo (1432-1500) e di Bartolomea Nelli (1441-1496). Anticamente originari della Val di Pesa, i Machiavelli sono attestati[2] popolani guelfi residenti almeno dal XIII secolo a Firenze, dove occuparono uffici pubblici ed esercitarono il commercio. Il padre Bernardo era tuttavia di così poca fortuna da esser considerato, non si sa quanto veritieramente, figlio illegittimo: dottore in legge, risparmiatore per carattere o per necessità, ebbe interesse agli studi di umanità, come risulta da un suo Libro di Ricordi che è anche la principale fonte di notizie sull'infanzia di Niccolò.[3] La madre, secondo un suo lontano pronipote,[4] avrebbe composto laude sacre, rimaste peraltro sconosciute, dedicate proprio al figlio Niccolò.

La firma di Machiavelli

Nel 1476 Niccolò cominciò a studiare latino con un certo Matteo, l'anno dopo si dedicava allo studio della grammatica con un Battista da Poppi, all'aritmetica nel 1480 e l'anno seguente affrontava le prove scritte di componimento in latino. Opere in questa lingua esistevano nella biblioteca paterna: la I Deca di Tito Livio e quelle di Flavio Biondo, opere di Cicerone, Macrobio, Prisciano e Marco Giuniano Giustino. Adulto, maneggerà anche Lucrezio[5] e la Historia persecutionis vandalicae di Vittore Uticense. Non conobbe invece il greco antico, ma poté leggere le traduzioni latine di alcuni degli storici più importanti, soprattutto Tucidide, Polibio e Plutarco, da cui trasse importantissimi spunti per la sua riflessione sulla storia[6].

S'interessò alla politica fin dalla giovinezza, come dimostra una sua lettera del 9 marzo 1498, la seconda che di lui ci è pervenuta - la prima è una richiesta al cardinale Giovanni Lopez, del 2 dicembre 1497, affinché si adoperi a riconoscere alla sua famiglia un terreno contestato dalla famiglia dei Pazzi - indirizzata all'amico Ricciardo Becchi, ambasciatore fiorentino a Roma, nella quale egli si esprime in modo critico contro Girolamo Savonarola.

La formazione[modifica]

Due sono le fasi che scandiscono la vita di Niccolò Machiavelli: nella prima parte della sua esistenza egli è impegnato soprattutto negli affari pubblici e, in secondo luogo, nella scrittura di testi di limitata portata teorica e speculativa. A partire dal 1512 si apre la seconda fase segnata dal forzato allontanamento di Niccolò dalla politica attiva.

Segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica fiorentina[modifica]

Statua di Machiavelli, Galleria degli Uffizi, Firenze.
« Della persona fu ben proporzionato, di mezzana statura, di corporatura magro, eretto nel portamento con piglio ardito. I capelli ebbe neri, la carnagione bianca ma pendente all'ulivigno; piccolo il capo, il volto ossuto, la fronte alta. Gli occhi vividissimi e la bocca sottile, serrata, parevano sempre un poco ghignare. Di lui più ritratti ci rimangono, di buona fattura, ma soltanto Leonardo, col quale ebbe pur che fare ai suoi prosperi giorni, avrebbe potuto ritradurre in pensiero, col disegno e i colori, quel fine ambiguo sorriso »
(Roberto Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, p. 22)

Niccolò aveva già presentato al Consiglio dei Richiesti, il 18 febbraio 1498, la propria candidatura a segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica fiorentina, ma gli fu preferito un candidato savonaroliano. Pochi giorni dopo la fine dell'avventura politica e religiosa del frate ferrarese, il 28 maggio Machiavelli fu nuovamente designato ed eletto il 15 giugno dal Consiglio degli Ottanta, elezione ratificata dal Consiglio maggiore il 19 giugno 1498, probabilmente grazie all'autorevole raccomandazione del Primo segretario della Repubblica, Marcello Virgilio Adriani, che probabilmente fu il suo maestro[7].

Per quanto i compiti delle due Cancellerie siano stati spesso confusi, generalmente alla prima si attribuivano gli affari esterni, e alla seconda quelli interni e la guerra: ma i compiti della seconda Cancelleria, presto unificati con quelli della Cancelleria dei Dieci di libertà e pace, consistevano nel tenere i rapporti con gli ambasciatori della Repubblica, cosicché, essendogli stata affidata, il 14 luglio, anche questa ulteriore responsabilità, Machiavelli finì per doversi occupare di una tale somma di compiti da essere storicamente considerato, senza ulteriori distinzioni, il «Segretario fiorentino».

Caterina Sforza Riario, ritratta da Lorenzo di Credi.

Era il tempo nel quale, conclusa l'avventura italiana di Carlo VIII, la maggiore preoccupazione di Firenze era volta alla riconquista di Pisa, che si era resa indipendente dopo che Piero de' Medici l'aveva data in pegno al re francese, e che era alleata di Venezia; quest'ultima, intendendo impedire l'espansione fiorentina, aveva invaso il Casentino, occupandolo a nome dei Medici. Il pericolo venne fronteggiato dal capitano di ventura Paolo Vitelli, e la mediazione del duca di Ferrara Ercole I, il 6 aprile 1499, riconsegnò il Casentino a Firenze, autorizzandola altresì a riprendersi Pisa.

In marzo venne inviato a Pontedera, dove erano acquartierate le milizie del signore di Piombino, Jacopo d'Appiano, alleato di Firenze; in maggio scrisse il Discorso della guerra di Pisa per il magistrato dei Dieci: poiché «Pisa bisogna averla o per assedio o per fame o per espugnazione, con andare con artiglieria alle mura», esaminate diverse soluzioni, si esprime favorevole a un assedio di «un quaranta o cinquanta dì ed in questo mezzo trarne tutti gli uomini da guerra potete, e non solamente cavarne chi vuole uscire, ma premiare chi non ne volesse uscire, perché se ne esca. Dipoi, passato detto tempo, fare in un subito quanti fanti si può; fare due batterie, e quanto altro è necessario per accostarsi alle mura; dare libera licenza che se ne esca chiunque vuole, donne, fanciulli, vecchi ed ognuno, perché ognuno a difenderla è buono; e così trovandosi i Pisani voti di difensori dentro, battuti dai tre lati, a tre o quattro assalti sarìa impossibile che reggessero».

Il 16 luglio 1499 si presentò a Forlì alla contessa Caterina Sforza Riario, nipote di Ludovico il Moro e madre di Ottaviano Riario, che era stato al soldo dei fiorentini, per rinnovare l'alleanza e ottenere uomini e munizioni per la guerra pisana. Ottenne solo vaghe promesse dalla contessa, che era già impegnata a sostenere lo zio nella difficile difesa del Ducato milanese dalle mire di Luigi XII e dovette ripartire senza aver ottenuto nulla.

Era nuovamente a Firenze in agosto, quando le artiglierie fiorentine, provocata una breccia nelle mura pisane, aprivano la via alla conquista della città, ma il Vitelli non seppe sfruttare l'occasione e temporeggiò finché la malaria non ebbe ragione delle sue truppe, costringendolo a togliere l'assedio il 14 settembre. Invano ritentò l'impresa: sospettato di tradimento, quello che «era il più reputato capitano d'Italia» [8] fu decapitato. Nessuna prova vi era che il Vitelli fosse stato corrotto dai Pisani ma la giustificazione di Machiavelli, a nome della Repubblica, in risposta alle critiche di un cancelliere di Lucca, fu che «o per non havere voluto, sendo corropto, o per non havere potuto, non avendo la compagnia, ne sono nati per sua colpa infiniti mali ad la nostra impresa, et merita l'uno o l'altro errore, o tuct'a due insieme che possono stare, infinito castigo».[9]

Il cardinale di Rouen Georges d'Amboise.

Conquistato il Ducato di Milano, in risposta alla richieste fiorentine Luigi XII mandò suoi soldati a risolvere l'impresa di Pisa le cui mura furono bensì abbattute nel luglio del 1500 ma né gli svizzeri né i francesi entrarono in città anzi, lamentando che Firenze non li pagasse, levarono l'assedio e sequestrarono il commissario fiorentino Luca degli Albizzi, che fu rilasciato solo dietro riscatto. A Machiavelli, presente ai fatti, non restava che informare la Repubblica, che decise di mandarlo in Francia, insieme con Francesco della Casa, per cercare nuovi accordi che risolvessero finalmente la guerra di Pisa. Il 6 agosto 1500 raggiunsero la corte francese a Nevers, presentando al re e al ministro, cardinale di Rouen, le rimostranze per il cattivo comportamento dei loro soldati; sapendo che Firenze non aveva al momento denari sufficienti a finanziare l'impresa, invitarono Luigi a intervenire direttamente nella guerra, al termine della quale la Repubblica avrebbe ripagato la Francia di tutte le spese.

Il rifiuto dei francesi - che richiedevano a Firenze il mantenimento degli svizzeri rimasti accampati in Lunigiana e minacciavano la rottura dell'alleanza - mise i legati fiorentini, privi di istruzioni dalla Repubblica, in difficoltà, acuite dalla ribellione di Pistoia e dalle iniziative che frattanto aveva preso in Romagna Cesare Borgia, i cui ambiziosi e oscuri piani potevano anche indirizzarsi contro gli interessi fiorentini. Occorreva, pagando, mantenere buoni rapporti con la Francia - scriveva da Tours il 21 novembre - e guardarsi dalle macchinazioni del Papa: così, ottenuto dalla Signoria il denaro richiesto dalla Francia, Machiavelli poteva finalmente ritornare a Firenze il 14 gennaio 1501.

Da quella lunga permanenza nella corte francese trasse le notarelle De natura Gallorum, descritti «humilissimi nella captiva fortuna; nella buona insolenti [ ... ] più cupidi de' danari che del sangue [ ... ] varii et leggieri», con una bassa opinione degli Italiani, oltre ai successivi Ritratti delle cose di Francia, ma soprattutto ricavò un bagaglio d'esperienza, diplomatica e politica, i cui frutti dovranno maturare un decennio più tardi.

Cesare Borgia[modifica]

Presunto ritratto di Cesare Borgia, di Altobello Melone.
« Questo signore è molto splendido e magnifico, e nelle armi è tanto animoso che non è sì gran cosa che non gli paia piccola, e per gloria e per acquistare Stato mai si riposa né conosce fatica o periculo: giugne prima in un luogo che se ne possa intendere la partita donde si lieva; fassi ben volere a' suoi soldati; ha cappati e' migliori uomini d'Italia: le quali cose lo fanno vittorioso e formidabile, aggiunte con una perpetua fortuna »
(Machiavelli, Lettera ai Dieci del 26 giugno 1502)

La minaccia del Borgia si fece presto concreta: fermato dalle minacce della Francia quando tentava d'impadronirsi di Bologna, si volse contro Piombino, entrando nel territorio della Repubblica e cercando di imporle tributi, dai quali Firenze fu nuovamente fatta salva dall'intervento di Luigi XII. Fra una missione a Pistoia e un'altra a Siena, Niccolò ebbe tempo di sposare, nell'autunno del 1501, Marietta Corsini, donna di modesta origine, dalla quale avrà sette figli: Primerana, Bernardo, Lodovico, Guido, Piero, Baccina e Totto.

Padrone di Piombino il 3 settembre 1501, il Borgia, per mezzo del suo sodale Vitellozzo Vitelli, s'impadronì di Arezzo, dove si stabilì Piero de' Medici, poi delle terre di Valdichiana, di Cortona, di Anghiari e di Borgo San Sepolcro, e di lì passò a investire Camerino e Urbino, chiedendo nel contempo di intavolare trattative con Firenze che, nel frattempo, vistasi stretta dai due Borgia, padre e figlio, aveva rinnovato gli accordi con la Francia. Il 22 giugno 1502, lo stesso giorno della caduta della città nelle mani di Cesare, partirono per Urbino Machiavelli e il vescovo di Volterra, Francesco Soderini, fratello di Piero: ricevuti il 24 giugno, si sentirono ordinare di cambiare il governo della Repubblica, pena la sua inimicizia. La crisi fu superata grazie all'intervento delle armi francesi: avvicinandosi queste ad Arezzo, la città fu sgomberata e restituita, insieme con le altre terre, ai Fiorentini. Riferimento a questi casi è il breve scritto dell'anno successivo, Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, nel quale, preso esempio dal comportamento tenuto dagli antichi Romani in caso di ribellioni, rimprovera il governo fiorentino di non aver trattato severamente la ribelle città di Arezzo. Pensa che come i Romani

« fecero giudizio differente per esser differente il peccato di quelli popoli, così dovevi fare voi, trovando ancora nei vostri ribellati differenza di peccati [ ... ] giudico ben giudicato che a Cortona, Castiglione, il Borgo, Foiano, si siano mantenuti i capitoli, siano vezzeggiati e vi siate ingegnati riguadagnarli con i beneficii [ ... ] ma io non approvo che gli Aretini, simili ai Veliterni ed Anziani non siano stati trattati come loro.[10] [ ... ] I Romani pensarono una volta che i popoli ribellati si debbano o beneficare o spegnere e che ogni altra via sia pericolosissima. »

Di fronte a quelli che apparivano tempi nuovi e tempestosi, nei quali occorreva che uomini capaci prendessero pronte risoluzioni, come prima riforma nell'organizzazione dello Stato fiorentino fu resa vitalizia la carica di gonfaloniere, affidata, il 15 settembre 1502, a Pier Soderini, che appariva uomo accetto tanto agli ottimati che ai popolani. La prima missione che egli affidò a Machiavelli fu quella di prendere nuovamente contatto col Borgia il quale, formalmente capitano delle truppe pontificie e finanziato da quello Stato, intendeva tuttavia agire nel proprio interesse e in quello della sua famiglia, stringendo un nuovo patto con Luigi XII e ottenendone libertà d'azione nei suoi piani di espansione, non solo nei confronti di signorotti quali gli Orsini, i Baglioni e il Vitelli, già suoi alleati, ma anche contro lo stesso Bentivoglio di Bologna. Seguendo la tradizionale politica di alleanza con la Francia, Firenze - pur diffidando del Valentino - intendeva confermargli la sua amicizia, per non essere investita dai suoi aggressivi disegni.

Machiavelli giunse a Imola dal Borgia il 7 ottobre, confidandogli che Firenze non aveva aderito all'offerta di amicizia propostale dagli Orsini e dai Vitelli, congiurati a Magione contro il duca Valentino, e ne ricevette in cambio un'offerta di alleanza, alla quale Niccolò, affascinato dalla figura di Cesare Borgia, guardava con favore più di quanto non facesse il governo fiorentino. Fu al seguito del Valentino per tutta la durata di quei tre mesi di campagna militare e, il 1º gennaio 1503, due ore dopo l'uccisione a tradimento di Vitellozzo e di Oliverotto da Fermo, ne raccolse le parole «savie e affezionatissime»[11] per i Fiorentini, invitati nuovamente a unirsi a lui per avventarsi contro Perugia e Città di Castello. Firenze, a questo punto, decise di mandare presso il Borgia un ambasciatore accreditato, Jacopo Salviati, così che il nostro Segretario il 20 gennaio lasciò il campo di Città della Pieve per fare ritorno a Firenze.

Vitellozzo Vitelli, ritratto da Luca Signorelli.
« Vitellozo, Pagolo et duca di Gravina in su muletti ne andorno incontro al duca, accompagnati da pochi cavagli; et Vitellozo disarmato, con una cappa foderata di verde, tucto aflicto se fussi conscio della sua futura morte, dava di sé, conosciuta la virtù dello huomo et la passata sua fortuna, qualche ammiratione [ ... ] Arrivati adunque questi tre davanti al duca, et salutatolo humanamente, furno da quello ricevuti con buono volto [ ... ] Ma, veduto il duca come Liverotto vi mancava [ ... ] adciennò con l'occhio a don Michele, al quale la cura di Leverotto era demandata, che provedessi in modo che Liverotto non schapassi [ ... ] Liverotto havendo facto riverenza, si adcompagnò con gli altri; et entrati in Senigagla, et scavalcati tutti ad lo alloggiamento del duca, et entrati seco in una stanza secreta, furno dal duca fatti prigioni [ ... ] venuta la nocte [ ... ] al duca parve di fare admazare Vitellozzo e Liverotto; et conductogli in uno luogo insieme, gli fe' strangolare [ ... ] Pagolo et el duca di Gravina Orsini furno lasciati vivi per infino che il duca intese che a Roma el papa haveva preso el cardinale Orsino, l'arcivescovo di Firenze et messer Jacopo da Santa Croce; dopo la quale nuova, a dì 18 di giennaio, ad Castel della Pieve furno anchora loro nel medesimo modo strangolati »
(Machiavelli, Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini, giugno-agosto 1503)

A Roma[modifica]

La morte di Alessandro VI privò Cesare Borgia delle risorse finanziarie e politiche che gli occorrevano per mantenere il ducato di Romagna, che si dissolse tornando a frammentarsi nelle vecchie signorie, mentre Venezia s'impadronì di Imola e di Rimini. Dopo il brevissimo pontificato di Pio III, Machiavelli fu inviato a Roma il 24 ottobre 1503 per il conclave che il 1º novembre elesse Giulio II. Raccolse le ultime confidenze del Valentino, del quale pronosticò la rovina imminente, e cercò di comprendere le intenzioni politiche del nuovo papa, che egli sperava s'impegnasse contro i Veneziani, le cui mire espansionistiche erano temute da Firenze: «O la sarà una porta che aprirà loro tutta Italia, o fia la rovina loro», scrive il 24 novembre.

A Roma gli giunse la notizia della nascita del secondogenito Bernardo: «Somiglia voi, è bianco come la neve, ma gli ha il capo che pare velluto nero, et è peloso come voi, e da che somiglia voi parmi bello», gli scrive la moglie Marietta il 24 novembre. E Machiavelli, che lungamente in questo scorcio di tempo aveva frequentato la casa del cardinal Soderini, al quale forse prospettò già il suo progetto di costituire una milizia nazionale che sostituisse l'infida soldatesca mercenaria,[12] il 18 dicembre s'avviò per Firenze.

In Francia[modifica]

Le fortune della Francia in Italia sembrarono declinare dopo la cacciata dal Napoletano ad opera dell'armata spagnola di Gonzalo Fernández de Córdoba. Firenze, alleata di Luigi XII, e timorosa delle prossime iniziative della Spagna, del papa e della nemica tradizionale, la Siena di Pandolfo Petrucci, era interessata a conoscere i progetti del re e a questo scopo alla sua corte mandò Machiavelli «a vedere in viso le provvisioni che si fanno e scrivercene immediate, e aggiungervi la coniettura e iudizio tuo». Il 22 gennaio 1504 Machiavelli era a Milano per conferire con il luogotenente Charles II d'Amboise, che non credeva in un attacco spagnolo in Lombardia e rassicurò Niccolò sull'amicizia francese per Firenze.

Raggiunse la corte e l'ambasciatore Niccolò Valori a Lione, il 27 gennaio, ricevendo uguali rassicurazioni dal cardinale di Rouen e da Luigi stesso. In marzo ripartiva per Firenze e di qui si recava per pochi giorni a Piombino da Jacopo d'Appiano, per sondare la posizione di quel signorotto.

È di questo tempo la stesura del suo primo Decennale, una storia dei fatti notevoli occorsi degli ultimi dieci anni volta in terzine: Machiavelli non è poeta, anche se invoca Apollo nell'esordio del poemetto, ma a noi interessa il suo giudizio sull'attualità della vicenda politica italiana e su quel che attende Firenze:

Ingresso a Genova di Luigi XII, 1508.
« L'imperador, con l'unica sua prole
vuol presentarsi al successor di Pietro
al Gallo il colpo ricevuto duole;
e Spagna che di Puglia tien lo scetro
va tendendo a' vicin laccioli e rete,
per non tornar con le sue imprese a retro;
Marco, pien di paura e pien di sete,
fra la pace e la guerra tutto pende;
e voi di Pisa troppa voglia avete [ .... ]
Onde l'animo mio tutto s'infiamma
or di speranza, or di timor si carca
tanto che si consuma a dramma a dramma,
perché saper vorrebbe dove, carca
di tanti incarchi debbe, o in qual porto,
con questi venti, andar la vostra barca.
Pur si confida nel nocchier accorto
ne' remi, nelle vele e nelle sarte;
ma sarebbe il cammin facile e corto
se voi el tempio riapriste a Marte »
(Decennale primo, vv 529-549)

I tentativi d'impadronirsi di Pisa fallirono ancora: battuta a Ponte a Cappellese il 27 marzo 1505, Firenze doveva anche guardarsi dalle manovre dei signori ai loro confini. Machiavelli andò a Perugia l'11 aprile per conferire col Baglioni, ora alleato con gli Orsini, con Lucca e con Siena, poi a Mantova, per cercare invano accordi con il marchese Giovan Francesco Gonzaga e il 17 lugl]] a Siena. In settembre, fallì un nuovo assalto a Pisa e Machiavelli ne trasse spunto per presentare la proposta della creazione di un esercito cittadino. Rimasti diffidenti i maggiorenti della città - che temevano che un esercito popolare potesse costituire una minaccia per i loro interessi - ma appoggiato dal Soderini, Machiavelli si mosse per mesi nei borghi toscani a far leva di soldati, istruiti «alla tedesca», e finalmente, il 15 febbraio 1506, Firenze poté vedere la prima parata di una milizia «nazionale» che peraltro non avrà nessun ruolo nella successiva conquista di Pisa e si rivelerà di scarso affidamento nella difesa di Prato del 1512.

La seconda legazione a Roma[modifica]

Con la pace concordata con la Francia nell'ottobre 1505, la Spagna, con Ferdinando II d'Aragona, aveva preso definitivamente possesso del Regno di Napoli. I piccoli Stati della penisola attendevano ora le mosse di Giulio II, deciso a imporre la sua egemonia nell'Italia centrale: nel luglio, il Papa chiese a Firenze di partecipare alla guerra che egli intendeva muovere al signore di Bologna, Giovanni Bentivoglio, che era alleato, come Firenze, dei francesi, e perciò teoricamente amico, oltre che confinante, dei Fiorentini. Si trattava di temporeggiare, osservando gli sviluppi dell'impresa del papa al quale fu mandato Machiavelli, che lo incontrò a Nepi il 27 agosto 1506.

Giulio II gli dimostrò di godere dell'appoggio della Francia, che aveva promesso di inviare truppe in suo aiuto, cosicché fu agevole a Machiavelli promettere aiuti a sua volta - dopo però che fossero arrivati quelli di re Luigi - e seguì papa Giulio che, con la sua corte curiale e pochi armati se n'andava a Perugia, ottenendo, il 13 settembre, la resa senza combattimento di Giampaolo Baglioni, che, con stupore e rimprovero del Machiavelli [13] e, un giorno, anche del Guicciardini,[14] non ebbe il coraggio di opporsi alle poche forze allora a disposizione del Papa. La corte papale, dopo aver atteso a Cesena fino a ottobre l'arrivo dei francesi e, dopo questi, dei Fiorentini di Marcantonio Colonna, entrò trionfante a Bologna l'11 novembre.

Machiavelli, tornato a Firenze già alla fine d'ottobre, s'occupò ancora dell'istituzione delle milizie fiorentine: il 6 dicembre furono creati i Nove ufficiali dell'Ordinanza e Milizia fiorentina, eletti dal popolo, responsabili militari della Repubblica.

In Germania[modifica]

Il nuovo anno 1507 si aprì con le minacce del passaggio in Italia del «Re dei Romani» Massimiliano, intenzionato a ribadire le proprie pretese di dominio sulla penisola, a espellere i francesi e a farsi incoronare a Roma «imperatore del Sacro Romano Impero». Si valutò a Firenze la possibilità di finanziargli l'impresa in cambio della sua amicizia e del riconoscimento dell'indipendenza della Repubblica: il 27 giugno fu inviato a questo scopo l'ambasciatore Francesco Vettori e, il 17 dicembre, lo stesso Machiavelli. Giunse a Bolzano, dove Massimiliano teneva corte, l'11 gennaio 1508, e le lunghe trattative sull'esborso preteso da Massimiliano s'interruppero quando i Veneziani, sconfiggendolo più volte, gli fecero comprendere la velleità dei suoi sogni di gloria.

Da questa esperienza Machiavelli trasse tre scritti, il Rapporto delle cose della Magna, composto il 17 giugno 1508, il giorno dopo il suo rientro a Firenze, il Discorso sopra le cose della Magna e sopra l'Imperatore, del settembre 1509, e il più tardo Ritratto delle cose della Magna, del 1512, una rielaborazione del primo Rapporto. Rileva la grande potenza della Germania, che «abunda di uomini, di ricchezze e d'arme»; le popolazioni hanno «da mangiare e bere e ardere per uno anno: e così da lavorare le industrie loro, per potere in una obsidione [assedio] pascere la plebe e quelli che vivono delle braccia, per uno anno intero sanza perdita. In soldati non spendono perché tengono li uomini loro rmati ed esercitati; e li giorni delle feste tali uomini, in cambio delli giuochi, chi si esercita collo scoppietto, chi colla picca e chi con una arme e chi con una altra, giocando tra loro onori et similia, e quali tra loro poi si godono. In salari e in altre cose spendono poco: talmente che ogni comunità si truova ricca in publico».

Importano e consumano poco perché «le loro necessità sono assai minori delle nostre», ma esportano molte merci «di che quasi condiscono tutta la Italia [...] e così si godono questa loro rozza vita e libertà e per questa causa non vogliono ire alla guerra se non sono soprappagati e questo anche non basterebbe loro, se non fussino comandati dalle loro comunità. E però bisogna a uno imperadore molti più denari che a uno altro principe».

Tanta forza potenziale, che potrebbe fare la grandezza politica e militare dell'Imperatore, è limitata dalle divisioni delle comunità governate dai singoli principi, una realtà simile a quella italiana: nessun principe tedesco vuole favorire l'imperatore, «perché, qualunque volta in proprietà lui avessi stati o fussi potente, e' domerebbe e abbasserebbe e principi e ridurrebbeli a una obedienzia di sorte da potersene valere a posta sua e non quando pare a loro: come fa oggi il re di Francia, e come fece già il re Luigi, quale con l'arme e ammazzarne qualcuno li ridusse a quella obedienzia che ancora oggi si vede».[15]

La conquista di Pisa[modifica]

Decisa a concludere le operazioni militari contro Pisa, Firenze mandò Machiavelli a far leve di soldati: in agosto condusse soldati prelevati da San Miniato e da Pescia all'assedio della città irriducibile. Riunite altre milizie, si incaricò di tagliare i rifornimenti bloccando l'Arno; poi, il 4 marzo del 1509, andò prima a Lucca a intimare a quella Repubblica di cessare ogni aiuto ai Pisani e, il 14, ri recò a Piombino, incontrando gli ambasciatori di Pisa per cercare invano un accordo di resa.

Raccolte nuove truppe, in maggio era presente all'assedio: Pisa, ormai stremata, trattava finalmente la pace. Machiavelli accompagnò i legati pisani a Firenze dove, il 4 giugno 1509 fu firmata la resa e l'8 giugno poté entrare in Pisa con i commissari Niccolò Capponi, Antonio Filicaia e Alamanno Salviati.

A Verona e in Francia[modifica]

Raffaello Sanzio, Ritratto di Giulio II (1512)

Un ben più vasto incendio era intanto divampato nell'Italia settentrionale: stipulato un patto di alleanza a Cambrai, Francia, Spagna, Impero e papato si avventavano contro la Repubblica veneziana che a maggio cedeva i suoi possedimenti lombardi e romagnoli e, in giugno, anche Verona, Vicenza e Padova, consegnate a Massimiliano. Firenze, da parte sua, doveva finanziare la nuova impresa imperiale: consegnato un primo acconto in ottobre, il 21 novembre Machiavelli era a Verona per consegnare il saldo a Massimiliano, che era stato però costretto alla ritirata dalla controffensiva veneziana, resa possibile dalla rivolta popolare contro i nuovi padroni. E Machiavelli commentava dei «due re, che l'uno può fare la guerra e non vuol farla, l'altro ben vorrebbe farla e non può»,[16] riferendosi a Luigi e a Massimiliano che se n'era tornato in Germania a chiedere soldati e denari ai principi tedeschi. Atteso inutilmente il ritorno dell'Imperatore, il 2 gennaio 1510 Machiavelli se ne tornò a Firenze.

Venezia si salvò soprattutto grazie alle divisioni degli alleati: mentre Luigi XII aveva tutto l'interesse di ridurre all'impotenza Venezia per avere le mani libere nella pianura padana, Giulio II la voleva abbastanza forte da opporsi alla Francia senza averne contrasto alle proprie ambizioni di espansione. Per Firenze, amica della Francia ma non nemica del papa, era necessario spiegarsi con il re francese, e Machiavelli fu mandato a Blois, dove Luigi teneva la corte, incontrandolo il 17 giugno 1510.

Machiavelli confermò l'amicizia con la Francia, ma disse di dubitare che la Repubblica potesse impegnarsi in una guerra contro Giulio II, in grado di volgere contro Firenze forze troppo superiori: meglio sarebbe stata una mediazione che evitasse il conflitto e sottraesse, oltre tutto, Firenze dalla responsabilità di un impegno nel quale era difficile trarre un guadagno. Dovette tornare a Firenze il 19 ottobre, convinto che la guerra fosse ineluttabile.

Le vittorie militari non furono sfruttate da Luigi XII e la sua indizione di un concilio a Pisa, che condannasse il papa, provocò l'interdetto di Giulio II contro Firenze. Il 22 settembre 1511 Machiavelli era ancora in Francia, ottenendo dal re soltanto un breve rinvio del concilio: dalla Francia andò a Pisa e riuscì a ottenere il trasferimento del concilio a Milano.

Il ritorno dei Medici a Firenze[modifica]

La fortuna di Luigi XII volgeva al tramonto: sconfitto dalla nuova coalizione guidata dal papa, era costretto ad abbandonare la Lombardia, lasciando Firenze politicamente isolata e incapace di resistere alle armi spagnole. Il 31 agosto 1512, Pier Soderini fuggì a Siena, i Medici rientrarono a Firenze: disfatto il vecchio governo, il 7 novembre anche Machiavelli venne rimosso dal suo incarico, il successivo 10 novembre fu confinato e multato della grande somma di mille fiorini e il 17 novembre|17 gli fu interdetto l'ingresso a Palazzo Vecchio.

Giuliano de' Medici duca di Nemours.

Il nuovo regime processò Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi, accusati di aver complottato contro il cardinale Giovanni de' Medici, condannandoli a morte. Anche Machiavelli è sospettato: arrestato il 12 febbraio 1513, fu anche torturato (con una tortura che si chiama "Colla"). Scrisse allora a Giuliano de' Medici due sonetti, per ricordargli, ma senza averne l'aria e in forma scherzosa, la sua condizione di carcerato:

« Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti
e sei tratti di fune in sulle spalle;
l'altre miserie mie non vo' contalle,
poiché così si trattano i poeti Menon pidocchi queste parieti
grossi e paffuti che paion farfalle,
né mai fu tanto puzzo in Roncisvalle
o in Sardigna fra quegli arboreti
quanto nel mio sì delicato ostello »

Giulio II moriva intanto proprio in quei giorni e dal conclave uscì eletto l'11 marzo il cardinale de' Medici con il nome di Leone X: era la fine dei pericoli di guerra per Firenze e anche il tempo dell'amnistia. Uscito dal carcere, Machiavelli cercò di ottenere favori dai Medici attraverso l'ambasciatore Francesco Vettori e lo Giuliano, ma invano. Si ritirò allora nel suo podere dell'Albergaccio, a Sant'Andrea in Percussina, tra Firenze e San Casciano in Val di Pesa.

L'esilio dalla politica. «Il Principe»[modifica]

Qui, tra le giornate rese lunghe dall'ozio forzato, comincia a scrivere i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio che, forse nel luglio 1513, interrompe per metter mano al suo libro più famoso, il De Principatibus, dal solenne titolo latino ma scritto in volgare e perciò divenuto ben più noto come Il Principe. Lo dedica dapprima a Giuliano de' Medici e, dopo la morte di questi nel 1516, a Lorenzo de' Medici, figlio di Piero; ma il libro uscì solo postumo, nel 1532.

Certo, non doveva farsi illusioni che un Medici potesse mai essere quel «redentore» atteso dall'Italia contro «questo barbaro dominio», ma da un Medici si attendeva almeno la sua propria «redenzione» dall'inattività cui era stato relegato dal ritorno a Firenze di quella famiglia. Sperava che l'amico Vettori, ambasciatore a Roma, si facesse interprete del suo «desiderio [...] che questi signori Medici mi cominciasseino adoperare», dal momento «che io sono stato a studio all'arte dello stato [...] e doverrebbe ciascheduno aver caro servirsi d'uno che alle spese d'altri fussi pieno d'esperienza. E della fede mia non si doverrebbe dubitare, perché, avendo sempre osservato la fede, io non debbo imparare ora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni che io ho, non debbe potere mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia».

Delle ombre della sua povertà, ma anche delle sue luci, Machiavelli scrive al Vettori in quella che è la più famosa lettera della nostra letteratura:

L'Albergaccio di Machiavelli a Sant'Andrea in Percussina.
« Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandargli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo de Principatibus »
(Lettera a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513)

Ritornato il 3 febbraio 1514 a Firenze, continuò a sperare a lungo che il Vettori, al quale spedì il manoscritto del Principe,[17] lo facesse introdurre in qualche incarico nell'amministrazione cittadina, ma invano. Tutto dipendeva dalla volontà del papa, e Leone non era affatto intenzionato a favorire chi non si era mostrato, a suo tempo, favorevole agli interessi di Casa Medici. Machiavelli, da parte sua, scriveva al Vettori di aver «lasciato i pensieri delle cose grandi e gravi» e di non dilettarsi più di «leggere le cose antiche, né ragionare delle moderne: tutte si sono converse in ragionamenti dolci». Si era infatti innamorato di una «creatura tanto gentile, tanto delicata, tanto nobile e per natura e per accidente, che io non potrei né tanto laudarla né tanto amarla che la non meritasse più».[18]

La guerra, ripresa in Italia dalla discesa del nuovo re di Francia Francesco I, si concluse nel settembre 1515 con la sua grande vittoria a Marignano (oggi Melegnano) contro la vecchia «Lega santa»: Leone X dovette accettare il dominio francese in Lombardia e la stipula a Bologna di un concordato che riconosceva il controllo reale sul clero francese. Si rifece impossessandosi, per conto del nipote Lorenzo, capitano generale dei Fiorentini, del Ducato di Urbino. A quest'ultimo invano dedicava Machiavelli il suo Principe: la sua esclusione dalla gestione degli affari di Firenze continuava.

Gli «ozi letterari»[modifica]

Nel 1516 o 1517 si diede a frequentare gli «Orti Oricellari», latineggiamento che indica i giardini del Palazzo di Cosimo Rucellai, dove si riunivano letterati, giuristi ed eruditi come Luigi Alamanni, Jacopo da Diacceto, Jacopo Nardi, Zanobi Buondelmonti, Antonfrancesco degli Albizi, Filippo de' Nerli e Battista della Palla. Qui vi lesse probabilmente qualche capitolo di quell'Asino, poemetto in terzine che voleva essere una contaminazione fra l'Asino d'oro di Apuleio e la Divina Commedia dantesca, ma che lasciò presto interrotto: e al Rucellai e al Buondelmonti dedicò i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, scritti dal 1514 al 1517.

Machiavelli si era già cimentato, quando ricopriva l'incarico di segretario della Repubblica, in composizioni teatrali: una imitazione dell'Aulularia di Plauto e una commedia, Le maschere, ispirata ad Aristofane, sono tuttavia perdute. Al 1518 risale il suo capolavoro letterario, la commedia La Mandragola, nel cui prologo egli rilascia un accenno autobiografico:

« scusatelo con questo, che s'ingegna
con questi van pensieri
fare el suo tristo tempo più suave,
perch'altrove non have
dove voltare el viso;
ché gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altra virtue,
non sendo premio alle fatiche sue. »

Intorno a quest'anno vanno collocate la sua traduzione dell'Andria di Terenzio e la novella di Belfagor arcidiavolo o Novella del demonio che pigliò moglie - il suo titolo preciso è attualmente stabilito in Favola - il cui tema di fondo è la visione pessimistica dei rapporti che legano gli esseri umani, tutti intesi al proprio interesse a danno, se necessario, di quello di ciascun altro.

Machiavelli e il Rinascimento[modifica]

Il Rinascimento italiano[modifica]

Gli uomini del '400 sono coscienti di essere diversi da quelli del passato: essi sono i moderni rispetto agli uomini del medioevo, gli antichi, da cui vogliono distaccarsi ma a cui in realtà sono ancora legati.
È in questo periodo che nasce la considerazione del Medioevo come di un'età oscurantista a cui i rinascimentali oppongono la loro età moderna.

L'uomo del Medioevo sta con i piedi sulla terra ma guarda al cielo, c'è una dimensione verticale dell'uomo, nell'Umanesimo la dimensione diventa orizzontale.

C'è in loro un senso della concretezza, dell'azione decisa, che del resto era presente anche in uomini del passato ma non era mai stata teorizzata come lo sarà adesso.

La visione realistica della storia per esempio era già presente come attestano le cronache del Villani che rappresenta realisticamente le condizioni negative di Firenze, ma il tutto era inserito in una prospettiva teologica: per lo storico medioevale i mali di Firenze sono da riportare ai peccati dei Fiorentini; ora invece la considerazione della storia è per alcuni tutta umana, la prospettiva teologica non ci sarebbe più: per Machiavelli, storico moderno, infatti le cause delle sciagure di Firenze non sono più religiose ma esclusivamente politiche.

La concezione della politica[modifica]

Niccolò Machiavelli

I sofisti per primi intesero l'uomo nella sua essenza naturale e si interessarono dell'ambiente naturale in cui vive l'uomo: la città, lo stato. Per primi teorizzarono il comportamento morale e politico dell'uomo come essere naturale e ne trassero cinicamente le conseguenze.

Niccolò Machiavelli ha una visione tutta naturale dell'uomo nella sua concezione storicistica e naturalistica assieme della realtà umana. La storia umana è ciclica, si svolge lungo un cerchio dove tutto si ripete allo stesso modo come nella storia circolare della natura.

Questa è l'originalità della nuova scienza politica, di cui Machiavelli è consapevole: egli tratta non del dover essere, come i politici del passato, ma dell'essere. Per questo la politica ha una sua logica naturale, cioè quella di considerare la realtà per quello che è, non quella che noi vorremmo che fosse, ed è quindi inutile cercare ottimisticamente di cambiare la condizione umana ma bisogna adattarsi realisticamente ad essa per conseguire l'utile. Il difficile compito del Principe, tipica figura dell'individualismo titanico rinascimentale, sarà quello di utilizzare le sue doti realisticamente naturali di volpe e leone, non semplici metafore di astuzia e forza, per piegare la volontà degli uomini che, anch'essi, come gli esseri naturali, amano la libertà e, non perché moralmente malvagi, "sono ribelli e riottosi alle leggi", non tollerano cioè restrizioni alla loro egoistica ed istintiva libertà.

La "virtus" del sovrano medioevale, che governa per grazia di Dio e a lui deve rispondere per la sua azione politica, era diretta anche a difendere i buoni e proteggere i deboli dalla malvagità. Nel Principe nessuna considerazione morale né religiosa dovrà inficiare la sua azione spregiudicata e forte che mette in atto la sua "aretè" tesa a mettere ordine là dov'è il caos della politica italiana del '500.[19]

Machiavelli e il Rinascimento[modifica]

Con il termine machiavellico si è spesso indicato un atteggiamento spregiudicato e disinvolto nell'uso del potere: un buon principe deve essere astuto per evitare le trappole tese dagli avversari, capace di usare la forza se ciò si rivela necessario, abile manovratore negli interessi propri e del suo popolo. Ciò si accompagna a un travaglio personale che il Machiavelli sentiva nella sua attività quotidiana e di teorico, secondo una tradizione politica che già in Cicerone affermava: "un buon politico deve avere le giuste conoscenze, stringere mani, vestire in modo elegante, tessere amicizie clientelari per avere un'adeguata scorta di voti".

Con Machiavelli, l'Italia ha conosciuto il più grande teorico della politica. Secondo Machiavelli, la politica è il campo nel quale l'uomo può mostrare nel modo più evidente la propria capacità di iniziativa, il proprio ardimento, la capacità di costruire il proprio destino secondo il classico modello del faber fortunae suae.

Nel suo pensiero, si risolve il conflitto fra regole morali e ragion di Stato che impone talvolta di sacrificare i propri princìpi in nome del superiore interesse di un popolo.

La concezione della storia[modifica]

Per Machiavelli la storia è il punto di riferimento verso il quale il politico deve sempre orientare la propria azione. La storia fornisce i dati oggettivi su cui basarsi, i modelli da imitare, ma indica anche le strade da non ripercorrere. Machiavelli si basa su una concezione ciclica della storia: "Tutti li tempi tornano, li uomini sono sempre li medesimi". Ma ciò che allontana Machiavelli da una visione deterministica della storia è l'importanza che egli attribuisce alla "virtù", ovvero alla capacità dell'uomo di dominare il corso degli eventi utilizzando opportunamente le esperienze degli errori compiuti nel passato.

Non a caso il Principe, nella conclusione, abbandona il suo taglio cinico e pragmatico per esortare i sovrani italiani, con una scrittura più solenne e venata di un certo idealismo, a riconquistare la sovranità perduta e a cacciare l'invasore straniero. Non c'è rassegnazione nel Principe, né tanto meno sfiducia nei confronti dell'uomo.

Il senso della nazione[modifica]

Una errata interpretazione del '900 fece del Machiavelli un precursore del movimento unitario, ma la parola nazione ha assunto l'attuale significato solo a partire dalla seconda metà del ‘700, mentre il Machiavelli la usò in senso particolaristico e cittadino (es. nazione fiorentina o, nel senso più generico di popolo, moltitudine).

Tuttavia, Machiavelli propugnava un principato in grado di reggersi sull'unità etnica dell'Italia; così facendo, e denunciando in tal modo una chiara coscienza dell'esistenza di una civiltà italiana, Machiavelli predica la liberazione dell'Italia sotto il patrocinio di un principe criticando il dominio temporale dei Papi che spezza in due la penisola.

Ma l'unità d'Italia resta in Machiavelli un problema solo intuito. Non si può dubitare che avesse concepito l'idea dell'unità d'Italia, ma tale idea restò indeterminata, poiché non trovò appigli concreti nella realtà, restando perciò a livello di utopia, cui solo dava forma la figura ideale del principe nuovo. Machiavelli dunque intraprese un viaggio che identificò come viaggio spirituale in giro per il mondo in seguito tornato in patria ebbe una nuova visione sia del "popolo" che della "nazione" così comincia quello che oggi definiamo rinnovamento culturale.

Note[modifica]

  1. Archivio dell'Opera di Santa Maria del Fiore, Libri dei battesimi: A dì 4 di detto maggio 1469 Niccolò Piero e Michele di m. Bernardo Machiavelli, p. di Santa Trinita, nacque a dì 3 a hore 4, battezzato a dì 4
  2. Dal Villani, nella sua Cronica
  3. I Ricordi vanno dal 30 settembre 1474 al 19 agosto 1487
  4. In Discorsi di Architettura del senatore Giovan Battista Nelli, 1753
  5. La sua trascrizione del De rerum natura è nel manoscritto Vaticano Rossiano 884
  6. L. Canfora, Noi e gli antichi, Milano 2002, p. 16, 22, 121
  7. P. Giovio, Elogia clarorum virorum, 1546, 55v: «Constat [...] a Marcello Virgilio [...] graecae atque latinae linguae flores accepisse»
  8. R. Ridolfi, cit., p. 45
  9. Lettera 11, ottobre 1499
  10. Il Senato romano fece distruggere Velletri e indebolì Anzio sottraendole la flotta: cfr. Livio, VIII, 13
  11. Lettera dell'8 gennaio 1503
  12. È un'ipotesi del Ridolfi, cit., p. 115
  13. Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I, 27: «Giovanpagolo, il quale non stimava essere incesto e publico parricida, non seppe, o, a dir meglio, non ardì, avendone giusta occasione, fare una impresa, dove ciascuno avesse ammirato l'animo suo, e avesse di sé lasciato memoria eterna, sendo il primo che avesse dimostro a' prelati quanto sia poco uno che vive e regna come loro; ed avessi fatto una cosa, la cui grandezza avesse superato ogni infamia, ogni pericolo, che da quella potesse dependere»
  14. Nella sua Storia d'Italia, il Guicciardini esprime lo stesso giudizio di Machiavelli
  15. Ritratto delle cose della Magna, in «Tutte le opere storiche, politiche e letterarie, p. 442»
  16. Lettera ai Dieci, 1 dicembre 1509
  17. Ottenendo un giudizio evasivo: cfr. la lettera del Vettori del 18 gennaio 1514
  18. Lettera a Francesco Vettori, 3 agosto 1514
  19. Cfr. Garin Eugenio, "L'umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento", Bari 1993