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Pluralismo religioso in prospettiva ebraica/Ebrei e altri

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Quattromila anni di storia ebraica: quadro storico di Israele, creato da Arthur Szyk nel 1948, anno della fondazione dello Stato di Israele, stampato nel 1949.[1]

Gli ebrei e gli altri – Ebrei come l’altro

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Antico Israele

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Vorrei ora passare all'interazione tra ebrei e non ebrei nel passato per esporre alcuni dati specifici sul pluralismo interreligioso. La storia degli ebrei iniziò intorno al 1500 p.e.v., con l'emergere degli antichi ebrei come gruppo etnico distinto ai margini della civiltà cananea. Mentre gli Israeliti condividevano con altri popoli dell'antico Vicino Oriente alcuni aspetti della cultura materiale, dell'economia, delle istituzioni sociali e politiche e delle pratiche legali, la loro identità collettiva emergeva attraverso la costante delineazione della propria alterità. L'identità collettiva degli antichi Israeliti venne forgiata attraverso narrazioni orali sulle origini remote del gruppo in Mesopotamia e sulla loro determinazione a non mescolarsi con la popolazione indigena di Canaan. I confini che separavano Israele dai suoi vicini erano sia etnici che religiosi. L'appartenenza al popolo era intesa non solo come una questione di nascita e legami di sangue, ma anche in termini di una relazione speciale in cui Dio, il creatore del mondo, era entrato con un solo popolo, il Suo Popolo Eletto, Israele.[2] Il rapporto fu ed è tuttora inteso come un'alleanza eterna (berith - בְּרִית) di obblighi reciproci: Dio è obbligato a garantire la sicurezza e la prosperità di Israele e, a sua volta, Israele è obbligato a fare la volontà di Dio come rivelato in una forma di legge, la Torah. Il paradigma del patto fa da cornice all'autocomprensione di Israele e alla sua interazione con altre nazioni.

L'autopercezione di Israele come il Popolo Eletto di Dio si è evoluta per un lungo periodo di tempo in modo che nei documenti letterari dell'antica religione israelita, la Bibbia ebraica (תנך‎, Tanàkh) si possono trovare diversi punti di vista del paradigma dell'Alleanza. Alcune voci nella Bibbia vedono esclusivamente il patto con Dio, sottolineando la dimensione particolaristica di rapporti di alleanza, mentre altri danno al patto un taglio inclusivo, evidenziando l'aspetto universalistico del monoteismo ebraico. Nel periodo del Secondo Tempio (538 p.e.v.–70 e.v.), il lascito dell'antico Israele, compreso il significato di Elezione, continuò ad evolversi, mentre Israele canonizzava le sue tradizioni letterarie nelle Scritture e gli ebrei in Giudea discutevano lo status, il significato e la portata degli insegnamenti canonici. Una di queste interpretazioni – quella dei Farisei – emerse come l'interpretazione dominante della tradizione, e si articolò quale ebraismo normativo nelle mani di una piccola élite accademica, i rabbini. Questi studiosi di diritto ebraico emersero come guida legale e spirituale degli ebrei, che non solo erano dispersi in tutto il Vicino Oriente, ma che avevano perso anche il centro amministrativo e religioso della vita ebraica quando il Secondo Tempio di Gerusalemme fu distrutto dai romani nel 70 e.v. L'interpretazione rabbinica dell'antica religione israelita alla fine sarebbe stata accettata come ebraismo normativo.[3]

L'ebraismo dei rabbini era fondato sulla nozione di una duplice Torah, articolata per prima dai Farisei. Secondo questo punto di vista, al Sinai, Dio diede alla nazione d'Israele tramite il profeta Mosè non solo una Legge Scritta, ma anche la Legge Orale, che la interpreta. Gli insegnamenti legali, teologici ed etici dei rabbini furono sviluppati in relazione e sulla base delle scritture canoniche, ma si presentarono come Torah Orale obbligatoria per tutti gli ebrei. Poiché gli stessi rabbini nutrivano una varietà di prospettive che si sono evolute nel tempo (dal primo al sesto secolo), è abbastanza difficile generalizzare sull'ebraismo rabbinico. Si possono sempre trovare dati in conflitto nell'ambito di una data lettura. Tuttavia, mi azzarderei a proporre una certa lettura del paradigma dell'alleanza così come emerge dagli insegnamenti dei rabbini. Il modello del patto spiega perché gli ebrei hanno resistito, e continuano a resistere, a qualsiasi forma di omogeneizzazione religiosa e culturale.

Il paradigma dell'alleanza: universalità particolare

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In primo luogo, il paradigma del'alleanza creò un quadro all'interno del quale l'ebraismo interpretò il rapporto tra il popolo ebraico e le altre nazioni. In effetti, il paradigma dell'alleanza stabilì una relazione dialettica tra il benessere di Israele come sperimentato nella storia e l'impegno di Israele verso Dio. Quando Israele è esclusivamente fedele a Dio, il vero sovrano dell'universo, e ottempera i desideri di Dio, Israele fiorisce e prospera. Ma quando Israele dimentica l'alleanza speciale con Dio e adotta le vie di altri "dèi", incorre in grandi sofferenze.[4] Per il suo tradimento, Dio punisce giustamente Israele consegnandolo al controllo di altre nazioni, fino al punto di esiliare il Popolo Eletto dalla terra che Dio diede come garanzia del rapporto speciale. Pertanto, il modello dell'alleanza fornisce il prisma attraverso il quale Israele interpreta il suo status nel mondo, inclusa la sua relazione con altri "dèi". È la lealtà ebraica all'alleanza che sta al centro della resistenza ebraica ad altre visioni religiose del mondo.

In secondo luogo, il paradigma dell'alleanza stabilì uno stretto legame tra il passato e il futuro nell'autocomprensione ebraica. Israele non era stato scelto per essere il popolo di Dio perché era migliore di altre nazioni, ma solo per ragioni note a Dio. Israele fu eletto per adorare Dio solo e ci si aspettava che fosse devoto a Dio osservando i comandamenti di Dio, le mitzvot, come articolato nella Torah di Dio (sia Scritta che Orale). Nella misura in cui Israele ha qualche merito, ciò è dovuto agli antenati di Israele, i patriarchi e le matriarche, che erano eccezionali nella loro fede in Dio. Israele, quindi, non potrà mai dimenticare i suoi antenati e deve considerarli come modelli di buona condotta. Mantenere una relazione di alleanza con Dio implica imparare dal passato per prosperare nel presente ed essere ricompensati in futuro. Proprio perché Dio ha promesso un impegno eterno con Israele, il popolo non può mai perdere la speranza in Dio. Non importa quanto Israele soffra nel presente, la speranza per un futuro migliore non potrà mai essere esaurita. Imparando sempre dal passato per assicurarsi un futuro migliore, Israele continua ad affermare la sua lealtà a Dio, nonostante le prove della propria infedeltà al patto. È il legame tra passato, presente e futuro nell'autocomprensione ebraica che mi costringe a studiare il passato storico del popolo ebraico per trarre alcune lezioni sulla nostra difficile situazione nel presente e sulle sfide per il futuro.

In terzo luogo, se Israele vuole essere il popolo di Dio, deve comportarsi in modo tale da facilitarne la presenza. Per interagire con Dio entro i parametri dell'Alleanza, Israele deve diventare santo: "Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Esodo 19:6). La santità ha dimensioni sia rituali che morali, storicamente riconducibili rispettivamente agli interessi dei sacerdoti e dei profeti. Nell'ebraismo rabbinico, la dimensione rituale e quella morale sono strettamente collegate: Dio può essere presente in Israele solo se Israele osserva correttamente un codice complesso di purezza rituale (molti dei suoi dettagli possono essere compresi a confronto con le pratiche prevalenti nell'antico Vicino Oriente) e se Israele, sia individualmente che collettivamente, si comporta moralmente verso i poveri, le vedove, gli orfani e gli stranieri residenti (ger toshav, גר תושב‎) (Levitico 19:33-34).[5] Tramite comandi dettagliati, l'ebraismo rabbinico spiegava come si deve diventare santi attraverso la santificazione del tempo, dello spazio, del corpo, delle relazioni umane e delle funzioni rituali. Mediante queste specifiche prescrizioni per la santità, la Halakhah (cioè la legge ebraica, in senso lato) regola tutti gli aspetti della vita ebraica, incluso il rapporto coi non ebrei.

La dottrina ebraica dell'Elezione illustra la complessità del pluralismo interreligioso nell'ebraismo. La dottrina, soprattutto nella sua elaborazione rabbinica, è un programma particolaristico con dimensioni universali. È particolaristico nella sua applicazione: solo le persone scelte da Dio, per ragioni note solo a Dio, sono obbligate a osservare cose molto specifiche come modi di comunicare con Dio, siano esse l'osservanza dello Shabbat, o le rigide restrizioni dietetiche (kasherùt, כַּשְׁרוּת)‎, o le preghiere. I 613 comandamenti specificati dall'ebraismo rabbinico sono obbligatori solo per gli ebrei, i destinatari della Torah di Dio; non riguardano i non-ebrei. Solo gli ebrei sopportano le conseguenze dell'osservanza o della mancata osservanza delle prescrizioni di Dio.

Eppure questo programma molto particolaristico include anche aspetti universali. In primo luogo, durante il periodo ellenistico, l'ebraismo si aprì ai non ebrei attraverso la conversione religiosa permessa a tutti i popoli gentili. Il proselito (ger tzedek) aveva lo stesso status dei nati ebrei in termini di obblighi religiosi e si doveva amarlo come si ama se stessi.[6] Per i gentili che non si convertono all'ebraismo, la legge rabbinica riserva una categoria speciale di obblighi legali che riguarda tutti gli esseri umani. Tale categoria comprende le sette Leggi Noachiche che stabiliscono l'obbligo di astenersi da comportamenti negativi (come omicidio, furto e incesto), nonché il comando positivo di istituire tribunali.[7] Questi obblighi sono necessari per l'esistenza stessa della società umana e funzionano nello stesso modo delle leggi naturali. In secondo luogo, sulla base della legge biblica, l'ebraismo rabbinico riconosce la categoria dello straniero residente (ger) verso il quale Israele ha doveri speciali. Ricordando lo stato iniziale di Israele come popolo straniero in Egitto, Israele è chiamato a trattare gli stranieri residenti con compassione e giustizia in modo da proteggere la loro umanità. In terzo luogo, la legge rabbinica riconosce il valore intrinseco di tutti gli esseri umani in virtù del fatto di essere stati creati "a immagine divina" e il comando di "amare il prossimo tuo come te stesso" è esteso non solo agli ebrei di nascita, ma a tutti gli esseri umani.[8] Il programma di santità da parte di Israele include quindi l’Altro. In quarto luogo, assorbendo l'etica virtuosa della cultura ellenistica, il giudaismo rabbinico ha enunciato ideali etici che consentono a coloro che aspirano a loro di essere esseri umani migliori. La concezione rabbinica della perfezione morale (shlemut) parla in nome della specie umana in generale, anche se il percorso verso la perfezione umana è definita dai particolari della legge ebraica. E infine, in continuità con i profeti biblici, l'ebraismo rabbinico immaginava un futuro utopico per l'umanità in generale, e non solo per Israele. Alla Fine dei Giorni, tutte le nazioni riconosceranno il Dio di Israele come l'unico e solo Dio, pur restando etnicamente distinte.[9]

La fusione di particolarismo e universalismo nell'ebraismo ne fece un'anomalia nel mondo greco-romano. Accanto all'ostilità e al ridicolo, gli ebrei suscitarono fascino e ammirazione, attirando alcuni gentili ad adottare determinati rituali ebraici senza convertirsi all'ebraismo.[10] Nell'impero ellenistico e in quello romano, l'ebraismo si distingueva perché era una religione nazionale: l'identità religiosa degli ebrei era inseparabile dalla loro identità etnica. A differenza di altre nazioni che avevano assorbito gli "dei" della civiltà dominante nel proprio pantheon di divinità, il monoteismo ebraico precludeva tale sincretismo. Gli ebrei rifiutarono ostinatamente la religione civica dominante degli imperi ellenistico e romano e condussero la loro politica nazionale come servizio a Dio. Non sorprende che la prima persecuzione religiosa registrata nella storia fosse diretta contro la religione nazionale degli ebrei. Nel 167 p.e.v. Antioco IV comprese correttamente che per sottomettere la nazione ebraica in Giudea e ripristinare la legge e l'ordine nell'impero seleucide, doveva limitare la libertà di praticare le leggi della Torah. Al contrario, gli ebrei interpretarono la loro opposizione alla presenza straniera sulla Terra e nel loro Tempio come una lotta tra falsi "dei" e l'unico e vero Dio a cui era dovuta la loro fedeltà. Quando gli ebrei ripresero il controllo del Tempio nel 164 p.e.v., ciò fu celebrato come la vittoria di Dio ed espresso attraverso la purificazione rituale del Tempio di Gerusalemme.

Il rinnovo della sovranità politica ebraica, tuttavia, non comportò l'unità. Durante il breve periodo di indipendenza politica ebraica in Giudea (140 p.e.v. – 6 e.v.), gli ebrei dibattettero ferocemente su cosa costituisse fedeltà al Dio di Israele. Sia il ruolo del Tempio a Gerusalemme che il significato della Torah di Dio furono oggetto di accese controversie, riflettendo le agende sociali di diversi gruppi così come le diverse visioni sul grado desiderato di interazione tra gli ebrei e la civiltà ellenistica dominante e l'atteggiamento verso i governanti romani della Palestina. Il pluralismo interreligioso era strettamente legato al pluralismo intrareligioso. Le tensioni interne alla comunità ebraica e la lotta tra la Giudea e Roma raggiunsero finalmente una crisi nella Grande Guerra del 66-70, che portò alla fine della sovranità ebraica in Giudea e all'ascesa di un'interpretazione – il fariseismo – che divenne ebraismo normativo.

Ebrei nel Medioevo

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Con la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 e.v. e il fallimento di un'altra rivolta nel 132-135, il sogno di adorare Dio in un sistema politico ebraico fu rimandato al remoto futuro dell'era messianica, quando un re Messia avrebbe ricostituito la monarchia davidica. Quel sogno si sarebbe realizzato nel ventesimo secolo quando gli ebrei secolari, che rifiutavano la tradizionale attesa passiva del Messia, si trasferirono in Terra di Israele e alla fine fondarono il moderno Stato di Israele nel 1948. Fino al ventesimo secolo, gli ebrei sopravvissero come una distinta minoranza etnico-nazionale che godeva di un'ampia autonomia giuridica e culturale, prima negli imperi romano e bizantino e poi nell'islam e nella cristianità.

Nella Diaspora, gli ebrei godevano di un'ampia autonomia religiosa e giuridica. Conducevano la loro vita secondo le proprie leggi religiose e gestivano da soli la maggior parte dei loro affari interni sotto la guida di rabbini che fungevano da giudici, amministratori, insegnanti e leader spirituali.[11] Nel terzo secolo e.v. i rabbini ammisero la depoliticizzazione dell'ebraismo quando convalidarono il sistema legale dominante entro i parametri della Legge Ebraica. La fedeltà legale a un monarca straniero non era più in conflitto con la fedeltà religiosa a Dio e alla Sua Torah, nonostante il persistente sogno messianico sul ritorno in Terra d'Israele e la ricostruzione della monarchia davidica. Venendo a patti con la loro impotenza politica esterna, gli ebrei si adattarono alla vita in esilio sotto il dominio di nazioni straniere.

Nel Medioevo, gli ebrei si trovarono a vivere nell'orbita di due civiltà distinte: l'islam e la cristianità. In entrambi i casi, vennero riconosciuti come minoranza etnico-religiosa che godeva della protezione della vita e della proprietà in cambio di una tassazione speciale e di uno status sociale inferiore. Ma c'era una notevole differenza tra l'atteggiamento dell'islam e quello del cristianesimo nei confronti della minoranza ebraica. Nuovo arrivato tra le religioni del Vicino Oriente, l'islam riconobbe sia l'ebraismo che il cristianesimo come tradizioni genuine divinamente rivelate, anche se distorte, e accordò a ebrei e cristiani lo status di "persone protette" (dhimmi). Sebbene lo status implicasse una discriminazione istituzionalizzata, creò un posto legale per gli ebrei nelle società islamiche e abilitò gli ebrei a prendere parte a quasi tutti gli aspetti della vita, compreso il possesso di posizioni di potere all'interno dello Stato islamico. Inoltre, nell'autocomprensione dell'islam, gli ebrei non giocavano un ruolo importante, anche se la prima comunità mediniana sotto Maometto emerse attraverso la lotta con gli ebrei di Medina. E l'islam si diffuse come religione di una piccola minoranza – gli arabi – che poi conquistò vasti territori. Sebbene la nuova religione fosse il collante dell'impero multietnico, l'islam compromise il proprio sogno di unire religione e politica quando concesse uno status speciale al "Popolo del Libro".

L'islam medievale può servire come un esempio positivo di pluralismo interreligioso, in cui fiorisce una cultura minoritaria adottando e adattando i modi culturali della maggioranza. Assorbendo sia la lingua araba che i modi della cultura islamica, gli ebrei reinterpretarono l'ebraismo rabbinico che diede origine a nuove modalità di autoespressione. La legge ebraica, l'esegesi biblica, la poesia e la prosa, la filosofia e le scienze e la teologia ebraica furono tutte rimodellate sotto l'influenza della cultura islamica, senza perdere la loro distinta ebraicità. Scrivendo in arabo o in ebraico, gli autori ebrei continuarono ad affermare l'unicità ebraica e persino la superiorità spirituale, in uno stile letterario ripreso dalla cultura circostante. La simbiosi culturale tra ebraismo e islam, specialmente dal X al XIII secolo, è un esempio che l'interazione culturale non ha bisogno di cancellare l'identità e l’alterità collettive. Tuttavia, non dobbiamo romanticizzare il passato medievale. Anche nell'islam, gli ebrei dovevano sostenere periodiche esplosioni di ostilità e conversioni forzate alla religione dominante, e i lunghi periodi di pacifica convivenza erano possibili a causa della struttura gerarchica della civiltà islamica in cui i musulmani e l'islam godevano di uno status privilegiato. Quel modello gerarchico di pluralismo religioso verrà contestato nella modernità dai principi della democrazia liberale.

L'esperienza ebraica nella cristianità fornisce una prospettiva molto più oscura sull'interazione interreligiosa.[12] In contrasto con l'islam, nella cristianità le relazioni tra ebrei e non ebrei erano necessariamente più antagonistiche, perché il cristianesimo si definì fin dall'inizio come il "Vero Israele" che aveva soppiantato Israele nella carne. Poiché il cristianesimo fu una setta ebraica prima di diventare una Chiesa gentile, l'autocomprensione cristiana era inseparabilmente legata agli ebrei e all'ebraismo. La tragica relazione tra le due religioni era radicata nello status ambivalente dell'ebreo nell'autocomprensione cristiana. Da un lato, gli ebrei non solo si rifiutavano di riconoscere l'affermazione cristiana su Gesù come Salvatore, ma erano anche direttamente accusati di aver ucciso il Figlio di Dio. Nella loro ostinata infedeltà, gli ebrei ostacolavano la diffusione universale del Vangelo cristiano e il culmine della sua storia sacra nella Seconda Venuta di Cristo. Ma dall'altro lato, il cristianesimo (a differenza dello gnosticismo) riconosceva Israele nella carne come il destinatario della rivelazione divina iniziale e considerava la Bibbia degli ebrei come parte del proprio canone, sebbene relegandola allo status di Antico Testamento, sostituito ora dal Nuovo Testamento. Gli ebrei funzionavano come il "Popolo Testimone" del messaggio universale cristiano e dovevano essere protetti per convalidare il messaggio cristiano verso il mondo pagano. In teoria, inoltre, l'insegnamento dell'amore da parte di Gesù doveva essere esteso a tutte le persone, compresi gli ebrei, sfidando il cristiano ad amare proprio quella persona la cui esistenza continuata negava l'universalità delle rivendicazioni cristiane. Finché esistevano gli ebrei, il cristianesimo rimaneva incompleto. Le due religioni congeneri furono così invischiate in un legame nevrotico amore-odio che lasciò una scia di sangue ebraico nella storia occidentale.

In breve, la cristianizzazione dell'Occidente segnò il deterioramento dello status ebraico. Da cittadini romani, che praticavano una religione legale di grande antichità, gli ebrei sarebbero stati ridotti nei secoli successivi alla condizione di una minoranza aliena permanente la cui presenza era sia necessaria che irritante. Alla fine del IV secolo, Agostino d'Ippona articolò la dottrina che Papa Gregorio I tradusse in politica nel VI secolo: gli ebrei non devono essere molestati e uccisi, ma devono essere tenuti in uno stato subordinato ai cristiani per renderli sempre consapevoli dei loro eterni peccati.

Ragioni utilitaristiche, tuttavia, avrebbero reso economicamente vantaggiosa la presenza degli ebrei nell'ambito del mondo cristiano. Dal X secolo in poi, gli ebrei svolsero un ruolo economico importante nell'urbanizzazione dell'Europa, concentrandosi nel commercio e nel prestito di denaro. Quest'ultima attività, così odiosa per i cristiani, avrebbe suscitato profondo risentimento e ostilità verso gli ebrei, contribuendo alla loro demonizzazione nell'immaginazione popolare. Protezione legale venne offerta agli ebrei da imperatori e monarchi, che consideravano gli ebrei "servi della Camera". Le tasse speciali imposte agli ebrei servivano come importante fonte di fondi per le tesorerie reali, ma gli ebrei potevano essere legalmente estromessi ogni volta che la loro presenza non era più ritenuta utile. Così, nel tredicesimo secolo, mentre gli imperatori combattevano coi papi e i monarchi lottavano con l'aristocrazia, gli ebrei furono spesso usati come pedine in lotte politiche più ampie, portando a espulsioni regionali o totali. Lo status della minoranza ebraica in Europa si deteriorò rapidamente: accuse del sangue, imputazioni di profanazione dell'ostia da parte di ebrei, spettacoli in cui la letteratura rabbinica veniva processata, esclusione e sfruttamento economico, attacchi fisici ed espulsioni regionali o totali di ebrei, facevano tutti parte della tragica storia delle relazioni ebraico-cristiane nel tardo Medioevo.

Nel bel mezzo di questa triste storia di abusi, tuttavia, dovremmo ricordare che gli ebrei godettero di autonomia giuridica e culturale e che la creatività giuridica ebraica raggiunse livelli senza precedenti nell'Europa occidentale durante il XII e il XIII secolo. La stessa crescita del pensiero giuridico ebraico, in particolare l'esegesi biblica, fu rispettosamente riconosciuta da alcuni interpreti biblici cristiani e teologi nel XII secolo, portandoli ad adottare alcune strategie testuali articolate da commentatori ebrei. Nel dodicesimo e tredicesimo secolo, studiosi ebrei e cristiani collaborarono anche alla traduzione di antichi testi filosofici e scientifici cosicché accadeva che uno studioso come Tommaso d'Aquino consultasse le opinioni di filosofi ebrei, come Maimonide, mentre allo stesso tempo consigliava ai re di mantenere gli ebrei in uno stato subordinato. Altri teologi cristiani, alcuni recenti conversi dall'ebraismo, usavano la crescita dell'innovazione giuridica per sostenere che l'ebraismo del tredicesimo secolo non era una continuazione del ebraismo rabbinico e che non avrebbe dovuto ricevere protezione. L'attacco alla tradizione rabbinica nel tredicesimo secolo fu guidato da recenti ebrei convertiti (= conversi) al cristianesimo che erano diventati formidabili polemisti contro i loro precedenti correligionari. Dal 1290 in poi, una serie di espulsioni pose fine alla presenza ebraica nell'Europa occidentale, ridisegnando la mappa della Diaspora ebraica. Gli ebrei si spostarono verso est, verso nuovi territori nell'Europa orientale e nell'Impero Ottomano. In entrambi i luoghi godettero di condizioni favorevoli che facilitò un'immensa crescita culturale fino alla metà del XVII secolo.

Nel passaggio dal Medioevo al periodo moderno (dal XVI al XVIII secolo) si verificarono alcuni interessanti cambiamenti, che illustrano quanto fossero porosi i confini tra le due religioni. Nell'Italia del Rinascimento, la rinascita dell'eredità classica da parte degli umanisti determinò un genuino interesse per lo studio delle fonti ebraiche e rabbiniche, privilegiando la Kabbalah, tradizione mistica ebraica, che ora si dichiarava contenesse l'antica teologia culminata nel cristianesimo. Ma né l'umanesimo e la sua enfasi sulla dignità intrinseca dell'umanità né l'ascesa del protestantesimo avrebbero granché facilitato le relazioni ebraico-cristiane. Da un lato, il XVI secolo, a partire dall'Italia, vide la ghettizzazione degli ebrei e l'erezione di barriere fisiche visibili tra ebrei e cristiani che rimasero in vigore fino alla Rivoluzione francese. L'interazione tra ebrei e cristiani fu principalmente funzionale, limitata a transazioni commerciali specifiche e raramente coinvolse la socializzazione. Ma dall'altro lato, la conversione di massa degli ebrei in Iberia nel XV secolo creò una situazione in cui ebraismo e cristianesimo divennero ancora più intrecciati l'uno con l'altro. Dopo secoli di pressioni sugli ebrei affinché si convertissero, i nuovi cristiani sarebbero stati oggetto di sfiducia e sospetto, manifestati nelle attività dell'Inquisizione, il cui obiettivo era quello di eliminare ogni forma di giudaizzazione continuativa tra i nuovi cristiani. Alcuni di questi, infatti, continuarono a nutrire fedeltà all'ebraismo (= marrani) e alla fine avrebbero ritrovato la via dell'ebraismo in Olanda, Inghilterra, Italia, Impero Ottomano o nel Nuovo Mondo. Il ritorno dei nuovi cristiani all'ebraismo avrebbe avuto un impatto importante sulla cultura ebraica e sull'autocomprensione religiosa nel diciassettesimo secolo, manifestato, in particolare, nel loro ruolo durante l'esplosione messianica della metà del secolo. I cristiani che ritornarono all'ebraismo furono anche la base per la creazione di nuove comunità ebraiche in aree dalle quali gli ebrei erano stati precedentemente espulsi o non avevano mai avuto permesso di stabilirsi. Fu la Rivoluzione francese che costrinse l'Europa a ripensare il suo atteggiamento nei confronti degli ebrei e garantire loro i diritti civili come cittadini. Ma l'emancipazione degli ebrei avrebbe portato a importanti controversie intrareligiose sul significato dell'ebraismo.

In sintesi, la complessa storia del passato ebraico fornisce modelli (alcuni positivi e altri negativi) da cui osservare la sfida dell'omogeneizzazione. L'esperienza storica degli ebrei indica il complesso nesso tra pluralismo religioso e potere politico. La storia degli ebrei ci obbliga a chiederci: il pluralismo religioso è il risultato dell'impotenza politica o piuttosto l'obbligo morale di chi è politicamente forte? La tolleranza di religioni diverse dalla propria è una concessione alla realtà de facto o una benevola condiscendenza che il vincitore accorda ai vinti? Basti pensare che i dati evidenziano l'importanza di fare le scelte giuste. Spetta sempre agli esseri umani determinare come interagiranno con altri umani. Quello che facciamo, in altre parole, è molto più importante di quello che diciamo o pensiamo. Se sottomettere, opprimere o eliminare l’Altro opposto oppure, al contrario, accettare e fare spazio all’Altro come distinto da sé stessi, sono tutte decisioni volontarie che gli esseri umani razionali possono intraprendere. Il pluralismo interreligioso si basa sul rispetto per l’Altro e sulla disponibilità a riconoscere la legittima esistenza dell’Altro entro i confini della propria società, senza aspettarsi che l’Altro giochi un ruolo nella nostra propria autocomprensione.

Per approfondire, vedi Ebrei e Gentili e Le strutture basilari del pensiero ebraico.
  1. Per una descrizione completa dell'immagine, si veda la rispettiva pagina su Commons.
  2. Per un resoconto della teologia biblica dell'Alleanza, si veda D. J. McCarthy, Old Testament Covenant (Blackwell, 1973); D. R. Hillers, Covenant: The History of a Biblical Idea (John Hopkins University, 1969); E. E. Mendenhall, "Covenant" in The Interpreters Dictionary of the Bible, Vol. 1 (1962).
  3. Per un resoconto succinto dell'ascesa dell'ebraismo rabbinico, si veda Shaye J. D. Cohen, From the Maccabees to the Mishnah (The Westminster Press, 1986).
  4. La dialettica dell'alleanza viene espressa molto chiaramente in Deuteronomio 8:1-20. Serve da principio organizzativo della storiografia israelita nel Libro dei Giudici e nei Libri dei Re e serve quale giustificazione dei rimproveri dei Profeti.
  5. Nella Bibbia, la condizione dei residenti stranieri o stranieri residenti, viene messa sullo stesso piano di orfani, vedove, e poveri, tutti economicamente emarginati. Le leggi bibliche specificano che questi gruppi hanno il diritto di raccogliere le rimanenze dei covoni di grano lasciate o dimenticate nei campi durante il raccolto (Levitico 23:22, Deuteronomio 24:29); che debbano essere pagati con giusti salari (Deuteronomio 24:14); che non siano oppressi (Esodo 22:20); che ricevano una parte delle decime (Deuteronomio 14:29); che siano in grado di condividere le festività di gioia (Deuteronomio 16:11,14); e che non si perverta la giustizia nei loro riguardi (Deuteronomio 24:17,27:19).
  6. Midrash ha-Gadol in Levitico 19:34.
  7. I sette comandamenti noachici sono citati nel Talmud Babilonese, Yoma 67b e in altri punti. Alcune fonti talmudiche li considerano la base dello standard naturale dei moralità e giustizia (Bavli Sanhedrin 56a – 59b; Tosefta Avodah Zarah 8:4). Per un'analisi delle Sette Leggi Noachiche e lo status dello "straniero residente", si veda David Novak, The Image of the Non-Jew in Judaism: An Historical and Constructive Study of the Noachide Laws (New York & Toronto, 1983).
  8. In Midrash ha-Gadol di Levitico 19:34, la fonte rabbinica afferma: "Lo straniero che risiede con te sarà per te come uno dei tuoi cittadini, lo amerai come te stesso, poiché eravate stranieri nel paese d'Egitto."
  9. Si veda Avot de-Rabbi Nathan, Cap. 35.
  10. Sulla percezione alquanto complessa degli ebrei nel mondo antico, si veda Louis H. Feldman, Jews and Gentile in the Ancient World (Princeton University Press, 1993).
  11. Per una panoramica della condizione ebraica durante il Medioevo, si veda Mark R. Cohen, Under the Crescent and Cross (Princeton University Press, 1994).
  12. Per un resoconto particolareggiato dell'evoluzione della condizione ebraica nella cristianità, si veda Kenneth R. Stow, Alienated Minority: The Jews of Medieval Latin Europe (Harvard University Press, 1992).