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Rivolta popolare di Battipaglia del 1969/Gli eventi

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Indice del libro

Il giorno della sommossa

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La sommossa ebbe inizio mercoledì 9 Aprile con il corteo in partenza da Piazza della Repubblica. Il primo incidente ebbe luogo dopo solo duecento metri: i manifestanti si scontrarono con i poliziotti guidati dal commissario di Battipaglia, De Masi. Ciò fu visto come una provocazione e causò una forte reazione da parte del corteo; a quel punto sindacalisti e partiti persero il controllo della situazione e la folla iniziò a dirigersi confusamente verso la stazione ferroviaria, causandone il blocco. Le squadre antisommossa della Polizia di Stato furono tenute a distanza da una violenta sassaiola, che costrinse gli agenti a chiedere rinforzi alla "Celere" di Salerno. I manifestanti per bloccare l'accesso all'Autostrada del Sole formarono una barricata umana. I poliziotti, dopo aver intimato alla folla di abbandonare la zona, senza successo, ricorsero a cariche ripetute che costrinsero i dimostranti ad arretrare. Si assistette in questo contesto al grave ferimento di un fotografo (Elio Caroccia) che aveva ripreso la scena; quest'ultimo fu successivamente incarcerato. Tutto ciò inasprì i contrasti, la "Celere" continuò ad agire con granate lacrimogene e i rivoltosi spinsero gli agenti a ripiegare verso l'autostrada abbandonando i mezzi che verranno poi capovolti e dati alle fiamme dalla folla.

La battaglia del pomeriggio

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Nel pomeriggio ritornò, da Eboli, la "Celere", respinta poche ore prima, con l'obbiettivo di rendere inoffensivi i manifestanti. Oramai la rivolta non coinvolgeva più soltanto i manifestanti e la polizia, ma tutta la cittadinanza di Battipaglia. Molta gente si chiuse in casa, in un clima da coprifuoco, altri scesero per strada a dare rinforzo ai concittadini. Il "battaglione Foggia" e gli alti rinforzi richiesti dalla polizia locale, una volta giunti alla stazione ferroviaria, pianificarono due interventi decisi: il primo contro la folla in Piazza della Ferrovia, il secondo contro coloro che occupavano i binari. Mentre l'intervento in piazza ebbe l' effetto desiderato, quello contro la folla stanziata sui binari venne respinto da una violenta sassaiola che obbligò gli agenti a ripararsi nei furgoni, i quali però non resistettero a lungo. Si crearono, a questo punto, discussioni interne tra gli ufficiali della "Celere", intenzionati a sedare in modo deciso la rivolta, e i carabinieri, che non erano d'accordo con loro sul modo di procedere e tendevano a cercare una mediazione. Intanto la polizia fu indotta alla resa e i feriti furono trasportati in ospedale. Nonostante ciò i civili continuarono ad inseguire le forze dell'ordine in fuga, queste ultime furono costrette a radunarsi nei pressi del commissariato di P.S. (allora adiacente al Municipio). A questo punto la folla manifestò in modo chiaro la volontà di allontanare definitivamente la "Celere" da Battipaglia. L'ultimo scontro avvenne così su due fronti: dinanzi al Municipio (Piazza del Popolo) e in via Rosselli. Fu allora che la "Celere" oltre a rispondere alla folla con lanci di granate lacrimogene e cariche ripetute, come in precedenza, sparò in aria, a scopo intimidatorio, colpendo fatalmente Teresa Ricciardi, giovane insegnante, affacciata alla finestra di una delle abitazioni prospicienti la piazza.

La reazione delle forze dell'ordine e l'uso delle armi da fuoco

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Nel frattempo, altri rivoltosi si scontrarono nuovamente con la polizia che aveva posizionato il grosso dei mezzi davanti al commissariato. Di fronte alla porta dell'edificio si apriva un vicolo, via Rosselli, controllato dalla polizia e, da qui, gli agenti lanciavano bombe lacrimogene e rilanciavano i sassi tirati dai dimostranti. Dopo poco, ad un primo cenno di resa (con i fazzoletti bianchi) da parte dei poliziotti, seguì un'incursione armata verso la folla: i poliziotti spararono una serie di colpi di arma da fuoco, arrivando a ferire e colpire alcuni dei manifestanti tra cui Carmine Citro, giovane tipografo sceso in strada per unirsi ai suoi compagni disoccupati e protestare per quello che riteneva giusto: il diritto al lavoro per tutti. La sparatoria si presentò agli occhi dei manifestanti come una "carica definitiva", tentata dalle forze di polizia per risolvere la situazione di difficoltà in cui si erano venute a trovare. I colpi di arma da fuoco e i conseguenti ferimenti, com'era ipotizzabile, provocarono l'ira dell'intera città. La reazione fu immediata e, a quel punto, a Celere e Carabinieri non restò altro che fuggire abbandonando mezzi, caschi e manganelli. Le forze in sommossa da allora presero possesso di tutta la piazza e delle aree laterali e i manifestanti iniziarono a devastare i locali del municipio e del vicino commissariato, e a dare alle fiamme tutti i mezzi della polizia rimasti in circolazione.

Il bilancio della sommossa

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Alla fine della sommossa si poté trarre questo bilancio: circa 200 feriti negli scontri tra forze dell'ordine e manifestanti, di cui 100 per colpi d'arma da fuoco. Da valutare, a questo proposito, è il diverso modus operandi tenuto dalle forze dell'ordine nell'intera giornata. Due furono i comportamenti messi in atto delle forze dell'ordine: mentre alla stazione ferroviaria gli agenti si arresero senza sparare, cosa che in quel frangente sembrava la scelta consigliabile, al commissariato il tentativo di risolvere la situazione con l'uso delle armi non fece altro che scatenare la rabbia dei manifestanti e rinfocolare ulteriormente la rivolta. Molti poliziotti, così almeno si percepì tra la popolazione, si sarebbero lasciati andare ad ulteriori azioni decise e violente, se non si fosse intensificata l'azione della folla. D'altra parte l'azione devastatrice della folla, per quanto inferocita dai metodi utilizzati dalle forze dell'ordine, andò oltre i limiti che sarebbero stati più naturali e legittimi per una manifestazione che, giustamente e con diritto, invocava lavoro stabile e salari adeguati. L'uso improprio e poco meditato delle armi apparve allora e appare oggi come un grave errore strategico: in realtà la reazione inferocita della folla dopo gli spari della polizia poteva essere ben prevista in anticipo. Da valutare negativamente fu anche l'incapacità dei rappresentanti politici locali di intercettare i malumori cittadini e di indirizzarli secondo le regole del diritto e della democrazia. Nel pomeriggio del 9 aprile venne organizzato un comizio unitario (dalla DC al PCI) al quale parteciparono anche sindacalisti e delegazioni comuniste; il comizio fu bloccato, anche quello, da un assalto da parte della folla che cacciò i rappresentanti politici e sindacali invocando a gran voce le dimissioni di tutto il Consiglio comunale e dell'assemblea cittadina. Arrivati a questo punto, la voce di una democrazia diretta popolare, che aveva maturato un rifiuto verso tutti e tutto, iniziava a farsi sentire.