Ebrei a Caluso - Progetto "Salva una storia"/Capitolo 6
Capitolo 6 - L’ importanza della memoria
Questo lavoro è stato l’occasione per riflettere sulla memoria della Shoah, che vada oltre il tradizionale e ormai consolidato evento rappresentato dall'istituzione del Giorno della Memoria; ora che i testimoni sono quasi del tutto scomparsi, il “testimone” del ricordo passa evidentemente e necessariamente ai giovani. E’ dunque fondamentale individuare un buon modo di trasmettere il ricordo, che conservi i caratteri di una memoria “giusta”.
In primo luogo, la memoria è quella dell'internato nel lager. E' talmente importante il tema, che da subito la memoria appare una strategia del deportato per opporsi all’annullamento totale di sé, alla mortificazione morale e fisica della persona. Può essere la memoria di un fatto della propria vita, un ricordo della giornata, il tempo che fa, il giorno della settimana, un messaggio seppellito nella terra attorno ai forni, è comunque un appiglio, seppur temporaneo, per conservare la dignità e rinviare il naufragio morale.
Successivamente, per alcuni, si diventa narratori del dramma, si passa dalla memoria di per sé alla memoria del sopravvissuto, alla memoria degli altri e per gli altri. Qui si cominciano a incontrare non poche difficoltà: 1. il ricordo è sempre singolare e difficilmente trasferibile, 2. gli altri mostrano scarsa attitudine all’ascolto, 3. rievocare fa soffrire, rinnova il dolore. Nella sua opera "I sommersi e i salvati", Primo Levi invita a riflettere sulla memoria umana, ma soprattutto sulla sua possibile inattendibilità e sui suoi limiti; si sofferma in particolare sui meccanismi di rievocazione del ricordo da parte della vittima, ma anche dell'oppressore: entrambi sono accomunati da una ricerca di difesa dal ricordo dell'esperienza traumatica che li porta ad alterare non tanto i fatti, quanto le motivazioni che li avrebbero spinti a compiere quelle atroci azioni. Poiché accettare il ricordo delle azioni compiute è troppo difficile per l'essere umano, creare una verità più confortevole fino ad arrivare anche a credere alle proprie menzogne pare la via più semplice per alleggerire il senso di colpa e vivere in pace con se stessi. Lo strumento della memoria si rivela dunque "meraviglioso ma fallace", perché viene implicitamente condizionata da ciò che avviene in seguito: gli aguzzini del campo possono così tentare di giustificare i loro comportamenti come frutto di un disegno più grande, di cui loro erano semplici ingranaggi incolpevoli.
Analizzando il funzionamento della memoria, Levi esamina attentamente la tentazione umana di semplificare la realtà; secondo Levi nessuna semplificazione deve mai essere scambiata per la realtà perché essa si presenta sempre più complessa. Per rappresentare la complessità dei rapporti umani nel Lager, Levi sviluppa il concetto di "zona grigia", espressione con cui indica la complessa rete dei rapporti umani all’interno dei Lager: quello spazio privo di facile e immediata suddivisione tra "buoni" e "cattivi", in cui non era possibile separare nettamente le vittime dai loro oppressori. Vi rientravano i cosiddetti PROMINENTEN, cioè prigionieri privilegiati o prigionieri-funzionari che si trovano a collaborare con il potere spinti da diverse motivazioni. Erano appartenenti a tre tipologie:
- scopini, lava-marmitte, guardie notturne, stiratori di letti, controllori di pidocchi che, per mezzo litro di zuppa in più, si adattavano a svolgere mansioni terziarie nel campo. Levi tende ad assolverli: Il loro privilegio fruttava poco e non li sottraeva alla disciplina e alle sofferenze degli altri. erano rozzi e protervi, ma non venivano sentiti come nemici
- più in alto stavano i Kapos che svolgevano mansioni di polizia nelle baracche e gestivano celle di punizione per i prigionieri. Erano liberi di commettere qualsiasi atrocità rimanendo impuniti . Levi li giudica severamente.
- particolarmente emblematico era poi il caso rappresentato dalle Squadre Speciali, i Sonderkommandos che si occupavano della gestione delle camere a gas.
A loro spettava mantenere l'ordine tra i nuovi arrivati che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri. La squadra Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei periodi, dai 700 ai 1000 effettivi. (Levi, I sommersi e i salvati, pag. 36)
Il fatto assurdo ed umiliante insieme era che essi erano in massima parte EBREI che si prestavano a compiere simili azioni su altri ebrei: si doveva dimostrare che gli ebrei, sotto-razza, sotto-umani, si piegano ad ogni umiliazione, persino a distruggere se stessi. Ecco riempito lo spazio della zona grigia, dove la vittima e il carnefice si toccano, si sfiorano, si confondono pericolosamente. la nostra capacità di giudicare si inceppa di fronte alle Squadre Speciali: Perché hanno accettato quel compito? perché non si sono ribellati? perché non hanno preferito la morte? la risposta di Levi è che ogni individuo è talmente complesso che non è possibile prevederne il comportamento, tanto più se in situazioni estreme. Che il giudizio su di loro resti sospeso…
Potrebbe quindi sembrare che la liberazione da tale condizione sia assimilabile ad un momento di pura felicità. È uno stereotipo. Un disagio indefinito accompagna la liberazione dai campi di concentramento: un senso di vergogna o di colpa che ogni superstite, ogni "salvato", ha vissuto in maniera diversa: vergogna per non aver cercato di opporsi al sistema, per il fatto di essere sopravvissuto a scapito di qualcuno più degno di lui che è stato, invece, travolto dal sistema, "sommerso" appunto.
Indietro, via di qui, gente sommersa, Andate. Non ho soppiantato nessuno, Non ho usurpato il pane di nessuno, Nessuno è morto in vece mia. Nessuno. Ritornate alla vostra nebbia. Non è mia colpa se vivo e respiro E mangio e bevo e dormo e vesto panni (P. Levi, Ad ora incerta, 1984)
Molti sceglieranno la via del suicidio. Come forma di riscatto, molti di loro diventeranno dei testimoni. Ma la difficoltà quasi insormontabile e paradossale sullo statuto del testimone è illustrata in modo estremamente lucido dal filosofo Giorgio Agamben . Esistono due tipologie di testimone: il testis cioè colui che depone una testimonianza in veste di terza persona tra due contendenti e il superstes che indica colui che ha vissuto l'esperienza e la può raccontare come un sopravvissuto, un salvato. Levi, dal suo canto, si è sempre posto come un superstes e ha sempre testimoniato gli orrori dei campi di sterminio come un sopravvissuto.
Da Agamben apprendiamo sì l'importanza del testimone, quale risorsa necessaria per il mantenimento di una memoria storica collettiva ma anche la lacuna che si crea nelle testimonianze.
Non si può non sottolineare che nella testimonianza sorge subito una lacuna: l’impossibilità di testimoniare! Ciò a causa della mancanza del testimone integrale, colui che non testimonia perché impossibilitato, colui che davvero ha toccato con mano il fondo delle oscenità commesse dai suoi carnefici, anche conosciuto come il MUSULMANO.
L’intestimoniabile ha un nome. Si chiama, nel gergo del campo, der Muselmann, il Musulmano. Il cosiddetto Muselmann, come nel linguaggio del Lager veniva chiamato il prigioniero che aveva abbandonato ogni speranza ed era stato abbandonato dai compagni, non possedeva più un ambito di consapevolezza in cui bene e male, nobiltà e bassezza, spiritualità e non spiritualità potevano confrontarsi. Era un cadavere ambulante, un fascio di funzioni fisiche ormai in agonia. Ricordo che, mentre scendevamo le scale che portavano al bagno, han fatto scendere con noi un gruppo di Muselmann, che erano gli uomini-mummia, i morti vivi; e li han fatti scendere insieme a noi solo per farceli vedere, come a dirci: diventerete così! (Agamben, Quel che resta di Auschwitz, pag. 37)
Sulle origini del termine ci sono varie ipotesi: i pareri non concordano e i sinonimi non mancano: Gamel, Kretiner (ebeti), Kruppel (storpi), cammelli, gingilli o gioielli, riferiti alle donne. La spiegazione più probabile allude al significato letterale del termine arabo muslim, colui che si sottomette incondizionatamente al volere di Dio, solo che, a differenza del credente in Allah, il musulmano di Auschwitz ha perduto ogni volontà e ogni coscienza.
Lasciavano accadere ciò che accadeva perché tutte le loro forze erano mutilate e annientate.
Capiamo dunque che il Musulmano è una figura fondamentale nell'analisi di Auschwitz: deportato giunto al limite della sua dignità, il suo corpo è ancora in vita, ma la sua anima ha abbandonato l'essere da tempo, è un ‘morto vivente’.
Il Musulmano segna il sottile limite tra uomo e non-uomo, cioè la perdita dell'umanità stessa. Questo conferma la difficoltà nel differenziare la morte dalla non-morte in quanto questi individui erano già morti da vivi e la loro morte reale diviene, al sopraggiungere, insignificante.
Il sopravvissuto ha quindi l'obbligo di testimoniare in luogo del musulmano, anche se non renderà mai precisamente l'idea di ciò che quest'ultimo ha vissuto. Il rapporto che si crea tra musulmano e superstite si fonda sul paradosso della doverosità di testimoniare e della sua impossibilità. Solo riconoscendolo, la testimonianza avrà una validità.
Un esempio di testimonianza, che abbiamo avuto l’onore di ascoltare, è quella di un uomo straordinario che con il suo racconto ha saputo coinvolgere, in un’atmosfera di assoluto e rispettoso silenzio, gran parte di noi quando ancora frequentavamo la scuola media inferiore: quest’uomo è Marcello Martini, classe 1930. Lui e la sua famiglia si trovarono coinvolti in attività clandestine a sostegno di un’emittente radiofonica durante l’occupazione nazista e, quando le loro trasmissioni furono scoperte, l’intera famiglia fu arrestata, tranne il padre che riuscì a fuggire. La mamma e la sorella furono incarcerate al Santa Verdiana a Firenze ed evasero pochi mesi dopo grazie all’aiuto dei partigiani, mentre Marcello fu subito trasferito a Fossoli, dove rimase per pochi giorni venendo in seguito deportato nel campo di concentramento di Mauthausen. Qui, come era d’abitudine, venne immatricolato con il numero 76.430 e, dopo un incidente, fu assegnato al campo di Hinterbrühl. All’epoca Marcello aveva solo 14 anni e, proprio in virtù della sua giovane età e del suo vigore, fu usato come “schiavo” (manodopera gratuita) per l’industria bellica tedesca. Il 1 aprile del 1945 fu coinvolto nella terribile marcia della morte ( 220-230 km percorsi in sette giorni ) che riportava i prigionieri al campo di concentramento di Mauthausen. Giunto al campo, era ormai ridotto in una condizione di semi-incoscienza a causa della fame e delle fatiche ma, nonostante tutto, riuscì a sopravvivere sino all’arrivo delle truppe americane il 5 maggio dello stesso anno. Nel 1945, a luglio, tornò a Prato dalla sua famiglia, anch’essi scampati alla guerra, riprese gli studi e si laureò in chimica. Ormai anziano ricorderà la sua esperienza in un libro di memorie intitolato “ Un adolescente in Lager”. Marcello è morto a 89 anni, nel 2019, a Castellamonte. Di lui ricordiamo la tristezza dei suoi occhi, la paura che ancora trapelava dalla sua voce e, nonostante ciò, il coraggio della sua testimonianza: grazie alla sua capacità di trasmettere non solo i ricordi, ma anche le sensazioni provate, abbiamo fatto nostre le sue esperienze e abbiamo potuto renderci conto che quello che si impara sui libri non è qualcosa di astratto e lontano, come potrebbe sembrare, ma una concreta traccia dell’esistenza degli uomini; mentre lui raccontava noi eravamo come ipnotizzati nel tentativo di capire come tali atrocità siano potute accadere e quanto l’essere umano possa essere crudele. Il suo racconto ci ha colpito particolarmente proprio perché avevamo davanti un testimone vivente di ciò che chi, come me, come noi, può solo immaginare …ma guardando i suoi occhi potevamo scorgere ciò che aveva vissuto e farlo diventare anche un po’ nostro: è stato un privilegio poterlo conoscere e porteremo sempre il suo ricordo dentro di noi.
E’ questo il caso in cui il ricordo del vissuto individuale ed unico si fa memoria esemplare, ossia guida alla comprensione del presente e all’azione nel futuro; col nostro lavoro fatto di diversi spunti, abbiamo cercato di inserire il singolo racconto in un contesto ampio e collettivo, senza trascurare la meditazione artistica sul male: proprio l’importanza della memoria, infatti, ha generato la necessità di dare pubblica visibilità alla storia rinvenuta, attraverso l’affissione di un memoriale nella città di Caluso, luogo di internamento al centro della nostra narrazione.
La formella riunisce due idee. La prima intende mettere in risalto i nomi dei 22 ebrei per sottolineare, che non si tratta di numeri, ma di vite. I nomi sono stati intrecciati in un crucipuzzle. La seconda idea si basa su una contrapposizione tra diversi piani compositivi. Lo sfondo è costituito da uno skyline del centro di Caluso, luogo in cui si sono svolti gli eventi, realizzato tramite incisione. In primo piano invece in altorilievo si staglia una mano, che rappresenta l'aiuto offerto dai calusiesi agli ebrei internati. Il fondamento storico di questo aiuto è stato storicamente tratto dall’articolo del 19/01/1942 de “La Provincia di Aosta”, organo di stampa ufficiale del Partito Fascista. L’articolo riporta che nel giorno di Santo Stefano del 1941 alcuni giovani calusiesi invitarono gli ebrei a festeggiare insieme. La formella presenta anche una frattura e del filo spinato che testimoniano che questo aiuto fu drasticamente e severamente ostacolato dalle autorità fasciste.
Per ricordare occorre immaginare. E l’arte, il museo in senso stretto, il museo vivente, il memoriale sono strumenti per mantenere una memoria “giusta” fatta di stupore muto per i luoghi, ricostruzione storica, comparazione politica e storia “pubblica” volta a riportare la storia nello spazio pubblico attraverso molteplici forme, all'infinito e con consapevolezza sempre maggiore.