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Baruch Spinoza/Secondo capitolo

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Indice del libro


La filosofia di Spinoza come ricerca della beatitudine

L'emendazione dell'intelletto

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Un ritratto di Spinoza

Nella sua prima opera filosofica, il Trattato sull'emendazione dell'intelletto, Spinoza descrive, a partire dalla propria esperienza personale, un percorso che può essere intrapreso per distaccarsi dai beni effimeri e raggiungere una felicità stabile. Questo percorso parte dalla consapevolezza che l'infelicità è causata dalla caducità — alla quale sono legate la paura e l'incertezza — dei beni in cui normalmente gli uomini confidano, mentre solo un bene "vero" (cioè non effimero) potrebbe rendere l'animo sereno:

« quando vidi che tutti i beni che temevo di perdere e tutti i mali che temevo di ricevere non avevano in sé nulla né di bene né di male, se non in quanto l'animo ne era turbato, decisi infine di ricercare se si desse qualcosa che fosse un bene vero e condivisibile, dal quale soltanto, respinti tutti gli altri, l'animo fosse affetto.[1] »

La ricerca del vero bene è intrapresa con titubanza, perché essa comporta un iniziale distacco da quei beni che, per quanto illusori, rappresentano l'unica aspirazione — e l'unica certezza — dell'uomo comune:

« a prima vista sembrava sconsiderato voler rinunziare a una cosa certa per una cosa incerta.[2] »

Ma Spinoza si convinse presto che, se la suprema felicità non era in quei beni, non bisognava temere di abbandonarli, anche perché, finché non ci si allontanava da essi, risultava impossibile accostarsi a un nuovo e più sano regime di vita:

« Meditavo dunque se non fosse per caso possibile pervenire a un nuovo regime di vita [...] senza mutare l'ordine e il regime abituale della mia vita: ciò che, spesso, invano tentai.[3] »

L'autore — compiendo un percorso logico che va di pari passo col cammino di ricerca personale che si sta inverando nella sua vita — esamina i vantaggi che una rinuncia ai piaceri comuni comporta, soffermandosi in particolare sugli svantaggi legati ai tre falsi beni per il cui conseguimento gli uomini sono soliti profondere tutte le proprie energie: la ricchezza, l'onore e il piacere. Spinoza si ispira probabilmente alla filosofia classica, che, proprio in questi tre, tendeva a identificare i vizi per eccellenza:

« Se vorrai ascoltare la ragione, essa ti dirà: abbandona subito queste cose verso le quali tutti corrono; abbandona le ricchezze, pericolo o peso per chi le possiede, abbandona i piaceri [...], abbandona l'ambizione, che è una cosa gonfia, inconsistente e volubile.[4] »

Spinoza parla di un "disorientamento" che la mente patisce nel rivolgere la propria attenzione verso siffatti tre obiettivi, poiché essi la distolgono dal ricercare qualsiasi altro bene, senza del resto ripagarla con quanto essa aveva sperato di raggiungere. È il caso del piacere, nel cui smanioso inseguimento gli uomini non trovano altro che insoddisfazione e sofferenza:

« quanto al piacere, l'animo ne è talmente assorbito da riposarvi come in un bene e ciò gli impedisce sommamente di pensare ad altro; ma dopo averne fruito segue la più grande tristezza, che, se non sospende, tuttavia turba e ottunde la mente.[5] »

Così avviene anche con la ricerca della ricchezza e dell'onore, che espongono a pericoli ancora maggiori, perché l'insoddisfazione che rimane dopo il loro conseguimento spinge le persone, anziché a pentirsi, a darsi ancora più pensiero di correr dietro a queste false fonti di felicità, in competizione e in contrasto con gli altri uomini. Sicché, se da un lato le ricchezze e gli onori sono causa di odi e conflitti, dall'altro — paradossalmente — spingono gli uomini a conformarsi e ad adularsi fra loro, rinunciando, in nome dell'onore, alla propria dignità personale e, soprattutto, a una concreta autonomia di azione e di pensiero:

« L'onore è infine di grande impedimento perché, per conseguirlo, dobbiamo necessariamente condurre la vita secondo le opinioni degli uomini, fuggendo ciò che essi generalmente fuggono e cercando ciò che essi generalmente cercano.[6] »

A questo punto Spinoza fa una precisazione molto importante, che distingue nettamente le sue riflessioni da quelle banalmente moralistiche di un'etica austera di stampo stoico. L'autore, riallacciandosi nuovamente alla propria esperienza personale, riferisce di come i vecchi desideri fossero in lui scemati soprattutto dopo aver compreso che non si trattava di rinunciarvi tout court, ma piuttosto — senza affatto abbandonare i piaceri onesti — di finalizzare i propri desideri nella prospettiva dell'unico vero bene, soltanto in relazione al quale tutti gli altri beni possono definirsi, in quanto semplici mezzi, buoni o cattivi:

« benché con la mente percepissi in modo chiaro queste cose, tuttavia non potevo per questo deporre tutta l'avarizia, il piacere e la gloria. Osservavo solamente che la mente, fino a quando si rivolgeva a tali pensieri, si distoglieva da quelle cose [...] E benché all'inizio tali intervalli fossero rari [...] divennero sempre più frequenti e più lunghi, specie dopo aver visto che il guadagno di denaro, oppure il piacere e la gloria sono di ostacolo fin quando si cercano per se stessi e non come mezzi per altro.[7] »

Ad esempio, un bene è cattivo laddove, spinto all'eccesso, conduce addirittura a mettere a rischio l'esistenza, com'è il caso della cupidigia:

« Moltissimi sono infatti gli esempi di coloro che hanno subito persecuzioni, fino all'uccisione, a causa delle loro ricchezze; e anche di coloro che, per procacciarsi ricchezze, si esposero a tanti pericoli da pagare infine con la vita la pena della loro stoltezza.[8] »

La ricerca della felicità si configura come ricerca delle possibilità, per la mente, di emanciparsi dai falsi beni che la disorientano — e che possono rischiare di metterne a rischio la sopravvivenza — orientandosi invece a desiderare il più possibile un bene stabile e per sua natura perfetto:

« l'amore verso una cosa eterna e infinita nutre l'animo di sola gioia ed è privo di ogni tristezza: questo si deve desiderare grandemente e cercare con tutte le forze.[9] »

Spinoza lascia intendere una identità fra "cosa eterna e infinita" e "l'intera natura", affermando che il sommo bene:

« consiste nella conoscenza dell'unione che la mente ha con l'intera natura.[10] »

Compito della filosofia sarà dunque emendare (cioè, secondo una terminologia che pare attinta dal Novum Organum di Francesco Bacone, trarre fuori dall'errore e dall'inganno) la mente, permettendole di acquisire una retta conoscenza di se stessa e della natura di cui fa parte, in modo da orientarla — come già detto — a raggiungere una stabile felicità.

Il compito sociale della filosofia

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Una statua della dea Minerva con in mano la civetta, simbolo della filosofia

Il Trattato sull'emendazione dell'intelletto non si limita a delineare un percorso personale di ricerca della felicità, ma, estendendo la propria attenzione all'intera umanità, esprime un'esigenza etica a cui è legato un fine sociale:

« un'esigenza eminentemente etica e un fine pratico che rilevano un atteggiamento soggettivo che non è di fatalistica accettazione del dato, bensì di intervento costruttivo.[11] »

Prende forma così l'ambizioso progetto politico di una "fruizione collettiva del sommo bene"[12].

« Questo è dunque il fine al quale tendo: acquisire tale natura e sforzarmi affinché molti l'acquisiscano con me. [...] Perché questo avvenga [...] è necessario formare una società tale e quale è desiderabile, affinché il maggior numero possibile pervenga a quel fine con la massima facilità e sicurezza.[13] »

La filosofia assume quindi un compito che non si esaurisce col benessere di un'élite di pensatori illuminati — né tantomeno col consolidamento di un platonico potere dei saggi — ma, al contrario, assume la finalità di favorire la costituzione di una società in grado di far pervenire il maggior numero possibile di persone al possesso del sommo bene.[14] Ancor più, è correlata alla natura stessa del sommo bene l'esigenza di una sua acquisizione collettiva e non individuale, dal momento che, per chi avverte l'aspirazione di pervenire alla più completa felicità, ne consegue il desiderio che anche altri ne partecipino:

« è costitutivo della mia felicità anche adoperarmi a che molti altri intendano la stessa cosa che intendo io, affinché il loro intelletto e la loro cupidità convengano pienamente con il mio intelletto e la mia cupidità.[15] »

Spinoza auspica perciò una società in cui gli apparati pubblici della sanità e dell'istruzione permettano una crescita sana e vigorosa dei corpi e delle menti:

« si deve por mano a una filosofia morale, così come a una dottrina relativa all'educazione dei fanciulli; ed essendo la salute non piccolo mezzo per raggiungere tale fine, bisogna predisporre una scienza medica completa.[16] »

Una particolare preoccupazione sembra riservata da Spinoza nei confronti dei fanciulli, dal momento che è più arduo raddrizzare le proprie false opinioni da adulti, che non da bambini:

« si deve anzitutto escogitare un modo di curare l'intelletto e di purificarlo all'inizio, per quanto è possibile, affinché intenda le cose felicemente, senza errore e nel modo migliore.[16] »

Le scienze dovranno essere incoraggiate, ma unicamente nella misura in cui (come nel caso della meccanica, che permette di risparmiare tempo e fatica)[17] offrano garanzia di essere al servizio dell'uomo e non offrano rischi di poter creare nuovi problemi all'esistenza e al benessere umano:

« io voglio dirigere tutte le scienze a un unico fine, ossia al conseguimento della suprema perfezione umana della quale abbiamo detto. E così, tutto quello che nelle scienze non ci fa avanzare verso il nostro fine deve essere gettato via come inutile.[18] »

Cogliamo qui un'affinità con l'ideale averroista di una cooperazione sociale da attuare a livello sia intellettuale sia tecnico, allo scopo di condurre l'umanità intera, attraverso la fruizione del sapere e della felicità pratica, al godimento del sommo bene,[19] come auspicato da Dante Alighieri nella Monarchia:

« l'intelletto speculativo diventa per estensione pratico, il cui fine è agire e fare: trattare cioè prudentemente gli affari civili e fare con arte le cose meccaniche [...] Il compito del genere umano, preso nella sua totalità, è quello di attuare incessantemente tutta la potenza dell'intelletto possibile, in primo luogo in vista della contemplazione e, conseguentemente, in vista dell'agire.[20] »

Ma sulla teoria averroista dell'intelletto torneremo verso la fine del capitolo.
Spinoza, a questo punto del Trattato, menziona tre regole etiche che il buon senso suggerisce di seguire prima ancora di intraprendere un'emendazione dell'intelletto:

  1. esprimersi in maniera comprensibile alle masse;
  2. godere dei piaceri onesti (cioè dei piaceri non dannosi per sé o per gli altri) quanto basta per vivere gioiosamente;
  3. ricercare il denaro e ogni altro bene effimero solo in misura utile per sostentarsi e per non rendersi asociali.[21]

Si noti che già Cartesio, nel Discorso sul metodo, aveva delineato tre princìpi allo scopo di costituire una morale provvisoria in attesa che un metodo rigoroso permettesse di forgiare una morale definitiva. Cartesio aveva notato che, se si vogliono abbattere i muri della vecchia casa (immagine della vecchia morale), occorre andare ad abitare altrove, prima che la nuova casa sia ricostruita. Le tre regole cartesiane costituenti la dimora provvisoria consistevano in:

  1. ubbidire alle leggi, ai costumi e alla religione del proprio paese;
  2. operare scelte ferme e risolute nelle azioni, senza tornare continuamente indietro sui propri passi;
  3. cercare di dominare i propri desideri e i propri pensieri, piuttosto che cercare di cambiare il mondo.[22]

Mettendo a confronto le regole provvisorie di Spinoza con quelle di Cartesio, risulta che i princìpi spinoziani mirano a conferire un maggior compito sociale alla filosofia, che viene esplicitamente indirizzata alle masse, alle quali essa vuole rendersi comprensibile onde favorirne l'emancipazione, con la preoccupazione di non generare scandali o incomprensioni, che risulterebbero controproducenti per il cambiamento. Inoltre, come ha notato Marco Ravera:

« Salta agli occhi, nel confronto con la cartesiana "morale provvisoria", come in Spinoza più che di "provvisorietà" possa parlarsi di carattere "secondario" di queste norme, che accompagnano la ricerca come condizioni ma non sono considerate come mutevoli.[23] »

Il compito sociale della filosofia era per Spinoza un punto di partenza irrinunciabile. Se quindi il discorso svolto in prima persona nel Trattato sull'emendazione dell'intelletto ricorda lo stile della riflessione personale intrapresa da Cartesio nelle Meditazioni metafisiche e nel Discorso sul metodo, bisogna osservare che Spinoza conferì immediatamente alla filosofia uno scopo pratico e una volontà di intervento sociale, in coerenza col carattere attivo e laborioso della propria vita.

La scala verso Dio

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Nel Breve trattato su Dio, l'uomo e il suo bene, Spinoza riprende il tema dell'emendazione dell'intelletto, che può essere tratto fuori dall'inganno attraverso il lavoro della ragione:

« il ragionamento non è in noi la cosa più eccellente, ma è soltanto come una scala lungo la quale ci innalziamo al luogo desiderato, o come un buono spirito che, fuori di ogni falsità e frode, ci informa del bene supremo per spronarci, con ciò, a cercarlo e a unirci con esso: unione, che è la nostra suprema salute e beatitudine.[24] »

Spinoza, riferendosi alla ragione, richiama l'immagine della scala apparsa in sogno a Giacobbe, che, secondo il racconto biblico, conduce alla beatitudine chi la percorre e conferisce il possesso della terra promessa:

« Giacobbe fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco il Signore gli stava davanti e disse: "Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza.[25] »

Il ragionamento non è in sé un bene, ma lo diventa quando ci rende serenamente consapevoli del nostro posto entro l'ordine della natura. Accettare ed amare l'equilibrio della natura permette di trovare un equilibrio anche dentro di sé, ed è in questa "stabile esistenza" che l'essere umano conquista la propria libertà.[26]
Come il Trattato sull'emendazione dell'intelletto, il Breve trattato sottolinea la fruibilità collettiva della beatitudine intellettuale:

Il sogno di Giacobbe
(Thomas Henry, 1835)
« tutti noi possiamo essere ugualmente partecipi di questo bene, come avviene quando esso produce nel prossimo lo stesso desiderio che è in me, facendo sì, in tal modo, che la sua volontà e la mia siano una sola e medesima volontà, cioè formino una sola e medesima natura, convenendo sempre in tutto.[27] »

Ma la scandalosa novità che sta alla base del Breve trattato consiste in quella che Filippo Mignini ha chiamato

« la critica più radicale, concepita fino a quel momento e forse in tutta la storia moderna, delle filosofie e della cultura dominanti in Europa, fondate sul cristianesimo e sulle religioni rivelate.[28] »

La critica di Spinoza ai tradizionali sistemi di pensiero si fonda su una rivisitata idea di Dio, che viene definito

« un essere del quale viene affermato tutto, cioè infiniti attributi, ciascuno dei quali è infinitamente perfetto nel suo genere.[29] »

Dio viene così esplicitamente identificato con la Natura, definita proprio negli stessi termini:

« la Natura è un essere del quale sono affermati tutti gli attributi.[30] »

La Natura possiede infiniti attributi, che ne costituiscono l'essenza e dei quali solamente due sono noti all'essere umano: il pensiero e l'estensione.[31] Un Dio siffatto, a cui la materia (l'estensione) non è estranea ma anzi ne costituisce l'essenza — identificandolo con la Natura — appariva ben diverso sia rispetto al Dio assolutamente trascendente della teologia giudaico-cristiana, sia rispetto al Dio-persona della filosofia di Cartesio. Il Dio di Spinoza si propone di essere — d'altro canto — un Dio affine a quello della Torah, nelle cui pagine la potenza di Dio viene descritta come la potenza stessa della natura, e il volto di Dio — tralasciando alcune pagine della Genesi, che vedremo — si presenta irriducibile a ogni umanizzazione. Come osserva Mignini, l'attacco sferrato da Spinoza si dirige proprio contro una visione antropomorfizzata di Dio, facendo del Breve Trattato

« una oggettiva critica radicale della teologia cristiana tradizionale e, anche, delle religioni che fondano su di una pretesa rivelazione l'idea di un Dio totalmente antropomorfico (personalità, autocoscienza, intelletto, volontà, libertà) da disvelarsi piuttosto come una costruzione umana al servizio di un insanabile e folle antropocentrismo.[32] »

Mignini parla anche di "demitizzazione"[33] attuata da Spinoza nei confronti del tradizionale lessico biblico e teologico. Demitizzazione (o demitologizzazione) è un termine coniato dall'esegeta Rudolf Bultmann in occasione di una conferenza da lui tenuta nel 1941, in cui manifestò l'esigenza di rileggere la Bibbia scartandone i dati mitologici (eventi sovrannaturali, miracoli, profezie, vita ultraterrena etc.) e recuperando invece il nocciolo etico ed esistenziale (Bultmann si richiama anche alla filosofia di Martin Heidegger) che è sotteso alle pagine delle Scritture e che è ancora attuale e utile per indicare il cammino all'uomo contemporaneo. Scrive Bultmann:

« L'annuncio cristiano può oggi pretendere che l'uomo sia capace di accettare come vera la visione mitica del mondo? È pretesa assurda e impossibile. Assurda, poiché la visione mitica del mondo come tale non è affatto specificamente cristiana, ma è semplicemente la visione che del mondo si aveva in un'epoca remota e che non aveva ancora ricevuto l'impronta del pensiero scientifico. Impossibile, giacché una visione del mondo non la si può far propria in base a una decisione, ma viene sempre offerta all'uomo nella sua concretezza storica.[34] »

Per inciso, va notato come Bultmann intenda la nozione di fede. Per lui il concetto originario di fede (in greco "pistis") non rimanda al credere in alcuni dogmi immutabili, stabiliti una volta per tutte da un magistero ecclesiastico, bensì

« la fede è aprirsi liberamente al futuro. Una tale fede è [...] l'esser distaccati da tutto quello che il mondo ci mette a disposizione, l'atteggiamento della de-mondanizzazione, la libertà.[35] »

Per Bultmann "credere" non significa affatto sforzarsi di aderire a dei precetti distanti dalla propria ragione, né rinunciare a comprendere, ma, al contrario, il credere si invera nell'esercitare al massimo il proprio spirito critico: credere è comprendere, cioè indagare se stessi e il mondo, comprendere il valore positivo della vita, aprendosi alla verità e all'amore, cioè a Dio.[36]
Ritornando a Spinoza, egli opera una ridefinizione — nel Breve Trattato e poi nell'Etica — degli attributi di Dio. Spinoza demitizza il contenuto delle religioni istituzionali che si richiamano alla tradizione giudaico-cristiana, attuando una critica rigorosa dei dogmi, per ritrovare il Dio d'amore e di verità di cui parlano le Scritture.

Diavoli e demoni

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Nel Breve Trattato, prima di parlare della vera libertà, Spinoza ritenne utile dedicare un capitolo alla credenza nei diavoli, per mostrare che un tale genere di cause esterne non esistono e quindi non possono imporre all'uomo la schiavitù delle passioni. Anche a proposito di questo capitolo, Mignini sottolinea il carattere demitizzante della riflessione spinoziana.[37] I diavoli, per Spinoza, non possono esistere se per essi si intende qualcosa di completamente contrario a Dio, oppure qualcosa che non ha nulla a che fare con Dio, dato che tutto fa parte del Dio-Natura e non si può sensatamente parlare del concetto di "nulla".[38] Supponendo, d'altra parte, che esista un diavolo inteso come realtà pensante che non riesce a compiere assolutamente niente di buono, Spinoza considera che

Figure demoniache in un affresco fiorentino di Andrea di Bonaiuto, XIV sec.
« allora egli è certamente ben misero; e se le preghiere potessero giovare, sarebbe da pregare per lui, per la sua conversione.[39] »

Ma si tratta di un'affermazione che ha il solo scopo di porre in ridicolo la credenza che intende i diavoli come esseri così cattivi che, se anche si ravvedessero, Dio non li accetterebbe più in paradiso. Spinoza non vedeva di buon occhio le credenze popolari che miravano a dipingere Dio quale un essere antropomorfizzato, dotato di sentimenti di ripicca e di vendetta. Ogni ipotesi sull'esistenza dei diavoli viene così liquidata in base all'assunto che, essendo la durata di una cosa pensante direttamente proporzionale alla sua perfezione, non può esistere alcun essere che non abbia in sé alcuna perfezione (cioè nessuna parte di quell'unione con Dio che è causata dall'amore), quindi "una cosa tanto miserevole" quanto il diavolo non può esistere un solo istante.[40] Spinoza conclude la questione quasi pentendosi di averla iniziata (difatti sarà l'unico argomento del Breve Trattato a non essere ripreso nell'Etica):

« Ma poiché non c'è assolutamente alcuna necessità di dover supporre i diavoli, a che pro, dunque, sono supposti? Infatti noi non abbiamo, come altri, la necessità di supporre i diavoli per trovare le cause dell'odio, dell'invidia, della collera e di passioni simili, poiché le abbiamo sufficientemente trovate senza tale finzione.[41] »

Un capitolo sui diavoli è contenuto anche nel trattato Lo spirito del signor Benedetto de Spinoza,[42] il cui autore, che pare essersi richiamato direttamente alla filosofia spinoziana, fu forse quello stesso Jean-Maximilien Lucas che aveva composto La vita del signor Benedetto de Spinoza. Secondo l'anonimo autore, gli ebrei attinsero la credenza nei diavoli dai filosofi greci, alcuni dei quali davano credito all'esistenza di fantasmi privi di consistenza corporea, mentre altri avallavano l'esistenza di entità corporee composte di aria:

« Se queste due specie di filosofi avevano opinioni opposte riguardo ai fantasmi, si accordavano invece sui nomi che davano loro, dato che tutti li chiamavano demoni.[43] »

Gli scrittori greci, chiamando "demoni" questi esseri volatili e dai poteri straordinari, avrebbero dato origine a credenze analoghe non solo in Palestina — suggestionando ebrei e cristiani — ma anche in Asia ed Egitto. Persino Gesù ne sarebbe stato in una certa misura influenzato, trattando alla stregua di indemoniati persone che erano semplicemente malate:

« Questa distinzione fra spiriti buoni e maligni fece loro chiamare indemoniati quelli che noi chiamiamo lunatici, pazzi, furiosi, epilettici, come anche quelli che parlavano una lingua sconosciuta. Un uomo brutto e sudicio era, a loro avviso, posseduto da uno spirito immondo, così come uno muto da uno spirito muto ecc.[44] »

Ma perché siffatte credenze sortirono successo e diffusione in maniera così ampia? La risposta dell'anonimo rivela una notevole dimestichezza politica, suggerendo che non tanto il popolino, quanto i governanti di ogni paese, avrebbero nutrito interesse a favorirne il proliferare

« affinché [...] il timore che il popolo avrebbe avuto di queste potenze invisibili lo mantenesse nell'osservanza del dovere. E per farlo con maggiore autorevolezza divisero i demoni in buoni e cattivi; i primi per incitare gli uomini a osservare le loro leggi, i secondi per frenarli e per trattenerli dall'infrangerle.[45] »

L'anonimo cita, a sostegno delle proprie tesi, lo storico dell'antichità Polibio, osservando che

« se si potesse formare una repubblica che fosse composta solamente da uomini saggi, tutte le opinioni immaginarie sugli dèi e sugli inferi sarebbero del tutto superflue.[45] »

Le superstizioni sui diavoli e sull'inferno verrebbero quindi diffuse per inculcare nel popolo il timore verso l'autorità, un timore consolidato attraverso l'istituzione di religioni che trasformano in dogmi di fede gli strumenti ideologici del potere. Ma, se si desse vita a una vera repubblica, simili espedienti diventerebbero inutili, dato che la saggezza e la libertà assumerebbero la forma di un patrimonio comune.
Tra poco vedremo come Spinoza sviluppò nel Trattato teologico-politico un'analoga critica verso le superstizioni; ma prima ci soffermeremo sulla corrispondenza da lui intrattenuta, tra il settembre e il novembre del 1674, con Hugo Boxel, strenuo sostenitore dell'esistenza degli spettri.

Spettri e fantasmi

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Un bambino si finge uno spettro
(dipinto di un anonimo tedesco, seconda metà del XVII sec.)

Hugo Boxel, anziano burocrate di Gorcum, può considerarsi un rappresentante di quel clima superstizioso che, al volgere del Seicento, ancora persisteva nonostante l'affermarsi delle scienze positive. Paolo Cristofolini lo dipinge come

« un esponente tipico del modo di pensare e dei pregiudizi correnti. L'uomo non è privo di istruzione, per quanto superstizioso, e argomenta da scolastico.[46] »

La ragione per cui Boxel, dopo aver discusso di persona con Spinoza, sentì la necessità di ricontattarlo per lettera, era una sola e assai curiosa: conoscerne il parere attorno all'esistenza dei fantasmi:

« Acutissimo signore,
la causa per la quale ti scrivo questa lettera è che desidero conoscere la tua opinione attorno alle apparizioni, agli spiriti notturni o spettri e, se esistano, che cosa te ne sembri e quanto a lungo duri la loro vita.[47] »

Boxel, per sostenere la veridicità delle apparizioni, non mancava di citare le testimonianze offerte in proposito dagli antichi. Spinoza, dal canto suo, non amava contraddire le persone che lo avvicinavano con cortesia, quindi, pur confessando il proprio scetticismo, suggerì all'amico di non farne nascere una disputa:

« questo mettiamolo da parte, ossia se esistano spettri notturni, fantasmi e immaginazioni. A te, che sei persuaso da tante storie narrate su tale argomento da antichi e moderni, sembra infatti cosa non comune non soltanto il negare ma il semplice dubitare della loro esistenza. La grande stima che ho sempre avuto e ho ancora per te non mi consente di contraddirti, molto meno di adularti.[48] »

Spinoza non resistette però alla tentazione di accennare a qualche argomento razionale fortemente in contrasto con la possibilità che le apparizione di spettri fossero da considerarsi effettivamente reali. In primo luogo Spinoza invitava l'amico a non basare le proprie opinioni su un gran numero di dicerie, riferire da persone suggestionabili o ciarliere, ma semmai a trovare un unico e solido racconto degno di fede. Spinoza indicava poi l'opacità semantica del termine "spettro", notando che esso non richiama nulla di preciso e quindi risulta ambiguamente facile affermarne l'esistenza:

« Se i filosofi vogliono chiamare spettri le cose che ignoriamo, non potrò smentirli, poiché ci sono infinite cose delle quali non ho alcuna conoscenza.[48] »

Spinoza prega l'amico, se proprio volesse continuare il confronto di idee su questo tema, di chiarire meglio cosa egli intenda per spettri e quali siano, nello specifico, i racconti a cui egli fa tanto affidamento per avallarne l'esistenza.
La risposta di Boxel si rivela un fiume in piena, accusando Spinoza di essere lui quello in balìa dei pregiudizi:

« desideri che io dica cosa siano questi spettri o spiriti [...] e aggiungi che tutto ciò che hai udito di essi sembra provenire più da insensati che da intelligenti. E' vero il vecchio detto, che un'opinione prevenuta impedisce la ricerca della verità.[49] »

Le argomentazioni di Boxel si mostrano poi confuse e inconsistenti, senza chiarire cosa egli intendesse per spiriti, con divagazioni e richiami al concetto di provvidenza divina, alla tesi che gli spiriti possano esistere senza i corpi, alla bellezza che l'esistenza di creature incorporee conferirebbe al creato, a una vasta bibliografia che ne parla (da Plutarco a Sventonio; da Melantone a Cardano) e soprattutto alle mirabolanti esperienze che Boxel e un "uomo dotto e sapiente" di sua conoscenza avevano vissuto insieme di notte nei pressi di una birreria:

« Un borgomastro, uomo dotto e sapiente [...] mi raccontò, una volta, di avere udito una notte lavorare nella birreria di sua madre come avveniva di giorno, quando si bolliva la birra, e mi assicurò che questo era accaduto diverse volte. Ed è accaduto a me stesso, cosa che mai dimenticherò: questo e le ragioni suddette mi hanno convinto che gli spiriti esistono.[49] »

Spinoza, leggendo queste righe, probabilmente scosse la testa o sghignazzò, ma dovette poi ricomporsi e rispondere con rigore all'amico, chiarendogli, al di là della questione degli spettri, quale fosse il suo punto di vista sui concetti di provvidenza e di bellezza richiamati da Boxel. Spinoza ammette che il mondo non sia stato fatto a caso, ma lo ammette in una prospettiva ben diversa da quella di Boxel — che attribuiva a Dio una libera volontà intesa secondo la dottrina scolastica — in quanto la casualità, per Spinoza, è l'esatto contrario della necessità, e quindi il mondo, se non è stato fatto a caso, va considerato "un effetto necessario della natura divina". D'altra parte, coloro che sostengono, come gli scolastici, che Dio avrebbe anche potuto non formare il mondo, proprio costoro sarebbero costretti ad affermare che il mondo è stato fatto a caso:

« chi afferma che Dio avrebbe potuto omettere la creazione del mondo, conferma, sebbene con altre parole, che esso è stato fatto per caso, perché è derivato da una volontà che poteva anche non darsi. [...] Dico pertanto, come ho appena detto, che il mondo è un effetto necessario della natura divina e che esso non è stato fatto a caso.[50] »

Spinoza avverte poi Boxel che il concetto di "bellezza" da lui menzionato è puramente soggettivo e determinato dalla struttura del corpo umano:

« Se i nostri occhi fossero più lunghi o più corti o la nostra complessione corporea fosse diversa, le cose che ora consideriamo belle ci apparirebbero deformi, le deformi belle [...] Sicché le cose, viste in se stesse o riferite a Dio, non sono né belle né brutte.[50] »

Questi argomenti saranno ripresi da Spinoza nella critica al pregiudizio finalistico contenuta nell'Etica, di cui parleremo nei paragrafi successivi.
Nella risposta a Boxel, Spinoza confuta inoltre l'idea che, dal momento che possono esistere corpi senza spirito, si debba di conseguenza dar per certa l'esistenza di spiriti senza corpi, poiché in tal caso bisognerebbe ammettere anche altre simili assurdità. Esistono infatti, ad esempio, delle persone senza memoria, ma non delle memorie senza persone:

« Dimmi, ti prego, se sia anche verosimile l'esistenza della memoria, dell'udito, della vista ecc. senza corpi, perché si trovano dei corpi senza memoria, udito, vista ecc.? Oppure della sfera senza cerchio, perché il cerchio esiste senza la sfera?[50] »

In conclusione, Spinoza non nasconde di essere stato mosso al riso dall'aneddoto della birreria, che Boxel riteneva come il più serio e valido a confermare le proprie tesi:

« Mi sembra degno di riso che il ricordato console voglia concludere l'esistenza degli spiriti dal fatto che li udì lavorare di notte nel laboratorio della birra di sua madre [...] Allo stesso modo, mi sembra qui troppo lungo esaminare tutte le storie che sono state scritte su queste sciocchezze [...] Tutti quelli che considerano gli affetti delle immaginazioni e degli affetti umani, devono ridere di questo.[50] »

La corrispondenza fra i due non durò ancora a lungo, e fu Spinoza stesso a notare che a dividerli c'era una differenza di vedute troppo ampia perché un simile scambio epistolare potesse generare qualcosa di più di una perdita di tempo.[51]
Quel che era in gioco, per Spinoza, era come sempre, al fondo della questione, la capacità di discernere i fatti dalle superstizioni. La filosofia ha il compito di esortare gli uomini a coltivare la ragione, a pensare con la propria testa, senza farsi sviare dalle opinioni correnti, che mettono in primo piano la credenza in streghe e fantasmi, piuttosto che la ricerca della verità:

« La superstizione è tanto nemica della ragione che, pur di ledere la stima verso i filosofi, vuol credere piuttosto alle streghe.[50] »

Ma soprattutto, era in gioco la libertà dell'uomo. La superstizione — oltre ad essere una naturale inclinazione cui va incontro l'intelligenza umana quando non è coltivata — è un mezzo di ottundimento delle coscienze troppo ghiotto per non essere subdolamente sfruttato dal potere politico allo scopo di consolidare la propria autorità. A queste due caratteristiche della superstizione Spinoza dedicò le proprie riflessioni nel Trattato teologico-politico.

Dalla paura alla violenza

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Nella prefazione al Trattato teologico-politico,[52] Spinoza dipinge la superstizione come una debolezza umana fra le più terribili, descrivendo donde essa tragga origine e forza.
Un ruolo fondamentale è giocato dallo sgomento di cui sono preda gli uomini quando, timorosi per il proprio futuro, cercano rassicurazioni e risposte immediate che possano dar sollievo al loro animo. Se non soffrono di alcuna preoccupazione, essi confidano soltanto in se medesimi, sopportando con fastidio i consigli altrui. Ma ciò avviene di rado, poiché la vita non manca di riservare per ciascuno una certa quantità di angustie e calamità indesiderate, che rendono le gambe tremolanti anche agli spiriti più risoluti, inducendoli ad ascoltare e a mettere in pratica i suggerimenti delle persone meno affidabili:

« Nessuno, infatti, visse in modo tale che non abbia visto come la maggior parte degli uomini [...] sopravvenendo le avversità, non sappiano dove rivolgersi e vadano supplichevoli a chiedere consiglio a chicchessia, non essendovi consiglio tanto sciocco, assurdo o vano da udire ch'essi non seguano.[53] »

Nella storia di ogni società, questo ha sempre fatto la fortuna di chi i consigli li distribuiva per professione, poiché non vi fu tempo e luogo in cui mancarono presunti sapienti o sedicenti profeti che — sfruttando le situazioni di difficoltà ed inquietudine di altri più ingenui di loro — seppero conquistarsi invidiabili posizioni di influenza e di potere:

« i vati hanno avuto influenza sul popolo e sono stati temuti dai Re, soprattutto nei momenti di gravissime angustie della Nazione.[53] »

La predisposizione a farsi raggirare è quindi insita nella natura umana, dal momento che non esiste persona a cui non capiti — a chi in maggior parte, a chi in minor parte — di esitare nell'incertezza e nella paura quando sopraggiungono momenti di crisi:

Buona ventura
(Caravaggio, 1596-1597)
« La causa per cui ogni superstizione ha origine, vive e prospera, è soltanto la paura. [...] Gli uomini sono vittime della superstizione soltanto sotto l'incubo della paura [...] Ne segue pertanto chiaramente che, data la causa di essa, tutti gli uomini sono sottoposti alla superstizione per legge di natura.[53] »

Specialmente il volgo, a causa dell'ignoranza in cui giace, è poco preparato a gestire e a dominare le proprie passioni, risultando così preda continua dell'ansia e dell'incertezza. Come ha sintetizzato Piero Martinetti:

« L'animo del volgo riempito dalle passioni è naturalmente superstizioso: specialmente nelle avversità esso chiede, ansioso, consigli anche sulle cose più insignificanti: dalle minime circostanze, liete o tristi, trae occasione a sperare ed a temere senza serio fondamento.[54] »

E coloro che si sentono oppressi dalle proprie ansie non desiderano nulla di meglio che essere in qualche modo rassicurati, accettando ben volentieri anche risposte o soluzioni del tutto in contrasto sia con la logica sia con la ragione, dato che purtroppo la logica e la ragione non sempre possono offrire buoni auspici riguardo al domani:

« la ragione [...] chiamano cieca, e vana la umana sapienza. Credono, al contrario, responsi divini i deliramenti della loro immaginazione, i sogni e le puerili sciocchezze; anzi, reputano che Dio detesti i sapienti e segni i suoi decreti non nella mente, ma nei visceri degli animali, e che gli stolti, i pazzi e gli uccelli ci predicano l'avvenire per divina ispirazione e per istinto. Fino a tal punto il timore fa insanire gli uomini![53] »

La superstizione è una debolezza fra le più terribili non soltanto perché le persone in balìa della credulità si allontanano dalla ragione ritenendo con ciò di fare una buona cosa, ma essa è altresì dannosa perché infiamma, fra gli uomini, covoni di violenza e discordia difficilmente domabili:

« la superstizione [...] non può essere difesa se non dalla speranza, dall'odio, dall'ira e dalla frode, perché, in verità, la superstizione non procede dalla ragione ma soltanto dalla passione, e proprio da quella più violenta.[53] »

La speranza — similmente al timore — viene catalogata da Spinoza come uno di quegli affetti che possono inibire la libertà umana, perché spinge a coltivare una visione non obiettiva della realtà e, di conseguenza, può favorire la superstizione.[55] Riguardo invece all'ira con cui la superstizione viene difesa, basti ricordare che, mentre Spinoza redigeva il Trattato teologico-politico, il suo amico Koerbagh perdeva la vita proprio a causa della violenza con cui i dogmi del calvinismo venivano imposti e difesi dal clero di Amsterdam.

La libera repubblica

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Ancor prima di scrivere il Trattato teologico-politico, Spinoza aveva dovuto far l'abitudine a vivere in un paese costantemente in guerra, in cui non solo la vita dei filosofi, ma quella di ogni privato cittadino, era in pericolo. Scriveva nel 1665 all'amico Heinrich Oldenburg:

« Sono lieto che i vostri filosofi vivano, memori di loro stessi e della loro filosofia. Per sapere quello che di recente hanno fatto, aspetterò che gli uomini di guerra siano sazi di sangue e se ne stiano quieti, per riprendere un po' di forze.[56] »

Spinoza osserva che, se fosse vivo Democrito (che amava ridere della stoltezza degli uomini), starebbe morendo dalle risate.[57] Ma Spinoza preferisce non ridere (né piangere, come avrebbe fatto Eraclito), bensì cercare di capire le ragioni dell'agire umano e pensare a delle soluzioni per curare l'insania umana:

Eraclito piangente e Democrito ridente (Bramante, frammento di affresco, 1477)
« A me, invece, tutto questo finimondo non muove né al riso né al pianto; mi incita piuttosto a filosofare e a osservare meglio la natura umana. Non ritengo che mi sia lecito, infatti, irridere la natura e tanto meno deplorarla.[56] »

Il Trattato teologico-politico nasce così dall'esigenza pratica di proporre dei rimedi ai mali sociali del tempo. Dopo aver rinvenuto nella paura l'origine della superstizione, Spinoza volge quindi lo sguardo alla società del suo tempo, assumendosi il compito di mostrare gli inganni di cui sono vittime gli uomini riguardo alla concezione della religione e all'esercizio della politica:

« credetti necessario indicare i principali pregiudizi intorno alla religione [...] e così anche quelli intorno al diritto delle somme potestà, diritto che molti procurano, con una certa sfacciata licenza, di usurpare nella maggior parte.[53] »

Dietro la parvenza della religione istituzionale Spinoza individua gli interessi di personaggi che in realtà hanno a cuore soltanto la propria posizione di potere, e che si servono della paura delle masse per poterle placidamente addomesticare, dando ad esse in pasto presunte verità di fede, in maniera da renderle pedine pronte a sacrificare la vita in guerra per loro. Questo sistema di assoggettamento avviene di norma negli ordinamenti monarchici, ma laddove la costituzione si fonda su princìpi repubblicani le cose dovrebbero procedere diversamente:

« se è sommo segreto del regime monarchico e del tutto suo interesse di avere gli uomini in soggezione, e di adombrare, col nome specioso della religione, la paura con la quale devono essere irretiti affinché combattano per la loro schiavitù come se si trattasse della loro salvezza, e che credano non vergognoso ma onorevole al massimo grado spendere il sangue e la vita per la millanteria di un sol uomo, niente, al contrario può essere escogitato né più infelicemente tentato in una libera repubblica, giacché ripugna del tutto alla comune libertà ottenebrare con i pregiudizi il libero pensiero di ciascuno, o, in altro modo, opprimerlo.[53] »

Spinoza si dichiara orgoglioso di essere cittadino della repubblica olandese, manifestando la convinzione che la libera circolazione delle idee non solo non sia pericolosa per la pace dello stato, ma che, al contrario, per il mantenimento di tale pace la libertà d'opinione sia indispensabile. Nella misura in cui quest'ultima viene a mancare, il rischio di sedizioni e rivolte si accresce sempre più, dal momento che non si può pensare di fondare uno stato solido e coeso per mezzo del terrore e delle vessazioni:

« Poiché ci è toccata in sorte questa rara felicità di vivere in una Repubblica dove a ciascuno è concessa integra la libertà di giudicare, e di onorare Dio secondo la propria indole, e dove niente è stimato più caro e più gradito della libertà, credetti di apprestarmi a fare opera non ingrata né inutile se avessi dimostrato che questa libertà, non soltanto può essere concessa senza nocumento per la pietà e la pace dello Stato, ma che, inoltre, essa non può esser distrutta se non assieme alla pace stessa dello Stato e alla pietà.[53] »

L'obiettivo del Trattato teologico-politico è proprio questo: dimostrare come un governo si possa reggere perfettamente senza raggirare i propri cittadini, senza sfruttare le loro paure e la loro tendenza alla superstizione, ma stimolandoli anzi a sviluppare idee libere e policrome. Uno stato siffatto, in cui le menti non vengano soffocate, bensì insufflate di aria fresca, avrà vita rigogliosa e non potrà che prosperare. Esso sarà inoltre una vera repubblica: una società in cui i cittadini non sono sottomessi a un potere oppressivo, ma piuttosto contribuiscono attivamente alla vita dello stato, coltivando ciascuno il proprio ingegno e le proprie idee.[58]
Chi, del resto, può stabilire se un'idea sia utile o dannosa, fin tanto che non ne siano stati osservati gli effetti? Se la maniera più immediata per capire ciò che una persona è, consiste anzitutto nel basarsi sul modo in cui vive, e non sulle idee che esprime a parole,[59] la maniera più immediata per capire ciò che una religione (o una filosofia) produce, consisterà anzitutto nel basarsi non sulle parole dei suoi seguaci, ma sulle loro opere, lasciando a tutti la più ampia libertà d'opinione:

« Poiché l'indole degli uomini è alquanto varia, e l'uno si adagia meglio a queste e l'altro a quelle opinioni, ne concludo [...] che la fede di ciascuno va giudicata soltanto dalle opere se sia pia oppure empia, perché così, di conseguenza, potranno tutti obbedire a Dio con integro e libero animo, e saranno da tutti stimate soltanto la carità e la giustizia.[53] »

I tiranni si servono di una apparenza di religione per tenere in soggezione gli animi, ma la vera religione svolge invece il ruolo di emancipare gli uomini da ogni genere di servitù, instillando fra loro rispetto e concordia, in nome del precetto fondamentale contenuto nella Scrittura:[60]

« noi comprendiamo dalla Scrittura, senza alcuna difficoltà e ambiguità, che il suo più grande precetto è di amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo quanto noi stessi.[61] »

Per Spinoza, avere "fede" significa non già credere alla lettera a tutto ciò che è contenuto nella Scrittura, oppure argomentarvi pedantemente sopra, ma significa mostrare con le proprie opere di condividerne il messaggio etico di fondo:

Allegoria della Concordia, dagli affreschi rappresentanti il Buon Governo (Ambrogio Lorenzetti, 1340 ca.)
« non dimostra necessariamente un'ottima fede chi mostra ottimi argomenti, ma chi mostra ottime opere di giustizia e carità.[62] »

Il Trattato teologico-politico guarda all'ideale di una religione di concordia, la cui fede consista solo in ciò che aiuta a favorire la tolleranza e la concordia stessa, mettendo da parte qualsiasi controversia dogmatica:

« non importa nulla per la fede sapere se Dio sia ovunque per essenza o per potenza, se diriga le cose per la libertà o per la necessità della sua natura, se prescriva le sue leggi come un principe o le insegni come verità eterne, se l'uomo obbedisca a Dio per libero arbitrio o per la necessità del decreto divino, se infine il premio dei buoni o la punizione dei malvagi siano naturali o soprannaturali.[62] »

Quale sogno incantevole rappresentava per Spinoza — lui che visse nel Seicento, il secolo in cui infuriarono per l'Europa le sanguinose guerre tra cattolici, luterani e calvinisti — l'immaginare che un giorno potesse finalmente sorgere una religione di pace! Non più il culto idolatrico che si serve della violenza per tenere a freno le menti — impersonato nella Torah dal faraone egizio — bensì il culto del Dio Vivente: quella libertà dell'animo che solleva da ogni paura e che nella Torah assume la forma della terra promessa, una terra promessa puramente spirituale che per la filosofia di Spinoza è beatitudine dell'intelletto.
Ad un conoscente che gli chiedeva cosa ne pensasse della possibilità, per gli ebrei, di ritornare nella terra promessa di Palestina,[63] Spinoza non rispose (o, almeno, tale risposta non è giunta a noi). Per Spinoza, evidentemente, la terra promessa non era un luogo geografico da raggiungere, ma una mèta spirituale da conquistare dentro di sé.

Scandalo e delicatezza

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Spinoza volle mettere sull'avviso che nel Trattato teologico-politico venivano espresse idee che avrebbero potuto offendere gli animi più ancorati alle superstizioni e alle tradizioni, sicché a costoro era da sconsigliarsi la lettura:

« Non invito, perciò, a leggere questo Trattato il volgo e tutti coloro che sono agitati dalle stesse passioni del volgo; anzi vorrei che essi trascurassero del tutto questo libro.[53] »

Si può notare in questo avvertimento un tratto elitario del pensiero di Spinoza, che avrebbe indirizzato la propria opera alla specifica attenzione della classe politica dirigente, e non alla masse,[64] ma anche, soprattutto, l'esigenza di mettere le mani avanti per cautelarsi dalle accuse di ateismo e di sovversivismo, oltre che, fattore da non trascurare, la delicatezza d'animo di chi non vuole utilizzare la propria filosofia semplicemente per suscitare scandalo, ma piuttosto per cercare il più possibile la comprensione, evitando di arrecare offese inutili.
Quando Spinoza aveva composto i Principi della filosofia di Cartesio (un riassunto del pensiero cartesiano, richiestogli da un gruppo di conoscenti), aveva pregato Meyer (a cui era stato affidato il compito di scrivere la prefazione) di non inserire assolutamente frasi polemiche.[65] Per Spinoza era importante che in quella prefazione venisse spiegato che egli non condivideva più le teorie di Cartesio che aveva esposto nell'opera, ma desiderava che non emergesse alcun accento polemico né verso Cartesio né verso alcun altro.[66] Osserva a questo proposito Mignini:

Un ritratto di Spinoza, dipinto a Brema nel 1664 dal pittore Franz Wulfhagen, probabilmente su commissione dello studioso Johann Eberhard Schweling
« La raccomandazione a Meyer nasce da una costante e fondamentale regola spinoziana: nella costruzione e nella comunicazione della filosofia ci si deve proporre come fine primario la "salvezza" propria e altrui (ossia il conseguimento della libertà e tranquillità dell'animo), a cui devono essere subordinati tutti i pensieri e le azioni.[67] »

Spinoza sapeva bene che, per conquistare la salvezza propria e altrui, non bisogna agire con protervia e saccenza, ma occorre piuttosto mostrarsi rispettosi delle opinioni avversarie, per quanto non le si condivida. L'educazione era una qualità ben radicata in Spinoza, che però mancava ai primi seguaci dello spinozismo, come indica il sottotitolo al Breve trattato, aggiunto da uno di essi per le Opere postume del maestro:

« Scritto dapprima in lingua latina da Benedictus de Spinoza [...] a beneficio di quanti amano verità e virtù, affinché possa essere finalmente tappata la bocca a quelli che di ciò si vantano tanto, costringendo i semplici a ricevere la loro merda e la loro lordura quasi fossero ambra grigia.[68] »

Spinoza non avrebbe approvato un simile tono, e avrebbe preferito rivolgere ai propri avversari gli argomenti della ragione, anziché colpirli con frasi volgari e denigratorie, anche se la diffamazione era un'arma che certi ebrei e certi cristiani non si facevano scrupolo di utilizzare contro di lui. Ma non era il caso di mettersi al loro stesso livello, poiché la causa della verità non ne avrebbe tratto giovamento. Il pensiero di Spinoza, seppure nelle intenzioni dell'autore intendesse rivolgersi a tutti ed aiutare ogni uomo a conquistare la beatitudine, affrontava di petto pregiudizi così radicati nel pensiero comune da porsi come pietra di scandalo, generando incomprensione, sconcerto, odio e persecuzione. Era una prova difficile ma entusiasmante, per Spinoza, riuscire al tempo stesso a rivolgersi al maggior numero possibile di persone, mantenersi coerente con le proprie idee, non rischiare la vita, conservare la calma e cercare di non sdegnare nessuno. Nel prossimo paragrafo vedremo come Spinoza s'impegnò, fra tutte queste difficoltà, ad affrontare e demistificare uno degli zoccoli più duri della religione tradizionale: la credenza nei miracoli.

L'inganno dei miracoli

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Mentre a partorire le superstizioni è la paura, potremmo dire che il compito della levatrice spetta all'ignoranza. Ce lo suggerisce il capitolo del Trattato teologico-politico dedicato ai miracoli.[69] Gli uomini chiamarono sempre con questo nome quei fenomeni fuori dall'ordinario dei quali non sapevano fornire alcuna spiegazione, restandone talvolta affascinati, talvolta atterriti. Col progredire delle conoscenze umane, parecchi avvenimenti di cui non si riusciva a render conto divennero però perfettamente comprensibili:

Giosuè prega affinché il sole rimanga in cielo (illustrazione di Gustave Doré, 1865)
« non v'è dubbio che siano narrati nella Scrittura quali miracoli molti fatti la causa dei quali può essere spiegata facilmente coi princìpi delle cose a noi note.[70] »

Spinoza prende come esempio il noto episodio biblico ove si narra di come Dio, accorrendo alla preghiera del suo profeta Giosué, fece fermare il sole in mezzo al cielo, affinché gli ebrei avessero il tempo di passare a fil di spada tutti gli amorrei, poiché altrimenti, col calare della notte, parte dei nemici sarebbero potuti fuggire e lo sterminio non sarebbe stato completo:

« Quando il Signore mise gli Amorrei nelle mani degli Israeliti, Giosuè disse al Signore sotto gli occhi di Israele: "Sole, fermati in Gàbaon, e tu, luna, sulla valle di Aialon!" Si fermò il sole e la luna rimase immobile, finché il popolo non si vendicò dei nemici.[71] »

Secondo Spinoza, le scienze moderne sono in grado di formulare varie ipotesi per spiegare come mai quel giorno la luce abbia perdurato oltre il solito: può esser dipeso ad esempio dalla rifrazione dei raggi solari o dalla retrogradazione del sole. Ma una cosa appare chiara, nota egli: probabilmente fu la terra a fermarsi, visto che la teoria copernicana ha dimostrato essere la terra a ruotare attorno al sole, e non viceversa.[72]
L'ingenuità che commette il volgo è di attribuire ad una azione diretta di Dio gli eventi insoliti e inaspettati, credendo che essi esulino dalle leggi di natura soltanto perché esulano dalle leggi di natura finora conosciute:

« Il volgo crede che la potenza e la provvidenza di Dio non siano mai tanto splendenti come quando avviene nella natura alcunché di insolito e contrario alle opinioni che, per consuetudine, esso ha intorno ad essa.[70] »

Coloro che si studiano di comprendere ogni fenomeno della natura finiscono così per essere accusati di miscredenza, in quanto gran parte della fede popolare è legata proprio allo stupore che suscitano i prodigi, togliendo i quali la religione sembrerebbe perdere una buona dose del suo fascino e della sua attrattiva:

« niente, per il volgo, potrebbe più chiaramente dimostrare l'esistenza di Dio quanto il fatto che la natura, così crede, devia dal suo corso originario; e stima esso, di conseguenza, che tolgano di mezzo Dio o, almeno, la sua provvidenza tutti coloro i quali spiegano o cercano di comprendere i fenomeni e i miracoli secondo le cause naturali.[70] »

Vi sono leggende in cui si favoleggia di eventi prodigiosi che avrebbero spinto spietati peccatori alla conversione. Gli uomini trovano piacevole credere in miracoli di questo genere perché, così facendo, hanno l'impressione che la natura possa deviare il suo corso apposta per loro, e che tutte le componenti della natura siano un mero mezzo in funzione degli utili umani:

« gli uomini non cessano, anche ai nostri tempi, di immaginare miracoli, di credersi, a vicenda, più diletti a Dio degli altri, e d'essere la causa finale per cui Dio creò le cose della natura e, di continuo, le dirige. [...] Il volgo immagina la natura così limitata da credere che l'uomo sia di essa la parte più importante.[70] »

Alla visione antropocentrica, che è propria della mentalità popolare, si associa la visione antropomorfizzata di Dio, che il volgo ricalca a immagine di se stesso. Spinoza, che sin da bambino aveva letto e meditato i più oscuri passaggi della Scrittura, non aveva potuto evitare d'incappare in alcuni racconti dove Dio si trova descritto in tutto e per tutto come un essere umano, dotato di piedi ed orecchie. Si pensi al passaggio della Genesi dove si narra di come Dio — prima di accorgersi che Adamo ed Eva avevano mangiato la mela offertagli dal serpente — stesse "passeggiando" nel suo giardino:

« udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l'uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino.[73] »

Per Spinoza, la Scrittura si esprime talora in questi termini perché i patriarchi che la composero non erano dei filosofi, ma erano semplicemente dei capipopolo intenzionati, in buona fede, a fornire insegnamenti moralmente edificanti e accessibili al volgo:

« non deve destare meraviglia il fatto che, parlando di Dio, la Scrittura si esprima in termini impropri e attribuisca a Dio mani, piedi, occhi, orecchie, pensiero e movimento da luogo a luogo [...] perché la Scrittura così si esprime onde rendersi accessibile alla mentalità del volgo.[74] »

Sulla critica di Spinoza alla visione antropocentrica, all'antropomorfizzazione di Dio e al pregiudizio finalistico, torneremo nei prossimi paragrafi, dedicati all'Etica, l'opera in cui egli si cimentò in una compiuta elaborazione di questi temi. Per il momento riteniamo importante sottolineare come Spinoza abbia insistito, nel Trattato teologico-politico, a ribadire più volte, a proposito dei dogmi e dei miracoli, ciò che per lui era l'unica discriminante per distinguere la vera dalla falsa religione: non la credenza nei dogmi o nei miracoli, appunto, ma soltanto la razionalità dell'agire. Egli cita un passo del Deuteronomio molto significativo a questo proposito, in cui Dio avverte il popolo di Mosè:

« Qualora si alzi in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio e il segno o il prodigio annunciato succeda ed egli ti dica: "Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuti, e rendiamo loro un culto!", tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore; perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima.[75] »

Se volessimo ammettere l'esistenza dei miracoli, la Scrittura mette comunque in guardia dal fatto che essi possono essere operati anche dai falsi profeti. Dunque non è sui miracoli, né tantomeno su presunte autorità profetiche, che può fondarsi la vera religione, ma soltanto sul comandamento fondamentale dell'amore per Dio e per il prossimo, ribadito in ogni luogo della Scrittura e confermatoci dalle esigenze del nostro sentire e della nostra ragione.[76]

Una fede anticlericale

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La superstizione, come abbiamo visto, si insinua nelle menti paurose e ignoranti del volgo o, peggio, viene deliberatamente instillata in esse da governanti famelici di potere che, per autolegittimarsi, si richiamano all'autorità di utili dogmi, a presunti eventi miracolosi e a misteriose potenze sovrannaturali. La superstizione si configura quindi come la forma più bassa, inautentica e inconsapevole della vita religiosa.[77]
La fede — rendendo le persone libere di interpretare a proprio piacimento i contenuti delle Scritture, purché seguano nella pratica il comandamento di amore verso Dio e verso il prossimo — è ben al di sopra della superstizione, ma, come sottolineato da Spinoza, resta ben al di sotto della filosofia, in quanto, avendo come scopo l'obbedienza e non la verità, non può offrire una comprensione razionale del reale:

« tra la fede, ossia la teologia, e la filosofia non c'è nessuna relazione né affinità. [...] Lo scopo della filosofia è la verità; quello della teologia, invece, come si è ampiamente dimostrato, l'obbedienza e la pietà.[78] »

La fede ha come scopo la concordia sociale, ed è patrimonio di chiunque, per quanto ignorante, sappia vivere in pace con se stesso e con gli altri, qualunque siano — e per quanto erronee possano essere — le sue convinzioni interiori. In questa prospettiva, eretico non è chi professa il falso — o chi semplicemente "sceglie", come suggerisce l'etimologia della parola — ma chi semina la perniciosa zizzania delle controversie e delle rivalità:

« La fede [...] condanna come eretici e scismatici quanti insegnano opinioni che incitano alla ribellione, agli odi, alle contese, all'ira; e considera come uomini di fede solo quanti, secondo le forze della loro ragione e le loro possibilità, persuadono alla giustizia e alla carità.[78] »

Spinoza parla di una fede soggettiva e personale — il cui contenuto fondamentale è la carità — in aperta polemica con le istituzioni ecclesiastiche che, fautrici di una religione dogmatica, hanno di mira soltanto i propri privilegi e vessano il popolo anziché pascerlo.
Secondo Piero Martinetti il clero è, per Spinoza, il vero nemico della religione.[79] Come ha notato Amedeo Vigorelli, Martinetti individua in Spinoza un ideale spirituale moderno che, tra i contemporanei, ritrova vitalità nel cristianesimo anarchico e anticlericale di Lev Tolstoj.[80] Tolstoj ritiene che gli organi ecclesiastici abbiano sovvertito e capovolto l'originario messaggio di uguaglianza fra tutti gli uomini caratteristico della predicazione di Gesù, trasformando il cristianesimo — da buona novella di libertà qual era — in strumento di oppressione, d'ineguaglianza e di oscurantismo:

Lev Nikolaevič Tolstoj
« La cosa più importante che il cristianesimo ha affermato è l'uguaglianza fra gli uomini [...] E perciò sembrerebbe impossibile pervertire il cristianesimo, fino al punto di distruggere la coscienza dell'uguaglianza degli uomini fra loro. Ma la mente umana è astuta e fu inventato [...] un mezzo del tutto nuovo ("truc" dicono i francesi). Questo "truc" consiste nell'attribuire l'infallibilità non solo a certe scritture, ma anche ad una certa riunione di persone chiamata la chiesa.[81] »

Il truc di cui si sono serviti i preti è stato da essi giustificato sulla base di una loro furbesca interpretazione delle Scritture, atta a mettere in risalto quei passaggi in cui poteva sembrare che Gesù volesse conferire a Pietro e agli apostoli un potere illimitato sulle coscienze e i corpi dei fedeli. Ma come poteva Gesù, che proprio si era ribellato ai sacerdoti del suo tempo, desiderare la formazione di una nuova istituzione che — surrettiziamente fregiandosi della propria finalità religiosa — operasse una ancora più violenta forma di coercizione e obnubilamento delle coscienze? Era stato proprio Gesù — nota Tolstoj[82] — ad avvertire:

« non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello nel cielo.[83] »

Eppure ecco che i preti si fanno chiamare "padri" e pretendono di essere maestri degli uomini mantenendoli nella paura verso presunte potenze sovrannaturali e inculcando in loro egoistici princìpi di divisione anziché precetti di libera concordia. Tolstoj è costernato nel constatare — dal suo punto di vista — come i cosiddetti ministri della Chiesa abbiano saputo così tanto sovvertire il messaggio d'amore e di libertà in nome del quale Gesù ha sacrificato la vita:

« Veramente nessuna altra religione aveva mai introdotto concetti così chiaramente in contrasto con la ragione e con le attuali conoscenze, come quelli tanto immorali predicati dal cristianesimo ecclesiastico.[84] »

Il Santo Sinodo, in risposta agli scritti di Tolstoj, lo scomunicò nel 1901. Tolstoj continuò, dal canto suo, a promuovere con energia il proprio pensiero, che trovò fervida espressione nella favola La distruzione dell'inferno e la sua restaurazione,[85] dove la Chiesa è descritta come un'invenzione dei diavoli, i quali — ritrovatisi senza casa dopo che Gesù, col suo luminoso messaggio di fratellanza, aveva liberato tutti gli uomini dall'inferno — riescono a far tornare l'inferno pieno grazie al diabolico operato della Chiesa, vanto e onore di Belzebù:

« inventai la chiesa. E quando cominciarono a credere nella chiesa, mi sentii tranquillo: capii che eravamo salvi, e che l'inferno era ricostruito.[86] »

Ritornando a Spinoza, vedremo ora come — al di là di una fede anticlericale ma vincolata all'obbedienza, e quindi all'adesione non razionale, del precetto dell'amore — egli prospettasse come possibile anche una forma di religione più adulta e completa, in sintonia con le esigenze di verità della filosofia.

Verso una religione razionale

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Piero Martinetti

Martinetti sottolinea come Spinoza riservi un posto privilegiato all'esperienza religiosa di Gesù Cristo,[87] inteso non quale entità divina, bensì quale essere umano dotato di eccezionali capacità razionali. Se i profeti prima di Cristo avevano ricevuto una rivelazione solamente per via immaginativa (cioè secondo quel genere fallace di conoscenza descritto da Spinoza nel TEI, nel BT e poi nell'Etica), Cristo apprese la verità per via intuitiva (cioè secondo il più alto genere di conoscenza), comunicando con Dio direttamente:

« credo che nessun uomo sia arrivato a tanta perfezione sopra gli altri, tranne il Cristo cui, senza parole e senza visioni, ma immediatamente, furono rivelati i decreti di Dio che conducono gli uomini alla salvezza.[88] »

E, se Mosè aveva goduto del privilegio di poter guardare di sfuggita il volto di Dio, Cristo seppe addirittura specchiarsi nella mente stessa di Dio:

« se Mosè parlò con Dio faccia a faccia, come un uomo suole parlare con un suo simile (cioè come due uomini parlano fra loro), il Cristo invece comunicò con Dio mente a mente.[88] »

Le verità apprese da Cristo divennero così patrimonio dell'intera umanità, poiché egli, seminando nel mondo le proprie idee, portò alla salvezza — cioè condusse all'illuminazione intellettuale — tante altre persone:

« del Cristo [...] bisogna giudicare ch'egli comprese le cose secondo verità e in maniera adeguata, perché egli fu non tanto un profeta quanto la bocca stessa di Dio. Dio, infatti, per mezzo della mente del Cristo, rivelò al genere umano alcune verità.[89] »

Cristo riuscì a comunicare sia con il popolo (al quale rivolgeva i propri discorsi in forma di parabola) sia con i dotti (ai quali espresse con chiarezza i suoi princìpi morali), liberando così molti uomini dalla servitù della legge — ossia da una fede fatta di pura obbedienza — e aprendo le loro menti ad una adesione viva e consapevole del comandamento dell'amore:

« egli liberò gli uomini dalla servitù della legge e, ciò non di meno, confermò la legge, la stabilì e la radicò ben addentro nei loro cuori.[89] »

Sulle orme di Cristo, fu così aperta la strada alla possibilità di una religione razionale, che squarciasse con la propria luce il buio della superstizione e liberasse la fede dal suo carattere di mera obbedienza, confermando e riportando a nuova vita l'antico messaggio di amore fra le genti.
Spinoza tiene a chiarire, con cautela mista a ironia, di non rifarsi a quanto detto su Cristo dalle istituzioni religiose (che avrebbero anzi ribaltato il senso dell'annuncio evangelico), ma di fondarsi unicamente su quanto, a tale riguardo, è limpidamente attingibile dalle Scritture:

« è necessario qui avvertire che io non parlo affatto dei principi stabiliti intorno al Cristo da certe chiese, né che li rigetto, perché confesso volentieri di non capirne niente; tutto ciò che ora affermai, lo traggo unicamente dalla Scrittura.[88] »

Se Spinoza non si rifaceva ai dogmi ecclesiastici, né — come abbiamo visto — dava credito a miracoli e profezie, egli però esaltava Cristo come "bocca di Dio" semplicemente sulla base della eccezionale conoscenza razionale ammirabile negli insegnamenti morali che, nelle pagine dei quattro vangeli, sono a Cristo attribuiti: insegnamenti morali di benevolenza e fratellanza affini a quelli che troveremo nell'Etica, e affini anche a quelli che già abbiamo trovato rispecchiati nell'esistenza di Spinoza.
La stessa resurrezione di Cristo — considerata dai fedeli più ortodossi come un dogma senza il quale il cristianesimo non avrebbe neppure senso — viene colta da Spinoza nel suo significato spirituale e non materiale. Cristo non è risorto fisicamente (pure questa credenza sarebbe una superstizione miracolistica) ma è il suo messaggio di amore che, trasmettendosi all'umanità, è spiritualmente risorto:

« Ne ricavo pertanto che la resurrezione di Cristo dai morti fu in realtà spirituale e che fu manifestata ai soli suoi seguaci, secondo la loro capacità di comprensione. In altri termini, Cristo ebbe in dono l'eternità e risorse dai morti [...] in quanto diede un esempio di eccezionale santità con la sua vita e con la sua morte. E Cristo fa resuscitare dai morti i suoi discepoli in quanto essi prendono a modello il suo vivere e il suo morire.[90] »

Considerando questa spinoziana rivalutazione filosofica della figura di Cristo, Martinetti individua nel Trattato teologico-politico una strada di riconciliazione tra religione e filosofia, consistente nel proporre una religione razionale che — reputando irreligiosa l'adesione a qualsiasi precetto che la ragione ritenga falso — qualifichi come unico vero male l'ignoranza spirituale e come solo vero bene la perfezione dell'intelletto, una perfezione che coincide con l'adesione razionale a quegli stessi precetti di amore e di libertà inconsapevolmente oggetto dalla fede e finalmente rischiarati dalla luce della filosofia:[91]

« Qual è il contenuto essenziale della religione filosofica? Essa è la conoscenza di Dio e delle sue leggi eterne: la nostra massima perfezione e il nostro bene supremo stanno nella conoscenza e nell'amore intellettuale di Dio. [...] Finché l'uomo non ha una conoscenza intellettiva di Dio, egli apprende le sue volontà come precetti; ma quando ne ha penetrato la natura, l'obbedienza fa posto all'amore che nasce dalla conoscenza vera così necessariamente come la luce nasce dal sole.[92] »

Dio, una volta colto intellettualmente, viene amato per se stesso, non più per speranza o timore, ma solo per il godimento della sua conoscenza, la mancanza della quale è l'unica vera infelicità e l'unico vero castigo. Nell'amore per Dio, e nella beatitudine che ne deriva, consiste l'autentica libertà.[93]
Spinoza appare così, agli occhi di Martinetti, un "mistico della ragione"[80], il cui pensiero è accostabile, per tragitto di ricerca, a quello di altri grandi spiriti dell'umanità che, come Lev Tolstoj e Albert Schweitzer, seppero far rinascere la religione nel grembo della ragione. Per inciso, si noti come la personale visione filosofica di Martinetti — tendente all'ideale di una "chiesa invisibile" in cui si compendiassero i valori moralmente più elevati di tutte le culture religiose, dando vita a una società universale fraternamente unita — mirasse a quello stesso sogno di pace a cui tendeva Spinoza; e le vicende personali della vita di Martinetti — dalla perdita della cattedra sotto il regime fascista alla condanna dei suoi scritti operata dal clero cattolico — non mancarono di testimoniare un cammino esistenziale affine a quello di Spinoza.

Il pregiudizio dei fini e la norma delle cause

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Il ritratto più celebre di Spinoza (1665 ca.), custodito presso la Herzog August Bibliothek, nella Bassa Sassonia

Alla critica delle superstizioni elaborata nel Trattato teologico-politico, Spinoza fa seguire, nell'Etica, una sistematica critica dei pregiudizi, individuando, nell'appendice alla prima parte dell'opera, un pregiudizio estremamente diffuso e radicato nelle menti, che ne porta con sé molti altri:

« tutti i pregiudizi che passo a indicare dipendono da questo soltanto, che cioè gli uomini comunemente suppongono che tutte le cose naturali, come essi stessi, agiscano per un fine.[94] »

Gli individui, pur essendo consapevoli dei propri desideri, non conoscono le cause che li determinano, sicché nasce in loro l'illusione della libertà:

« gli uomini si ritengono liberi, dato che sono consci delle proprie volizioni e del proprio appetito; mentre le cause, da cui sono disposti ad appetire e volere, poiché ne sono ignari, non se le sognano nemmeno.[94] »

Siccome le azioni che essi compiono sono dettate dai loro desideri, gli uomini fanno tutto in vista dei fini che appetiscono, e in questo si abituano a considerare ogni cosa come un mezzo:

« trovando in sé e fuori di sé non pochi mezzi, che giovano parecchio per conseguire il proprio utile, come per esempio, gli occhi per vedere, i denti per masticare, erbe e animali per cibarsi, sole per illuminare, mare per allevar pesci, eccetera, è avvenuto che considerino tutte le cose naturali come mezzi per il proprio utile.[94] »

Quel che è utile viene perciò considerato buono, così come quel che dà sensazioni visive piacevoli viene considerato bello. Le persone attribuiscono questi parametri alla natura, ma in realtà le qualità del buono o del bello appartengono soltanto alla mente umana, e non agli oggetti della natura. Ad esempio, la mano di una giovane ragazza apparirà bella se osservata a occhio nudo, ma deforme se indagata al microscopio; trattandosi della stessa mano, ciò che fa differenza è la soggettività umana.[95] Gli uomini, senza accorgersene, hanno formato delle nozioni universali per spiegare le qualità che loro stessi attribuivano agli oggetti:

« Dopo essersi persuasi, che tutto ciò che avviene, avviene per loro, gli uomini hanno dovuto giudicare principale in ciascuna cosa, ciò che è più utile a loro stessi, e stimare come le più eccellenti quelle cose da cui venivano affetti con maggior beneficio. Quindi hanno dovuto formare queste nozioni per spiegare le cose naturali, cioè bene, male, ordine, confusione, caldo, freddo, bellezza e deformità.[94] »

Una volta considerate le componenti della natura come mezzi, gli uomini finiscono col chiedersi come mai questo insieme di mezzi sia stato predisposto per loro:

« dovettero concludere che ci fosse qualche o alcuni reggitori della natura, forniti di libertà umana, che si fossero curati di tutto per loro, e avessero fatto tutto per loro uso.[94] »

Nasce così l'idea di un Dio dotato della stessa libertà che gli uomini attribuiscono a se stessi, all'arbitrario intervento del quale essi fanno risalire i vantaggi o gli svantaggi che la natura offre loro, talvolta credendo che i vantaggi siano riservati ai santi, mentre gli svantaggi (terremoti, epidemie etc.) ai peccatori. Difatti, ritenendosi liberi, gli uomini elaborano le nozioni di merito e peccato, supponendo che Dio, avendo facoltà di manipolare la natura, possa basarsi su tali nozioni per colpirli con castighi o rallegrarli con ricompense.

« dato che si ritengono liberi, sono poi sorte queste nozioni, cioè lode e vituperio, peccato e merito.[94] »

Il pregiudizio finalistico genera dunque un ampio e variegato spettro di concetti, col tempo consolidatisi nel pensiero umano, tanto da non essere più messi in discussione, ma che Spinoza sottopone ad aspra critica:

« codesta dottrina del fine rovescia completamente la natura. Considera infatti come effetto ciò che in realtà è causa, e viceversa. Poi rende posteriore ciò che per natura è precedente. Infine, rende imperfettissimo ciò che è supremo e perfettissimo.[94] »

L'Etica, seguendo il metodo geometrico, si impegna a dimostrare come in natura non vi sia nulla di imperfetto, poiché tutto è retto da cause e avviene quindi per necessità. In altre parole, nulla dipende dal caso, perché tutto è inserito in una catena causale.[51] Grazie alle scienze matematiche, possiamo evadere dai pregiudizi comuni, acquisendo la vera conoscenza delle cose, che procede a partire non dai fini ma dalle cause:

« la verità sarebbe rimasta celata in eterno agli uomini, se la matematica, che si interessa non di fini, ma di essenze e proprietà delle figure, non avesse mostrato agli uomini una norma diversa della verità.[94] »

La norma indicata dalla matematica permette di considerare le essenze e le proprietà delle figure senza lasciarsi distrarre da valutazioni finalistiche, ma descrivendo e deducendo solamente quel che risulta dalla natura stessa delle figure.[96] Seguendo tale norma, Spinoza ridefinisce il significato di parole quali Dio, bellezza, libertà, virtù etc., tessendo un nuovo insieme di concetti.

Un'altra idea di libertà

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Spinoza in riflessione, secondo un monumento eretto all'Aja nel 1880

Nella prefazione alla terza parte dell'Etica, Spinoza descrive quel pregiudizio per cui gli uomini, gloriandosi della libera volontà che ingenuamente attribuiscono a se stessi, si credono immuni rispetto alle leggi che governano le cose della natura:

« Sembra che la maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e il modo di vivere degli uomini, non trattino di cose naturali, che seguono le leggi comuni della natura, ma di cose che sono al di fuori della natura. Sembra anzi che concepiscano l'uomo nella natura come uno Stato nello Stato, perché credono che l'uomo turbi, piuttosto che seguire, l'ordine della natura, che abbia una assoluta potenza sulle proprie azioni, e non sia determinato da niente altro che da se medesimo.[97] »

Qui Spinoza fa riferimento non soltanto al volgo, ma anche ad alcuni fra i maggiori filosofi della sua epoca — in primis Cartesio — che, pur ammettendo l'ordine meccanicistico e causalistico della natura, sull'assunto del quale si fondano le scienze sperimentali (Cartesio era infatti, prima ancora che un filosofo, uno scienziato), non intendevano assolutamente rinunciare alla concezione classica del libero arbitrio, tolta la quale sarebbe parsa crollare ogni etica e ogni morale.
Spinoza non ha invece paura di passare sotto indagine le azioni e le passioni umane alla stregua di linee o superfici geometriche, perché ritiene che il compito di uno studioso sia sempre quello di comprendere, e non di detestare:

« attribuiscono la causa dell'impotenza e dell'incostanza umane, non alla comune potenza della natura, bensì a non si sa qual vizio dell'umana natura, che perciò compiangono, deridono, disprezzano, o, quel che avviene più di frequente, detestano; e chi sa pungere l'impotenza della mente umana più eloquentemente e più sottilmente, è ritenuto divino.[97] »

Nella natura — uomo compreso — non c'è nulla che le si possa attribuire a vizio: Spinoza era tanto persuaso della perfezione della natura da non avere remore ad identificarla con Dio, non però quel Dio creato dagli uomini sulla falsa immagine di se stessi — al quale viene attribuita una libera e onnipotente volontà, oggetto di interminabili disquisizioni teologiche — ma un Dio Vivente la cui potenza e la cui vita sono la potenza e la vita stesse della natura, e la cui dimora non risiede in cieli lontani ma dentro il cuore e l'animo dell'uomo.[98] Scriveva Spinoza a Oldenburg, mentre portava a compimento l'Etica:

« Dio è per me, per usare un'espressione tradizionale, la causa immanente, non certo transitiva, di tutte le cose. Tutte le cose, dico, in accordo con Paolo, sono in Dio e si muovono in Dio. E lo affermo forse in accordo con tutti i filosofi antichi, anche se in modo diverso, e oserei anche dire in accordo con tutti gli antichi ebrei, per quanto è lecito congetturare da alcune tradizioni, se pure in molti modi adulterate.[99] »

Spinoza intende riavvicinare Dio all'uomo, e l'uomo alle leggi di natura. Se Martinetti parlava, a proposito di Spinoza, di misticismo della ragione, Giorgio Colli, analogamente, individua nell'Etica un esito che è insieme mistico e razionale:

« Il crepaccio che separa l'individuo dal tutto viene saldato, senza danno né per l'una né per l'altra parte. Attraverso la cosa singola si può giungere intuitivamente alla totalità: la tesi mistica è dimostrata con la ragione.[100] »

Per l'individuo non c'è danno, sottolinea Colli, perché far rientrare l'essere umano nelle leggi di natura non significa abolire ogni etica, ma al contrario — come indica il titolo stesso dell'opera spinoziana — fondarne una nuova e rigorosa. Un'etica non più incentrata sulla repressione dei propri appetiti terreni, dove viene intimato di rinunciare a piaceri che potrebbero essere a portata di mano in questo effimero mondo, per evitare castighi eterni in un regno dell'aldilà che nessuno ha mai visto, ma un'etica che — intendendo l'essere umano come parte integrante della natura — ne ricerca la felicità a partire proprio dall'indagine dei suoi affetti e delle sue passioni, per aiutarlo a districarsi nella complessità dei desideri che lo travolgono, onde fargli raggiungere quella felicità e quella serenità dell'animo che sono già tanto difficili da trovare in questa vita.
L'essere umano, quando si trova sviato dal pregiudizio finalistico, crede di scegliere i propri desideri perché non ne conosce le cause, senza accorgersi che, in realtà, egli può essere consapevole dei desideri che avverte, ma non crearli da sé. Del resto, se sviluppasse di questi desideri una adeguata conoscenza, potrebbe imparare a dominarli, acquisendo così una libertà interiore che altrimenti lascia il posto a una schiavitù delle passioni. Il concetto teologico di "libero arbitrio" — inteso come capacità di scegliere il bene e di rifiutare male — viene chiaramente rifiutato dalla filosofia di Spinoza, in quanto essa liquida come pregiudizi sia la credenza nella libera volontà, sia l'oggettività dei concetti di bene e male. Semmai possiamo dire, adottando un'interpretazione martinettiana, che l'unico vero bene è la conoscenza, e che l'unico (illusorio) male è l'ignoranza:

« L'origine del male è nell'illusione, nell'ignoranza fondamentale [...] La liberazione dal male è nella conoscenza, che separa il punto di vista dell'assoluto e dell'eterno (in cui non vi è male, ma solo perfezione) da quello del relativo e dell'apparente (in cui il male è reale).[101] »

L'essere umano distingue tra bene e male perché non ha una conoscenza univoca della realtà, altrimenti conoscerebbe solo il bene e per lui il male non esisterebbe. L'episodio di Adamo ed Eva vuol significare, per Spinoza, che il peccato originale dell'essere umano consiste proprio nell'ignoranza, che gli impedisce di avere una comprensione adeguata della realtà.[102] Commenta Martinetti:

« Comprendendo la realtà noi la trasformiamo; penetrando con l'intelligenza il male, noi lo dissolviamo.[103] »

La libertà consiste quindi nell'avere conoscenza dei propri affetti e nel saperli, di conseguenza, dominare. L'Etica mostra il percorso che può condurre dalla schiavitù delle passioni a una siffatta libertà dell'animo.
Sergio Levi ha notato come il filosofo contemporaneo Donald Davidson, partendo dalla negazione spinoziana della libera volontà, abbia descritto la libertà mentale come "libertà d'agire".[104] La libertà d'agire davidsoniana è un potere causale della mente, perché le condizioni per esercitare un'azione sono sempre interne alla mente dell'agente, e determinate da quella che Davidson definisce "coppia credenza-desiderio": credenze e desideri determinano le condizioni in base alle quali un'azione può essere esercitata.[105] Davidson — citando il passo dell'Etica[106] in cui si distingue tra azioni esercitate necessariamente e passioni subite necessariamente — constata che, per Spinoza, un evento deve essere considerato azione o passione a seconda che le sue cause generanti siano interne o esterne a noi.[107] La libertà spinoziana è quindi definibile, da un punto di vista mentale, come autocomprensione della mente che, pur non potendo attuare una signoria assoluta e volontaristica su se stessa, ha la possibilità di esercitare una signoria della ragione nel gestire la concatenazione di cause che la compongono.
Le parti IV e V dell'Etica vogliono farci emancipare dalla schiavitù degli affetti grazie alla forza dell'intelletto, cioè vogliono renderci consapevoli della struttura dei nostri desideri, affinché possiamo essere capaci di gestirli e la nostra vita diventi così più piacevole. Infatti, chi acquisisce il dominio di sé e della propria esistenza, abbracciando in tal modo la felicità, costui può realmente dirsi libero. Non perché sia al di fuori delle leggi di natura, ma perché vi trova agio come un bambino nel seno della madre: è questa per Spinoza la vera libertà.

Un'altra idea di virtù

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Spinoza è convinto che la ragione non prescriva nulla contro natura, ma che i dettami della ragione indichino anzi all'uomo la via più adeguata per seguire le leggi di natura:

« Dato che la ragione non postula nulla contro natura, essa postula allora che ognuno ami se stesso, che ricerchi il suo utile, il suo vero utile, e appetisca tutto ciò che veramente conduce l'uomo a maggiore perfezione, e che assolutamente ognuno si sforzi, per quanto sta in lui, di conservare il suo essere.[108] »

L'agire secondo ragione — la virtù — non ha perciò a che vedere con il sacrificio di sé, né con la rinuncia ai piaceri della vita. Solo chi detesti il genere umano può immaginare che ne siano virtù le lacrime e le penitenze, come stranamente predicano i fanatici dell'austerità religiosa:

« nessun nume, né un'altra persona, se non invidiosa, prova piacere alla mia impotenza e al mio danno, né può ritenere che siano una nostra virtù le lacrime, i singhiozzi e altre cose simili.[109] »

Spinoza non trova niente di male nel riso e in tutto ciò a cui la gente ricorre per scacciare la malinconia.[110] C'è quindi da credere che egli deplorasse il celebre versetto dell'Ecclesiaste:

« Meglio la mestizia che il riso; perché con la tristezza del volto si migliora il cuor del colpevole.[111] »

Siccome la virtù non può consistere nel volere il proprio danno, essa risiede allora nel perseguire il proprio utile.[112] Quel che bisogna sfatare è l'antico pregiudizio secondo cui perseguire l'utile personale significhi immancabilmente danneggiare gli altri. Al contrario, data la fragilità degli esseri umani, nessuno può pensare di condurre un'esistenza felice senza mantenere, con i suoi simili, continui rapporti reciproci di solidarietà ed aiuto. Ai fini dell'utile di ognuno, la cooperazione sociale è indispensabile:

Allegoria della virtù (ἀρετή) presso la Biblioteca di Celso a Efeso
« All'uomo dunque niente è più utile dell'uomo; gli uomini cioè non possono desiderare niente di più efficace alla loro conservazione di questo: [...] che tutti insieme, per quanto possono, si sforzino di conservare il loro essere, e che tutti insieme desiderino per sé l'utile comune. Da tutto ciò segue che gli uomini che [...] ricercano il proprio utile sotto la guida della ragione, non appetiscono per sé niente che non desiderino gli altri uomini, e che perciò essi sono giusti, fedeli, onesti.[108] »

Non è forse la regola d'oro prescritta dal vangelo, quella stessa in cui si riassumono l'insegnamento della Torah e dei profeti?

« Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti.[113] »

Ma — si badi bene — per Spinoza la regola d'oro non riserva alcun contraccambio nell'aldilà, bensì ha come unico scopo la felicità degli uomini su questa terra.
In primo luogo — lo abbiamo visto — perché senza assistenza reciproca la vita umana è aspra e difficile, quindi dobbiamo tutti cooperare perché si possa confidare l'uno nell'altro, allo scopo di poterne ricavare ciascuno un utile.
In secondo luogo — e questo fattore ha un valore decisamente più incisivo del primo — perché, chi rende la regola d'oro la propria regola di vita, gode, nel momento stesso in cui fa del bene, di una piena beatitudine, venisse anche in seguito tradito o maltrattato dalle persone a cui ha rivolto i suoi favori. La beatitudine gli deriva dalla consapevolezza di star agendo al servizio di Dio, cioè di star perfettamente seguendo le leggi di natura:

« chiaramente si capisce quanto si discostano dalla vera valutazione della virtù quelli, che per la virtù o le migliori azioni, quasi come per una somma servitù, si aspettano di essere gratificati da Dio con i più grandi premi, come se la stessa virtù e il servizio di Dio non fossero la felicità stessa e la più grande libertà.[114] »

In tale libertà, si possiede una felicità che non è soltanto al riparo dai brutti tiri che possono riservarci le persone in cui abbiamo riposto fiducia, ma che è al riparo anche da tutti quegli avvenimenti, legati alle vicende della sorte, che rischiano di colpirci quando meno ce lo aspettiamo. Difatti, nell'ordine della natura, è inevitabile che possano toccare alcuni svantaggi ai singoli, per un maggior vantaggio della natura nel suo complesso.

« gli eventi contrari a ciò che dalla nostra utilità è richiesto, li sopporteremo di buon animo, se siamo consapevoli che [...] noi siamo parte di tutta la natura, di cui seguiamo l'ordine. Se intendiamo ciò chiaramente e distintamente, quella parte di noi che è definita dall'intelligenza, ossia la parte migliore di noi, troverà un pieno compiacimento, e si sforzerà di perseverare in tale compiacimento.[115] »

La virtù ha quindi già in se stessa la sua ricompensa, perché l'ha nel compiacimento. E non è una ricompensa da poco: se ripensiamo alla vita di Spinoza, comprendiamo come egli sia riuscito a sopportare molte avversità proprio grazie a questa segreta sorgente interiore di energia.
In verità, nulla di spiacevole accade all'uomo a causa dell'agire di Dio, ma soltanto a causa delle passioni umane. Il problema della teodicea — tanto caro alla speculazione di Leibniz — cessa così di aver senso agli occhi di Spinoza, facendo posto ad una più pratica riflessione di "antropodicea"[116], mirante a cogliere, attraverso lo studio delle passioni terrene, i motivi per cui gli uomini si rendono infelici e si fanno guerra fra loro. La teoria spinoziana della virtù propone una ricetta per liberare l'animo dai conflitti, e per far sì che gli uomini possano trovarsi finalmente sereni e coesi.

La misericordia dei virtuosi e la falsa virtù degli invidiosi

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Chi vive sotto la guida della ragione, oltre ad essere disponibile e sollecito verso tutti, non prova odio verso nessuno, ma anzi si sforza di ricambiare con l'amore l'odio altrui.[117] Anche qui la radicalità dell'etica di Spinoza appare paragonabile a quella del Gesù del Discorso della montagna:

« Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.[118] »

Come ogni comportamento suggerito dalla ragione, esso non manca di offrire — al di là del compiacimento che lo accompagna — una non disprezzabile dose di utilità pratica, dato che rispondere all'odio con altro odio non fa che aumentare l'odio reciproco, mentre rispondere all'odio con l'amore annulla l'odio che ci era stato mosso contro e lo fa trapassare a sua volta in amore:

« Chi vuole vendicare le offese ricambiando l'odio, vive di certo miseramente. Ma chi si studia invece di vincere l'odio con l'amore, combatte in realtà lieto e sicuro, resiste con la stessa facilità a uno o più uomini, e ha bisogno pochissimo dell'aiuto della fortuna. Quelli che egli vince, cedono lieti, non per difetto, ma per accrescimento di forze.[119] »

Tra parentesi, si noti che questa teoria — che insegna a non distruggere l'avversario, ma a condurlo con la bontà dalla propria parte — è la stessa ch'è alla base del pacifismo del XX secolo. Le storiche parole del Mahatma Gandhi, che istruirono gli indiani ad ottenere un'indipendenza morale prima ancora che politica, esprimono proprio i medesimi concetti, indicando nell'amore la più potente forza redentrice di cui l'umanità possa disporre:

« La bontà diventa energia motrice soltanto quando è praticata in relazione al male. Finché vi limitate a restituire bene per bene, è un mero scambio, ma se restituite bene per male, ecco che diventa una forza che redime. Il male cessa davanti a questa forza, che procede aumentando di volume e peso come una palla di neve, finché non diventa irresistibile.[120] »

E non stupisce che Tolstoj — che, com'è noto, fu per Gandhi un maestro — citi espressamente Spinoza tra i filosofi che più lo influenzarono nell'aderire alla dottrina evangelica dell'amore universale, che — secondo la testimonianza autobiografica del grande narratore russo — aveva risposto con efficacia all'interrogativo esistenziale della sua travagliata vita:

« In quegli stessi termini avevano risposto all'interrogativo della mia vita, più o meno chiaramente, tutti i migliori uomini dell'umanità, sia prima che dopo il Vangelo, a cominciare da Mosè, Isaia, Confucio, e dagli antichi greci, e da Buddha e Socrate, fino a Pascal, Spinoza, Fichte, Feuerbach e anche tutti coloro che, passando spesso inosservati a tutti e non ricevendone gloria alcuna, avevano meditato sul senso della vita e ne avevano parlato con sincerità, pur senza aver mai abbracciato alcuna dottrina religiosa.[121] »

Ritornando a Spinoza, egli si avvide che, se il frutto della virtù è una inesauribile misericordia (la quale rende l'uomo simile al Dio-Padre descritto dal Gesù del Discorso della montagna, un Dio in fondo non lontano dal Dio-Natura descritto da Spinoza nell'Etica), coloro che giacciono nella melma delle passioni sono per contro costantemente soggetti all'invidia, che della misericordia è l'esatto opposto:

Allegoria dell'invidia
(Angelo Bronzino, 1540-1545)
« L'invidia è odio, in quanto modifica l'uomo in maniera tale che egli si rattristi della felicità di un altro, e goda invece dell'altrui male.[122] »

L'invidia genera fra gli uomini uno stuolo di pregiudizi, dovuti al desiderio di ciascun individuo di credersi e apparire superiore agli altri, dal momento che essa cammina sempre di pari passo con la superbia, essendo più facile godere dell'altrui male quando si immagina che la propria fortuna e il proprio prestigio non abbiano eguali:

« il superbo è necessariamente invidioso, e ha massimamente in odio quelli che più sono lodati per virtù [...] e si diletta solo della presenza di coloro che compiacciono al suo animo impotente e lo trasformano da stolto in pazzo.[123] »

È interessante notare che spesso la maggior carica di invidia la si trova proprio tra i moralisti, cioè fra coloro che denigrano i piaceri di cui altri si dilettano, alla luce dei fatti soltanto perché, non potendosene anch'essi dilettare, vogliono per invidia che nessuno al mondo se ne diletti:

« i più desiderosi di gloria[124] sono proprio quelli che più di tutti cianciano sull'abuso di essa e sulla vanità del mondo. Né ciò è solo proprio degli ambiziosi, ma è comune a tutti coloro la cui fortuna è avversa e che sono impotenti d'animo.[125] »

Chi è potente d'animo, cioè vive secondo ragione, modererà la sua condotta adeguandola a quelle azioni che reputa buone e concentrando le proprie riflessioni unicamente su di esse. Provare piacere nel contemplare i vizi altrui è invece caratteristica di quegli animi superbi e invidiosi che, ben lungi dal desiderare onestamente la virtù, non hanno di meglio a cui pensare:

« se qualcuno si accorge di inseguire troppo la gloria, pensi al retto uso di essa [...] ma non all'abuso e alla vanità della gloria [...] infatti con tali pensieri specialmente gli ambiziosi si travagliano massimamente quando disperano di conseguire l'onore a cui ambiscono; e mentre vomitano ira, vogliono apparire saggi.[125] »

Se si ritiene che talune azioni siano contrarie alla virtù, non si ha motivo di invidiare chi le compie, dato che la vera virtù — lo ripetiamo — non ha a che vedere con il sacrifici e le penitenze, ma è anzi ciò con cui definiamo il più alto piacere ottenibile in questa vita. La virtù perciò non implica rinunce, a meno che non siano un male minore per un bene maggiore, caso nel quale non si tratta in verità di rinunce, poiché il male che si dice minore è a conti fatti un bene.[126] Di conseguenza, per Spinoza, chiunque prova invidia — o, in genere, odio e risentimento — verso qualcuno, non dimostra nient'altro che di esserne meno virtuoso.

Il diritto alla gioia

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Sorrow (Van Gogh, litografia, 1882)

Abbiamo visto che, quando ci formiamo un'idea chiara e distinta delle nostre passioni, possiamo dominarle e trasformare il carattere della nostra vita affettiva da passivo in attivo (cioè libero). È quanto ben sintetizza la V parte dell'Etica:

« Un affetto che è passione, cessa di essere passione appena ci formiamo di esso un'idea chiara e distinta. [...] Un affetto è dunque tanto più in nostro potere, e tanto meno ne patisce la mente, quanto più ci è noto.[127] »

Ma occorre tener presente un distinguo operato in precedenza da Spinoza, volto a mettere in guardia da quegli affetti che, per loro natura, non hanno nulla a che spartire con la letizia e col perfezionamento dell'animo:

« Fra tutti gli affetti, che si riferiscono alla mente in quanto agisce, non ce ne sono altri fuori di quelli, che si riferiscono alla letizia o alla cupidità.[128] »

La tristezza — o le altre passioni che si richiamano ad essa — non consistono in altro se non nell'involuzione da una maggiore a una minore perfezione, quindi acquistarne una chiara conoscenza significa semplicemente sradicarle, dato che la conoscenza adeguata risulta incompatibile con la passività.[129] Cristofolini ritiene che sia qui da cogliere, nella sua pienezza, il carattere gioioso della virtù spinoziana:

« Come allora si arriva al saggio controllo delle passioni? La risposta è una sola: per la strada opposta a tutte le concezioni morali imperniate sulla tristezza.[130] »

L'Etica propone un percorso individuale per raggiungere la libertà nella gioia, lontano dalla schiavitù della tristezza, poiché la tristezza non è altro che passività dell'animo e diminuzione della potenza d'agire. Come abbiamo visto, lo stesso percorso era stato indicato, come proposta di rivoluzione sociale, nel Trattato teologico-politico, in cui Spinoza aveva biasimato la repressione delle idee attuata dai governi in nome di una falsa morale incentrata sulla paura e sul soffocamento di ogni libero slancio vitale. Nelle due opere, Spinoza ha come analogo obiettivo polemico le religioni fanatiche e superstiziose, che sostengono un'idea capovolta di virtù, identificando il bene nella tristezza anziché nella letizia:

« Sembra che [...] la superstizione affermi che è bene ciò che arreca tristezza, e invece male ciò che arreca letizia.[131] »

E un popolo educato alla tristezza, come potrà sviluppare in maniera libera e sana la propria personalità? A tale proposito, Cristofolini nota quanto proprio il cuore dell'Etica batta su questo tasto:

« Nel cuore dell'Etica di Spinoza, lo scolio della proposizione 45 della IV parte chiama "torva et tristis superstitio" ogni morale punitiva, del sacrificio e della macerazione insensata, che inibisce i normali piaceri della vita.[132] »

L'etica del sacrificio non è un'etica, ma una superstizione che permette al clero di esercitare il proprio potere politico e la propria crudeltà sfruttando i sensi di colpa del volgo senza che esso se ne accorga, ed anzi facendogli credere di far bene ad attenersi alle severe direttive morali indicategli dai ministri del culto. Come osserverà Bertrand Russell,[133] la nozione stessa di "peccato", attribuito dal clero alle debolezze della moltitudine, può considerarsi una subdola invenzione delle élite religiose per giustificare i soprusi fisici e morali esercitati sul popolo, nel quale vengono proiettati ed instillati i sensi di colpa che dovrebbero essere invece conseguenza dell'agire crudele del clero:

Un busto di Bertrand Russell a Londra
« Intervistatore: Volete dire che l'idea del peccato in molti casi non è altro che una giustificazione della crudeltà?
Russell: In grandissima parte. Cioè, secondo me, soltanto gente crudele può avere inventato l'inferno [...]
Intervistatore: Volete dire che il concetto del peccato in realtà serve soltanto a giustificare lo sfogo degli istinti aggressivi?
Russell: Sì, penso di sì. È l'essenza di quella che si potrebbe chiamare una severa moralità. Serve a permettere di infliggere sofferenze senza provare rimorso.[134] »

La superstizione uccide nelle coscienze l'amore per la vita attraverso lo zelo moralistico di coloro che, da posizioni di egemonia politica, propagano l'odio e l'invidia di cui sono essi stessi vittime inconsapevoli e impotenti, seminando così sempre più germi di violenza e di infelicità in una società che avrebbe invece bisogno di respirare aria fresca a pieni polmoni. Spinoza, contro questo anti-modello di società, rivendica il "diritto alla gioia" a cui ogni essere umano aspira,[135] un diritto altrettanto universale e fondamentale quanto quello alla libertà; un diritto alla gioia che è anche un diritto all'amore, dal momento che l'amore, quello vero, è la gioia per eccellenza.[136]

Una filosofia non della morte ma della vita

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Tutti gli uomini mirano alla virtù, ossia a conservare se stessi e a godere della propria esistenza il più possibile: ciò vale sia per chi vive secondo i dettami della ragione, sia per chi è soggetto alle passioni. La differenza fra i primi e i secondi consiste nell'efficacia con cui riescono a perseguire il proprio scopo: esso viene meglio perseguito dai primi, i quali riescono a mettere armonia tra quella congerie di affetti che è il loro animo umano, ottenendo così una felicità e una serenità stabili. Commenta a questo proposito Pierre François Moreau:

« La ragione persegue lo stesso sforzo delle passioni, cioè lo sforzo dell'individuo per perpetuarsi [...] Ma ciò che l'uomo dominato dalle passioni realizzava male [...] l'uomo ragionevole lo porta a termine con maggior sicurezza.[137] »

E poiché le passioni sono ciò che impedisce di godere pienamente della vita, il gradino più basso a cui un individuo può essere spinto da esse è il suicidio, cioè il desiderare la morte come liberazione da un'esistenza divenuta del tutto ingestibile:

« nessuno respinge gli alimenti o si uccide per necessità della sua natura, ma solo se costretto da cause esterne, il che può avvenire in molti modi; nel senso che qualcuno si uccide costretto da un altro [...] o perché per ordine di un tiranno, come Seneca, sia costretto ad aprirsi le vene, cioè desideri evitare un male maggiore con uno minore.[138] »

Seneca fu costretto a suicidarsi dietro ordine dei centurioni inviati da Nerone, altrimenti sarebbero stati i centurioni stessi a porre termine alla sua vita.[139] Si trattò quindi di una scelta obbligata, anche se, probabilmente, per quelle che erano le sue opinioni, Seneca si sarebbe suicidato per molto meno:

La morte di Seneca
(Joseph-Noël Sylvestre, 1875)
« La vita non va sempre conservata: il bene, infatti, non consiste nel vivere, ma nel vivere bene. Perciò, il saggio vivrà quanto deve, non quanto può. Osserverà dove gli toccherà vivere, con chi, in che modo e che cosa dovrà fare. Egli bada sempre alla qualità della vita, non alla sua lunghezza. Se gli capitano molte avversità che turbano la sua serenità, se ne va: e non soltanto in condizioni di estrema necessità, ma non appena comincia a dubitare del favore della sorte, considera attentamente se sia il caso di farla finita.[140] »

Seneca nelle sue opere scrive spesso riguardo al suicidio, ritenendolo non una eventualità estrema da evitare finché sia possibile, ma quasi un gesto tra i più nobili che possa compiere un essere umano, diffondendosi nelle descrizioni dei suicidi di personaggi famosi e uscendosene ammirato con frasi del tipo:

« È grande l'uomo che non soltanto si è fermamente proposto di morire, ma ha anche trovato il mezzo per farlo.[141] »

La meditazione sul suicidio si inserisce in Seneca in una più ampia riflessione sulla morte. Difatti egli reputa che la morte sia parte integrante di ogni attimo della nostra vita, e che il saggio debba continuamente ricordarsene, al fine di regolare ogni azione della propria esistenza in relazione a tale consapevolezza:

« Moriamo ogni giorno; ogni giorno ci viene sottratta una parte della vita, e quando ancora cresciamo, la vita decresce. Abbiamo perduto l'infanzia, poi la fanciullezza, poi la giovinezza. Tutto il tempo trascorso fino a ieri è perduto; anche la giornata che stiamo vivendo, la dividiamo con la morte.[142] »

La filosofia risulta così una meditazione sulla morte, e il vivere bene una preparazione al morire bene. Seneca non aveva inventato nulla di nuovo, ma riprendeva una concezione già consolidatasi secoli prima con Platone, che, nel Fedone, dipingeva l'esistenza terrena come una lunga sofferenza che il filosofo deve sopportare pazientemente. Platone, a differenza di Seneca, sconsigliava però il suicidio, asserendo che non è cosa santa ammazzarsi di propria mano, poiché è meglio accettare di soffrire finché il "beneficio" della morte giunga per mano della provvidenza "benefattrice":

La morte di Socrate, narrata nel Fedone, secondo il pittore Jacques-Louis David
« per costoro, per i quali è meglio morire, non è cosa santa fare a se stessi questo beneficio, e, invece, devono aspettare e aspettare un altro benefattore.[143] »

Questa platonica filosofia della morte ebbe poi larga fortuna per tutto l'arco del Medioevo grazie all'incontro con la morale cristiana più austera, rimanendo in auge fino all'epoca di Spinoza, il quale, da parte sua, vi si oppone decisamente, scrivendo nell'Etica:

« L'uomo libero non pensa a niente meno che alla morte; e la sua sapienza è meditazione non della morte ma della vita.[144] »

Non c'è per Spinoza pregiudizio più assurdo di chi ritenga la morte un auspicabile beneficio a cui dedicare ogni proprio pensiero, perché nessuna virtù può essere concepita al di fuori del desiderio di mantenere se stessi in vita.[145] E alla domanda socratica:

« Ti pare che sia degno di un filosofo avere cura dei piaceri di questo tipo, vale a dire dei cibi e delle bevande?[146] »

...Spinoza non avrebbe risposto con uno sprezzante no, come fa Simmia nel Fedone, dato che le sue idee al riguardo erano più misurate:

« Dico che è dell'uomo saggio rifocillarsi e ricrearsi con moderato e piacevole cibo e bevanda, come pure con gli odori, con l'amenità delle piante verdeggianti, il bel vestire, la musica, gli esercizi del corpo, gli spettacoli e le altre cose simili, di cui ognuno può usare senza alcun danno per gli altri.[147] »

La prospettiva della morte

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Pur intendendo la filosofia come riflessione sulla vita e non sulla morte, Spinoza non trascurò di trattare nell'Etica anche la morte, specificando di averne una concezione differente — e diremmo più amena — rispetto a quella tradizionale:

« il corpo incontra la morte, quando le sue parti si dispongono in modo da acquistare un diverso rapporto reciproco di moto e di quiete.[148] »

Perciò la morte del corpo non coincide unicamente con il suo tramutarsi in cadavere, ma avviene ogni qual volta il corpo patisce dei mutamenti che ci possano far dire che esso non è più lo stesso.[149] Spinoza, per spiegarsi, accenna alla curiosa vicenda del poeta Góngora y Argote:

« ho sentito raccontare di un certo poeta spagnolo, che era stato colpito da una malattia per la quale, benché si fosse rimesso, rimase tuttavia talmente dimentico della sua vita passata, da non credere che fossero sue le tragedie e i racconti che aveva fatto.[148] »

Così come accade a un bambino che, divenuto adulto, non si riconosca più in quel che era stato un tempo, così ugualmente accade di adulti che ritornino bambini, o che cambino personalità: ogni analoga alterazione cerebrale è un po' come una morte, perché le parti del corpo vedono acquistare tra loro un diverso rapporto.[149]
Se rivolgiamo l'attenzione alla seconda parte dell'Etica, notiamo che Spinoza — pur affermando l'impossibilità di qualsiasi interazione fra l'attributo del pensiero e quello dell'estensione — descrive la mente umana come un'idea del corpo umano e tende a radicare l'attività della mente nella realtà del corpo, cioè tende a porre il grado di attività e di capacità della mente in relazione e in dipendenza rispetto a quello del corpo:[150]

« La mente umana è atta a percepire moltissime cose, e tanto più atta, quanto più numerose sono le maniere, di cui il suo corpo può essere disposto.[151] »

Non per niente, tutto ciò che percepiamo, lo percepiamo attraverso il corpo:

« le idee, che abbiamo dei corpi esterni, indicano più la costituzione del nostro corpo che la natura dei corpi esterni.[151] »

Poiché l'esistenza della mente è legata a quella del corpo, la corruttibilità dell'uno implica la corruttibilità dell'altra. Di conseguenza, una volta cessata l'attività del corpo, la mente non può continuare a immaginare o ricordare alcunché:

« La mente non può immaginare niente, né ricordarsi delle cose passate, se non mentre dura il corpo.[152] »

Eppure, per quanto lontano dalla tradizionale credenza nell'immortalità dell'anima, Spinoza parla di un "qualcosa di eterno" che, relativamente alla mente, perdura anche dopo la morte del corpo:

« La mente umana non può assolutamente essere distrutta col corpo, ma di essa rimane qualcosa che è eterno.[153] »

La consapevolezza dell'eternità della nostra mente non deve certo essere considerata il motivo per comportarsi virtuosamente in vita, perché, come sappiamo, la virtù ha in se stessa la propria ricompensa e va quindi seguita senza pensare al domani:

« Anche se non sapessimo che la nostra mente è eterna, riterremmo tuttavia come le cose più importanti: la pietà, la religione e assolutamente tutto ciò che nella quarta parte abbiamo dimostrato che si riferisce alla fermezza d'animo e alla generosità.[154] »

Spinoza ribadisce che il timore e la speranza sono debolezze dell'animo appartenenti al volgo superstizioso, il quale, fraintendendo la natura del vero bene, è portato a identificarlo col piacere sensibile e, quando obbedisce alle regole di moderazione della religione, lo fa solo perché atterrito dalla minaccia dell'inferno o perché lusingato dalle promesse di ricompense ultraterrene. Del resto, se le persone ignoranti non fossero imbevute di tali credenze, si darebbero all'istante a una pazza sregolatezza e rigetterebbero ogni forma di virtù, proprio come non esiterebbero a fare se venisse realizzata la speranza che essi nutrono di una beatitudine ultraterrena dai tratti licenziosi:

« Ritengono quindi che la pietà e la religione, e in generale tutto ciò che si riferisce alla fortezza d'animo, siano pesi che aspettano di deporre dopo la morte per ricevere la ricompensa della loro schiavitù, cioè della pietà e della religione; né da questa speranza soltanto, ma anche e specialmente dal timore — di essere cioè puniti con orribili supplizi dopo la morte — sono indotti a vivere sotto la prescrizione della legge divina, per quanto lo sopporta la loro meschinità e il loro animo impotente.[155] »

Paradossalmente, da un lato il volgo è spinto dall'ignoranza a ricercare la libertà nella schiavitù delle passioni, e dall'altro a reputare schiavitù la libertà della vera virtù, che non conosce affatto. Chi abbia invece conoscenza del vero bene, non ha bisogno di nutrire timori o speranze verso l'aldilà, ma trova virtù, beatitudine e libertà dalle passioni, nell'aldiquà:

« La beatitudine non è premio alla virtù, ma è la virtù stessa; e noi non godiamo di essa perché reprimiamo le libidini, ma, al contrario, proprio perché godiamo di essa, possiamo frenare le libidini.[156] »

Abbiamo accennato nel primo capitolo alla formazione "umanistica" di Spinoza.[157] Ebbene, la concezione di una virtù che ha in se stessa la propria ricompensa — e che libera dalle inquietudini legate al timore e alla speranza — ricorda le teorie del Trattato sull'immortalità dell'anima di Pietro Pomponazzi:

Pietro Pomponazzi
« Il premio essenziale della virtù è la virtù stessa, che rende l'uomo felice: infatti la natura umana non può ottenere nessun bene più grande della virtù, perché soltanto la virtù rende l'uomo sereno e lontano da ogni turbamento. Nel virtuoso tutto è armonico: non teme niente, non spera niente, è invece costante nella prosperità e nelle avversità.[158] »

Per Pomponazzi, non ci sono prove certe dell'immortalità dell'anima, ma questa credenza è stata instillata dai legislatori nel volgo poiché esso, non essendo in grado di comprendere la natura della vera virtù, commetterebbe ogni delitto se non fosse addomesticato dai sentimenti di timore e di speranza verso l'aldilà:

« gli uomini, non conoscendo l'eccellenza della virtù e la sconcezza del vizio, commetterebbero qualsiasi delitto piuttosto che morire. Perciò sono stati instillati la speranza del premio e il timore della punizione per frenare le smodate passioni degli uomini.[159] »

Ma i filosofi, che trovano godimento nell'esercizio stesso della virtù, non hanno bisogno di credere in favolistiche ricompense o in punizioni ultraterrene. È questo il pensiero, oltre che di Pomponazzi, anche dell'Etica di Spinoza. Ma allora che bisogno aveva Spinoza di introdurre, proprio al termine dell'Etica, una teoria dell'eternità della mente? È uno dei misteri più discussi del pensiero spinoziano. Vediamo quali possono essere state le fonti che hanno ispirato questa piega inaspettata della filosofia di Spinoza.

L'eternità della mente

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Harry Wolfson ha per primo rintracciato le influenze di filosofi ebrei — soprattutto Mosè Maimonide e Levi Ben Gersonide — sul pensiero di Spinoza, specialmente per quanto riguarda la teoria dell'eternità della mente. Tale teoria, per Wolfson, dimostrerebbe l'adesione di Spinoza alla tradizionale credenza nell'immortalità individuale dell'anima, la stessa adottata dalla religione rabbinica a cui Spinoza era stato educato da ragazzo.[160] Steven Nadler, aggiornando gli studi di Wolfson, ha operato un'analoga ricostruzione dell'influenza dei filosofi ebrei sul pensiero di Spinoza, giungendo però a una conclusione radicalmente opposta, a partire dal dato (da noi già ripreso nel primo capitolo) che proprio la negazione dell'immortalità dell'anima, da parte di Spinoza, era stato il motivo determinante per la sua scomunica. Secondo Nadler:

« Spinoza in effetti negò, non ci possono essere dubbi su questo, l'immortalità individuale dell'anima. Date le sue idee sulla natura dell'anima e sull'autentica virtù e felicità dell'uomo, Spinoza del resto non poteva far altro, non poteva che negare che l'anima è immortale. E lo fece con forza e convinzione.[161] »

Nadler cita lo storico dell'antichità giudaica Flavio Giuseppe (che Spinoza menziona più volte nel Trattato teologico-politico) secondo il quale nel I secolo d.C. la dottrina dell'immortalità dell'anima fu sostenuta dai farisei, in contrapposizione ai sadducei (che la negavano), finché i primi ebbero la meglio sui secondi e l'immortalità dell'anima divenne una credenza irrinunciabile del rabbinismo.[162] A quanto pare Spinoza (in sintonia con una lettura sine glossa della Torah, a cui erano un tempo rimasti fedeli i sadducei, in contrapposizione alle interpretazioni interessate dei farisei) rifiutò da giovane la credenza nell'immortalità dell'anima, così causando la propria scomunica. Spinoza, riprendendo e radicalizzando Maimonide, sviluppò via via sull'argomento un pensiero alternativo a quello della tradizionale credenza nell'immortalità dell'anima, un pensiero che prese la forma, nell'Etica, della teoria dell'eternità della mente. L'eternità della mente, infatti, non è l'immortalità dell'anima. Ricostruiamo ora meglio questo percorso.
Maimonide (la cui Guida dei perplessi apparteneva alla biblioteca di Spinoza)[163] fu uno dei maggiori interpreti medievali di Alfarabi e di Averroé, adeguandone le teorie al pensiero talmudico.[164] Averroè, commentando il De anima di Aristotele, elaborò una concezione dell'intelletto che, attraverso Maimonide, giunse fino a Spinoza; possiamo così supporre che idee come queste abbiano influenzato la visione dell'Etica (specie per quanto riguarda la parte V):

Moshe ben Maimon, detto Rambam, noto in Italia come Mosè Maimonide
« L'uomo [...] è assimilato a Dio in quanto è tutti gli enti in qualche modo e in qualche modo li conosce [...] Quanto mirabile è questo ordine, quanto straordinario è questo modo dell'essere! [...] L'intendere le cose astratte accade per congiunzione di questo stesso intelletto con noi.[165] »

Secondo Augusto Illuminati, Spinoza può a buon diritto essere considerato "l'unico erede legittimo" di Averroé, data l'analogia fra l'unità dell'intelletto potenziale averroista e l'unicità della sostanza spinoziana. E il fatto che Spinoza non citi mai Avveroé nei propri scritti appare a Illuminati "inspiegabile".
Maimonide, nel suo commento alla Mishnah, distingue sulla scia di Averroé due componenti all'interno dell'anima: neshamah (che cessa di esistere alla morte del corpo) e nefesh o ruach (che prosegue lo svolgimento delle sue attività anche dopo la morte). Per Maimonide esiste una nefesh — cioè una parte intellettiva dell'anima — in ogni essere umano, e ogni nefesh riceve nel mondo a venire la sua ricompensa o il suo castigo. Al di là dell'aspetto retributivo della vita ultraterrena, è interessante in Maimonide la concezione intellettiva di quella parte che, nell'uomo, rimane dopo la morte. Per Maimonide, ciò che rimane sono infatti le conoscenze, o meglio, le conoscenze vere. Chi non abbia acquisito in vita conoscenze vere è destinato a un castigo ultraterreno consistente nell'annullamento, mentre chi ha sviluppato il proprio intelletto potrà ricongiungersi a Dio. Il bene e la parte immortale dell'anima consistono quindi, per Maimonide, nelle conoscenze vere. E sembra che, come in Averroé, l'immortalità dell'anima non sia da concepire in maniera personale e individuale, dato che a sopravvivere — e a riunirsi nell'unico intelletto — sono le conoscenze delle persone e non le persone dotate di conoscenze. Ma Maimonide — forse per opportunismo — ribadì sempre il carattere individuale dell'immortalità da lui intesa, garantendone l'affinità con il pensiero della tradizione rabbinica.[166]
Nell'opera minacciosamente intitolata Le guerre del Signore, Gersonide — prendendo a sua volta opportunisticamente le distanze da Averroé — mostra una concezione dell'anima simile a quella di Maimonide, distinguendo tra intelletto materiale (che muore col corpo) e intelletto acquisito (che permane dopo la morte). Per Gersonide, le conoscenze vere diventano patrimonio dell'intelletto acquisito attraverso l'illuminazione dell'Intelletto Agente. L'intelletto acquisito è la somma delle conoscenze vere raccolte da un individuo durante la propria esistenza, quindi l'immortalità, anche per Gersonide, consiste nella sopravvivenza ultraterrena delle conoscenze vere acquisite in vita. L'espressione "eternità della mente" è utilizzata proprio da Gersonide per riferirsi a questa permanenza delle idee vere dopo la morte del corpo.[167]
Spinoza, leggendo Maimonide e probabilmente anche Gersonide, volle portare alle legittime conseguenze il loro pensiero sulla permanenza extracorporea delle conoscenze vere, ed elaborò una concezione grazie alla quale, consapevolmente o inconsapevolmente, venivano ricondotte a nuova vita le teorie di Averroé. Per Averroé l'intelletto materiale è la manifestazione, in un determinato individuo, dell'Intelletto Agente; la porzione immortale di un individuo non è quindi altro che lo stesso Intelletto Agente, a cui ogni anima si riunisce, dopo la morte, perdendo la sua singolarità in favore dell'unità con l'Intelletto Agente di cui fa parte. L'immortalità non ha quindi carattere individuale, ma concerne unicamente le conoscenze vere — spersonalizzate e ricondotte all'unicità dell'Intelletto — di ogni persona, che così cessa appunto di essere persona riunendosi con l'Uno.[168] Allo stesso modo, l'Etica di Spinoza sostiene la permanenza, dopo la morte, delle conoscenze adeguate (cioè vere):

« L'essenza della mente consiste nella conoscenza; quante più cose dunque la mente conosce col secondo e terzo genere di conoscenza, tanto maggior parte di essa rimane.[169] »

E viene sottolineato come ogni mente, in quanto intende, faccia parte dell'intelletto di Dio:

« la nostra mente, in quanto intende, è un modo del pensare, che è determinato da un altro modo eterno del pensare, e questo di nuovo da un altro, e così all'infinito; in modo che tutti insieme costituiscano l'eterno e infinito intelletto di Dio.[170] »

L'immortalità non concerne dunque gli individui, ma le conoscenze vere ed eterne tesaurizzate dalle menti degli individui, la cui memoria — giova ricordarlo — perisce con la morte del corpo. La teoria spinoziana dell'eternità della mente è perciò ben distante dalla tradizionale credenza religiosa nell'immortalità dell'anima; gli uomini sono consapevoli della prima ma la confondono con la seconda:

« Se consideriamo la comune opinione degli uomini, vedremo che essi in realtà sono consapevoli dell'eternità della loro mente, ma la confondono con la durata e l'attribuiscono all'immaginazione, ossia alla memoria che credono rimanga dopo la morte.[171] »

Spinoza specifica poi che la morte risulterà meno dannosa, per ogni individuo, quanto maggiori saranno le conoscenze vere da lui acquisite:

« la morte è tanto meno dannosa, quanto maggiore è la conoscenza chiara e distinta della mente, e di conseguenza quanto più la mente ama Dio.[172] »

Tralasciando — e anzi rimandando al terzo capitolo — di chiederci se in tale affermazione dell'Etica resti echeggiato qualche rimasuglio del timore e della speranza caratteristici delle dottrine religiose sull'aldilà, desideriamo concludere questo capitolo soffermandoci sulla concezione spinoziana della relazione tra l'amore e Dio.

Dio e l'amore

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Di un concetto — come l'amore — dibattuto e sviscerato per millenni dai sapienti dell'umanità, Spinoza dà una definizione semplicissima:

« l'amore non è niente altro che la letizia accompagnata dall'idea di una causa esterna.[173] »

ove per letizia si intende

« la passione per la quale la mente passa a una maggiore perfezione.[174] »

La definizione spinoziana dell'amore — causticamente commentata da Schopenhauer come rasserenante, esuberante e ingenua[175] — colpisce nella sua semplicità, ricordandoci, per la sua associazione alla letizia, il sentimento d'amore di un San Francesco d'Assisi. Questo amore-letizia appare un affetto tipicamente umano, ma Spinoza lo attribuisce — nella versione di un amore intellettuale, che non è più passività ma potenza dell'intelletto — anche a Dio:

« Dio ama se stesso di infinito amore intellettuale.[172] »

E siccome l'amore intellettuale che la mente umana prova per Dio (quando lo conosce secondo verità) è parte dell'infinito amore con cui Dio ama se stesso,[176] ne consegue che Dio, amando se stesso, ama anche gli uomini:

« Ne segue che Dio, in quanto ama se stesso, ama gli uomini, e quindi che l'amore di Dio per gli uomini e l'amore intellettuale della mente per Dio, sono una sola e medesima cosa.[177] »

Questo circolo d'amore tra Dio e l'essere umano — che per l'uomo rappresenta la salvezza, la beatitudine e la libertà — è quella apoteosi che, come osserva Spinoza, viene dalla Bibbia definita "gloria":

« Si può così chiaramente comprendere in che consiste la nostra salvezza, ossia beatitudine, ossia libertà: vale a dire nell'amore costante ed eterno per Dio, ossia nell'amore di Dio per gli uomini. Questo amore, o beatitudine, nei libri sacri è detto gloria, e non a torto.[178] »
La gloria divina (shekhinah) entra nel tabernacolo, in un'illustrazione del 1908

È la stessa gloria che apparve fra le nubi sulla cima del monte Sinai, assumendo la forma di un fuoco divorante, per infondere nel cuore di Mosè le leggi dei dieci comandamenti;[179] è la stessa gloria di Dio che secondo Isaia riempie tutta la terra;[180] la stessa gloria con cui Dio, secondo il canto dei salmi, non abbandona mai l'uomo ma lo corona d'onore, esaltandolo al di sopra di tutte le altre creature;[181] la stessa gloria di cui Cristo si sentiva partecipe, pregando Dio che tutti gli uomini ne potessero diventare altrettanto partecipi:

« La gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.[182] »

La gloria di cui parla Spinoza rende l'essere umano tanto vicino a Dio da far persino pensare a un tratto personale del Dio spinoziano,[183] ma, anche senza ammettere questo, certo cogliamo nella V parte dell'Etica un elevarsi della ragione verso vette così alte che rompono ormai gli schemi. Come scriverà il teologo svizzero Hans Küng, l'autentico Dio ebraico-cristiano non può ridursi a persona né a qualsiasi altra categoria umana, perché penetra e avvolge tutto l'esistente:

« è un Dio che, come l'onniavvolgente e l'onnipenetrante del processo cosmico, non è certo persona nel senso in cui lo è l'uomo. [...] L'essere di Dio, nella sua totale incommensurabilità che fa saltare tutte le categorie, non è né personale né apersonale, in quanto egli è entrambe le cose contemporaneamente, e quindi — volendo — lo potremmo definire "transpersonale", "sovrapersonale".[184] »

Il Dio di Spinoza è così onnipenetrante da aver fatto parlare ad Hegel di "acosmismo", in antitesi all'accusa di ateismo tradizionalmente rivolta alla filosofia di Spinoza. Semmai, nota Hegel, in Spinoza c'è fin "troppo" Dio:

Ritratto di G.W.F. Hegel
(Jakob Schlesinger, 1831)
« È [...] inesatto chiamare ateo Spinoza soltanto perché non distingue Dio dal mondo. Con altrettanta e più ragione lo spinozismo potrebbe piuttosto definirsi acosmismo, in quanto in esso non il sistema cosmico, l'essenza finita, l'universo, ma soltanto Dio è considerato sostanziale e gli si attribuisce vita perenne. Spinoza afferma che ciò che si chiama mondo non esiste affatto: è soltanto una forma di Dio, non è niente in sé e per sé. L'universo non ha vera realtà: tutto è gettato nell'abisso dell'unica identità. Non c'è quindi nulla nella realtà finita; questa non ha verità alcuna; secondo Spinoza, quello che è è soltanto Dio. E' adunque vero tutto il contrario di quanto si sostiene da coloro che incolpano Spinoza di ateismo: semmai in lui c'è troppo Dio.[185] »

Ma, comunque si intenda il Dio di Spinoza, è nell'amore per questo Dio che Spinoza indica la via che conduce alla beatitudine. Non che questa via sia semplice da percorrere, anzi è estremamente difficoltosa. La conclusione dell'Etica, come a mostrare le ombre, sembra ammettere di aver soltanto intravisto la verità, e che la ricerca non è forse terminata. Ci consola il fatto che, se la verità si presenta difficile e rara da trovare, nella sua eccellenza sta la ricompensa di tante fatiche:

« Se, ora, la via che come ho mostrato conduce a ciò, sembra estremamente difficile, può tuttavia essere trovata. E arduo, in verità, deve essere ciò che tanto raramente si trova. Come infatti potrebbe avvenire, se la salvezza fosse sotto mano e potesse essere ottenuta senza molta fatica, che fosse negletta quasi da tutti? Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare.[186] »
  1. Trattato sull'emendazione dell'intelletto e sulla via per dirigerlo nel modo migliore alla vera conoscenza delle cose, in: Spinoza, Opere, op. cit., p. 25, 1. Per il commento, ci avvaliamo dell'introduzione e delle note di Filippo Mignini presenti in questa edizione. D'ora in avanti TEI.
  2. TEI, 2.
  3. TEI, 3.
  4. Seneca, Lettera 84,11. L'edizione a cui facciamo riferimento è: Lucio Anneo Seneca, Tutte le opere, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2000.
  5. TEI, 4.
  6. TEI, 5.
  7. TEI, 10.
  8. TEI, 9.
  9. TEI, 8.
  10. TEI, 12.
  11. Emilia Giancotti, Studi su Hobbes e Spinoza, Bibliopolis, Napoli 1995, p. 63.
  12. Emilia Giancotti, Studi su Hobbes e Spinoza, op. cit., p. 85
  13. TEI, 14-15.
  14. Cfr. Emilia Giancotti, Studi su Hobbes e Spinoza, op. cit., pp. 127-128.
  15. TEI, 14.
  16. 16,0 16,1 TEI, 15.
  17. Cfr. TEI, 15.
  18. TEI, 16.
  19. Cfr. Augusto Illuminati, Ibn Rushd: unità dell'intelletto e competenza comunicativa, in: Averroé e l'intelletto pubblico, antologia di scritti di Ibn Rushd sull'anima, introduzione e cura di Augusto Illuminati, ManifestoLibri, Roma 1996, pp. 79-81.
  20. Dante Alighieri, Monarchia, I fine par.3 e II inizio par.4. Citato in: Augusto Illuminati, Ibn Rushd: unità dell'intelletto e competenza comunicativa, op. cit., pp. 79-80.
  21. Cfr. TEI, 17.
  22. Cfr. Cartesio, Discorso sul metodo, Mondadori, Milano 1993, parte terza, pp. 25-28.
  23. Marco Ravera, Invito al pensiero di Spinoza, Mursia, Milano 1987, p. 55.
  24. Breve trattato su Dio, l'uomo e il suo bene, in: Spinoza, Opere, op. cit., p. 192, II 26,6. Per il commento, ci avvaliamo dell'introduzione e delle note di Filippo Mignini presenti in questa edizione. D'ora in avanti BT.
  25. Gn 28,12-13.
  26. Cfr. BT II 26,9.
  27. BT II 26,8.
  28. Filippo Mignini, Introduzione al Breve Trattato, in: Spinoza, Opere, op. cit., p. 76.
  29. BT I 2,1.
  30. BT I 2,27
  31. Cfr. BT II, prefazione e cap. 19-20.
  32. Filippo Mignini, Introduzione al Breve Trattato, in: Spinoza, Opere, op. cit., p. 82.
  33. Cfr. Filippo Mignini, Introduzione al Breve Trattato, in: Spinoza, Opere, op. cit., p. 82.
  34. Rudolf Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia: il manifesto della demitizzazione, traduzione di Luciano Tosti e Franco Bianco, Queriniana, Brescia 1970, pp. 106-107.
  35. Rudolf Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia: il manifesto della demitizzazione, op. cit., p. 134.
  36. Cfr. Rosino Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1999, pp. 35-36.
  37. Cfr. Filippo Mignini, Note al Breve Trattato, in: Spinoza, Opere, op. cit., p. 1571.
  38. Cfr. BT II 25,1.
  39. BT II 25,2.
  40. Cfr. BT II 25,3.
  41. BT II 25,4.
  42. Cfr. Lo spirito del signor Benedetto de Spinoza, in Trattato dei tre impostori - La vita e lo spirito del signor Benedetto de Spinoza, a cura di Silvia Berti, prefazione di Richard H.Popkin, Einaudi, Torino 1994, pp. 231-239. D'ora in avanti Lo spirito del signor Benedetto de Spinoza.
  43. Lo spirito del signor Benedetto de Spinoza, XXI,III.
  44. Lo spirito del signor Benedetto de Spinoza, XXI,VII.
  45. 45,0 45,1 Lo spirito del signor Benedetto de Spinoza, XXI,V.
  46. Paolo Cristofolini, Spinoza per tutti, Feltrinelli, Milano 1993, p. 104.
  47. Epistola LI. Seguiamo la traduzione di Filippo Mignini.
  48. 48,0 48,1 Epistola LII.
  49. 49,0 49,1 Epistola LIII.
  50. 50,0 50,1 50,2 50,3 50,4 Epistola LIV.
  51. 51,0 51,1 Cfr. Epistola LVI.
  52. Cfr. Baruch Spinoza, Trattato Teologico-Politico, traduzione e note di Sante Casellato, Fabbri Editori, Milano 2001. D'ora in avanti TTP.
  53. 53,00 53,01 53,02 53,03 53,04 53,05 53,06 53,07 53,08 53,09 TTP, prefazione.
  54. Piero Martinetti, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, in: La religione di Spinoza, quattro saggi, a cura di Amedeo Vigorelli, Edizioni Ghibli, Milano 2002, p. 135.
  55. Contrariamente alla tradizione cristiana, che inserisce la speranza fra le tre virtù teologali, Spinoza ne dà una definizione negativa, così come dà una definizione negativa del timore. Cfr. Etica III, proposizione 18, scolio 2 (L'edizione dell'Etica a cui facciamo riferimento in questo lavoro è : Bento de Spinoza, Etica dimostrata secondo l'ordine geometrico, trad. it. di Sossio Giametta, Bollati Boringhieri, Torino 1992): "La speranza non è niente altro che letizia incostante, sorta dall'immagine di una cosa futura o passata, del cui accadere dubitiamo. Il timore, per contro, è tristezza incostante, sorta del pari, dall'immagine di una cosa dubbia." Del resto, anche San Giovanni avvertiva che il timore non può coniugarsi con una religione di libertà e d'amore: "Nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell'amore" (1Gv 4,18)
  56. 56,0 56,1 Epistola XXX.
  57. Cfr. Epistola XXX.
  58. Cfr. TTP, cap. XX.
  59. Cfr. il paragrafo 8 del primo capitolo di questo lavoro: La coerenza del filosofo.
  60. Cfr. TTP, cap. XII-XIV
  61. TTP, cap. XII.
  62. 62,0 62,1 TTP, cap. XIV.
  63. Cfr. Epistola XXXIII.
  64. Cfr. Fulvio Papi, Un'interpretazione del Trattato teologico-politico, in: Spinoza. L'eresia della pace, Edizioni Ghibli, Milano 2004, pp. 56-57.
  65. Cfr. Epistola XV.
  66. Cfr. Filippo Mignini, Introduzione ai Principi della filosofia di Cartesio, in: Spinoza, Opere, op. cit., pp. 207-210.
  67. Filippo Mignini, Note, in: Spinoza, Opere, op. cit., pp. 1719-1720.
  68. BT, sottotitolo, p. 89.
  69. Cfr. TTP, cap. VI.
  70. 70,0 70,1 70,2 70,3 TTP, cap. VI.
  71. Gs 10,12-13.
  72. Cfr. TTP, cap. II e cap. VI.
  73. Gn 3,8.
  74. TTP, cap. XIII
  75. Dt 13,2-4
  76. Cfr. TTP, cap. VI e cap. XII.
  77. Cfr. Piero Martinetti, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, op. cit., pp. 135-136.
  78. 78,0 78,1 TTP, cap. XV
  79. Cfr. Piero Martinetti, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, op. cit., p. 137.
  80. 80,0 80,1 Cfr. Amedeo Vigorelli, Spinoza mistico della ragione, in: Piero Martinetti, La religione di Spinoza, quattro saggi, a cura di Amedeo Vigorelli, op. cit., pp. 35-36.
  81. Lev Tolstoj, Che cos'è la religione e quale ne è l'essenza? (1901), in: Il bastoncino verde: scritti sul cristianesimo, traduzione di V. Lebedev e G. Gazzeri, Sotto il Monte Servitium, 1998, pp. 98-99.
  82. Cfr. Lev Tolstoj, Che cos'è la religione e quale ne è l'essenza?, op. cit., p. 98.
  83. Mt 23,8-9.
  84. Lev Tolstoj, Che cos'è la religione e quale ne è l'essenza?, op. cit., p. 100.
  85. Cfr. Lev Tolstoj, La distruzione dell'inferno e la sua restaurazione (1902-1903), in: Tolstoj, Tutti i racconti, volume secondo, I Meridiani, Mondadori, Milano 2006, pp. 748-770.
  86. Lev Tolstoj, La distruzione dell'inferno e la sua restaurazione, op. cit., p. 752.
  87. Cfr. Piero Martinetti, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, op. cit., p. 154-155.
  88. 88,0 88,1 88,2 TTP, cap. I
  89. 89,0 89,1 TTP, cap. IV.
  90. Epistola LXXV.
  91. Cfr. Piero Martinetti, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, op. cit., pp. 144; 148-149; 160-161.
  92. Piero Martinetti, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, op. cit., pp. 160-161.
  93. Cfr. Piero Martinetti, Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza, op. cit., pp. 160-161.
  94. 94,0 94,1 94,2 94,3 94,4 94,5 94,6 94,7 Etica I, appendice.
  95. Cfr. Epistola LIV.
  96. Cfr Piero Di Vona, Baruch Spinoza, Etica, Antologia, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. 4.
  97. 97,0 97,1 Etica III, prefazione.
  98. Cfr. Pierre-François Moreau, Spinoza. La ragione pensante. Una guida alla lettura, trad. it. di Antonio A. Santucci, Editori Riuniti, Roma 1998, pp. 37-49.
  99. Epistola LXXIII.
  100. Giorgio Colli, Presentazione, in: Bento de Spinoza, Etica dimostrata secondo l'ordine geometrico, op. cit.
  101. Amedeo Vigorelli, Spinoza mistico della ragione, in: Piero Martinetti, La religione di Spinoza, quattro saggi, a cura di Amedeo Vigorelli, op. cit., p. 29.
  102. Cfr. Etica IV, proposizione 68.
  103. Piero Martinetti, La dottrina della libertà in Spinoza, in: Piero Martinetti, La religione di Spinoza, quattro saggi, op. cit., p. 29.
  104. Cfr. Sergio Levi, Soggetti sottintesi, Guerini Studio, Milano 2001, p. 18.
  105. Cfr. Sergio Levi, Soggetti sottintesi, op. cit., p. 23.
  106. Etica III, proposizione 1.
  107. Cfr. Donald Davidson, La teoria causale degli affetti di Spinoza, in: Sergio Levi, Spinoza e il problema mente-corpo. In appendice saggi di Wartofsky e Davidson, Cuem, Milano 2003, pp. 117-118.
  108. 108,0 108,1 Etica IV, proposizione 18, scolio.
  109. Etica IV, proposizione 45, corollario 2, scolio.
  110. Cfr. Etica IV, proposizione 45, corollario 2, scolio.
  111. Qo 7,4.
  112. Cfr. Etica IV, proposizione 20.
  113. Mt 7,12.
  114. Etica II, proposizione 49, scolio.
  115. Etica IV, capitolo 32.
  116. Cfr. Rosalba Maletta, Eresia filosofica come eresia poetica: Spinoza nell'opera di Celan, in: Spinoza. L'eresia della pace, Edizioni Ghibli, Milano 2004, pp. 134-139.
  117. Cfr. Etica IV, proposizione 46.
  118. Mt 5,43-44.
  119. Etica IV, proposizione 46, scolio.
  120. M.K. Gandhi, Il mio credo, il mio pensiero, traduzione di Lucio Angelini, Newton, Roma 1992, pp. 452-453.
  121. Lev Tolstoj, Il vangelo spiegato ai giovani, a cura di Igor Sibaldi, Ugo Guanda Editore, Parma 1995, pp. 138-139.
  122. Etica III, definizione degli affetti n. 23.
  123. Etica IV, proposizione 57, scolio. Cfr. anche Etica III, proposizione 55, scolio.
  124. Mentre la superbia "consiste nel sentire di sé, per amore di sé, più del giusto" (Etica III, definizione degli affetti n. 28), la gloria è semplicemente "letizia accompagnata dall'idea di qualche nostra azione, che immaginiamo sia dagli altri lodata" (Etica III, definizione degli affetti n. 30), quindi in sé non è contraria alla virtù.
  125. 125,0 125,1 Etica V, proposizione 10, scolio.
  126. Cfr. Etica IV, proposizione 65, corollario.
  127. Etica V, proposizione 3.
  128. Etica III, proposizione 59.
  129. Cfr. Paolo Cristofolini, Spinoza edonista, Edizioni ETS, Pisa 2002, p. 67
  130. Paolo Cristofolini, Spinoza edonista, Edizioni ETS, Pisa 2002, p. 67
  131. Etica IV, appendice, capitolo 31.
  132. Paolo Cristofolini, Spinoza edonista, op. cit., p. 67
  133. È celebre il giudizio di stima tributato da Russell a Spinoza: "Spinoza è il più nobile e il più degno di amore dei grandi filosofi. Se qualcun altro lo ha superato per intelletto, dal punto di vista etico è superiore a tutti.", in: Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, Longanesi, Milano 1967, terzo volume, p. 745.
  134. Bertrand Russell, Russell dice la sua, Longanesi, Milano 1968, pp. 82-83.
  135. Cfr. Paolo Cristofolini, Spinoza edonista, op. cit., p. 68.
  136. Cfr. Paolo Cristofolini, Spinoza edonista, op. cit., pp. 76-77.
  137. Pierre-François Moreau, Spinoza. La ragione pensante. Una guida alla lettura, op. cit., p. 69.
  138. Etica IV, proposizione 20, scolio.
  139. Cfr. Tacito, Annales, XV, 60-65.
  140. Seneca, Lettera 70,4-5.
  141. Seneca, Lettera 70,25.
  142. Seneca, Lettera 24,20.
  143. Platone, Fedone, 62 A. L'edizione a cui facciamo riferimento è: Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2000.
  144. Etica IV, proposizione 67.
  145. Cfr. Etica IV, proposizioni 21 e 22.
  146. Platone, Fedone, 64 E.
  147. Etica IV, proposizione 45, corollario 2, scolio.
  148. 148,0 148,1 Etica IV, proposizione 39, scolio.
  149. 149,0 149,1 Cfr. Etica IV, proposizione 39, scolio.
  150. Cfr. Steven Nadler, L'eresia di Spinoza. L'immortalità e lo spirito ebraico, Einaudi, Torino 2005, pp. 134-135. D'ora in avanti L'eresia di Spinoza.
  151. 151,0 151,1 Etica II, proposizione 14.
  152. Etica II, proposizione 16, corollario 2.
  153. Etica V, proposizione 21.
  154. Etica V, proposizione 41.
  155. Etica V, proposizione 41, scolio.
  156. Etica V, proposizione 42.
  157. Cfr. il paragrafo 12 del primo capitolo di questo lavoro: Una biblioteca all'asta.
  158. Pietro Pomponazzi, Trattato sull'immortalità dell'anima, a cura di V. Perrone Compagni, Olschki, Firenze 1999, pp. 96-97.
  159. Pietro Pomponazzi, Trattato sull'immortalità dell'anima, op. cit., pp. 95-96.
  160. Cfr. Harry Austryn Wolfson, The philosophy of Spinoza: unfolding the latent processes of his reasoning, Cambridge, Massachusetts; London : Harvard university press, 1934, II, pp.310-311.
  161. L'eresia di Spinoza, p. 141.
  162. Cfr. L'eresia di Spinoza, pp. 72-73.
  163. Cfr. Patrizia Pozzi, La biblioteca di Spinoza, op. cit., pp. 152-153.
  164. Cfr. Augusto Illuminati, Ibn Rushd: unità dell'intelletto e competenza comunicativa, op. cit., pp. 43-44.
  165. Averroè, Scritti sull'anima, in: Averroé e l'intelletto pubblico, antologia di scritti di Ibn Rushd sull'anima, op. cit. p. 168.
  166. Cfr. L'eresia di Spinoza, pp. 88-104.
  167. Cfr. L'eresia di Spinoza, pp. 104-115.
  168. Cfr. L'eresia di Spinoza, pp. 115-116
  169. Etica V, proposizione 38, dimostrazione.
  170. Etica V, proposizione 40, scolio.
  171. Etica V, proposizione 34, scolio.
  172. 172,0 172,1 Etica V, proposizione 38, scolio.
  173. Etica III, proposizione 13, scolio
  174. Etica III, proposizione 11, scolio.
  175. Cfr. Arthur Schopenhauer, L'arte di insultare, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2004, p. 128
  176. Cfr. Etica V, proposizione 36. E dato che l'amore della mente umana per Dio è una conseguenza della vera conoscenza di Dio, la mente non può odiare Dio, perché così facendo dimostrerebbe solo di non averne una conoscenza adeguata (cfr. Etica V, proposizione 18).
  177. Etica V, proposizione 36, corollario.
  178. Etica V, proposizione 36, scolio.
  179. Cfr. Es 24,16-17.
  180. Cfr. Is 6,3.
  181. Cfr. Sal 8,6-9.
  182. Gv, 17, 22-23.
  183. Cfr Piero Di Vona, Baruch Spinoza, Etica, Antologia, op. cit., p. 199.
  184. Hans Küng, Perché sono ancora cristiano, traduzione di Roberto Garaventa, Marietti, Genova 1988, p. 27.
  185. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1967, vol. III, 2, p. 137.
  186. Etica V, proposizione 42, scolio.