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Leggere Gesù/Capitolo 1

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Indice del libro

Gesù e Vangelo

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L'argomento di questo Capitolo è l'origine e l'uso primitivo cristiano del sostantivo "vangelo", del verbo "proclamare la buona novella" (o "vangelo" ευ-αγγέλιον "buona notizia") e di una serie di quasi sinonimi. Data la sua importanza nel cristianesimo primitivo e per la teologia cristiana più in generale, la discussione su questo argomento non è stata così ampia come ci si sarebbe potuto aspettare.[1] Su diversi punti chiave le opinioni sono state fortemente divise e non è emerso alcun consenso. Riprenderò alcune delle questioni controverse e spero di far progredire la discussione offrendo diverse nuove considerazioni. In particolare, mi concentrerò sulla funzione del gruppo di parole nell'ambiente religioso e sociale delle prime comunità cristiane.

"Vangelo" nell'uso corrente

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Nel sedicesimo secolo il termine "vangelo" compariva frequentemente nel repertorio linguistico di Erasmo e dei Riformatori. Erasmo faceva spesso riferimento alla "filosofia del vangelo". Nel suo "Prologue to the New Testament" (1525) il traduttore William Tyndale incluse un sagace riassunto di "vangelo":

Euagelio (that we cal gospel) is a greke worde,
and signyfyth good, mery, glad and joyfull tydings,
that maketh a mannes hert glad,
and maketh him synge, daunce and leepe for ioye.[2]

In quel secolo tumultuoso il termine “vangelo” spesso fungeva da termine abbreviato per riferirsi ai Riformatori e alle loro opinioni distintive. Ad esempio, nel 1547 John Hooper annotò in una lettera che, se l'imperatore (Carlo V) fosse stato sconfitto in guerra, il re Enrico VIII avrebbe adottato "il vangelo di Cristo". "Should the gospel [i.e. the German Lutheran princes of the Schmalkdic League] sustain disaster, then he will preserve his ungodly masses".[3] Nella Sezione 8 di questo Capitolo vedremo che nel primo secolo il termine "Vangelo" funzionava in modo simile, come termine abbreviato e come marcatore di identità.

Negli ultimi decenni, il termine "vangelo" è stato requisito con sempre maggiore frequenza da tutti i colori e le sfumature di cristiani. Non molto tempo fa ho scoperto una chiesa in Canada che non si definisce semplicemente "The Full Gospel Church", un'etichetta che conoscevo, ma "The Four Square Gospel Church". Ho notato che a Papa Giovanni Paolo II piaceva la parola "vangelo".[4] Per essere ecumenicamente e teologicamente corretti oggi, "vangelo" deve essere cosparso generosamente in ogni genere di dichiarazioni teologiche ed ecclesiastiche. Anche gli autori di libri cristiani popolari amano includere il termine nei titoli dei loro libri.[5]

Nell'uso cristiano attuale, "vangelo" è un termine abbreviato il cui contenuto è interpretato in modi diversi. Sebbene il termine trasmetta segnali diversi a seconda del contesto, di solito ci sono alcune linee di continuità con l'insistenza dei primi cristiani sul fatto che "il Vangelo" (τò εὐαγγέλιον) è la buona novella di Dio riguardante la vita, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. In netto contrasto, tuttavia, il sostantivo è usato oggi nel linguaggio comune in modo molto diverso. Nel linguaggio "di strada" ha un significato primario: "verità da vangelo/è vangelo!" è un'affermazione su cui ci si può fidare completamente. Un recente articolo su un quotidiano nazionale del Regno Unito sui nuovi sviluppi nelle macchine della verità (poligrafi) riportava questa didascalia: "Do you tell porkies or gospel truth?" Non molto tempo fa il mio idraulico (scozzese) mi ha spiegato un progetto per le modifiche al mio riscaldamento centralizzato, dicendomi: "But don’t take this as gospel truth!"

C'è una curiosa ironia nell'uso attuale di "vangelo" o "verità da vangelo" per riferirsi a un'affermazione su cui ci si può fidare completamente. Nel linguaggio "di strada" odierno la frase è una versione secolarizzata dell'uso che Paolo fa della frase "la verità del vangelo" in Galati 2:5,14. L'uso attuale è alquanto distante dalla ricca e profonda comprensione teologica della frase da parte di Paolo.[6] C'è ora un divario considerevole tra l'uso cristiano e quello secolare di "vangelo".

L'uso secolare di "vangelo" sta gradualmente diventando più comune. Se ciò dovesse continuare, in alcuni paesi l'uso cristiano distintivo del gruppo di parole verrebbe oscurato dall'uso secolare e diventerebbe quindi parte del linguaggio "interno" di gruppi minoritari di cristiani in qualche modo emarginati. "Vangelo" sarebbe quindi un "socioletto", per usare il termine ora preferito dai sociolinguisti.[7] Suggerirò nella Sezione 8 più appresso che il gruppo di parole funzionava esattamente in questo modo nel primo secolo.

Tracciare il percorso

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In questo lungo Capitolo i miei punti principali saranno sviluppati lungo le seguenti linee. Nella prossima Sezione affermerò che, sebbene Gesù abbia usato la frase verbale "proclamare la buona novella di Dio" e sia stato fortemente influenzato nella sua autocomprensione messianica da Isaia 61:1-2, non ha usato il sostantivo "vangelo".

Prenderò poi in considerazione diverse possibili spiegazioni per l'origine della fraseologia evangelica nel primo periodo post-pasquale. La caratteristica più sorprendente del primo uso cristiano è il modo in cui "il Vangelo" divenne rapidamente una frase fatta il cui contenuto poteva essere semplicemente assunto da Paolo e dai suoi collaboratori senza la necessità di ulteriori spiegazioni. Suggerirò che l'uso del sostantivo probabilmente emerse per la prima volta nei circoli cristiani di lingua greca come una radicale "cristianizzazione" sia dell'uso limitato biblico che di quello contemporaneo più esteso. Sebbene non possiamo essere certi dell’origine precisa dei modi distintivi in ​​cui i cristiani usavano tale gruppo di parole, è chiaro che si svilupparono in rivalità con l'uso prominente nella propaganda e nell'ideologia del culto imperiale di questa fraseologia e di una serie di temi associati. Quest'ultimo punto è il più importante. La rivalità tra "il Vangelo unico di Gesù Cristo" e "i vangeli" dei Cesari comprende molto di più dell'uso della frase inclusiva di "vangelo".

Nella Sezione 5 farò riferimento ai modi in cui gli storici antichi compierono notevoli progressi negli ultimi due decenni circa nell'avanzamento della nostra conoscenza del culto imperiale nel primo secolo. Discuterò poi alcune delle più importanti prove letterarie ed epigrafiche.

Nella Sezione 6 suggerirò con cautela che la proclamazione iniziale di Paolo e la sua successiva lettera alle chiese galatee potrebbero essere state ascoltate sullo sfondo dell'onnipresente influenza religiosa e sociale del culto imperiale nelle colonie romane di Antiochia di Pisidia, Iconio e Listra. Farò poi riferimento più brevemente nella Sezione 7 alla possibilità che ciò possa essere stato il caso anche a Tessalonica e Filippi. Nella Sezione 8 verrà presa in considerazione la funzione del gruppo di parole come termine abbreviato e come parte di un primo "socioletto" o dialetto sociale cristiano.

Uno degli sviluppi più sorprendenti nell'uso cristiano primitivo del sostantivo "vangelo" ebbe luogo verso la fine del primo secolo, o all'inizio del secondo. Ai tempi di Paolo, e per almeno un decennio dopo, "vangelo" era usato dai cristiani al singolare per riferirsi esclusivamente alla proclamazione orale. Un secolo dopo (circa 160 EV) Giustino Martire si riferì ai resoconti scritti della vita e dell'insegnamento di Gesù come "vangeli". In un momento precedente, "vangelo orale" divenne "vangelo scritto", e "vangelo" divenne "vangeli". Quando fu usato per la prima volta il sostantivo "vangelo" per riferirsi a uno scritto? Nella Sezione 9 sosterrò che fu l'evangelista Matteo a compiere per primo questo passo epocale, non l'evangelista Marco e non Marcione. Nel Capitolo 2 discuterò dell'emergere del Vangelo quadruplice nel secondo secolo e nel Capitolo 3 del primo uso di "vangeli" da parte di Giustino Martire.

Nelle conclusioni della Sezione 10 farò riferimento a un aspetto della spinosa domanda che ha tormentato gli studiosi del Nuovo Testamento per gli ultimi 200 anni: quanta continuità c'è tra la proclamazione della buona novella da parte del profeta di Nazareth e la proclamazione post-pasquale di Gesù come buona novella di Dio? C'è una certa continuità nell'uso del gruppo di parole "vangelo" e dei termini correlati prima e dopo la Pasqua?

C'è un ulteriore punto preliminare da menzionare prima di procedere oltre. Mi concentrerò principalmente su un gruppo di parole, anche se, a rigor di termini, dovrei discutere l'intero campo semantico di parole e frasi usate nei primi scritti cristiani per riferirsi all'annuncio della buona novella di Dio riguardante Gesù Cristo: ad esempio, "la parola" (ὁ λόγος, τò ῥῆμα), "proclamazione" (τò κήρυγμα), "il messaggio" (ἡ ἀκοή, ad esempio Galati 3:5) e ἡ ἀγγελία (1 Giovanni 1:5),[8] testimonianza (τò μαρτύριον), e "la fede" (ἡ πίστις, Galati 1:23). Di questi termini, ὁ λόγος, "la parola", è il più significativo per i miei scopi attuali. Come vedremo, è usato da Paolo, Marco, Matteo, Luca e dagli autori di Ebrei e Apocalisse quasi come sinonimo di τò εὐαγγέλιον, "il Vangelo".

Uso da parte di Gesù della fraseologia "vangelo"

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La discussione sull'uso che Gesù fa del gruppo di parole in questione deve iniziare con il suo uso nell'Antico Testamento, perché l'importanza della Scrittura per Gesù stesso non può essere mai esagerata. Ci sono solo sei esempi del sostantivo ebraico "Vangelo" (besorah). In due casi (2 Samuele 4:10;18:22) il sostantivo significa "la ricompensa per la buona notizia"; in quattro passaggi si riferisce alla "buona notizia" della liberazione dal nemico (2 Samuele 18:20,25,27; 2 Re 7:9). In tutti e sei i passaggi le connotazioni teologiche o religiose sono del tutto mancanti, e questa è una sorpresa per la maggior parte dei cristiani cresciuti con il termine "vangelo".

In cinque dei brani appena elencati, la Septuaginta rende il sostantivo ebraico besorah come ἡ εὐαγγέλία, una parola non presente nel NT. Il sostantivo τò εὐαγγέλιον, che è così importante nei primi scritti cristiani, si trova solo una volta nella LXX, e poi al plurale in 2 Samuele 4:10.[9] Qui Davide afferma di aver trattenuto e poi ucciso l'uomo che gli aveva detto che Saul era morto e pensava di portare buone notizie (εὐαγγέλιζόμενος). "Ecco come dovevo ricompensarlo per aver portato buone notizie" (ὧ ἔδει με δοῦναι εὐαγγέλία). Il plurale (τὰ εὐαγγέλία) non si trova affatto nel NT. Quindi, piuttosto inaspettatamente, né il testo ebraico né la LXX sono fonte diretta dell'uso del sostantivo τò εὐαγγέλιον nel NT.

Con le forme verbali, tuttavia, le cose sono molto diverse. Si trovano in numerosi passi dell'AT con il senso generale di "annunciare", e in alcuni sono accompagnate da una chiara nota teologica. In Salmi 40:10 e 68:11 la buona novella proclamata riguarda un atto di YHWH. In Deutero-Isaia 40:9;52:7;60:6;61:1 e nel correlato Salmi 96:2-3 (Salmi 95:2-3 LXX) c'è una forte nota escatologica e universale: la vittoria e il governo regale di YHWH sono proclamati come buona novella dal Suo messaggero-profeta.[10]

Questi brani costituiscono lo sfondo di numerosi passaggi del NT, e in particolare di diverse tradizioni di Gesù. Non dobbiamo dubitare che Gesù vedesse le sue parole e azioni come adempimento dei versetti iniziali di Isaia 61. "Mi ha mandato ad annunciare la buona novella agli umili — cioè ad annunciare il vangelo agli umili ... a consolare tutti gli afflitti". In effetti, credo che questo passaggio fosse la parte più importante della Scrittura per l'autocomprensione di Gesù: non Isaia 53 con i suoi riferimenti al cosiddetto servo sofferente, ma Isaia 61.[11]

L'evangelista Luca certamente adottò questa visione. Apre il suo resoconto del ministero di Gesù con quella scena drammatica ambientata nella sinagoga di Nazareth. Gesù si alza e legge la lezione, e gli viene consegnato il rotolo del profeta Isaia. Apre il rotolo e legge:

Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l'unzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri una buona novella, (εὐαγγελίζεσθαι πτωχοῖς)
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
e predicare un anno di grazia del Signore.

Poi Gesù arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Luca aggiunge: "Gli occhi di tutti nella sinagoga erano fissi su di lui". Allora Gesù si rivolge agli astanti e dice: "Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi" (Luca 4:16-21).

Ora, nella sua forma attuale questo brano è stato senza dubbio plasmato da Luca come un'apertura drammatica al suo racconto del ministero di Gesù, una scena che è programmatica per i suoi due volumi: molti dei temi distintivi di Luca sono prefigurati in questi versetti. Tuttavia, il nucleo di questo brano risale a Gesù. Menzionerò solo due ragioni per adottare questa visione. In primo luogo, gli altri due brani in cui Gesù si riferisce a Isaia 61 (a cui ci rivolgeremo tra un momento) hanno pretese di storicità ancora più forti; il nucleo di questo brano è coerente con essi. In secondo luogo, nemmeno Luca ne fa un capitale cristologico di questo brano. Spesso si trascura che solo nelle scene che seguono nel capitolo 4 si dice (e poi solo da parte dei demoni) che Gesù è il Santo di Dio (4:34), il Figlio di Dio, il Messia (4:41). Ma nella scena della sinagoga di Nazareth il Gesù di Luca non fa altro che un'affermazione indiretta che lui stesso è il profeta unto inviato da Dio per annunciare la buona novella ai poveri. La reticenza di Gesù nell'affermare di essere lui stesso il contenuto della buona novella (e non semplicemente il suo annunciatore) è in linea con quanto emerge altrove: questo brano non è stato profondamente impregnato di cristologia post-pasquale.

Isaia 61 gioca anche un ruolo importante nella formulazione e nei temi delle Beatitudini iniziali, sia in Matteo che in Luca. "Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio" potrebbe quasi essere parafrasato come "Dio annuncia la buona novella della salvezza ai poveri", perché "beati" (μακάριος) riecheggia l'uso della LXX, dove esprime la felicità che è il risultato della salvezza donata da Dio.[12] L'autenticità delle Beatitudini iniziali e il loro stretto legame con Isaia 61 sono generalmente concordati.[13]

Matteo apre la prima delle sue cinque presentazioni attentamente costruite dell'insegnamento di Gesù con le Beatitudini. In effetti, penso che sia molto probabile che l'evangelista Matteo abbia esteso gli echi di Isaia 61 già presenti nella tradizione che gli è giunta. Quindi nel Vangelo di Matteo, così come nella scena programmatica di Luca nella sinagoga di Nazareth, Isaia 61 è prominente nelle primissime parole pronunciate da Gesù. In modo del tutto indipendente, e penso abbastanza correttamente, entrambi gli evangelisti compresero l'importanza di questo passaggio per Gesù stesso.

Passo ora a un importante passaggio di Q che discuterò più in dettaglio: la risposta di Gesù alla domanda di Giovanni Battista. La formulazione di Matteo 11:2-6 e il brano parallelo in Luca 7:19,22-3 sono quasi identici, così che la tradizione Q sottostante può essere esposta senza difficoltà:

Quando Giovanni udì (in prigione), mandò a dire tramite i suoi discepoli: "Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?".
E Gesù rispose loro: "Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito:
i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano,
i lebbrosi sono purificati, i sordi odono,
i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella.
E beato è chiunque non si scandalizza di me".

Da notare come l'elenco delle azioni di Gesù giunga al culmine con "i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella". Ad eccezione di "i lebbrosi sono purificati", gli elementi nell'elenco sono tutti allusioni a frasi in Isaia 29:18;35:5-6;61:1-2. Se stessimo scrivendo noi quell'elenco, potremmo essere inclini a porre "i morti risuscitano" come conclusione drammatica. Ed è proprio questa la modifica all'ordine delle clausole fatta da alcuni scribi.[14] Ma l'elenco raggiunge il suo culmine con la chiara allusione a Isaia 61:1, "ai poveri è annunciata la buona novella", "i poveri sono evangelizzati". Gesù afferma che sia le sue azioni sia la sua proclamazione della buona novella di Dio sono l'adempimento delle promesse scritturali.

Uno dei frammenti della cosiddetta Apocalisse Messianica scoperto nella grotta 4 di Qumran e noto come 4Q521 fornisce un parallelo significativo e getta nuova luce sull'interpretazione di questo passaggio di Q:[15]

« 1 [for the heav]ens and the earth will listen to his anointed one, 2 [and all] that is in them will not turn away from the precepts of the holy ones. 3 Strengthen yourselves, you who are seeking the Lord, in his service! Blank 4 Will you not in this encounter the Lord, all those who hope in their heart? 5 For the Lord will consider the pious, and call the righteous by name, 6 and his spirit will hover upon the poor, and he will renew the faithful with his strength. 7 For he will honour the pious upon the throne of eternal kingdom, 8 freeing prisoners, giving sight to the blind, straightening out the twis[ted]. 9 And for[e]ver shall I cling to [those who] hope, and in his mercy [...] 10 and the fru[it of ...] . . . not be delayed. 11 And the Lord will perform marvellous acts such as have not existed, just as he sa[id] 12 [for] he will heal the badly wounded and will make the dead live, he will proclaim good news to the poor 13 and [...] . . . [...] he will lead the [...] and enrich the hungry. 14 [...] and all [...] »
(Frag. 2, col. II)

Questo è parte del più grande dei diciassette frammenti dello scritto pubblicato per la prima volta nel 1992.[16] Ancora una volta le frasi di Isaia sono intrecciate insieme. Nella riga 12 troviamo uno stupefacente parallelo con la risposta di Gesù a Giovanni. "He will heal the wounded, give life to the dead and preach good news to the poor". L'ordine è identico: in entrambi i brani la proclamazione della buona novella ai poveri costituisce il culmine dell'elenco delle azioni che Dio deve compiere. In entrambi i brani l'allusione all'adempimento di Isaia 61:1 è inequivocabile.

Questo frammento di 4Q521 si apre con un riferimento quasi certo al Messia, "his anointed one (=il suo unto)". Nei versi che seguono è Dio che si prende cura dei vari gruppi bisognosi e risuscita i morti. Dio di solito non "preach good news"; questo è il compito del Suo araldo, messaggero o profeta.[17] L'araldo o messaggero a cui si fa riferimento è il Messia. Quindi Isaia 61:1 è interpretato messianicamente in questo frammento.

Un ulteriore supporto a questa interpretazione si trova in un altro frammento di Qumran. Nelle righe 15 e 16 di 11Q13 (noto in precedenza come 11Q Melchizedek) Isaia 52:7 è citato per intero. Il "messaggero che annuncia la pace, il messaggero del bene che annuncia la salvezza" è "l'unto dallo spirito" di cui è scritto (Isaia 61:1-2) che proclamerà "conforto agli afflitti". Sebbene questo passaggio sia frammentario e difficile da interpretare in dettaglio, l'araldo della buona novella di Isaia 52:7 è strettamente collegato a Isaia 61:1 ed è identificato come "l’unto", il Messia.[18]

Quindi ora abbiamo una chiara prova che, prima del tempo di Gesù, Isaia 61:1, con il suo riferimento al profeta unto inviato a predicare la buona novella ai poveri, era inteso come riferimento a un profeta messianico. È altamente probabile che, quando Gesù si riferiva alle sue azioni e parole in termini di questo passaggio (e dei passaggi correlati in Deutero-Isaia), stesse facendo un'affermazione messianica indiretta. Non era semplicemente un profeta che proclamava la buona novella di Dio; era lui stesso parte della buona novella.

Ma che dire della storicità della domanda di Giovanni a Gesù e della risposta? Due punti suggeriscono fortemente che questi versetti non sono semplicemente uno sviluppo post-pasquale. Giovanni chiede: "Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?" Gesù non risponde direttamente a questa domanda. Il suo rifiuto di fare affermazioni palesi su se stesso è coerente con molte altre tradizioni di Gesù ed è fuori sintonia con le tendenze post-pasquali.

Gesù lascia i discepoli di Giovanni, e Giovanni stesso, a elaborare la risposta alla loro domanda. Giovanni ha sentito parlare delle azioni e delle parole di Gesù, e chiede del loro significato. Il metodo indagatore e provocatorio di Gesù per incoraggiare i suoi interrogatori a riflettere sulle questioni da soli è tutt'uno con le parabole. Nel caso delle parabole c'è un accordo generale sul fatto che questo metodo indiretto di comunicazione è indubbiamente autentico. Lo stesso vale per questo brano.[19]

Notiamo come finisce: "Beati coloro che non si scandalizzano di me". Quel detto implica chiaramente che c'erano coloro che si scandalizzavano delle azioni e delle parole di Gesù. Sappiamo da fonti sia cristiane che ebraiche che Gesù fu visto durante la sua vita come un falso profeta che sviava Israele, un mago le cui guarigioni ed esorcismi erano il risultato della collaborazione con il principe dei demoni. Quindi questo brano solleva la questione della relazione di Gesù con Dio. Gesù era un profeta messianico che adempiva Isaia 61 e proclamava la buona novella di Dio ai poveri? O era un falso profeta che sviava Israele? La proclamazione della buona novella di Dio da parte di Gesù, il suo evangelismo, se preferiamo, era in competizione e dialogo con una storia alternativa.[20]

Isaia 61 è profondamente radicato nei tre brani a cui ho fatto brevemente riferimento. La proclamazione di buone notizie, di vangelo, da parte di Gesù è in accordo con la Scrittura e ne è il compimento. Se abbiamo orecchie per sentire e occhi per vedere, allora è possibile discernere che Gesù stesso è parte della proclamazione.

Ma Gesù usò un equivalente aramaico del sostantivo "vangelo" (besorah)? Qui ci troviamo di fronte a un enigma. Ho insistito sul fatto che Gesù usò il verbo "annunciare buone notizie", ma quel verbo non è affatto usato da Marco. Marco usa il sostantivo τò εὐαγγέλιον in assoluto, cinque volte sulle labbra di Gesù (1:15;8:35;10:29;13:10;14:9), ma mai il verbo. Il mistero si infittisce quando notiamo che il sostantivo τò εὐαγγέλιον non si trova né nelle tradizioni Q né nei Vangeli di Luca o Giovanni. Lo sconcerto continua quando scopriamo che Matteo omette tre degli usi di Marco di τò εὐαγγέλιον sulle labbra di Gesù (Marco 1:15;8:35;10:29) e amplia gli altri due (cfr. Matteo 24:14;26:13 e Marco 13:10;14:9). In altre parole, la mano redazionale di Matteo ha rimodellato in modo così chiaro e radicale l'uso del sostantivo da parte di Marco che non possiamo esaminare questo vangelo per trovare prove dell’uso che ne fece Gesù stesso.[21] Non ci sono altre prove nei vangeli direttamente rilevanti per la nostra domanda.

Dobbiamo quindi concentrarci sui cinque esempi di τò εὐαγγέλιον sulle labbra di Gesù in Marco. L'evangelista usa il sostantivo in 1:1;1:14 come parte dei commenti che fa quale narratore sul significato della storia che sta sviluppando. In entrambi i casi il sostantivo è qualificato: "il vangelo di Gesù Cristo" (1:1) e "il vangelo di Dio" (1:14). Le altre cinque volte in Marco sono tutte in assoluto, "il vangelo", senza alcuna frase qualificativa.

Questi cinque versetti riflettono l'uso che Gesù fa del sostantivo o la terminologia post-pasquale? La fraseologia di 8:35;10:29 è simile, "per amore mio e per amore del Vangelo". Poiché "per amore del Vangelo" (ἓνεκεν τοῦ εὐαγγελίου) non si trova nei passaggi paralleli di Matteo e Luca, è stato spesso suggerito che in nessuno dei due casi questa frase fosse inclusa nella "prima" edizione di Marco usata dagli evangelisti successivi.[22] Se sia stato così o meno può essere lasciato come una questione aperta, ma la frase è una spiegazione o interpretazione della frase precedente, "per amore mio" (ἓνεκεν ἐμοῦ), usando il vocabolario post-pasquale. Gesù si riferisce a se stesso come al contenuto del "Vangelo" — ma altrove è molto riluttante a riferirsi a se stesso come al contenuto della sua stessa proclamazione. Con riferimento a questi due brani, Willi Marxsen riassume il punto dell'evangelista: "Whoever suffers today [i.e. in Mark’s day] for the gospel’s sake or abandons this world’s goods for the gospel’s sake does so for the sake of the Lord".[23] "For the sake of Jesus Christ" e "for the sake of the gospel" sono quasi sinonimi. Peter Stuhlmacher suggerisce, di certo correttamente, che questi due versetti "point to the self-understanding and sense of mission of early Christian missionaries to the Gentiles other than Paul".[24]

In Marco 13:9 Gesù avverte i suoi seguaci che saranno convocati a comparire davanti a governatori e re "a causa mia" (13:9, ἓνεκεν ἐμοῦ). Il versetto 10 spiega che ciò accadrà quando "il vangelo sarà proclamato a tutte le nazioni", quindi è previsto un contesto post-pasquale. Con una minima alterazione del senso, nel versetto 10 "il vangelo" potrebbe essere sostituito da "Gesù Cristo", e nel versetto 9 "a causa mia" potrebbe essere sostituito da "a causa del vangelo". Quindi 13:10 non si riferisce alla proclamazione del Vangelo da parte di Gesù, ma alla proclamazione post-pasquale di lui come buona novella di Dio.

In Marco 14:9 è di nuovo in vista la proclamazione post-pasquale del Vangelo in tutto il mondo: ovunque il Vangelo sia proclamato "in tutto il mondo", l'atto spontaneo di devozione della donna a Gesù nella casa di Simone il lebbroso a Betania sarà raccontato in ricordo di lei. Quindi in nessuno di questi quattro passaggi (8:35;10:29;13:10;14:9) è chiaramente in vista la proclamazione pre-pasquale della buona novella da parte di Gesù; in tutti e quattro i versetti l'evangelista usa una fraseologia post-pasquale.

L'unico ulteriore uso del sostantivo "vangelo" in Marco sulle labbra di Gesù solleva una serie di problemi. Gesù proclama: "Ravvedetevi e credete al vangelo" (1:15). Nel versetto precedente l'evangelista come narratore afferma che Gesù era venuto in Galilea proclamando "il vangelo di Dio" (τò εὐαγγέλιον τοῦ θεοῦ). Ma nel versetto 15 sulle labbra di Gesù (come negli altri quattro versetti appena discussi), viene usato il termine assoluto: "il vangelo", τò εὐαγγέλιον; non ci sono frasi aggiuntive esplicative. A differenza degli altri passaggi in cui si verifica τò εὐαγγέλιον, non è prevista la proclamazione post-pasquale ai gentili. In questo riassunto della proclamazione di Gesù si possono vedere le increspature dell'uso post-pasquale distintamente cristiano (e in particolare paolino)[25] del sostantivo in assoluto (cioè "il vangelo").

Quel giudizio è stato contestato. Alcuni studiosi richiamano l'attenzione sulla frase insolita, "credete nel vangelo", πιστεύετε ἐν τῷ εὐαγγέλίῳ, e suggeriscono un contesto semitico. Quindi ammettono che potrebbe risalire a Gesù.[26] Tuttavia, sebbene questa frase sia insolita in greco, non è impossibile.[27] Se viene presa come una frase autentica usata da Gesù, allora si trova in uno splendido isolamento, perché non c'è un uso parallelo del sostantivo altrove nelle tradizioni di Gesù. A un'analisi attenta, l'unica parte di Marco 1:15 con forti pretese di autenticità è "il regno di Dio è vicino: ravvedetevi".[28]

Se, come ho sostenuto, l'evangelista ha utilizzato una fraseologia post-pasquale, τò εὐαγγέλιον, nel riassunto della proclamazione di Gesù in 1:15 e negli altri quattro versetti in cui la frase si trova sulle labbra di Gesù (8:35; 10:29; 13:10; 14:9); allora c'è un corollario significativo. Per l'evangelista Marco, "the gospel preached by the church is identical with the gospel preached by Jesus".[29]

Ho sottolineato che Gesù intendeva la sua proclamazione e il suo ruolo come un adempimento di Isaia 61:1-2, con il suo riferimento all'unto che proclama la buona novella di Dio. Ma, poiché il sostantivo "vangelo" non è usato né nell'ebraico né nella LXX in Isaia 61, l'origine di τò εὐαγγέλιον deve essere ricercata altrove. Gesù stesso usa il verbo "proclamare la buona novella", ma non il sostantivo. Le cinque occorrenze sulle labbra di Gesù in Marco sono meglio spiegate come uso post-pasquale.

Primo uso cristiano

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Mi rivolgo ora al periodo post-pasquale, e prima di tutto a Paolo. Il sostantivo "vangelo" è usato sessanta volte nelle lettere paoline, quarantotto volte nelle lettere indiscusse. In poco più della metà di quei passaggi, τò εὐαγγέλιον è usato in modo assoluto, cioè senza alcuna frase esplicativa aggiuntiva come "di Dio" o "di Cristo". Nel corpus paolino e negli scritti cristiani fino a Giustino Martire a metà del secondo secolo, il sostantivo è sempre usato al singolare. La preminenza del sostantivo nei primi scritti cristiani è sorprendente, soprattutto dato il fatto che il sostantivo è usato solo una volta nella LXX in 2 Samuele 4:10 — e poi al plurale, della presunta "buona novella" che si rivelò essere "cattiva novella". Negli scritti noncristiani, nelle iscrizioni e nei papiri di questo periodo, il sostantivo è usato abbastanza frequentemente, ma con solo poche possibili eccezioni che saranno discusse di seguito, solo al plurale.

Il verbo corrispondente è meno prominente nel corpus paolino rispetto al sostantivo; è usato in sedici passaggi nelle lettere indiscusse, e ventuno volte in tutto. In sei dei sedici passaggi sostantivo e verbo sono giustapposti (Romani 10:15-16; 1 Corinzi 9:18;15:1; 2 Corinzi 11:7; Galati 1:6-8;1:11), e in molti altri il contesto rende chiaro che si ha in mente la proclamazione della buona novella di Dio riguardante Cristo. In altre parole, anche quando viene usato il verbo, il senso trasmesso dal sostantivo di solito non è distante.

Le statistiche sono spesso fuorvianti e le statistiche sulle parole non fanno eccezione. Ma nel caso del gruppo fraseologico "vangelo", esse reclamano a gran voce una spiegazione. Qual era l'origine dell'uso cristiano distintivo di questo gruppo di parole? E perché veniva usato così frequentemente nei primi circoli cristiani? Ci sono diverse possibili spiegazioni.

Abbiamo già notato che l'uso iniziale post-pasquale del sostantivo non fu influenzato da Gesù stesso, poiché non sembra che abbia usato un equivalente aramaico. È possibile che alcuni seguaci di Gesù abbiano attinto alla loro conoscenza delle tradizioni ebraiche extra-bibliche in ebraico o aramaico per sviluppare il primo uso cristiano del sostantivo. Di tanto in tanto è stata proposta un'ipotesi in tal senso, ma non ha ottenuto più di un minimo sostegno.[30] Il problema principale riguarda la datazione delle frasi nei targum aramaici o nelle tradizioni rabbiniche che sono rivendicate come sfondo del primo uso cristiano del sostantivo in greco.[31]

Un'altra possibilità è che l'uso tipicamente cristiano del sostantivo sia stato "coniato" sul retro dell'uso post-pasquale del verbo, con le sue radici bibliche nei brani della LXX sopra menzionati. Dato che il verbo è usato in pochi brani della LXX per riferirsi alla proclamazione di buone notizie riguardanti l'azione di YHWH a favore del Suo popolo, a prima vista questa sembra una spiegazione plausibile. Tuttavia, non è del tutto convincente.

I passaggi della LXX che usano il verbo in un ricco senso teologico e che potrebbero essere più facilmente postulati come la fons et origo dell'uso cristiano primitivo del gruppo di parole sono difficili da trovare nelle lettere di Paolo come un ago in un pagliaio. L'unica parziale eccezione è il riferimento di Paolo a Isaia 52:7 in Romani 10:15: "Come sta scritto: Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene!" (τῶν εὐαγγελιζομένων ἀγαθά).[32] Ma l'apostolo non si riferisce a parte di Isaia 52:7 per sottolineare il suo adempimento nella buona notizia riguardante la venuta di Gesù Cristo. L'annuncio di Isaia riguardante la buona notizia della liberazione del Suo popolo da parte di YHWH e della Sua regalità è adattato da Paolo per sottolineare l'ironia che non tutti hanno risposto al Vangelo (Romani 10:16). Quindi Isaia 52:7 non è un candidato valido nella nostra ricerca sull'origine dell’uso cristiano del gruppo fraseologico “vangelo”.

Isaia 61:1-2 è un candidato ancora meno probabile, nonostante il fatto che, come notato sopra, fosse particolarmente importante per l'autocomprensione messianica di Gesù. Infatti, negli scritti esistenti di Paolo questo passaggio non viene affatto menzionato. Quindi, nella nostra ricerca dell'origine dell'uso cristiano del gruppo di parole, dobbiamo guardare altrove e considerare l'uso extra-biblico.

Dove e quando?

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Per proseguire la nostra ricerca sull'origine dell'uso cristiano primitivo del gruppo di parole evangeliche, dobbiamo cercare di avere la massima precisione possibile riguardo alla data e alla posizione geografica di tale sviluppo.

Nelle sue lettere, Paolo dà regolarmente per scontato che i destinatari conoscano a fondo la terminologia del "vangelo" usata da lui e dai suoi collaboratori. In diversi passaggi, egli nota esplicitamente di averla usata nella sua predicazione iniziale. In 1 Tessalonicesi 1:5, Paolo si riferisce al "vangelo" che lui e i suoi collaboratori avevano portato nella città di Tessalonica durante la sua prima visita a quella città. Ci sono riferimenti simili in Galati 1:8-9,11;4:13 alla proclamazione iniziale di Paolo nelle chiese della Galazia come "vangelo". Quindi, molto prima che Paolo scrivesse ai cristiani di Tessalonica e alle chiese galate, l'uso cristiano distintivo del "vangelo" era ben consolidato. Ma quanto prima?

Nella nostra ricerca delle origini dobbiamo dare priorità alle affermazioni di Paolo stesso, e anche prendere sul serio (ma non acriticamente) le informazioni fornite da Luca in Atti.[33] Paolo afferma che la rivelazione da parte di Dio di suo Figlio a lui, cioè "il vangelo", e la chiamata di Dio a proclamare la buona novella (ἵνα εὐαγγελίζωμαι) che lo riguardava tra i gentili ebbe luogo a Damasco o nei suoi pressi (Gal. 1.14-17; vedi anche II Cor. 11.32). Mentre Paolo afferma che il contenuto della proclamazione che era chiamato a pronunciare gli fu rivelato in quell'occasione, ciò non si applica necessariamente al sostantivo, τò εὐαγγέλιον.

Tre anni dopo, in seguito a una visita in Arabia, Paolo salì a Gerusalemme e vide Cefa (Pietro) prima di recarsi nelle regioni della Siria e della Cilicia per una visita prolungata, dove "annunciava buone notizie riguardanti la fede" (εὐαγγελίζεται τὴν πίστιν, Galati 1:21-24). Qui "la fede" è quasi sinonimo di "il vangelo". Quella visita in Siria avrebbe naturalmente incluso Antiochia, e lì, sicuramente, Paolo predicò ai gentili in greco, come anche agli ebrei. Poiché c'è un generale accordo tra gli studiosi sul fatto che la conversione o la chiamata di Paolo ebbe luogo nel 33 EV. circa,[34] la prima visita di Paolo a Gerusalemme ebbe luogo nel 36/7 circa, con una visita ad Antiochia quasi certamente seguita poco dopo.

Luca ci fornisce maggiori dettagli su questo periodo. Nonostante la sua tendenza a essere un po' impressionista in questioni cronologiche, almeno a questo punto non ci sono grossi problemi nel conciliare la cronologia implicita di Luca con quella data dallo stesso Paolo. Se accettiamo il 33 circa come probabile data della conversione di Paolo, è ragionevole supporre che gli ebrei di lingua greca di Gerusalemme "dispersi a causa della persecuzione che ebbe luogo a causa di Stefano" (11:19) abbiano iniziato la loro missione ad Antiochia nel 36 o 37. A quel punto, secondo Luca, iniziarono a parlare anche ai gentili (11:20) e "un gran numero di loro divenne credente". Luca afferma che "annunciarono loro la buona novella del Signore Gesù", usando la forma verbale (εὐαγγελίζόμενοι), non il sostantivo, come è implicito in molte traduzioni moderne. Gli sviluppi drammatici ad Antiochia raggiunsero le orecchie della chiesa di Gerusalemme, così Barnaba fu inviato da Gerusalemme ad Antiochia. Poi andò a Tarso (in Cilicia) e portò Paolo da Tarso ad Antiochia (in Siria). Paolo e Barnaba vissero in comunione con la chiesa di Antiochia per un anno intero (Atti 11:22-26). E che anno fu? Potrebbe essere stato il 39 o il 40 EV, appena prima che Claudio diventasse imperatore in seguito all'assassinio di Gaio. Luca sottolinea l'importanza del periodo trascorso da Paolo e Barnaba ad Antiochia notando che fu lì che i seguaci di Gesù furono chiamati per la prima volta "cristiani" (11:26).[35]

Quindi, sulla base sia delle lettere di Paolo che degli Atti, è ragionevole supporre che fu tra gli ebrei di lingua greca a Gerusalemme, e forse soprattutto ad Antiochia tra il 37 e il 40 EV, che la fraseologia del Vangelo fu usata per la prima volta in un contesto cristiano come “lieta novella” di Dio riguardante Cristo.

Perché questa particolare data e ambientazione geografica potrebbero essere significative? Il culto imperiale ebbe un impatto importante per la prima volta sugli ebrei di questa regione durante il regno di Gaio (Caligola), imperatore dal 37 EV fino al suo assassinio nel 41.[36] Scrivendo poco dopo, il filosofo ebreo Filone ci dice che l'ascesa di Gaio fu accolta calorosamente: in effetti, due volte nel suo De Legatione viene usata la forma verbale εὐαγγελίζεσται (§99 e §231). Gaio è definito "salvatore e benefattore, che avrebbe riversato nuovi flussi di benedizioni sull'Asia e sull'Europa" (ὁ σωτὴρ καί εὐεργέτης ... πηγὰς νέας ἐπομβρήσειν Ἀσίᾳ τε καί Εὐρώπῃ, De Legatione §22).

Ma nel giro di un paio d'anni i rapporti tra l'imperatore e i suoi sudditi ebrei sia ad Alessandria che in tutta la Giudea si inasprirono. Filone e Flavio Giuseppe ci danno spiegazioni diverse per la provocazione di Gaio verso gli ebrei, ma concordano sul fatto che la sua promozione del culto imperiale fosse la questione centrale (Filone, De Legatione §§184-348; Flavio Giuseppe, Ant. xviii.261-309). Gaio fu infatti il ​​primo imperatore romano a sottolineare la propria divinità: fece spedire statue di culto dalla Grecia a Roma, dove le loro teste furono sostituite da modelli suoi.[37] Questo è un chiaro caso di modellare l'imperatore sugli dei. Augusto era stato timido nel fare tali affermazioni di divinità per se stesso, sebbene accettasse prontamente gli "onori divini" a lui attribuiti. In seguito alla “pulizia etnica” degli ebrei ad Alessandria e all'acuirsi della tensione in seguito a un incidente a Jamnia, Gaio tentò avventatamente di far erigere una statua di se stesso nel Tempio di Gerusalemme con le parole: "Gaio, il nuovo Zeus manifestato" (Διὸς ἐπιφανοῦς Νέου, De Legatione §346).

Gaio ordinò al governatore della Siria, Petronio, di preparare l'enorme statua. Petronio, che aveva sede ad Antiochia, era ben consapevole della sensibilità ebraica. Sapeva benissimo che le istruzioni di Gaio avevano portato l'intera Palestina ebraica e la Siria sull'orlo della guerra.[38] Utilizzando astute tattiche dilatorie, Petronio riuscì a scongiurare la minaccia di guerra. È difficile credere che chiunque nell'intera area da Gerusalemme ad Antiochia non fosse pienamente consapevole della crisi politica e religiosa del 39/40 EV. Gaio fu assassinato nel gennaio del 41, prima che la situazione precipitasse.

Si noti quella data. Quando gli ebrei cristiani di lingua greca a Gerusalemme e/o Antiochia iniziarono probabilmente a usare per la prima volta il sostantivo "vangelo" al singolare per riferirsi sia all'atto di proclamazione della lieta novella di Dio riguardante Gesù Cristo sia al suo contenuto, Gaio ordinò che la sua statua fosse eretta nel Tempio di Gerusalemme. Era considerato da molti dei suoi sudditi un "salvatore e benefattore". La sua ascesa al trono era stata salutata come "buona novella" e come l'alba di una nuova era, ma le sue buffonate minarono quell'acclamazione. Quindi, fin da un punto molto precoce, l'uso cristiano del gruppo di parole evangeliche potrebbe aver costituito parte di una controstoria alla storia associata al culto imperiale.[39]

Se così fosse, potrebbe essere significativo che, nelle indiscusse lettere paoline, né "benefattore" né "salvatore" (ad eccezione di Filippesi 3:20) siano usati per Gesù Cristo. I cristiani proclamavano un vangelo rivale con una certa terminologia e temi condivisi con i vangeli imperiali. Ma una linea nella sabbia era stata tracciata in alcuni punti chiave, e l'evitamento di "salvatore" e "benefattore" era uno di questi punti. Come vedremo, un altro era l'insistenza cristiana sul fatto che ci fosse un solo vangelo, la proclamazione una volta per tutte della provvisione di Gesù Cristo da parte di Dio.

Ho offerto quella che spero sia una ricostruzione storica disciplinata e responsabile. Tuttavia, il caso che sto proponendo non regge né cade con i miei suggerimenti riguardanti Gaio e gli anni 39 e 40. Il mio punto principale è che il primo uso cristiano della frase τò εὐαγγέλιον e in effetti del verbo εὐαγγελίζεσται sembra aver avuto luogo tra il 37 e il 40 a Gerusalemme, o forse più probabilmente ad Antiochia. Paolo e i suoi collaboratori potrebbero aver compiuto questo passo da soli, o potrebbe essere stato compiuto da altri seguaci di Gesù di lingua greca. Non possiamo esserne certi.

I paragrafi precedenti hanno aperto la possibilità che i cristiani abbiano preso in prestito la terminologia del "vangelo" dal culto imperiale e l'abbiano riempita di nuovi contenuti. Anche le ulteriori prove nella Sezione che segue suggeriscono questa possibilità, ma comunque non saranno sufficienti a dimostrarlo. Potremmo dover ammettere che una ricerca sull'origine dell'uso cristiano distintivo del gruppo di parole "vangelo" potrebbe non essere in grado di individuarne la causa. Ma è già emerso un punto molto più importante. L'uso cristiano primitivo di questo gruppo di parole sembra essersi sviluppato parallelamente alle affermazioni fatte a nome dell'imperatore romano. Ed è questo indizio che verrà seguito nella Sezione 5.

Il vangelo di Gesù Cristo e i vangeli dei Cesari

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Negli ultimi due decenni circa la nostra conoscenza del culto imperiale è aumentata enormemente. Non si può più negare, come è accaduto in passato, che questo è lo sfondo in cui i cristiani utilizzarono il "gruppo di parole vangelo" nei loro modi distintivi e fecero una serie di altre affermazioni riguardanti Gesù Cristo.[40]

Prima di abbozzare i principali progressi negli studi recenti, sarà utile citare due commenti quasi contemporanei sul culto imperiale. Scrivendo del culto durante il regno di Augusto, lo storico Nicola di Damasco è conciso e diretto:

« Poiché gli uomini si rivolgono a lui in questo modo (come Sebastos)[41] in base alla loro stima del suo onore, lo venerano con templi e sacrifici su isole e continenti, organizzati in città e province, adeguandosi alla grandezza della sua virtù e ricambiando i suoi benefici nei loro confronti. »
(Da F. Jacoby, Die Fragmente der griechischen Historiker (Leiden: Brill, 1923–58), 90 f 125.)

Nel suo lungo ed entusiastico panegirico su Augusto, Filone include questi commenti:

« Questo è colui che non solo sciolse ma spezzò le catene che avevano incatenato e premuto così duramente sul mondo abitabile. Questo è colui che sterminò le guerre... Fu il primo, il più grande e il comune benefattore... L'intero mondo abitabile gli votò non meno degli onori celesti. Questi sono così ben attestati da templi, porte, vestiboli, portici, che ogni città che contiene magnifiche opere nuove e antiche è superata in queste dalla bellezza e dalla grandezza di quelle appropriate a Cesare e in particolare nella nostra Alessandria. »
(Da F. H. Colson, trad. di De Legatione §§146–50 in Filone, LCL, Vol. x.)

Due punti sono particolarmente degni di nota in questi due brani. Augusto è universalmente venerato, perché la sua ascesa al trono ha portato una nuova era di pace. I sacrifici e la costruzione di templi in suo onore sono la risposta appropriata dei suoi sudditi alle sue magnanime beneficenze. Dietro questi commenti c'è la lealtà politica, ma c'è anche una forte nota di devozione religiosa.

Lo studio accademico del culto imperiale ha preso piede nell'ultimo ventennio circa.[42] Le prove provenienti da fonti letterarie, fonti documentarie (iscrizioni e papiri), archeologia e numismatica vengono ora esaminate con rigore critico e con un'attenzione al metodo più attenta di quanto spesso accadeva in passato.[43] Sebbene sarebbe azzardato affermare che esista un consenso accademico, vi sarebbe un notevole sostegno per quanto segue:

(1) Il culto del sovrano, e in particolare dell'imperatore, era un elemento centrale della vita religiosa antica. Lo storico antico di Heidelberg Géza Alföldy va ancora oltre: "Under the Roman Empire, from the time of Augustus to that of Constantine, the cult of the emperor was, according to the patterns of ‘religion’ (not in a Christian sense but in the sense of Roman religion) the most important type of worship".[44] Non è più accettabile affermare che il culto imperiale fosse un'invenzione cristiana,[45] o che fosse semplicemente un'espressione di lealtà politica.[46]
(2) Molti aspetti del culto imperiale possono essere ricondotti ai culti dei sovrani ellenistici, in particolare l'enfasi sull'importanza di ripagare i debiti delle beneficenze. Tuttavia, con Augusto e l'arrivo dell'Impero ci sono dei cambiamenti marcati: "The Augustan decrees make explicit and elaborate comparisons between the actions of the emperor and those of the gods".[47] Nel periodo ellenistico, i culti dei sovrani erano solitamente culti cittadini. Questi continuarono nel periodo romano, ma in aggiunta numerosi culti furono istituiti dalle assemblee provinciali.[48]
(3) Il culto non era riservato all'élite. Vi partecipavano tutte le classi e i gruppi delle città e dei villaggi in tutto l'impero.[49] Tuttavia, le prove provenienti dalle aree rurali sono scarse.[50]
(4) Non vi fu alcun allentamento dell'interesse per il culto sotto i successori di Augusto; continuò (con numerose varianti) fino alla fine del terzo secolo. È un errore supporre che il cristianesimo primitivo non ne abbia sentito l'impatto prima del tempo di Domiziano.[51] Stephen Mitchell non esagera quando insiste sul fatto che il culto pubblico degli imperatori era l'ostacolo che si frapponeva al progresso del cristianesimo, ed era la forza che avrebbe riportato i nuovi seguaci alla conformità con il paganesimo prevalente.[52]
(5) Il culto imperiale, "with its festivals, games, performances, processions and public meals, must have been very attractive".[53] Justin Meggitt nota che il culto sembra essere stato praticato con entusiasmo sia in privato che in pubblico, sebbene il materiale che lo dimostra sia stato generalmente trascurato negli studi fino ad oggi e molto altro lavoro deve ancora essere fatto.[54]
(6) Gli storici ora insistono sul fatto che si dovrebbe prestare molta attenzione alla cronologia e ai possibili cambiamenti e sviluppi, così come all'ambientazione del culto imperiale nei contesti locali. Cercherò di farlo nelle due Sezioni seguenti di questo Capitolo.

Ora discuterò alcuni dei principali esempi dell'uso della fraseologia evangelica (= "gruppo di parole vangelo") nel culto imperiale. Inizierò con le prove letterarie di Filone e Flavio Giuseppe prima di passare alle iscrizioni.

Il filosofo ebreo Filone scrisse all'epoca in cui iniziò l'uso cristiano primitivo. Filone non usa affatto il sostantivo nei suoi ampi scritti, ma il verbo si ritrova undici volte, solitamente in senso non-religioso, "annunciare (buone) notizie".[55] In tre brani, tuttavia, il contesto è particolarmente importante, perché qui si riflettono il linguaggio e l'ideologia del culto imperiale.

In De Legatione §18 la guarigione dalla malattia dell'imperatore Gaio è annunciata come una buona notizia, poiché all'inizio era stato considerato un "salvatore e benefattore" che avrebbe "versato nuovi fiumi di benedizioni sull'Asia e sull'Europa" (§22). Più avanti nello stesso scritto un riferimento alla velocità con cui le buone notizie dovrebbero essere portate fa parte del paragone di Gaio con il dio Hermes (§99). Si dice che un resoconto dell'ascesa di Gaio sia una buona notizia per la quale vennero offerti sacrifici nel Tempio di Gerusalemme (§231–2; cfr. anche §356). Il resoconto polemico e fortemente ironico di Filone sul regno di Gaio fu scritto poco dopo la morte dell'imperatore nel 41 EV, quindi la possibile rilevanza di questi passaggi per il primo uso cristiano del gruppo di parole evangeliche sarà ovvia. Torneremo su questo punto più avanti.

Scrivendo circa tre decenni dopo, lo storico ebreo Flavio Giuseppe usa il verbo una dozzina di volte, di solito con il senso di "annunciare", ma in alcuni brani l'annuncio è di "buone notizie", in particolare notizie di una vittoria. In nessuno di questi passaggi ci sono connotazioni religiose. Tuttavia, per i nostri scopi attuali, i suoi tre usi del sostantivo sono considerevolmente più interessanti.

Flavio Giuseppe registra che alla notizia dell'ascesa al trono del nuovo imperatore Vespasiano (69 EV) "ogni città celebrava la buona novella (ἑώρταζεν εὐαγγέλια) e offriva sacrifici in suo favore" (Guerra iv.618). Una terminologia simile è usata in Guerra iv.656: il popolo di Roma celebrava (ἑώρταζε) con una festa comune l'ascesa al trono di Vespasiano e la caduta di Vitellio; giunto ad Alessandria, Vespasiano fu accolto con questa buona novella (εὐαγγέλια). I toni religiosi sono evidenti. In entrambi i passaggi εὐαγγέλιον è usato al plurale.

Il terzo passaggio è sconcertante. Flavio Giuseppe racconta che alcuni cittadini importanti di Gerusalemme avevano inviato una delegazione al procuratore Floro, esortandolo a portare truppe nella città in difficoltà. "Per Floro la notizia fu una meravigliosa manna dal cielo [o, preferibilmente, "spaventosa"] (φλώρῳ μεν οὖν δεινὸν εὐαγγέλιον ἦν). Determinato com'era ad avviare la guerra, Floro non diede alcuna risposta agli emissari" (Guerra ii.420). Qui εὐαγγέλιον è inaspettatamente usato al singolare, come avviene senza eccezioni negli scritti del NT, ma senza articolo. Tuttavia, questo brano è molto difficile, se non impossibile, da interpretare; due varianti testuali confermano che anche i primi scribi erano perplessi come noi.[56]

L’insistenza di Gerhard Friedrich sul fatto che "neither in Philo nor in Josephus do we find the same conception of the one who brings glad tidings as in Deutero-Isaiah" è indubbiamente corretta.[57] Tuttavia, il loro uso del nostro gruppo di parole nel contesto del culto imperiale ci indica percorsi che vale la pena seguire ulteriormente, anche se fino a poco tempo fa erano da molti considerati vicoli ciechi.[58]

Le prove letterarie appena discusse in Filone e Flavio Giuseppe sono completate da prove provenienti da un numero crescente di iscrizioni. La più importante è ancora la cosiddetta iscrizione di Priene, i cui primi frammenti furono pubblicati nel 1899. La discussione di Adolf Deissmann su questa iscrizione nel suo Licht vom Osten (1908) portò a un'ondata di interesse per il culto imperiale. Questo libro fu rapidamente tradotto in inglese come Light from the Ancient East (Londra: Hodder and Stoughton, 1910). Rimane un classico, nonostante le scoperte e le discussioni più recenti.

Molto è accaduto dai tempi di Deissmann, anche se poco è filtrato nei lessici e nei manuali standard del Nuovo Testamento. Sono stati scoperti molti altri frammenti di questa iscrizione; ora ne abbiamo tredici in tutto, da cinque città dell'Asia Minore: Priene, Apamea, Maeonia, Eumenia e Dorylaeum.[59] Questa iscrizione era esposta in modo prominente in greco e in latino in molti più di questi cinque luoghi, non solo nelle città più grandi, ma anche in aree meno popolate. Solo il noto Res Gestae Divi Augusti, il catalogo personale dell'imperatore riguardo ai suoi successi per l'intero Impero romano, ebbe un impatto ancora maggiore nel primo secolo EV. Copie del Res Gestae in latino (e spesso con una traduzione o parafrasi greca) furono erette su blocchi di pietra nelle città e nei paesi dell'Asia Minore, e probabilmente anche in Galazia su istigazione dell'Assemblea provinciale o koinon nel 19 circa.[60]

Il titolo usuale, "iscrizione di Priene", è in un certo senso un termine improprio. Priene, che si trova a metà strada tra Efeso e Mileto, è il luogo in cui è stata fatta la prima scoperta; i frammenti trovati nelle altre quattro città sono tutti meno consistenti, ma è pura casualità. Quando gli anziani di Efeso viaggiarono per incontrare Paolo a Mileto (Atti 20:15-17), potrebbero aver interrotto il loro viaggio a Priene.

Preferisco riferirmi a questa iscrizione come iscrizione del Calendario, perché intendeva incoraggiare la sostituzione del calendario lunare locale con il computo solare del calendario giuliano, come usato a Roma. Cambiare il calendario era una questione delicata nell'antichità. Una raccomandazione di "fare come fa Roma" doveva essere gestita con tatto. Così intorno al 9 AEV il Proconsole d'Asia, Paolo Fabio Massimo, scrisse una lettera con le sue proposte all'Assemblea provinciale, il koinon responsabile del culto dell'imperatore a livello provinciale. Il suo suggerimento è formulato in modo tale da equivalere virtualmente a una direttiva.[61] L'Assemblea rispose puntualmente con due decreti. Approvava formalmente il cambiamento proposto e insisteva affinché Paolo Fabio Massimo venisse onorato con una corona per aver suggerito che l'imperatore Augusto dovesse essere onorato iniziando il nuovo anno nel giorno del suo compleanno, il 23 settembre. La lettera e i decreti furono incisi più volte su enormi blocchi di pietra, che furono poi eretti in città in tutta l'Asia Minore.

I livelli di alfabetizzazione erano bassi in Asia Minore, quindi solo una piccola percentuale della popolazione sarebbe stata in grado di leggere la lunga iscrizione; ancora meno sarebbero stati in grado di apprezzare i florilegi retorici. Ma la maggior parte delle persone avrebbe avuto un'opinione sul suo messaggio, perché alcune città non caddero nella retorica e non adottarono la proposta di riforma del calendario.[62]

In questa iscrizione il sostantivo εὐαγγέλιον è usato al plurale una volta; c'è quasi certamente un secondo esempio in una riga danneggiata. Il contesto in cui si verifica questo sostantivo è importante. Ecco l'inizio della lettera di Paolo Fabio Massimo:

« (È difficile dire) se il compleanno del nostro divinissimo Cesare Augusto (ἡ τοῦ θειοτάτου Καίσαρος γενέθλιος ἡμέρα) significhi più gioia o beneficio, essendo questa una data che potremmo probabilmente senza timore di contraddizione equiparare all'inizio di tutte le cose (τῆι τῶν πάντων ἀρχῆι) ... egli ripristinò la stabilità, quando tutto stava crollando e cadendo nel disordine, e diede un nuovo aspetto al mondo intero che sarebbe stato felicissimo di accettare la propria rovina se non fosse nato il bene e la comune fortuna di tutti, Cesare Augusto. »
(Versi 4-9)

"Il ripristino della stabilità", "un nuovo aspetto al mondo intero": sembra la propaganda di un addetto stampa a favore dei suoi padroni politici. "L’inizio di tutte le cose" avrebbe fatto suonare campanelli d'allarme per i primi cristiani, perché avevano una comprensione molto diversa di ciò che costituiva "l’inizio di tutte le cose". L'affermazione che Augusto fosse "il divinissimo" avrebbe fatto digrignare i denti a molti cristiani, perché sostenevano che era appropriato attribuire qualità più che umane non ad Augusto, ma a Gesù Cristo.

Ora parte della risposta dell'Assemblea Provinciale:

« Nella sua dimostrazione di sollecitudine e generosità nei nostri confronti, la Provvidenza (πρόνοια), che ordina tutte le nostre vite, ha adornato le nostre vite con il sommo bene, vale a dire Augusto. La Provvidenza ha riempito Augusto di potere divino per il bene dell'umanità, e nella sua beneficenza ha concesso a noi e a coloro che verranno dopo di noi [un Salvatore] che ha fatto cessare la guerra e che metterà tutto [in ordine pacifico]... E Cesare, [quando si manifestò], trascese le aspettative di [tutti coloro che avevano anticipato la buona novella], non solo superando i benefici conferiti dai suoi predecessori, ma non lasciando alcuna aspettativa di superarlo a coloro che sarebbero venuti dopo di lui, con il risultato che il compleanno del nostro dio segnò l'inizio di buone notizie per il mondo a causa sua (ᾖρξεν δὲ τῶι κόσμωι τῶν δι’αὐτον εὐαγγελί[ων ἡ γενέθλιος ἡμ]έρα τοῦ θεοῦ) »
(Versi 34–41[63])

C'è un inconfondibile sentore di escatologia e di soteriologia qui. La venuta del divino Augusto come "buona novella" era stata attesa con ansia. Egli venne come salvatore e benefattore, portando benefici per tutti. Ha portato la pace e continuerà a farlo. Era lui stesso "la buona novella". La ripetizione nella risposta alla lettera originale dell'affermazione che il compleanno di Augusto era "l'inizio di tutte le cose" è particolarmente sorprendente.

L'iscrizione del Calendario non è affatto un esempio isolato dei modi in cui Augusto era considerato. Un decreto lungo ma mal conservato si apre con queste parole: "Poiché l'Imperatore Cesare, figlio di dio, il dio Sebastos ha superato, con i suoi benefici a tutti gli uomini, persino gli dei dell'Olimpo..."[64] È difficile concepire come Augusto avrebbe potuto essere elevato ancora più in alto.

Oltre due secoli dopo, l'ascesa di un nuovo imperatore romano era ancora considerata una "buona notizia". Una lettera su papiro scritta subito dopo il 238 EV inizia così: "Da quando sono venuto a conoscenza della buona notizia della proclamazione a Cesare (di Gaio Giulio Vero Massimo Augusto)..." (ἐπεὶ γν[ώ]στ[ης ἐγενόμην τοῦ] εὐαγγελ[ίο]υ περὶ τοῦ ἀνηγορεῦσθαι Καίσαρα...).[65] Suo padre imperatore è descritto come "signore, carissimo agli dei". Questo unico esempio non cristiano di εὐαγγέλιον su papiro usa il sostantivo al singolare. Tuttavia, la parola chiave è così danneggiata che non possiamo essere completamente certi che si debba leggere al singolare.

Attualmente questo frammento di papiro e la sconcertante frase di Flavio Giuseppe, Guerra ii.420 citata sopra sono rare eccezioni che confermano la regola: negli scritti e nei documenti greco-romani dei due secoli prima e dei tre secoli dopo Cristo, "buona novella" si trova quasi sempre al plurale. Nel piccolo numero di esempi di εὐαγγέλιον al singolare, l'ambientazione "secolare" di "buona novella" è chiara: non c'è traccia di connotazioni religiose.[66] In netto contrasto, negli scritti cristiani fino alla metà del secondo secolo, il sostantivo è sempre usato al singolare. Con la loro scelta del singolare, i cristiani stavano facendo un punto. Nella prossima Sezione di questo Capitolo considereremo quando, dove e perché lo fecero per la prima volta.

Altrettanto importante per i nostri scopi attuali è il contesto in cui il gruppo di parole è spesso utilizzato in scritti noncristiani. Sebbene il sostantivo sia utilizzato al plurale senza alcuna connotazione religiosa,[67] la frequente associazione del gruppo di parole con il culto imperiale è chiara. Esempi tratti dagli scritti di Filone e Flavio Giuseppe del primo secolo sono stati notati sopra. L'uso del sostantivo nell'iscrizione del Calendario è solo la punta di un iceberg. G. H. R. Horsley ha elencato altri nove esempi dell'uso nelle iscrizioni di "buone notizie" al plurale (τὰ εὐαγγέλια). Egli riassume i loro contesti come segue: "The usage of the neuter plural noun is clear: it refers to good news (often emanating from a monarch), such as news of their victories or benefactions; and in particular, the word is employed of the sacrifices celebrated on such an occasion. The occurrences are nearly all Hellenistic in date".[68] Quindi le radici sono persino più profonde del culto imperiale associato ad Augusto e ai suoi successori.

Ora è il momento di affrontare la questione chiave. Abbiamo notato che la fraseologia "vangelo" era molto prominente nei primi scritti cristiani e che l'uso della frase τò εὐαγγέλιον, "il vangelo" in assoluto, è particolarmente distintivo. Il gruppo di parole era usato in contesti non-religiosi, ma molto più sorprendente è il suo uso con connotazioni religiose in relazione al culto imperiale che era quasi onnipresente nei decenni in cui il cristianesimo fiorì per la prima volta. Quindi qual è la relazione tra gli usi del gruppo di parole evangeliche in questi due contesti molto diversi?

La dipendenza dei primi cristiani dal sostantivo al singolare non può essere facilmente spiegata né come uno sviluppo dell'uso scritturale né come influenzato dalle tradizioni di Gesù, e persino con il verbo c'è solo una continuità limitata. Un prestito totale dal culto imperiale è ugualmente poco plausibile, perché, come abbiamo visto, l'uso cristiano del sostantivo "vangelo" al singolare è quasi senza precedenti contemporanei. Sebbene vi siano alcune somiglianze in termini di concetti e ideologia, vi sono anche differenze molto significative.

Nel mondo greco-romano dei tempi di Paolo, le "liete novelle" erano regolarmente associate alla nuova speranza, all'alba di una nuova era, alla "buona novella" portata dalla nascita, dall'ascesa al trono o dal ritorno in salute di un imperatore romano. Quindi poteva esserci più di un insieme di "liete novelle". Per i cristiani, d'altro canto, il Vangelo è l'iniziativa di Dio, la buona novella dell'adempimento da parte di Dio del suo piano e dei suoi propositi per l'umanità: il suo punto focale è Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Al centro della teologia di Paolo c'era la convinzione che nella pienezza dei tempi Dio aveva mandato Suo Figlio per la salvezza, per la redenzione, sia per gli ebrei che per i gentili (Galati 4:4-5). La vita, la morte e la resurrezione di Gesù furono la rivelazione "una volta per tutte" da parte di Dio dell’"unica lieta novella". Per Paolo, la sua proclamazione della "buona novella" non era il "nascita" di Cristo che segnava l’alba della nuova era, come per Augusto, ma la crocifissione e la resurrezione di Cristo. Questa era la buona novella di Dio.

Ho sottolineato lo sfondo su cui sarebbe stata udita la proclamazione del "vangelo" di Paolo. Per Paolo stesso c'era un altro sfondo, la Scrittura. Ce lo dice in modo esplicito: il Vangelo che evangelizzò ai Corinzi (qui accosta il sostantivo e il verbo) era in accordo con le Scritture (1 Corinzi 15:1-5). Paolo insiste sul fatto che sia la morte di Cristo "per i nostri peccati" sia la sua resurrezione dovevano essere comprese su questo sfondo. Chiedere quali passaggi fossero nella mente di Paolo quando scrisse o dettò questi versetti potrebbe essere la domanda sbagliata. Paolo è interessato alla corrispondenza generale dei temi principali del Vangelo con la Scrittura.

Quindi se – e, per le ragioni esposte, si tratta di un “se” molto grande – Paolo, i suoi predecessori e i suoi collaboratori “presero in prestito” un uso corrente consolidato dal culto imperiale onnipresente, lo adattarono radicalmente e lo riempirono di contenuti distintamente cristiani. E, naturalmente, quel contenuto ha profonde radici scritturali. Un insieme di temi religiosi fu scambiato con un altro. La proclamazione cristiana della provvidenza divina in Gesù Cristo risuonò per la prima volta in un mondo familiare con diversi “vangeli” (τὰ εὐαγγέλια). La proclamazione del Vangelo non avvenne isolatamente dalla cultura sociale, politica e religiosa del tempo: fu regolarmente ascoltata sullo sfondo del culto imperiale.

Non credo che possiamo essere certi dell'origine dell'uso cristiano della fraseologia evangelica. Alla fine della Sezione 4 ho notato che una ricerca dell'origine dell'uso cristiano distintivo del "gruppo di parole vangelo" potrebbe non essere in grado di localizzarne le radici. Le ulteriori prove esposte in questa Sezione hanno confermato che la cautela deve essere all'ordine del giorno. Ma ciò che è chiaro è che c'erano "vangeli" rivali.[69]

Cosa avrebbe risuonato nelle orecchie di coloro ai quali Paolo per primo annunciò la buona novella di Dio e di coloro che ascoltarono le sue lettere lette ad alta voce? Non l'uso "non religioso" del sostantivo nella Bibbia greca (e forse nemmeno il ricco uso teologico del verbo nel Deutero-Isaia e nei passaggi correlati), ma l'uso "religioso" del gruppo di parole nel culto imperiale che pervadeva le città in cui il cristianesimo fiorì per la prima volta. Come sempre, Vangelo e cultura sono intrecciati e spesso in qualche modo in contrasto tra loro.

"Vangelo" potrebbe essere stato adattato dal suo uso al plurale nel culto imperiale. Oppure potrebbe essere stato adattato dal suo uso secolare, in cui significava semplicemente "buona novella/buone notizie" senza alcuna connotazione religiosa. Ma in entrambi i casi fu modificato radicalmente, in parte alla luce dell'uso biblico del verbo, e più in particolare sulla base delle prime convinzioni cristiane riguardanti l'atto salvifico di Dio attraverso la morte e la resurrezione di Cristo.

"Vangelo" nelle chiese galatee

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Ora prenderò la lettera di Paolo alle chiese della Galazia come caso-test. La proclamazione missionaria iniziale di Paolo e questa lettera stessa furono ascoltate dai primi destinatari sullo sfondo del culto imperiale? A prima vista, i Galati sembrano essere il territorio meno promettente per una simile indagine. La discussione accademica si è sempre concentrata su un intero insieme di questioni derivanti dalla disputa di Paolo con gli agitatori che Paolo accusava di voler pervertire il Vangelo di Cristo (Galati 1:7). L'ambiente sociale e le credenze religiose pre-conversione dei gentili nelle chiese della Galazia hanno raramente ricevuto un'attenzione sostenuta.

D'altro canto, il gruppo evangelico di parole è particolarmente prominente in questa lettera: insieme, il sostantivo e il verbo sono usati sette volte. Solo in 1 Corinzi [1] il gruppo di parole è ugualmente prominente, e quella lettera è circa tre volte più lunga di Galati. Il gruppo di parole sembra essere stato usato da Paolo nella sua visita iniziale alle chiese della Galazia (1:7-8;4:13).[70] Ed è ragionevole dedurre che gli agitatori usassero anche il sostantivo "vangelo" (1:6-9).

Prima di poter considerare la possibile presenza del culto imperiale nelle vicinanze delle chiese galatee, dobbiamo decidere dove si trovavano. Non sono mancate discussioni accademiche su questa vecchia questione. Circa un decennio fa era comune per gli esegeti di Galati dichiarare la propria preferenza senza preoccuparsi di discutere i meriti della destinazione alternativa.[71] Negli ultimi anni l'intera questione è stata riaperta alla luce di nuove considerazioni offerte dagli studiosi di storia antica. A mio giudizio la tendenza si è decisamente spostata a favore di Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe come ubicazione delle chiese di Galazia, ovvero città lungo la Via Sebaste nella parte meridionale della provincia romana. Antiochia, Iconio e Listra erano colonie romane.[72] Non è una coincidenza che Paolo abbia cercato colonie romane anche a Filippi e Corinto.

Diversi studi molto dettagliati hanno portato a questo consenso emergente. Tra questi, tre pubblicati in tedesco;[73] ciò è in un certo senso sorprendente, poiché in passato gli studi in lingua tedesca hanno generalmente sostenuto la cosiddetta teoria della Galazia settentrionale o etnica/territoriale; si pensava che le chiese galatee si trovassero ad Ancira, Pessinus e Tavium.[74]

Forse la voce più significativa nella recente discussione è stata quella dello storico Stephen Mitchell, la cui impareggiabile conoscenza della storia e della cultura dell'Anatolia è ora esposta in due volumi consistenti. Mitchell è irremovibile: "There is virtually nothing to be said for the north Galatian theory".[75] Per quanto ne so, non c'è stata una recente difesa approfondita della teoria del Galazia settentrionale, e ora una sembra molto improbabile.[76]

Quindi i dettagli geografici e il "colore locale" nel racconto di Luca in Atti 13-14 del cosiddetto primo viaggio missionario di Paolo fuori dalla Siria e dalla Palestina possono essere presi sul serio. Qui Luca sembra aver avuto accesso a una fonte affidabile, anche se bisogna tener conto della sua rielaborazione. Dopo il contatto con il proconsole Sergio Paolo a Cipro (e forse la sua conversione), Paolo e i suoi compagni salparono da Pafos per Perge e poi viaggiarono fino alla colonia romana di Antiochia di Pisidia sulla Via Sebaste (Atti 13:4-14).[77] Perché Paolo non rimase in Panfilia, nella regione di Perge e Attalia, piuttosto che intraprendere l’arduo viaggio attraverso i monti del Tauro fino ad Antiochia di Pisidia?

Forse Sergio Paolo (che alla fine divenne console a Roma intorno al 70 EV) convinse Paolo a fare della sua città natale, Antiochia di Pisidia, la sua base interna. Questa teoria ha ottenuto un forte sostegno sulla base del fatto che il proconsole aveva forti legami familiari ad Antiochia.[78] Stephen Mitchell è persino abbastanza audace da affermare che è "an elementary inference" che Sergio Paolo abbia consigliato o incoraggiato Paolo a fare il viaggio nell'entroterra fino ad Antiochia.[79] Se così fosse, allora le prime persone che Paolo avrebbe incontrato nella colonia romana sarebbero state membri dell'élite romana, che avrebbero avuto una buona conoscenza del culto imperiale.[80] Tuttavia, poiché questa teoria si basa su poco più di un'immaginazione disciplinata, abbiamo bisogno di prove concrete della preminenza del culto imperiale ad Antiochia di Pisidia prima di poter contemplare la lettura di Galati su questo sfondo.

Antiochia di Pisidia fu fondata come colonia romana nel 25 AEV, come anche Listra; Iconio seguì poco dopo. Ai tempi di Paolo, Antiochia era la seconda città della provincia della Galazia dopo Ancira. Barbara Levick nota: "Antioch was a model of Rome, not only in its magistracies and priesthoods, its deliberative body of substantial citizens, its vici and its seven hills, but in the admixture of non-Italian elements within its walls". Aggiunge che Antiochia era un esempio di insediamento di veterani romani sovrapposto alla città originale, "the result being a composite society, a bewildering and contradictory variety of cultural and social phenomena, and a sharp cleavage between upper and lower classes".[81] Da Antiochia, Paolo continuò a usare la Via Sebaste in rotta verso le colonie romane di Iconio e Listra, prima di usare un'altra strada, forse a quel tempo sterrata, per Derbe. Ritornò per la stessa via ad Antiochia, da lì a Perge e ad Attalia (Atti 14:6,8,20-26).[82]

Paolo usò Antiochia come sua base; ciò ha senso non appena si guarda alla rete stradale della provincia. Sebbene gli scavi archeologici qui siano stati un po' casuali e siano tutt'altro che completi, ora abbiamo prove chiare che il culto imperiale era una parte importante della vita religiosa della città durante le visite di Paolo. Proprio al centro del sito sorgeva un grande tempio collegato a un'area semicircolare scavata nella roccia. Sebbene l'attribuzione del tempio sia stata dibattuta sin dagli scavi di W. M. Ramsay tra il 1912 e il 1914, ora c'è un accordo generale sul fatto che si tratti di un tempio imperiale dell'epoca di Augusto o, al più tardi, di Tiberio. Stephen Mitchell è convinto che un'ulteriore analisi stilistica e una nuova lettura di un'iscrizione sul propileo a tre archi (portale) rendano difficile credere che l'edificio sia successivo alla morte di Augusto nel 14 EV. "The temple... was erected for the cult of Augustus during his lifetime".[83]

L'iscrizione è particolarmente importante. Ora è stata ricostruita da sei frammenti come segue:

IMP ● CAES[ARI ● DI]VI ● [F●AVGVSTO ● PONTI[F]ICI ● M[AXIM]O COS ● X[III ● TRIB]VN[ICIAE] ● POTESTATIS ● XXII ● [IM]P ● XIIII ● P[●P●]

Imp(eratori) Caes(ari) Divi f(ilio) Augusto pontifici maximo co(n)s(uli) XIII tribuniciae potestatis XXII imp(eratori) XIIII p(ater) p(atriae)

All'imperatore Cesare Augusto, figlio di un dio, pontefice massimo, console per la tredicesima volta, con potestà tribunizia per la ventiduesima volta, imperatore per la quattordicesima volta, padre della patria.

Questa lettura fornisce una data di 2/1 AEV. "The propylon, accordingly, was dedicated to the living emperor Augustus, soon after he received the title pater patriae on 5 February 2 bc."[84] La sua decorazione conferma il messaggio insito nell’iscrizione: fu eretto per onorare Augusto e commemorare le vittorie da lui ottenute e la pace che queste avevano portato al mondo romano.[85]

Questo era anche il messaggio trasmesso da Res Gestae, i cui frammenti latini sono stati scoperti ad Antiochia.[86] Con ogni probabilità il testo completo era inciso in dieci colonne sulle facce interne dei due pilastri centrali del portale. Si apriva così: "Le imprese del divino Augusto, con le quali portò il mondo sotto l'impero del popolo romano..." (Res gestae divi Augusti, quibus orbem terrarum imperio populi Romani subiecet...).[87] Il Res Gestae fu pubblicato al momento della morte di Augusto nel 14 EV. "It can be taken as... his apologia for receiving his crowning honour, state divinity, which he had so modestly (or prudently) rejected throughout his lifetime".[88] Una copia potrebbe essere stata eretta ad Antiochia poco dopo.

Quindi, ci sono prove cumulative della preminenza del culto imperiale ad Antiochia ben prima dei giorni di Paolo: la planimetria e la decorazione del tempio, la decorazione del portale e le due iscrizioni a cui si fa riferimento sopra. Ma che dire della lettera di Paolo alle chiese galatee? Ci sono brani nel testo che potrebbero essere riferimenti all'impatto che il culto imperiale potrebbe aver avuto sulla vita dei cristiani ad Antiochia? Ci sono due temi che potrebbero essere stati ascoltati dai cristiani come una controstoria alla storia trasmessa dal culto imperiale onnipervasivo e due passaggi che potrebbero eventualmente fare riferimento a tale contesto.

(1) Due delle enfasi teologiche di Paolo nella Lettera ai Galati potrebbero aver ricordato ai Galati che le loro convinzioni riguardo a Gesù Cristo erano in contrasto con le credenze e le pratiche del mondo religioso e politico romano in cui vivevano.

Il gruppo di parole "Vangelo" è più prominente in Galati che in qualsiasi altra lettera di Paolo. Quando i cristiani galati sentirono questo gruppo di parole tredici volte nelle sezioni iniziali della lettera, potrebbero aver ricordato che nella sua predicazione iniziale Paolo insisteva sul fatto che c'era un solo Vangelo di Gesù Cristo, che era in contrasto con i "vangeli" associati alla nascita, all'ascesa al trono e alla salute degli imperatori romani.

Al centro del culto imperiale c'era il riconoscimento che Augusto era un "figlio di dio", come lo erano i suoi successori. L'iscrizione a cui si fa riferimento nella Sezione 5 era posta in lettere di bronzo sul portale a tre archi del tempio imperiale che dominava la città e i dintorni di Antiochia. Sarebbe stato un promemoria costante dello status religioso degli imperatori. Quindi la contro-affermazione di Paolo secondo cui Gesù, non l'imperatore, è il Figlio di Dio sarebbe stata particolarmente significativa in quel contesto.

Ed è proprio questa l'affermazione che sta al centro della cristologia di questa lettera. Nel capitolo iniziale Paolo definisce "il vangelo" (il sostantivo è usato in assoluto in 1:11) in termini di rivelazione da parte di Dio di Gesù Cristo come Suo Figlio. Nella sua affermazione positiva sull'origine del suo vangelo alla fine di 1:12, Paolo insiste di aver ricevuto il vangelo "tramite una rivelazione (δι’ἀποκαΛύψεως) di Gesù Cristo". Questa traduzione conserva l'ambiguità del greco, che può essere interpretato sia come "rivelazione del vangelo da parte di Gesù Cristo" sia come "rivelazione di Gesù Cristo da parte di Dio come contenuto del vangelo". Quest'ultima è preferibile, soprattutto in vista degli ulteriori commenti di Paolo in 1:15-16, che scompongono il suo termine abbreviato "il vangelo" e sottolineano (ancora una volta) l'iniziativa di Dio nella rivelazione o manifestazione di Suo Figlio.

Nel suo sorprendente saluto iniziale, Paolo insiste sul fatto che Cristo ha dato se stesso per i peccati (Galati 1:4), e al culmine di una prolungata esposizione teologica in 2:15-20, Paolo afferma: "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (2:20). Queste sarebbero state note stridenti per coloro che erano abituati a sentire che l'imperatore come divi filius, un figlio di Dio, aveva portato molti benefici al mondo, tra cui la pace e il benessere generale. L'amore disinteressato per gli altri, persino fino al punto della morte, non faceva parte del repertorio imperiale.

Similmente, in quello che ritengo essere il cuore teologico di questa lettera: 4:1-7. Nella pienezza del tempo Dio ha mandato il Suo Figlio: questa è la buona novella di Dio riguardo a Gesù Cristo. Nell'iscrizione del Calendario l'inizio della buona novella per il mondo è la provvisione di Augusto da parte della Provvidenza: Augusto come salvatore che ha fatto cessare le guerre. Ma lì il parallelismo parziale si interrompe bruscamente. Perché nell'ideologia del culto imperiale non c'è traccia di redenzione o di conferimento della figliolanza per adozione a coloro che si sono impegnati nella fede nel Figlio di Dio.

Ora, non sto suggerendo che il contenuto del vangelo di Paolo o una Cristologia del Figlio di Dio siano stati presi in prestito o anche fortemente influenzati dal linguaggio e dall'ideologia del culto imperiale. Ma, alla luce delle prove che ho esposto, facciamo bene a tenere a mente il mondo religioso e politico in cui furono ascoltati la proclamazione iniziale di Paolo e la sua lettera alle chiese della Galazia. Il Vangelo di Gesù Cristo e i vangeli dei Cesari erano rivali.

(2) Se si accetta il punto generale appena esposto, allora vale la pena di considerare se ci siano passaggi nella lettera di Paolo alle chiese galate che possano riferirsi a possibili pressioni per praticare il culto imperiale. Galati 4:8-10 è un candidato:

« Ma un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, eravate sottomessi a divinità, che in realtà non lo sono; ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi (στοιχεῖα), ai quali di nuovo come un tempo volete servire? Voi infatti osservate giorni, mesi, stagioni e anni! »

La lettura consensuale di questo brano è la seguente.[89] Prima di diventare cristiani, i Galati erano schiavi di "divinità, che in realtà non lo sono", cioè di idoli (cfr. 1 Corinzi 8:5;12:2). Quindi dovevano essere gentili. Ora, come credenti, hanno imparato a conoscere, cioè a sperimentare, lo Spirito di Dio (cfr. 3:1-5;4:6). Ma quali sono gli speciali "giorni, mesi, stagioni e anni" che i Galati ora vogliono osservare attentamente, finanche come cristiani? Suppongo che l'influenza degli agitatori possa essere qui rilevata. Hanno incoraggiato i cristiani galati a osservare il sabbath ebraico ("giorni") e le festività ("stagioni"). L'osservanza dei "mesi" si riferisce probabilmente all'osservanza della luna nuova che segnava l'inizio di ogni mese. Cosa si intenda esattamente per "anni" è incerto.

Tuttavia, c'è una lettura alternativa che merita di essere presa in considerazione. H. D. Betz nota che le attività cultuali descritte nel versetto 10, "osservate giorni, mesi, stagioni e anni", non sono tipiche dell'ebraismo (incluso il cristianesimo ebraico). Avrebbe potuto aggiungere che, a differenza di Colossesi 2:16, questo versetto non si riferisce esplicitamente all'osservanza ebraica di sabati, noviluni o feste. Betz insiste sul fatto che "the description is typical and part of a literary topos well-known in antiquity. It portrays the Galatians as conforming to the religious character of the δεισιδαίμων (‘religiously scrupulous’ or even ‘superstitious’)".[90] Tuttavia, Betz non riesce a spiegare in modo soddisfacente perché Paolo abbia usato questa particolare fraseologia "non-ebraica" per riferirsi alla minaccia posta dagli agitatori ebrei cristiani. Tuttavia, i suoi commenti potrebbero indicarci la giusta direzione.

Di recente, Thomas Witulski è andato molto oltre in questa direzione. Egli nota che l'assenza di qualsiasi riferimento esplicito al sabbath, il giorno più importante di tutti per gli ebrei, esclude qui un riferimento alle osservanze ebraiche. Altrettanto problematico per la lettura consensuale è il riferimento agli "anni", poiché la celebrazione ebraica degli "anni speciali" era sconosciuta nell'ebraismo della Diaspora.[91] Witulski presenta quindi una ricchezza di prove a sostegno della sua affermazione secondo cui i cristiani galati stavano affrontando pressioni locali per partecipare al culto imperiale.[92]

In linea di principio, è altamente probabile che i cristiani galati abbiano dovuto affrontare forti pressioni sociali, anche se queste potrebbero essere più difficili da scoprire dalla lettera di Paolo rispetto alle questioni teologiche in gioco tra Paolo e gli agitatori. Stephen Mitchell conclude la sua discussione sul culto imperiale in Anatolia con queste parole:

« One cannot avoid the impression that the obstacle which stood in the way of the progress of Christianity, and the force which would have drawn new adherents back to conformity with the prevailing paganism, was the public worship of the emperors... It was not a change of heart that might win a Christian convert back to paganism, but the overwhelming pressure to conform imposed by the institutions of his city and the activities of his neighbours. »
(Mitchell, Anatolia, Vol. ii, p. 10)

Witulski nota che diverse celebrazioni di "giorni (speciali)" erano associate ad Augusto. "Mesi" potrebbe riferirsi all'introduzione del nuovo schema di mesi a cui si fa riferimento nell'iscrizione del Calendario, con il suo forte incoraggiamento a iniziare il nuovo anno nel giorno del compleanno di Augusto, il 23 settembre. L'attenta osservanza delle "stagioni" è intesa come riferimento alle celebrazioni festive nel contesto del culto imperiale, alcune delle quali si estendevano su più giorni. "Anni" potrebbe riflettere il riferimento di Augusto in Res Gestae alla decisione del senato romano che ogni cinque anni "i consoli e i sacerdoti avrebbero dovuto far voti per la mia [cioè di Augusto] salute. In adempimento di questi voti sono stati celebrati frequentemente dei giochi". In questo paragrafo Augusto nota quindi che tutti i cittadini sono inclusi in questi atti di devozione: "individualmente e a nome delle loro città offrono... preghiere in tutti i santuari per la mia salute".[93] Ho riassunto solo una parte delle considerevoli prove che Witulski ha accumulato nel costruire un caso cumulativo.

Se si segue questa linea interpretativa, c'è un problema evidente. In che modo le pressioni sociali per conformarsi al culto imperiale sono collegate alle preoccupazioni particolari degli agitatori nelle chiese galatee sulla circoncisione e l'osservanza della legge? La soluzione di Witulski sa di disperazione. Egli sostiene che due lettere che Paolo scrisse ai Galati sono state combinate per formare quella che divenne la Galati canonica. Le due lettere originariamente avevano impostazioni molto diverse: nella prima lettera Paolo attacca gli agitatori, nell'altra (almeno in parte ora in Galati 4:8-20) incoraggia la resistenza alle pressioni per osservare il culto imperiale. La prima lettera fu scritta prima dell'arrivo del culto imperiale ad Antiochia di Pisidia, la seconda poco dopo il suo arrivo intorno al 50 EV. Tuttavia, questa datazione (e l'intera teoria) è minata dalle prove più recenti abbozzate sopra, che indicano che il culto imperiale arrivò ben prima del 50 EV. E Galati 4:8-20 non è l'unica parte della Lettera ai Galati che potrebbe essere stata ascoltata sullo sfondo del culto imperiale.

(3) Se Galati 4:8-10 riflette le enormi pressioni sociali per osservare il culto imperiale, allora in 6:12-13, i versetti iniziali del finale attentamente composto della lettera, potremmo forse ricevere una spiegazione più specifica delle pressioni sociali all'opera nelle chiese galate. Bruce Winter ha recentemente proposto una soluzione che merita un'attenta considerazione. Egli nota che, subito dopo che Paolo inizia personalmente a metter giù il poscritto ai Galati, di suo pugno, l'apostolo riassume la sua preoccupazione principale in una terminologia quasi legale in 6:12-13:

« Quelli che vogliono fare bella figura nella carne, vi costringono a farvi circoncidere, solo per non essere perseguitati a causa della croce di Cristo. Infatti neanche gli stessi circoncisi osservano la legge, ma vogliono la vostra circoncisione per trarre vanto dalla vostra carne. »

Winter sostiene che l'evitamento del culto imperiale è collegato alla questione centrale in Galati. I cristiani gentili venivano incoraggiati dagli agitatori cristiani ebrei a "sembrare ebrei", vale a dire a sottoporsi alla circoncisione e a osservare la legge come mezzo per aggirare il loro obbligo verso il culto imperiale. "Jewish Christians formulated this response to an extremely difficult civic obligation, for their own self-preservation and that of the Christian community was seen to be at stake. The agitators believed that undergoing circumcision and keeping the law was one way of convincing the authorities that Christianity was part of a religio licita, for in Galatia these were cultural hallmarks of the one group that was recognized as being exempted from worship of the emperors".[94]

Questa è certamente una lettura provocatoria e nuova di Galati, che non dovrebbe essere liquidata senza ulteriori indugi. Winter capisce correttamente che il termine religio licita non è altro che un modo comodo per riferirsi allo status speciale di cui godevano gli ebrei: a quel tempo non esisteva una carta formale che sostenesse tale status. Anche se non abbiamo prove specifiche della metà del primo secolo sullo status degli ebrei agli occhi dei romani nella colonia di Antiochia,[95] è altamente probabile che i cristiani galati fossero incoraggiati ad accettare la circoncisione per trarre vantaggio dal rispetto di cui gli ebrei godevano nella società in generale. John Barclay nota: "by becoming proselytes the Galatians could hope to identify themselves with the local synagogues and thus hold at least a more understandable and recognizable place in society".[96]

Tuttavia, è difficile fare un ulteriore passo avanti e supporre che le pressioni sugli agitatori ebrei cristiani fossero piuttosto specifiche e coinvolgessero il culto imperiale. La clausola finale in Galati 6:12 è una delle più difficili in Galati: Paolo afferma che gli agitatori stanno cercando di costringere alla circoncisione "soltanto per non essere perseguitati a causa della croce di Cristo" (μόνον ἱνα τῷ σταυρῷ τοῦ Χριστοῦ μὴ διώκωνται). Gli agitatori vogliono evitare la "persecuzione" costringendo i gentili a farsi circoncidere. Questo è chiaro. Ma chi era responsabile della minaccia di persecuzione? Paolo non identifica i presunti persecutori: li protegge dietro il suo uso del verbo passivo.

Alcuni hanno suggerito che non si dovrebbe attribuire troppo peso a questa clausola. Forse è una frase "buttata giù", scritta da Paolo stesso in uno stato di rabbia. Forse possiamo immaginare una forte pressione da una parte o dall'altra, ma persecuzione? D'altra parte, in 6:12 Paolo usa lo stesso verbo (διώκω) come in Galati 1:13, dove si riferisce alla sua persecuzione "pre-conversione" della chiesa. Quindi è naturale supporre una persecuzione letterale. Ci sono molti candidati disponibili. I "falsi fratelli" di Galati 2:4-6, o ebrei "intransigenti", che siano locali o nuovi arrivati ​​ad Antiochia, sono spesso considerati i colpevoli.

La teoria di Winter offre uno scenario molto diverso. Gli agitatori ebrei cristiani erano sotto forte pressione per partecipare al culto imperiale e quindi dimostrare di meritare il rispetto e la tolleranza accordati ai membri della comunità ebraica. Quindi esortarono i convertiti gentili ad Antiochia a "sembrare ebrei" e quindi godere della stessa posizione nella società. A sostegno della sua teoria Winter fa riferimento ad Atti 13:50;14:12. "Gli uomini più in vista della città" furono coinvolti nell'espulsione di Paolo e Barnaba da Antiochia. È probabile che l'antagonismo verso il nuovo movimento sia continuato. Quindi, durante la sua visita di ritorno ad Antiochia, Paolo avverte i cristiani lì che devono aspettarsi di affrontare problemi continui. Non c'è motivo di scartare a priori questa prova dell'opposizione dei gentili ai cristiani ad Antiochia, ma non ci sono accenni in Atti 13:50 e 14:12 che "gli uomini più in vista della città" stessero imponendo l'osservanza del culto imperiale ai cristiani.

Winter riconosce che non abbiamo prove del periodo che spieghino come i cristiani gentili avrebbero potuto rivendicare l'esenzione dalla partecipazione al culto imperiale. Questo è un punto debole nella sua argomentazione, ma non proprio un tallone d'Achille. La nostra conoscenza del culto imperiale ad Antiochia a metà del primo secolo è aumentata enormemente negli ultimi decenni, ma è ancora limitata. C'è da sperare che un ulteriore lavoro archeologico tanto necessario possa accrescere tale conoscenza. Quindi sarebbe prudente accettare che al momento non abbiamo prove che possano confermare o indebolire lo scenario previsto.

(4) C'è un ulteriore brano da considerare. Luca include un lungo resoconto della predicazione di Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia in Atti 13:14-41, uno dei grandi discorsi memorabili della prima metà degli Atti. Sebbene sia estremamente difficile districare la presentazione e la forma di Luca da qualsiasi fonte egli possa aver utilizzato nei discorsi in Atti, si dovrebbe prendere sul serio il fatto che Luca ambienta questo discorso ad Antiochia di Pisidia. Infatti Luca si sforza regolarmente di modellare i discorsi in Atti per adattarli al contesto locale. Il precedente discorso fatto da Pietro al centurione romano Cornelio a Cesarea è un buon esempio (Atti 10:34-43), come anche il discorso di Paolo all'Areopago (Atti 17:22-31). Quindi, anche se siamo scettici sulla misura in cui Luca ha utilizzato fonti nel discorso di Atti 13:14-41, alcuni dei suoi temi potrebbero essere stati pensati per adattarsi al contesto previsto, come è chiaramente il caso del discorso ambientato a Listra (Atti 14:15-17).

Se teniamo presente che ad Antiochia di Pisidia la sinagoga si trovava all'ombra dell'enorme tempio imperiale, allora potrebbe esserci una pronta spiegazione per due sorprese che Luca fa scaturire in questo discorso. La prima nota cristologica che risuona è che Dio ha portato a Israele un Salvatore, Gesù, come aveva promesso (13:23); "a noi è stato inviato questo messaggio di salvezza" (13:26; cfr. anche 13:47). "Salvatore" (σωτήρ) si trova solo in un altro passaggio in Atti (5:31) ed è raro nel NT. "Salvezza" (σωτηρία) è usato con parsimonia da Luca (solo qui e in Atti 4:12; 7:25; 16:17; 27:34).

È una coincidenza che "salvatore" e "salvezza" fossero prominenti nella terminologia del culto imperiale, che il culto imperiale fosse prominente ad Antiochia e che entrambi i termini fossero inclusi nel resoconto di Luca del discorso di Paolo in questa città?[97] Come abbiamo notato sopra, secondo Filone, l'ascesa dell'imperatore Gaio fu annunciata come una buona notizia, perché all'inizio era stato considerato un "salvatore e benefattore". Σωτήρ è particolarmente comune nelle iscrizioni che si riferiscono all'imperatore Claudio.[98] Quindi gli ascoltatori del discorso ai tempi di Luca potrebbero essersi ben ricordati che Gesù, non l'imperatore o qualsiasi altra persona o dio, era il Salvatore, la provvidenza di salvezza data da Dio. Tuttavia, è improbabile che questo tema risalga a Paolo stesso, perché, ad eccezione di Filippesi 3:20, nelle indiscusse lettere paoline σωτήρ non è affatto usato. L'unico collegamento possibile tra il discorso e la lettera ai Galati si trova in Atti 13:38-9, che potrebbe essere considerato una parafrasi parziale di Galati 2:16.

Una Cristologia del Figlio di Dio si trova solo una volta negli Atti fino a questo punto (a 9:20), e non viene ripetuta.[99] Al culmine del discorso, Paolo di Luca proclama la buona novella (εὐαγγελιζόμεθα, 13:32) che Gesù è il Figlio di Dio. Dio ha adempiuto le Sue promesse: Gesù è colui di cui è scritto nel Salmo 2: "Tu sei mio Figlio; oggi ti ho generato", l'adempimento del Salmi 2:7 e di 2 Samuele 7:12 (13:23, 32-33). Come abbiamo visto, sia "figlio di dio" che "annuncio di buone notizie" sono spesso associati al culto imperiale. Quindi ancora una volta ai lettori degli Atti viene ricordato che Gesù, non l'imperatore, deve essere acclamato come Figlio di Dio. Se prendiamo sul serio l'ambientazione del discorso in Atti 13:14-41 ad Antiochia di Pisidia, siamo costretti a considerare una lettura che è stata ampiamente trascurata.

Nei paragrafi precedenti di questa Sezione ho suggerito che la proclamazione iniziale del Vangelo da parte di Paolo, così come la sua lettera alle chiese della Galazia, sarebbero state udite nelle colonie romane di Antiochia di Pisidia, Iconio e Listra sullo sfondo del culto imperiale onnipresente. Questa affermazione è rafforzata dall'uso della fraseologia "vangelo" in entrambe le situazioni, ma non dipende da questo collegamento verbale. Infatti, l'intera ideologia della Provvidenza dell'imperatore come supremo benefattore, figlio di dio e salvatore era in "rivalità" con l'affermazione di Paolo riguardante la provvidenza di Dio nella grazia/beneficenza di Gesù Cristo quale Figlio di Dio.

"Vangelo" a Tessalonica e Filippi

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Vi sono prove ancora più forti di questa affermazione in alcune delle altre lettere di Paolo.[100] Mi limiterò a due esempi, uno dall'inizio e uno dalla fine del ministero epistolare di Paolo: la corrispondenza ai Tessalonicesi e ai Filippesi. Tessalonica era fortemente romanizzata e Filippi era una colonia romana.

J. R. Harrison ha recentemente sostenuto: "a pivotal claim of early first century propaganda – that providence would never provide a better Saviour than Augustus – increasingly faced challenge at Thessaloniki and elsewhere".[101] L'accusa che Paolo e Sila agirono "contro i decreti di Cesare, dicendo che c'è un altro re, Gesù" (Atti 17:7) è l'ovvio punto di partenza. Harrison elenca non meno di sei parole dalla corrispondenza di Tessalonica che sono comuni all'escatologia imperiale e cristiana primitiva: εἰρήνη ("pace": 1 Tessalonicesi 1:1;5:3,23); ἐπιφάνεια ("apparizione": 2 Tessalonicesi 2:8); ἐλπίς ("speranza": 1 Tessalonicesi 1:3;2:19;4:13;5:8; 2 Tessalonicesi 2:16); εὐαγγέλιον ("buona novella": 1 Tessalonicesi 1:5;2:2,4,8,9;3:2; 2 Tessalonicesi 1:8;2:14); σωτηρία ("salvezza": 1 Tessalonicesi 5:8,9; 2 Tessalonicesi 2:13); χάρα ("gioia": 1 Tessalonicesi 1:6;2:19,20;3:9). Egli sostiene che Paolo contrastò e sovvertì l’influenza aggressiva dell’escatologia del vangelo imperiale proclamando la speranza escatologica del Signore celeste risorto e regnante.[102] A mio giudizio, la sua ripresa della teoria secondo cui in 1 Tessalonicesi 5:3 Paolo profetizza la distruzione dei sostenitori della pax et securitas imperiale, è particolarmente forte. Altrettanto plausibile è l'affermazione secondo cui le espressioni “speranza della salvezza” e “salvezza per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo” in 1 Tessalonicesi 5:8-9 avrebbero evocato associazioni imperiali.

Dato che nelle lettere ai Tessalonicesi la parola più frequentemente usata delle sei elencate nel paragrafo precedente è εὐαγγέλιον, è sorprendente che Harrison non discuta questo termine. Per la nostra attuale preoccupazione per il gruppo di parole evangeliche, due punti sono particolarmente importanti. In primo luogo, in 1 Tessalonicesi, probabilmente la prima lettera di Paolo, egli usa "la parola" (ὁ λόγος) e "il vangelo" (τò εὐαγγέλιον) quasi come sinonimi (1 Tessalonicesi 1:6,8:2:13; cfr. anche 2 Tessalonicesi 3:1). Nel ringraziamento iniziale in 1 Tessalonicesi, lo Spirito è strettamente associato alla ricezione sia del "vangelo" che della "parola" (1:5-6); i termini potrebbero essere facilmente scambiati in questi versetti. Entrambe sono frasi "abbreviate" il cui contenuto potrebbe essere facilmente completato dai cristiani di Tessalonica. In alcuni casi lo stesso Paolo amplia leggermente entrambi i termini aggiungendo “di Dio” o “di Cristo” a “il vangelo” (1 Tessalonicesi 2:2,8,9;3:2) e “del Signore” o “di Dio” a “la parola” (1 Tessalonicesi 1:8;2:13; 2 Tessalonicesi 3:1). Commenterò ulteriormente il carattere “abbreviato” di entrambi i termini nella Sezione 8.

In 1 Tessalonicesi, l'apostolo si sforza notevolmente di sottolineare che il Vangelo o la parola è di Dio: è da Dio e riguarda ciò che Dio ha fatto (2:2, 8, 9, 13). Il Vangelo e la parola non fanno appello per mezzo di una retorica elaborata, ma sulla base della potenza o Spirito di Dio (1.5). Il Vangelo è la lieta novella di Dio su Cristo (3.2). L'enfasi ripetuta in questa lettera sul Vangelo come buona novella di Dio è sorprendente. Perché Paolo ha bisogno di fare questo, quando presume che i Tessalonicesi saranno in grado di capire la sua scrittura? Sicuramente c'è almeno una sovversione implicita del vangelo imperiale riguardo alla provvisione della Provvidenza dall'imperatore per salvezza, per "pace e sicurezza". È così che le parole di Paolo sarebbero state udite a Tessalonica, indipendentemente dal fatto che ciò facesse o meno parte delle sue intenzioni.

E così brevemente in merito alla lettera di Paolo ai cristiani della colonia romana di Filippi. Filippesi 3:20 è stato spesso letto sullo sfondo del culto imperiale: "la nostra cittadinanza infatti è nei cieli, e di là aspettiamo un Salvatore (σωτήρ), il Signore Gesù Cristo". Il cosiddetto inno di Cristo in Filippesi 2:6-11, con il suo culmine nella confessione che Gesù Cristo è κύριος, è stato letto in modo simile, ma meno spesso. Peter Oakes ha recentemente costruito su letture precedenti lungo queste linee, mostrando che alcune delle parole e frasi chiave in questi brani (specialmente σωτήρ e κύριος) erano prominenti nel culto imperiale. Il suo caso cumulativo per leggere l'intero Filippesi 2:6-11 come un paragone esteso tra Cristo e l'imperatore, è provocatorio e potrebbe non convincere. Tuttavia, alla luce di quanto detto sopra, sicuramente il suo punto principale è plausibile: questo è il modo in cui molti dei Filippesi avrebbero sentito questo passaggio.[103]

Peter Oakes fornisce numerose prove letterarie, epigrafiche e numismatiche a sostegno della sua tesi, ma quasi nessuna di esse è locale a Filippi. Forse è per questo che accetta che questo culto sia improbabile che sia stato il più urgente dei problemi affrontati dai Filippesi.[104] In effetti, Oakes sta offrendo un tempestivo avvertimento contro i pericoli della "lettura speculare", vale a dire di presumere troppo facilmente che ogni frase nelle lettere di Paolo sia stata creata dall'apostolo o ascoltata dai Filippesi alla luce del culto imperiale.

Nonostante questa avvertenza, c'è una caratteristica sorprendente di questa lettera, non menzionata da Peter Oakes, che potrebbe essere indirettamente collegata al culto imperiale.

La frase "il vangelo" è più evidente in questa lettera che in qualsiasi altro scritto cristiano antico. Nel capitolo iniziale Paolo usa la frase τò εὐαγγέλιον sei volte, cinque delle quali sono in costruzione assoluta (Filippesi 1:5,7,12,16,27), cioè senza alcuna frase esplicativa. Filippesi 1:27 è l'eccezione che conferma la regola, perché qui troviamo "il vangelo di Cristo". In altri tre passaggi di questa lettera la frase è usata in modo assoluto (Filippesi 2:22;4:3,15). Il verbo non è usato affatto. Ancora una volta "la parola" (ὁ λόγος) è usata in modo assoluto e come sinonimo de "il vangelo" (Filippesi 1:14).

Paolo menziona che "il vangelo" è diventato noto in tutta la Guardia Pretoriana (Filippesi 1:13). I membri della guardia imperiale avrebbero certamente conosciuto i "vangeli" rivali riguardanti la Provvidenza degli imperatori. E così anche, possiamo supporre, i cristiani nella colonia romana di Filippi.

L'uso ripetuto da parte di Paolo di "vangelo" e il suo uso di "parola" (Filippesi 1:14) come termini abbreviati è sorprendente. I cristiani di Filippi sono in grado di completare il loro contenuto sulla base della proclamazione iniziale di Paolo nella loro città e della sua continua preoccupazione per loro. In effetti, a differenza di Galati, unicamente da questa lettera è difficile stabilire il contenuto de "il vangelo". Ciò che abbiamo in Filippesi, come nelle altre lettere di Paolo, è l'uso di un insieme di termini abbreviati ben noti ai destinatari — termini che sono pieni di contenuto distintamente cristiano e che sono usati in modi fuori sintonia con l'uso più ampio in contesti noncristiani del primo secolo. Approfondirò questo punto nella prossima Sezione di questo Capitolo.

"Vangelo" come parte di un socioletto cristiano primitivo

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In un importante articolo sulle funzioni retoriche de "il vangelo" nella corrispondenza corinzia, Margaret Mitchell ha ripreso la precedente osservazione di Wayne Meeks secondo cui le lettere di Paolo sono piene di "extremely compact formulas". Nota che la frase τò εὐαγγέλιον funge da "superabbreviazione" dell'intera sequenza narrativa di eventi che descrivono gli atti salvifici di Dio a favore dell'umanità. La frase funziona come un titolo che caratterizza l'intero contenuto de "il vangelo" e ne interpreta il significato per l'ascoltatore.[105]

Questa è un'osservazione utile. Approvo pienamente la conclusione principale della Mitchell: "Paul’s punctuated abbreviations unite his readers with himself and one another in a common bond of shared language and assumptions, a task central to the formation of ecclesial self-identity and social cohesion, and at the same time allow for elegant economy of expression in the new literary creations, the letters".[106] Tuttavia, non sono ancora convinto che abbiamo bisogno di seguire il percorso di Margaret Mitchell per giungere a tale conclusione. Lei sostiene che Paolo sta usando in modo efficace tre forme di "ancient rhetorical shorthand", descritte nella teoria retorica come "brevità", "sineddoche" e "metafora". Tuttavia, la misura in cui Paolo attinge all'antica teoria retorica è molto controversa.[107] Sono molto più propenso a considerare l'uso della "stenografia" da parte di Paolo come un classico esempio dell'uso di modelli linguistici come marcatori di identità, e qui possiamo rivolgerci ai sociolinguisti per assistenza.

La disciplina della sociolinguistica ha appena quattro decenni. Mentre Durkheim e Weber, i padri della sociologia, prestarono poca attenzione al linguaggio, i sociolinguisti sono ora impegnati a recuperare il tempo perduto. Un tema importante nella loro ricerca è la funzione del linguaggio come mezzo di formazione di gruppo. Nel 1966 William Labov, uno dei pionieri, osservò gli atti linguistici di identità compiuti da coloro che desideravano essere riconosciuti come nativi della località di villeggiatura estiva di Martha's Vineyard.[108] Lesley Milroy ha fatto osservazioni simili sul linguaggio utilizzato nelle strade di Belfast.[109] J. K. Chambers, uno dei leader nel campo, sottolinea che "the underlying cause of sociological differences... is the human instinct to establish and maintain social identity". Le persone hanno un profondo bisogno di dimostrare di appartenere a un luogo e di definire se stesse attraverso l'uso del linguaggio. "We must also mark ourselves as belonging to the territory, and one of the most convincing markers is speaking like the people who live there".[110]

Gruppi religiosi, politici, etnici e altri gruppi sociali (persino gli adolescenti) sviluppano la propria terminologia “insider”, spesso adattando il vocabolario utilizzato dagli “outsider” in modo così radicale che il linguaggio dell’"in-group" diventa virtualmente incomprensibile al di fuori dei suoi confini.

I biblisti non dovrebbero sorprendersi nell'apprendere che esiste un forte legame tra linguaggio e identità, e che anche una singola caratteristica del linguaggio è sufficiente per identificare l'appartenenza di qualcuno a un dato gruppo. In Giudici 12:5-6 leggiamo: "Quando uno dei fuggiaschi di Efraim diceva: «Lasciatemi passare», gli uomini di Gàlaad gli chiedevano: «Sei un Efraimita?». Se quegli rispondeva: «No», i Galaaditi gli dicevano: «Ebbene, di' Scibbolet», e quegli diceva Sibbolet, non sapendo pronunciare bene", rivelando così la sua identità e sigillando il suo destino.[111]

Ho sostenuto sopra che a metà del primo secolo la differenza tra "vangelo" al singolare e "vangeli" al plurale era altrettanto significativa. "Vangelo" al singolare fu sviluppato e utilizzato nelle primissime comunità post-pasquali per riassumere la buona novella della provvidenza di Dio una volta per tutte tramite Gesù Cristo. Questo modello linguistico fu affinato contra i "vangeli" rivali della propaganda imperiale. Divenne rapidamente parte delle ipotesi condivise di Paolo, dei suoi collaboratori e delle comunità da lui fondate. Nelle prime lettere di Paolo, la corrispondenza di Tessalonica e Galazia, una frase esplicativa è spesso aggiunta a "il vangelo"; l'uso assoluto della frase è raro. In quella che è probabilmente l'ultima lettera di Paolo, Filippesi, "il vangelo" è quasi sempre usato in modo assoluto. A quel punto non c'era più bisogno di aggiungere frasi esplicative, perché "il vangelo" era stato fissato come elemento fondamentale in un modello linguistico distintamente cristiano.

L'uso primitivo cristiano del "gruppo di parole vangelo", e in particolare del sostantivo, è una delle punte più evidenti di un grande iceberg. Qui abbiamo un termine che aveva associazioni molto diverse per gli addetti ai lavori e per gli estranei. Ce n'erano altri. Ho menzionato più di una volta che "la parola" era usata da Paolo come sinonimo de "il vangelo", e che era usata in modo simile come shorthand, spesso in assoluto. In effetti, si può sostenere che "la parola" come riassunto compatto del messaggio cristiano fosse usata ancora più ampiamente de "il vangelo" nel primo secolo. Fu usata, ad esempio, dall'autore di Ebrei e da Luca, entrambi i quali evitavano la frase "il vangelo".

Altri primi sinonimi cristiani per "il vangelo", come "la fede" (ἡ πίστις, Gal. 1:23), "proclamazione" (τò κήρυγμα), "il messaggio" (ἡ ἀκοή, ad esempio Gal. 3:5), e anche ἡ ἀγγελία (1 Giovanni 1:5), e "testimonianza" (τò μαρτύριον) funzionavano in modo simile. Non erano sconosciuti agli "outsiders", ma per gli "insiders" avevano una sfumatura distintiva.

Il termine χάρις (‘grazia’/‘beneficenza’) è un cugino di primo grado di τò εὐαγγέλιον. L’eccellente studio di J. R. Harrison su χάρις integra alcuni dei punti chiave fatti in questo capitolo.[112] Egli nota che, in netto contrasto con la LXX, Paolo scelse χάρις rispetto a ἔλεος. Ai tempi di Paolo χάρις era normalmente usato al plurale, e spesso per indicare le benefiche dispensazioni dell’imperatore romano. Paolo usa sempre il termine al singolare, e lo riempie di contenuto biblico e distintamente cristiano. "The χάριτες of Augustus had acquired soteriological, eschatological, and cosmological status within his own lifetime throughout the Graeco-Roman world. The grace of the Caesars would remain a continuing refrain. It was precisely in this context that Paul announced God’s reign of grace through Christ... The paradox is that God accords the status of righteousness to believers through a dishonoured Benefactor".[113]

Spero di aver detto abbastanza per spiegare la mia tesi. I primissimi cristiani svilupparono i loro modelli linguistici "interni", in parte sulla base della Scrittura, in particolare della Septuaginta, in parte alla luce delle loro convinzioni cristiane distintive, ma in parte modificando il linguaggio "di strada" contemporaneo. In questo modo svilupparono il loro "dialetto sociale", e a sua volta questo ebbe una grande influenza sulla loro autocomprensione e sulla loro visione del mondo.

Tuttavia, non svilupparono un linguaggio completamente nuovo. Se lo avessero fatto, ovviamente l'evangelizzazione sarebbe stata impossibile. Qui abbiamo un dilemma continuo per la teologia cristiana, sottolineato dal fatto che oggi c'è un divario sempre più ampio tra i modi in cui gli insider e gli outsider intendono il termine "vangelo". Come possono i cristiani sviluppare un linguaggio che esprima le convinzioni cristiane e che sia tuttavia intelligibile a tutti quanti? Questo fa parte di un tema ancora più grande, il rapporto del Vangelo cristiano con la cultura.

Dalla proclamazione orale alla narrazione scritta

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I sociolinguisti sarebbero sicuramente affascinati da uno degli sviluppi più sorprendenti nell'uso linguistico dei primi cristiani. Nei primi decenni post-pasquali τò εὐαγγέλιον si riferisce alla proclamazione orale del significato della morte e della resurrezione di Gesù, non a un resoconto scritto della storia di Gesù. C'è un consenso generale sul fatto che non più tardi della seconda metà del secondo secolo τò εὐαγγέλιον fosse usato per riferirsi a un "libro del vangelo".

Questo notevole sviluppo linguistico ha avuto due fasi, la prima meno radicale della seconda. L'evangelista Marco immagina che "il vangelo" includa un resoconto dell'insegnamento di Gesù e narrazioni delle sue azioni. Marco sta espandendo il campo semantico associato al precedente uso cristiano del sostantivo, specialmente nei circoli paolini. Le azioni e le parole di Gesù sono ora pienamente integrate nella proclamazione cristiana della lieta novella di Dio riguardante la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. Sebbene questo sia spesso individuato come il più importante risultato teologico di Marco, non penso che Marco sia stato così innovativo come molti suppongono. Poiché sono stato a lungo convinto che la proclamazione orale di "Cristo crocifisso e risorto" da parte di Paolo e dei suoi collaboratori difficilmente avrebbe avuto senso senza almeno uno schizzo della storia di Gesù.[114] Gli specialisti paolini sono ora più disposti a riconoscere che esiste una sottostruttura narrativa nella teologia di Paolo.[115] Tuttavia, il termine "vangelo" ha subito uno sviluppo considerevole tra Paolo e Marco.

Uno sviluppo ancora più considerevole nell'uso cristiano primitivo di "vangelo" si verificò con l'uso di questo termine per riferirsi a un resoconto scritto dell'insegnamento e delle azioni di Gesù. Chi fu responsabile di questa estensione dell'uso linguistico dei primissimi cristiani? Le opinioni divergono notevolmente. Fu Marco, o Marcione, o dovremmo cercare altrove?

Luca e Giovanni si escludono immediatamente dalla contesa. Luca non usa affatto il sostantivo nel suo racconto della vita di Gesù. Nessuno ha mai spiegato in modo soddisfacente perché non lo abbia fatto. Il quarto evangelista non usa né il sostantivo né il verbo. Ciò non sorprende, poiché traspone gran parte del vocabolario cristiano precedente in una chiave diversa.

Quindi chi per primo usò "vangelo" per riferirsi a uno scritto?[116] Nell'affrontare questioni di questo tipo è spesso utile procedere a ritroso dal punto in cui un nuovo sviluppo è ben attestato. Dalla fine del secondo secolo e dalla prima metà del terzo secolo vi è una chiara evidenza dai papiri, dalle versioni in latino antico e copte, e da Ireneo, Clemente di Alessandria e Tertulliano, che i titoli "il Vangelo secondo Matteo, Marco, ecc." (εὐαγγέλιον κατὰ Μαθθαῖον, Μάρκον κτλ.) erano ampiamente utilizzati.[117] A metà del secondo secolo Giustino, 1 Apol. 66.3, fornisce il primo esempio del plurale εὐαγγέλια. per riferirsi a "libri del vangelo". Giustino afferma esplicitamente che gli ἀπομνημονεύματα τῶν ἀποστόλων (una frase che usa tredici volte nel Dialogo 100-7 e ancora una volta in 1 Apol. 67.3-4) sono εὐαγγέλια.[118]

Circa un decennio prima Marcione si riferiva quasi certamente alla sua versione di Luca come "il vangelo".[119] H. Koester ha affermato che il concetto di Marcione circa un vangelo scritto era una "innovazione rivoluzionaria" che Giustino aveva ripreso.[120] Tuttavia, Koester indebolisce in parte la sua stessa tesi facendo due concessioni. (1) Anche prima dei giorni di Marcione, le letture liturgiche dai vangeli scritti potrebbero essere state introdotte come "il vangelo".[121] (2) Koester accetta l'affermazione di Hengel secondo cui i vangeli canonici devono aver circolato sotto il nome di un autore specifico fin dall'inizio, ma nega che i titoli originali fossero identici al successivo "Vangelo secondo...".[122] È quasi inconcepibile che il nome dell'autore fosse stato allegato a copie dei vangeli senza un titolo di qualche tipo.[123] Ma quale titolo sarebbe stato utilizzato, se non τò εὐαγγέλιον?[124]

Ci sono infatti prove che εὐαγγέλιον cominciò a essere usato per riferirsi a uno scritto nei decenni precedenti a Marcione.

(a) II Clemente 8.5 introduce una delle sue citazioni di parole di Gesù con "il Signore dice nel Vangelo" (λέγει γάρ ὁ κύριος ἐν τῷ εὐαγγελίῳ). Lo scritto in questione è probabilmente il Vangelo di Luca, 16:10-11.

(b) In due delle sue lettere, Ignazio (ca. 110 EV) usa "il Vangelo" (τò εὐαγγέλιον) per riferirsi alla proclamazione della croce e della resurrezione di Gesù. In Filad. 9:2, τò εὐαγγέλιον include la venuta (παρουσία qui si riferisce senza dubbio alla vita) di Gesù Cristo, come anche la sua sofferenza e resurrezione. Ciò suggerisce che si stia facendo riferimento a una proclamazione scritta piuttosto che orale, ma quest'ultima interpretazione certamente è possibile.[125]

Nella Lettera agli Smirnesi, tuttavia, c'è meno spazio per i dubbi. La lettera si apre con un riassunto credale delle convinzioni cristologiche che fa riferimento al battesimo di Gesù da parte di Giovanni, "affinché ogni giustizia possa essere adempiuta da lui" (ἱνα πληρωθῇ πᾶσα δικαιοσύνη υπ’αὐτοῦ). L'accordo verbale con Matteo 3:15, versetto che porta il timbro della mano redazionale di Matteo, è sufficientemente vicino da convincere la maggior parte degli studiosi che Ignazio sta qui citando il Vangelo di Matteo.[126]

Nella stessa lettera (5:1) Ignazio nota che né le profezie, né la legge di Mosè, né τò εὐαγγέλιον hanno convinto i suoi oppositori. La giustapposizione di τò εὐαγγέλιον con brani scritturali suggerisce fortemente che, almeno in questa lettera, Ignazio si riferisca a uno scritto, molto probabilmente il Vangelo di Matteo, che ha citato solo pochi paragrafi prima. Una simile giustapposizione di τò εὐαγγέλιον con testi scritturali si trova due paragrafi dopo, in 7:2. Qui Ignazio esorta i suoi lettori a "prestare attenzione ai profeti e specialmente al Vangelo (τῷ εὐαγγελίῳ) in cui la Passione ci è stata resa chiara e la risurrezione è stata compiuta".[127]

(c) In Didaché 8:2; 11:3; 15:3-4 ci sono quattro riferimenti a τò εὐαγγέλιον. Il primo brano introduce una citazione della preghiera del Signore con una formulazione che è vicina a quella di Matteo 6:9-13. Gli altri due brani alludono alle versioni matteane dei detti di Gesù. Poiché pochi studiosi dubitano che la Didaché dipenda da Matteo, questi riferimenti confermano che τò εὐαγγέλιον era usato per riferirsi a uno scritto evangelico, quasi certamente Matteo, alcuni decenni prima di Marcione.[128]

Se Marcione non fu il primo a usare il termine εὐαγγέλιον per riferirsi a un resoconto scritto della storia di Gesù, fu Marco l'innovatore, circa settant'anni prima? Per Marco, τò εὐαγγέλιον è il messaggio proclamato su Gesù Cristo. Il suo uso è vicino a quello di Paolo, anche se Marco, a differenza di Paolo, espone una narrazione dell'insegnamento e delle azioni di Gesù come un "sermone" sul Vangelo, o espressione del Vangelo.[129] Ecco come dovrebbe essere interpretata la frase iniziale di Marco, "l'inizio del Vangelo di Gesù Cristo" (ἀρχὴ τοῦ εὐαγγελίου Ἰησοῦ Χριστοῦ). Sia che τοῦ εὐαγγελίου sia preso come un genitivo soggettivo o oggettivo, Marco 1:1 si riferisce a "proclamazione", non a un "rapporto scritto".[130] Mentre è vero che lo sviluppo da parte di Marco dell'uso paolino di τò εὐαγγέλιον apre la strada a un successivo riferimento alla storia scritta della vita di Gesù come τò εὐαγγέλιον, Marco però non fece tale passo.

Matteo, tuttavia, lo fece. Per dimostrarlo, dobbiamo esaminare attentamente le differenze tra l'uso di "vangelo" in Matteo e in Marco. Matteo omette cinque degli usi che Marco fa di εὐαγγέλιον (Marco 1:1; 1:14 e 15; 8:35; 10:29) e amplia gli altri due (Marco 13.10 e 14.9). Ad eccezione di Marco 1:1, in tutti questi passaggi Matteo segue Marco da vicino, quindi le omissioni sono sorprendenti. Hanno portato M. Hengel a concludere che Matteo usa τò εὐαγγέλιον "only in a markedly reduced sense".[131] Poiché nel suo vangelo molto più lungo Matteo mantiene solo due dei sette usi del sostantivo in Marco e lo aggiunge solo ad altri due passaggi, questa sembra essere una conclusione ragionevole. A un esame più attento, tuttavia, è chiaro che l'uso di questa parola chiave da parte di Matteo è un nuovo importante sviluppo.

Innanzitutto dobbiamo spiegare l'omissione da parte di Matteo di cinque degli usi marciani di εὐαγγέλιον. Marco 1:1 è omesso perché sarebbe stata un'introduzione inappropriata alla genealogia inclusa da Matteo. Marco 1:14,15 sono omessi come parte della preoccupazione di Matteo di far emergere chiaramente la stretta corrispondenza tra la proclamazione di Giovanni Battista (Matteo 3:2), Gesù (4:17) e i discepoli (e seguaci di Gesù ai suoi tempi) (10:7): tutti proclamano la venuta del regno dei cieli.

Marco 8:35;10:29 sono omessi perché le frasi “per amore del Vangelo” e “per amore di Gesù stesso” sono quasi sinonimi e indicano un contesto post-pasquale. Matteo, tuttavia, vedeva il Gesù terreno, il suo insegnamento e le sue azioni come “vangelo”, e quindi omise i passaggi marciani.

A differenza di Luca, Matteo non è contrario al sostantivo. Lo usa in due passaggi chiave, 4:23;9:35, per riassumere la proclamazione di Gesù come "il vangelo del regno" (τò εὐαγγέλιον τῆς βασιλείας). Dal contesto è chiaro che in entrambi i brani ha in mente l'insegnamento di Gesù. Questi passaggi sono pilastri centrali nella costruzione fatta da Matteo della prima metà del suo vangelo: tra questi pilastri egli colloca il Sermone della Montagna nei capitoli 5-7 e il suo ciclo di tradizioni dei miracoli nei capitoli 8-9.

I due brani in cui Matteo mantiene l'uso marciano di εὐαγγέλιον sono ugualmente rivelatori. In 24:14 Matteo espande l'uso assoluto del sostantivo da parte di Marco in 13:10 a "questo vangelo del regno" (τοῦτο τò εὐαγγέλιον τῆς βασιλείας). In 26:13 Matteo ha "questo vangelo" (τò εὐαγγέλιον τοῦτο); ancora una volta l'uso assoluto del sostantivo da parte di Marco in 14:9 è modificato. In entrambi i passaggi l'aggiunta di τοῦτο è molto sorprendente. La frase redazionale "la parola del regno" (ὁ λόγος τῆς βασιλείας) in Matteo 13:19 è chiaramente molto correlata a 24:14 e 26:13.

Che cosa è "questo vangelo del regno" (o "parola del regno", 13:19) con cui i lettori di Matteo devono confrontarsi con il mondo intero? In nessuno di questi tre brani viene data una definizione o una spiegazione, ma Matteo 26:13 fornisce un indizio importante. Questo versetto, che si riferisce all'atto della donna di ungere il capo di Gesù con olio costoso, mostra che per Matteo "questo vangelo del regno" include non solo l'insegnamento di Gesù, ma anche i resoconti delle sue azioni.[132]

Come nota J. D. Kingsbury, l'evangelista presume semplicemente che i suoi lettori sapranno cos’è “questo vangelo” sulla base della loro conoscenza del suo documento scritto.[133] Possiamo concludere con Kingsbury che la frase “questo vangelo del regno” è il riassunto matteano della sua opera.[134]

Matteo probabilmente non ha fornito un titolo per il suo scritto, ma intendeva che il suo resoconto completo dell'insegnamento e delle azioni di Gesù esponesse ai suoi lettori il contenuto di "questo vangelo del regno". Non appena un individuo o una comunità avesse avuto accesso a più di un resoconto narrativo della vita di Gesù, sarebbe stato necessario distinguerli per mezzo di un titolo, specialmente nel contesto delle letture durante il culto.[135] Ciò accadde per la prima volta non appena Matteo ebbe completato il suo scritto, perché l'evangelista (e forse alcune delle comunità a cui scrisse) aveva allora due resoconti della storia di Gesù: il suo e quello di Marco.

Possiamo concludere, quindi, che molto prima dei tempi di Marcione, il termine "vangelo" era usato per un resoconto scritto della storia di Gesù. Ma, poiché l'uso di Marco è più vicino a quello di Paolo ed è molto diverso da quello di Matteo, Marco non è l'"innovatore radicale".[136] Dobbiamo guardare oltre l'evangelista Matteo? Con la sua insistenza sul fatto che l'insegnamento e le azioni di Gesù sono "vangelo" (4:23 e 9:35) e con la sua aggiunta di "questo" al "vangelo" di Marco in 24:14 e 26:13 (τοῦτο τò εὐαγγέλιον), egli indica chiaramente ai suoi lettori che c'è una stretta corrispondenza tra il "vangelo di Gesù" e "il vangelo" che deve essere proclamato ai suoi tempi. Egli sottolinea anche che il suo stesso scritto è "un vangelo".[137]

Non dovremmo supporre che, una volta che τò εὐαγγέλιον cominciò a essere usato per un resoconto scritto della vita e dell'insegnamento di Gesù, cessò di essere usato per riferirsi alla proclamazione orale cristiana. Quel doppio uso continua fino a oggi.

I paragrafi precedenti confermano che nei primi scritti cristiani è spesso difficile stabilire se τò εὐαγγέλιον si riferisce alla proclamazione orale o a uno scritto. Le tradizioni orali non scomparvero nel momento in cui Marco si mise a scrivere. Come vedremo nei Capitoli 2 e 3, le tradizioni orali e i vangeli scritti continuarono a coesistere fianco a fianco almeno fino alla fine del secondo secolo.

Il linguaggio è raramente statico. Il termine τò εὐαγγέλιον è un esempio lampante. Ai tempi di Paolo si riferiva all’unico Vangelo orale della provvidenza di Dio con Gesù Cristo, in contrasto coi "vangeli" ripetibili della Provvidenza degli imperatori romani. Entro la fine del secondo secolo Ireneo abbassa la guardia e fa riferimento a quattro vangeli scritti, anche se sottolinea che c'è un solo Vangelo secondo quattro singoli evangelisti.

Questa discussione sull'origine e l'uso di τò εὐαγγέλιον nel cristianesimo primitivo ha necessariamente spaziato molto ampiamente. Non intendo stancare i lettori con riassunti delle mie conclusioni principali. Possono essere trovati alla fine della maggior parte delle singole sezioni di questo Capitolo. Tuttavia, diversi punti richiedono un breve ulteriore commento.

Ho suggerito che, subito dopo Pasqua, i seguaci ebrei di Gesù di lingua greca iniziarono a usare il gruppo di parole "vangelo" per riferirsi alla proclamazione dell'unica lieta novella di Dio riguardante Gesù Cristo. Il contenuto di quella proclamazione sarebbe stato udito da molti con il linguaggio del culto imperiale che risuonava nelle loro orecchie, indipendentemente dal fatto che ciò fosse o meno l'intenzione dei missionari e degli insegnanti cristiani che usavano questa terminologia. Naturalmente, il culto imperiale non fornì ai primi cristiani i loro temi teologici centrali. Quei temi erano plasmati dalla Scrittura e dalle convinzioni riguardanti la vita, la morte e la resurrezione di Cristo. Sebbene ci fossero alcune somiglianze superficiali tra le due forme di "buona novella", la prima proclamazione cristiana del Vangelo era distintiva e, in ultima analisi, sovversiva rispetto alla sua rivale. La domanda chiave era: di chi è la buona novella? La provvidenza elargita dai Cesari e le relative beneficenze, o la provvidenza di grazia di Dio una volta per tutte attraverso "un Benefattore disonorato, Gesù Cristo?"[138]

Come vedremo nel Capitolo 5, molto prima della caduta di Gesù, la sua stessa proclamazione della lieta novella di Dio era considerata da alcuni sovversiva. La domanda chiave era: Gesù era un mago posseduto da un demone e un falso profeta? Oppure Gesù stava proclamando con parole e azioni la buona novella di Dio ai poveri come un profeta messianico?

Le affermazioni teologiche cristiane contemporanee presumono regolarmente che una linea retta di continuità riguardante il "vangelo" possa essere tracciata da Gesù alla chiesa post-pasquale. Questa è stata a lungo la visione tradizionale. Fu difesa nel 1908 da James Denney in un libro influente il cui titolo riassume opportunamente la sua argomentazione: Jesus and the Gospel: Christianity Justified in the Mind of Christ.[139] È espressa con grande forza nella Costituzione dogmatica emanata dal Concilio Vaticano II, Dei Verbum, capitolo 2 §7 (1965):

« Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni. Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta intera la Rivelazione di Dio altissimo, ordinò agli apostoli che l'Evangelo, prima promesso per mezzo dei profeti e da lui adempiuto e promulgato di persona venisse da loro predicato a tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale, comunicando così ad essi i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Cristo vivendo con lui e guardandolo agire, sia ciò che avevano imparato dai suggerimenti dello spirito Santo, quanto da quegli apostoli e da uomini a loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero per scritto il messaggio della salvezza. »

La mia linea di continuità tra la proclamazione di Gesù e la sua proclamazione post-pasquale è meno netta e ordinata. È curva in alcuni punti e punteggiata in altri. Tuttavia, c'è continuità in alcuni punti. Gesù di Nazareth era più di un proclamatore di buone notizie. Le frasi chiave in 4Q521 suggeriscono fortemente che nel suo uso di Isaia 61 Gesù stava facendo un'affermazione messianica indiretta: era lui stesso parte della buona notizia di Dio.

Spesso si trascura il fatto che gli evangelisti hanno meno esitazioni degli studiosi moderni nel tracciare quella linea di continuità. Come abbiamo visto, Marco lo fa attraverso il suo uso di τò εὐαγγέλιον. Ciò è confermato dall'interpretazione della parabola del seminatore (4:13-20). Qui ci viene detto che il seme seminato dal seminatore è "la parola", e dal contesto questo può essere solo un riferimento al Vangelo; è chiaramente implicito che il seminatore della parola o del Vangelo è Gesù stesso. Infatti "la parola" e "il Vangelo" sono qui sinonimi, come in diversi passaggi nelle lettere di Paolo, e anche in Matteo, come conferma Matteo 13:19.

La linea di continuità di Matteo è ancora più spessa. Nei suoi primi due usi di τò εὐαγγέλιον ha in mente l'insegnamento di Gesù (Matteo 4:23;9:35). Nei suoi unici altri due usi della frase (Matteo 24:14;26:13), egli immagina che la sua stessa scrittura servirà come "vangelo" proclamato "in tutto il mondo".

Luca non usa la frase τò εὐαγγέλιον. Tuttavia, egli sottolinea anche che la proclamazione di Gesù e la proclamazione post-pasquale sono identiche. Lo fa per mezzo del verbo "annunciare la buona novella" (εὐαγγελίζεσθαι) e delle frasi "la parola" e "la parola di Dio". Proprio come Gesù proclama la buona novella di Dio (Luca 4:18, 43; 7:22; 8:1; 9:6; 16:16; 20:1), numerosi passaggi negli Atti riportano che gli apostoli fecero lo stesso. In Luca 5:1 leggiamo che la folla si accalcava attorno a Gesù "per ascoltare la parola di Dio". La frase riecheggia le parole di Gesù due versetti prima (4:43): "Devo annunciare la buona novella del regno di Dio" (εὐαγγελίσασθαί με δεῖ τὴν βασιλείαν τοῦ θεοῦ). In Luca 5:1 e in altri tre versetti del suo Vangelo (8:11, 21; 11:28) Luca rimodella le sue fonti per sottolineare che Gesù ha proclamato "la parola di Dio". Negli Atti questa frase si riferisce frequentemente alla proclamazione post-pasquale e una volta (10:36) alla proclamazione pre-pasquale di Gesù stesso.

Le linee di continuità tra la proclamazione pre- e post-pasquale tracciate da tutti e tre gli evangelisti sinottici sono chiare.[140] Altrettanto significativo è il fatto che in modi diversi gli evangelisti indicano che il gruppo di parole evangeliche è sinonimo di "la parola" o "la parola di Dio". Nella Sezione 7 ho notato che in diversi brani della prima lettera di Paolo "la parola" (1 Tess. 1:6, 8 e 2:13; cfr. 2 Tess. 3:1) e "il vangelo" (1 Tess. 1:5; 2:2, 4, 8, 9; 3:2; 2 Tess. 1:8 e 2:14) sono termini quasi sinonimi. In Galati 1:23 Paolo usa "la fede" per riferirsi alla proclamazione cristiana (probabilmente per l'unica volta), dove "il vangelo" potrebbe essere stato ben usato. Lo stesso vale per i quattro usi che Paolo fa di τò κήρυγμα ("proclamazione") (1 Cor. 1:21; 2:4; 15:14; Rom. 16:25).

In breve, come ho sottolineato all'inizio, un insieme di parole e frasi quasi sinonime è usato nei primi scritti cristiani per riferirsi alla buona novella di Dio o alla parola riguardante Gesù Cristo. Solo il "gruppo di parole vangelo" ha collegamenti verbali con il linguaggio del culto imperiale. Quindi dobbiamo essere cauti nel supporre che con ogni primo uso cristiano di questo gruppo di parole il culto imperiale sia in agguato sullo sfondo. Il contenuto della proclamazione cristiana, tuttavia, era sufficientemente vicino ai temi centrali della propaganda imperiale da essere inteso da molti come un rivale e, a tempo debito, come una minaccia.

Nella Sezione 8 è stata attirata l'attenzione sui modi in cui "il vangelo" era usato nel cristianesimo primitivo (e in particolar modo da Paolo) come termine abbreviato e marcatore di identità. La frase faceva parte del dialetto sociale di diversi filoni del cristianesimo primitivo. Sebbene l'uso cristiano fosse piuttosto distintivo, non era incomprensibile per gli "outsiders". Infatti, era l'essenza stessa dell'intero campo semantico associato a questo sostantivo che τò εὐαγγέλιον era una proclamazione aperta, un annuncio aperto, sia agli ebrei che ai gentili, del vangelo di Dio o Vangelo riguardante Gesù Cristo.

Il modello di utilizzo che ho abbozzato è stato replicato in numerosi altri casi. Parole chiave del primo cristianesimo come ἐκκλησία, χάρις e ἀγάπη e καταλλάσσω non erano sconosciute al di fuori delle mura delle prime comunità di chiese domestiche, ma furono sviluppate notevolmente e collegate ad altre parole e frasi per esprimere la novità del contenuto del Vangelo.

Ho suggerito che l'uso paleocristiano del sostantivo "vangelo" si sviluppò in un contesto sociale piuttosto preciso. La relazione tra il Vangelo cristiano e la cultura deve sempre essere bilaterale. Bisogna trovare un linguaggio che faccia suonare campanelli in qualsiasi contesto culturale dato, ma sempre con il riconoscimento che la proclamazione cristiana possa essere sovversiva, come indubbiamente lo fu nel primo secolo.

Vale la pena di ricordare il detto ermeneutico di Gerhard Ebeling: "the same word can be said to another time only by being said differently". Voglio ripetere quel dictum oggi: "the same Gospel can be said to another time only by being said differently".[141] Quindi non voglio suggerire che i cristiani debbano necessariamente cospargere il sostantivo "vangelo" come coriandoli su tutte le loro dichiarazioni di missione, perché, in alcuni filoni del cristianesimo primitivo, il sostantivo brilla per la sua assenza. La mia speranza è che i cristiani trovino nuovi modi per esprimere il concetto significativamente. Nell'accettare questa sfida, saremo aiutati da una più profonda comprensione dei modi ricchi e diversi in cui il sostantivo "vangelo" è usato negli scritti del Nuovo Testamento, e in particolare da Paolo.

Per approfondire, vedi Serie cristologica, Serie misticismo ebraico e Serie delle interpretazioni.
"Volto di Cristo (studio)", di Guido Reni
"Volto di Cristo (studio)", di Guido Reni
  1. Ci sono stati diversi studi importanti in tedesco; i dettagli sono stati forniti supra, nelle relative note dell'Introduzione. Il gruppo di parole ha attirato curiosamente poca attenzione da parte degli studiosi, sebbene una notevole eccezione sia la discussione dello storico australiano G. H. R. Horsley, "The ‘Good News’ of a Wedding", in New Documents Illustrating Early Christianity, Vol. iii (Macquarie University: The Ancient History Documentary Research Centre, 1983), pp. 10–15. Cfr. anche A. J. Spallek, "The Origin and Meaning of Εὐαγγέλιον in the Pauline Corpus", CTQ 57 (1993) 177–90.
  2. Cfr. R. I. Deibert, Mark (Louisville: Kentucky, 1999), p. 6.
  3. Cfr. Diarmaid MacCulloch, Tudor Church Militant: Edward VI and the Protestant Reformation (London: Allen Lane, the Penguin Press, 1999), p. 58.
  4. Per esempio: Papa Giovanni Paolo II, Fides et Ratio (1998). "Il Vangelo non è contrario a questa od a quella cultura come se, incontrandosi con essa, volesse privarla di ciò che le appartiene e la obbligasse ad assumere forme estrinseche che non le sono conformi. Al contrario, l'annuncio che il credente porta nel mondo e nelle culture è forma reale di liberazione da ogni disordine introdotto dal peccato e, nello stesso tempo, è chiamata alla verità piena. In questo incontro, le culture non solo non vengono private di nulla, ma sono anzi stimolate ad aprirsi al nuovo della verità evangelica per trarne incentivo verso ulteriori sviluppi."
  5. Uso affascinante e molto diverso di "vangelo" viene usato nel titolo di un libro: The Gospel of Sri Ramakrishna, tradotto e curato da Swami Nikhilandanda (New York: Ramakrishna-Vivekanda Center, 1942). Sri Ramakrishna è uno dei più noti uomini santi indù moderni e qui "Gospel" è chiaramente un prestito dal cristianesimo, poiché ha avuto un impatto sulla cultura indiana nel Bengala del diciannovesimo secolo.
  6. L'attuale uso secolare della “verità da vangelo” potrebbe derivare dall'usanza angloamericana di giurare sulla Bibbia in un tribunale, affermando di dire "the truth, the whole truth, and nothing but the truth". In italiano, nella parlata popolare, si escalama: "È vangelo!" ⇒ per dire = "È la sacrosanta verità!"
  7. I sociolinguisti ora distinguono tra un "idioletto" e un "socioletto". Il primo è il modello linguistico idiosincratico di un individuo, mentre il secondo è il modello linguistico specifico di un gruppo, che può includere una nuova coniazione di vocabolario o un uso specializzato di termini "normali". Cfr. la Sezione 8 di seguito.
  8. R. E. Brown traduce ἡ ἀγγελία come "il vangelo" e suggerisce che potrebbe essere l'equivalente tecnico giovanneo di τò εὐαγγέλιον. Afferma inoltre che, quando i credenti giovannei parlavano del contenuto di ciò che chiamiamo il Vangelo di Giovanni, potrebbero avervi fatto riferimento come la angelia (ἡ ἀγγελία). The Epistles of John, Anchor Bible (Garden City: Doubleday, 1982), p. 193.
  9. Cfr. inoltre Stuhlmacher, Das paulinische Evangelium, pp. 155–6. Nota anche due ulteriori esempi in varianti, 2 Samuele 18:27 e 2 Samuele 18:31 (LXX = 2 Re), ma accetta che la LXX non contiene esempi di uso teologico di εὐαγγέλιον.
  10. Le differenze tra il testo ebraico e la LXX meritano molta attenzione, ma non influiscono sul punto generale qui sollevato.
  11. Cfr. C. M. Tuckett, ‘Scripture and Q’, in C. M. Tuckett, cur., The Scriptures in the Gospels (Leuven: University Press, 1997), pp. 20–6.
  12. U. Luz, Das Evangelium nach Matthäus, EKK i/1, 5a ed. (Düsseldorf e Zurigo: Benziger, 2002), pp. 276–7, discute i problemi che deve affrontare il traduttore di μακάριος e conclude: "Eine ideale Übersetzung gibt es im Deutschen nicht". Lo stesso vale in italiano.
  13. La relazione precisa delle beatitudini iniziali con Isaia 61:1-2,7 è controversa. Per un riassunto degli studi recenti cfr. Luz, Matthäus, pp. 271–2. Per una discussione dettagliata cfr. F. Neirynck, "Q6, 20b–21; 7, 22 and Isaiah 61", in C. M. Tuckett, cur., The Scriptures in the Gospels (Leuven: University Press, 1997), pp. 27–64.
  14. Per es. nella Versione siriaca curetoniana.
  15. Trascrivo la traduzione originale (EN) onde evitare ulteriori interpretazioni.
  16. La traduzione è tratta da The Dead Sea Scrolls: Study Edition, curato e tradotto da Florentino García Martínez e Eibert J. C. Tigchelaar, Vol. ii (Brill: Leiden, 1998), p. 1045. Il testo ebraico è stampato sulla pagina a fronte, ed è inclusa una bibliografia. Qui ho fornito il grassetto.
  17. John J. Collins, The Scepter and the Star (New York: Doubleday, 1995), pp. 116–23. Per una discussione della letteratura più recente e supporto dell'interpretazione qui data, cfr. J. J. Collins, ‘Jesus, Messianism and the Dead Sea Scrolls’, in J. H. Charlesworth, H. Lichtenberger, e G. S. Oegema, curr., Qumran – Messianism: Studies on the Messianic Expectations in the Dead Sea Scrolls (Tübingen: Mohr–Siebeck, 1998), pp. 100–19, spec. 112–16; C. A. Evans, ‘Jesus and the Dead Sea Scrolls’, in P. W. Flint e J. C. Vanderkam, curr., The Dead Sea Scrolls after Fifty Years (Leiden: Brill, 1999), pp. 585–8.
  18. Per testo e traduzione, con bibliografia recente, cfr. The Dead Sea Scrolls, Vol. ii, pp. 1206–9. Per discussioni e bibliografia precedenti, cfr. G. N. Stanton, ‘On the Christology of Q’, in B. Lindars e S. S. Smalley, curr., Christ and Spirit in the New Testament (Cambridge: Cambridge University Press, 1973), pp. 27–42.
  19. Cfr. specialm. J. Ian H. McDonald, ‘Questioning and Discernment in Gospel Discourse: Communicative Strategy in Matthew 11.2-9’, in B. Chilton e C. A. Evans, curr., Authenticating the Words of Jesus (Leiden: Brill, 1999), pp. 333–62.
  20. Si veda il Capitolo 5 appresso.
  21. Per una discussione più ampia cfr. Seazione 9 appresso.
  22. Così, ad esempio, G. Friedrich nel suo influente articolo εὐαγγέλιον in TDNT ii, p. 727. W. Marxsen, Mark the Evangelist (Nashville: Abingdon, 1969), p. 124 considera questo "altamente improbabile".
  23. Marxsen, Mark the Evangelist, p. 128.
  24. P. Stuhlmacher, ‘The Theme: The Gospel and the Gospels’, in P. Stuhlmacher, cur., The Gospel and the Gospels (Grand Rapids: Eerdmans, 1991), pp. 22–3, e spec. nota 81.
  25. Pr una discussione minuziosa dell'influenza di Paolo su Marco, cfr. J. Marcus, ‘Mark – Interpreter of Paul’, NTS 46 (2000) 473–87.
  26. Ad esempio, P. Stuhlmacher (‘The Theme: The Gospel and the Gospels’, pp. 20–1) suggerisce che Marco 1:15, "with its very striking semitism, πιστεύετε ἐν τῷ εὐαγγέλίῳ, believe in the gospel, is best explained (as Schlatter had already observed) as tradition". J. Marcus, Mark 1-8, Anchor Bible 27 (New York: Doubleday, 2000), p. 174, suggerisce che Marco 1:15 è una formula battesimale, anche se il suo significato potrebbe risalire al Gesù storico.
  27. Cfr. inoltre C. F. D. Moule, An Idiom-Book of New Testament Greek (Cambridge: Cambridge University Press, 1960), pp. 80–1, 205.
  28. Così anche J. P. Meier, A Marginal Jew, Vol. ii (New York: Doubleday, 1994), pp. 431 e 485.
  29. Morna D. Hooker, The Gospel according to St Mark (London: A. & C. Black, 1991), p. 34.
  30. Per una discussione completa cfr. Frankemolle, Evangelium, pp. 76–86.
  31. P. Stuhlmacher suggerisce con cautela che il Targum su Isaia 53:1 potrebbe essere rilevante, ma non tenta di datare il Targum. The Gospel and the Gospels, p. 20 n. 74 e pp. 22–3 n. 22.
  32. La portata dell'adattamento paolino del testo ebraico masoretico o della LXX è stata molto discussa. Ora sembra esserci un accordo sul fatto che Paolo stia adattando un testo greco "non standard". Cfr. in particolare D.-A. Koch, Die Schrift als Zeuge des Evangeliums (Tübingen: Mohr, 1986), pp. 66–9, 81–2, 113–14, 122; C.D. Stanley, Paul and the Language of Scripture (Cambridge: Cambridge University Press, 1992), pp. 134–41; Shiu-Lun Shum, Paul's Use of Isaiah in Romans (Tübingen: Mohr–Siebeck, 2002).
  33. Cfr. in particolare la valutazione critica di Rainer Riesner riguardo ai tentativi di ricostruire la cronologia del cristianesimo più antico, Paul’s Early Period: Chronology, Mission Strategy, Theology (Grand Rapids: Eerdmans, 1998), pp. 3–32 (pubblicato per la prima volta come Die Frühzeit des Apostels Paulus (Tübingen: Mohr, 1994)).
  34. Martin Hengel e Anna Maria Schwemer, Paul between Damascus and Antioch (London: SCM, 1997), p. 27.
  35. Riesner, Paul’s Early Period, p. 124, suggerisce il 36/7 o forse il 39/40 come data probabile.
  36. C'erano state tensioni precedenti. Due volte al giorno venivano offerti sacrifici nel tempio per l'imperatore. Il tentativo di Ponzio Pilato di introdurre truppe a Gerusalemme con le normali insegne recanti l'effigie dell'imperatore provocò indignazione (Flavio Giuseppe, Guerra ii.169-74; Ant. 18.55-9). Per una discussione dettagliata vedi Helen Bond, Pontius Pilate in History and Interpretation (Cambridge: Cambridge University Press, 1998), pp. 49–94.
  37. Dio Cassius 59.28; Suetonius, Caligula 22.
  38. Hengel e Schwemer, Paul, p. 181.
  39. Su “storia” nella teologia di Paolo cfr. in particolare B. Longenecker, cur., Narrative Dynamics in Paul (Louisville: Westminster John Knox, 2002).
  40. Cfr. D. Georgi, ‘Die Stunde des Evangeliums Jesu und Cäsar’, in D. Georgi, M. Moxter, e H.-G. Heimbrock, curr., Religion und Gestaltung der Zeit (Kampen: Kok Pharos, 1994), pp. 52–68.
  41. S. R. F. Price nota che "il latino ‘Augustus’ era un titolo, che implicava il favore divino, dato al primo imperatore, che chiamiamo Augusto, e impiegato dai suoi successori. "Sebastos" è l'equivalente greco, ma ha una più forte associazione con la dimostrazione di riverenza religiosa (eusebeia) all'imperatore". Rituals and Power: The Roman Imperial Cult in Asia Minor (Cambridge: Cambridge University Press, 1984), p. 2 n. 1.
  42. Cfr. specialmente S. J. Friesen, Twice Neokoros: Ephesus, Asia and the Cult of the Flavian Imperial Family (Leiden: Brill, 1993); A. Small, cur., Subject and Ruler: The Cult of the Ruling Power in Classical Antiquity. Papers presented at a conference held at the University of Alberta on April 13–15th, 1994, to celebrate the 65th anniversary of Duncan Fishwick (Journal of Roman Archaeology Supplementary Series 17 (1996)); A. Brent, The Imperial Cult and the Development of Church Order (Leiden: Brill, 1999); I. Gradel, Emperor Worship and Roman Religion (Oxford: Clarendon, 2002).
  43. Cfr. Paul Zanker, The Power of Images in the Age of Augustus (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1990), p. 3: "My interest is... in the totality of images that a contemporary world would have experienced... not only ‘works of art’, buildings, and poetic imagery, but also religious ritual, clothing, state ceremony, the emperor’s conduct and forms of social intercourse".
  44. G. Alföldy, "Subject and Ruler, Subjects andMethods: An Attempt at a Conclusion", in Small, Subject and Ruler, p. 255. Cfr. Price, Rituals and Power, p. 130: "The imperial cult... was probably the most important cult in the province of Asia".
  45. G. Alföldy cita la visione, oggi generalmente respinta, di Kurt Latte (scritto nel 1958) secondo cui il culto imperiale era un'invenzione dei padri della Chiesa. "Subject and Ruler", p. 254. Cfr. anche Zanker, Power of Images, p. 299.
  46. Cfr. Price, Rituals and Power, p. 55, per riferimenti ad un gruppo di studiosi che hanno difeso questa ipotesi. Da notare la sua insistenza (p. 71) che "it is quite wrong to reduce the imperial cult to a pawn in a game of diplomacy . . . It was not dreamed up simply to flatter the emperor". Cfr. anche Zanker, Power of Images, p. 299.
  47. Price, Rituals and Power, p. 55. In contrasto, Stuhlmacher, Das paulinische Evangelium, p. 196: "Der Kaiserkult geh¨orte, wenn man einmal so formulieren darf, mehr zur politisch-religiösen Engagement der Vielen."
  48. Price, Rituals and Power, p. 56. Così anche F.Millar, "The Impact of Monarchy", in F.Millar e E. Segal, curr., Caesar Augustus: Seven Aspects (Oxford: Clarendon, 1984), p. 53.
  49. Alföldy, "Subject and Ruler", p. 255; Price, Rituals and Power, pp. 107–11.
  50. Price, Rituals and Power, pp. 91–7.
  51. Pace Stuhlmacher, Das paulinische Evangelium, p. 197.
  52. S. Mitchell, Anatolia: Land, Men and Gods in Asia Minor, Vol. ii (Oxford: Oxford University Press, 1993), p. 10.
  53. Alföldy, "Subject and Ruler", p. 255.
  54. J. J.Meggitt, "Taking the Emperor’s Clothes Seriously: The New Testament and the Roman Emperor", in Christine E. Joynes, cur., The Quest for Wisdom: Essays in Honour of Philip Budd (Cambridge: Orchard Academic, 2002), pp. 150–1.
  55. Per i particolari, cfr. P. Borgen, K. Fuglseth, e R. Skarsten, The Philo Index: A Complete Greek Word Index to the Writings of Philo of Alexandria (Grand Rapids: Eerdmans; Leiden: Brill, 2000).
  56. Cfr. Stuhlmacher, Das paulinische Evangelium, pp. 169–70 n. 2.
  57. Gerhard Friedrich, art. εὐαγγελίζωμαι in TDNT iii, p. 714.
  58. Justin Meggitt nota che fino a poco tempo fa gli studiosi del Nuovo Testamento che hanno preso sul serio la figura dell'imperatore romano si sono spesso trovati oggetto di scherno e il loro interesse è stato considerato, nella migliore delle ipotesi, un po' eccentrico. "Taking the Emperor's Clothes Seriously", pp. 143–69.
  59. L'edizione critica più completa e la discussione di tutti i frammenti è quella di Umberto Laffi, "Le iscrizioni relative all'introduzione nel 9 a.C. del nuovo calendario della Provincia d'Asia", Studi Classici e Orientali 16 (1968) 5–98. Cfr. anche Robert K. Sherk, Roman Documents from the Greek East: Senatus Consulta and Epistula to the Age of Augustus (Baltimore: Johns Hopkins, 1969), pp. 328–37 per un'edizione del testo greco, note, bibliografia e una breve discussione.
  60. Cfr. Res Gestae Divi Augusti, cur. P. A. Brunt e J. M. Moore (Oxford: OxfordUniversity Press, 1967). Cfr. anche S.Mitchell, "Galatia under Tiberius", Chiron 16 (1986) 17–33. Cfr. anche T. Witulski, Die Adressaten des Galaterbriefes. Untersuchungen zur Gemeinde von Antiochia ad Pisidiam (Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 2000), p. 147.
  61. Sherk, Roman Documents, p. 334.
  62. Price, Rituals and Power, p. 106.
  63. Ho tradotto con piccole modifiche la versione di F. W. Danker, Benefactor (St Louis, Miss.: Clayton, 1982), pp. 216–17. Il greco è citato dall'edizione di U. Laffi, "Le iscrizioni".
  64. I. Olympia 53, come citato da Price, Rituals and Power, p. 55.
  65. Sammelbuch griechischer Urkunden aus Aegypten 1 (1915) 421.2. Ho citato in traduzione il testo dato da Horsley, New Documents, Vol. iii, p. 12. Cfr. anche A. Deissmann, Light from the Ancient East (London: Hodder and Stoughton, 1910), pp. 371–2.
  66. Così anche Frankemölle, Evangelium, p. 89. Dei riferimenti dati in BDAG, Ps.-Luciano, Asinus 26 e Appiano, Bella Civilia 3.92 sono al singolare.
  67. Cfr. Horsley, New Documents, Vol. iii, pp. 10–15. Horsley fa riferimento (inter alia) all'uso che Cicerone fa di εὐαγγέλια in tre delle sue lettere ad Attico: 2.3.1; 2.12.1; 13.40.1.
  68. New Documents, Vol. iii, p. 13.
  69. Ho scelto deliberatamente "rivali". Justin Meggitt, "Taking the Emperor's Clothes Seriously", usa l'espressione "polemical rivalry (=rivalità polemica)", ma almeno ai tempi di Paolo è difficile trovare una polemica diretta usata da entrambe le parti.
  70. M. Winger, ‘Act One: Paul Arrives in Galatia’, NTS 48 (2002) 548–67.
  71. Ad esempio, H. D. Betz dedica solo quattro paragrafi a questo problema nel suo commentario Hermeneia (Philadelphia: Fortress, 1979). Nel suo commentario Anchor Bible (New York: Doubleday, 1998) J. L. Martyn include solo tre paragrafi. Entrambi optano per l'ipotesi della "Galazia settentrionale" o del "territorio".
  72. Per riferimenti alla letteratura, cfr. C. Breytenbach, Paulus und Barnabas in der Provinz Galatien. Studien zu Apostelgeschichte 13f.; 16, 6; 18, 23 und den Adressaten des Galaterbriefes (Leiden: Brill, 1996), p. 1 n. 4.
  73. Riesner, Paul’s Early Period, spec. pp. 273–9; Breytenbach, Paulus und Barnabas; Witulksi, Die Adressaten des Galaterbriefes.
  74. Se si opta per la teoria della Galazia settentrionale, non mancano prove del culto imperiale ad Ancira. L'imponente tempio di Roma e Augusto era già in costruzione negli anni centrali del regno di Augusto. Il testo latino delle Res Gestae e una sua parafrasi greca erano incisi sulle pareti del tempio. A Pessinunte, seguì presto il culto degli imperatori. Cfr. Mitchell, Anatolia, Vol. i, p. 103.
  75. Ibid., Vol. ii, p. 3.
  76. Nel suo The Book of Acts in its Hellenistic Setting (Tübingen: Mohr, 1989), p. 307, C. J. Hemer dubitava che fosse possibile dare una riformulazione adeguata della teoria della Galazia settentrionale in una forma che tentasse di fare un uso equilibrato e rappresentativo delle prove epigrafiche.
  77. 79 See especially Breytenbach, Paulus und Barnabas; P. Pilhofer, ‘Luke’s Knowledge of Antioch’, in T. Drew Bear, M. Tashalan, and C. M. Thomas, eds., Actes du Ier Congr`es International sur Antioche de Pisidie (Lyons and Paris: Universit´e Lumi`ere-Lyon 2 and Diffusion de Boccard, 2000), pp. 77–84. D. Campbell notes that Luke’s references to Perge and Attalia and Paul’s journey inland to Pisidian Antioch on the Via Sebaste are ‘spot on’. ‘Paul in Pamphylia (Acts 13.13-14a; 14.24b–26): A Critical Note’, NTS 46 (2000) 595–602.
  78. Mitchell, Anatolia, Vol. ii, pp. 5–8; Breytenbach, Paulus und Barnabas, pp. 38–45.
  79. S. Mitchell e M. Waelkens, curr., Pisidian Antioch: The Site and its Monuments (London, Duckworth, 1998), p. 12.
  80. S. Mitchell insiste sul fatto che la prima missione di Paolo in Asia Minore "was not aimed at low-status Anatolian natives, still less at ‘foolish Galatians’, but at the Romanised provincial elite". Ibid.
  81. Barbara Levick, Roman Colonies in Southern Asia Minor (Oxford: Oxford University Press, 1967), pp. 190–1.
  82. David French, "Acts and the Roman Roads of Asia Minor", in D.W. J. Gill e C. Gempf, curr., The Book of Acts in its Graeco-Roman Setting (Grand Rapids: Eerdmans, 1994), pp. 49–58.
  83. Per una discussione dettagliata cfr. cap. 5, "The Augustan Imperial Sanctuary", in Mitchell e Waelkens, Pisidian Antioch", spec. p. 167.
  84. Per il testo e la traduzione cfr. Mitchell e Waelkens, Pisidian Antioch, p. 147. L’editio princeps non credo sia ancora stata pubblicata.
  85. Mitchell e Waelkens, Pisidian Antioch, p. 164.
  86. Ad Antiochia non mi risulta siano stati ancora scoperti frammenti in greco.
  87. Cfr. Brunt e Moore, Res Gestae Divi Augusti.
  88. Gradel, Emperor Worship and Roman Religion, p. 281.
  89. Cfr. G. N. Stanton, "Galatians", in J. Barton e J. Muddiman, curr., The Oxford Bible Commentary (Oxford: Oxford University Press, 2001), pp. 1152–65.
  90. Betz, Galatians, pp. 217–18.
  91. Witulski, Die Adressaten des Galaterbriefes, pp. 155–6.
  92. Ibid., pp. 158–68.
  93. Brunt e Moore, Res Gestae Divi Augusti, cap. 9, p. 23.
  94. B. W. Winter, "The Imperial Cult and Early Christians in Roman Galatia (Acts xiii 13-50 and Galatians vi 11-18", in T. Drew-Bear, M. Tashalan, e C. M. Thomas, curr., Actes du Ier Congrès International sur Antioche de Pisidie (Université Lumière-Lyon 2 e Diffusion de Boccard, 2002), pp. 67–75.
  95. Cfr. in particolare la giudiziosa valutazione di J. M. G. Barclay riguardo alle limitate prove sullo status sociale degli ebrei nella provincia asiatica, Jews in the Mediterranean Diaspora (Edimburgo: T & T Clark, 1996), pp. 259–81. Egli nota (p. 279) che è frustrante che le prove sull'ambiente sociale degli ebrei asiatici nel primo secolo siano così misere. Non discute della Galazia. Si veda anche Paul Trebilco, Jewish Communities in Asia Minor (Cambridge: Cambridge University Press, 1991), pp. 167–85.
  96. J. M. G. Barclay, Obeying the Truth: A Study of Paul’s Ethics in Galatians (Edinburgh: T & T Clark, 1988), p. 60.
  97. Per dettagli, cfr. Peter Oakes, Philippians: From People to Letter (Cambridge: Cambridge University Press, 2001), pp. 138–47. Cfr. anche W. Foerster, art. σωτήρ, TDNT vii, pp. 1010–12.
  98. Cfr. Oakes, Philippians, p. 140 per dettagli.
  99. 103 La risposta confessionale dell’eunuco etiope: «Credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio» (At 8,37), è chiaramente un’aggiunta successiva al testo.
  100. Cfr. R. A. Horsley, Paul and Politics: Ekklesia, Imperium, Interpretation (Harrisburg, Pa.: Trinity Press International, 2000). Per Romani cfr. N. T. Wright, ‘A Fresh perspective on Paul?’, BJRL 83 (2001) 21–39. Per il culto imperiale a Corinto, cfr. J. K. Chow, Patronage and Power: A Study of Social Networks in Corinth (Sheffield: JSOT Press, 1992).
  101. J. R. Harrison, "Paul and the Imperial Gospel at Thessaloniki", JSNT 25 (2002) 71–96.
  102. Ibid., p. 92.
  103. Oakes, Philippians, pp. 147–74.
  104. Ibid., p. 137.
  105. M. M. Mitchell, "Rhetorical Shorthand in Pauline Argumentation: The Functions of ‘the Gospel’ in the Corinthian Correspondence’, in L. A. Jervis e P. Richardson, curr., Gospel in Paul, FS R. N. Longenecker (Sheffield: JSOT Press, 1994), pp. 63–88; qui 63–4; W. Meeks, The First Urban Christians: The Social World of the Apostle Paul (New Haven: Yale, 1983), p. 93. Cfr. anche Betz, Galatians, pp. 27–8, che elenca una quantità di lists a number of Pauline ‘theological abbreviations’ paoline, ma non (stranamente) τò εὐαγγέλιον.
  106. Mitchell, ‘Rhetorical Shorthand’, p. 88.
  107. Cfr. specialmente P. H. Kern, Rhetoric and Galatians (Cambridge: Cambridge University Press, 1998).
  108. Per un utile esame dello sviluppo della disciplina, cfr. R. B. Le Page, "The Evolution of a Sociolinguistic Theory of Language", in Florian Coulmas, cur., The Handbook of Sociolinguistics (Oxford: Blackwell, 1997), pp. 15–32.
  109. Lesley Milroy, Language and Social Networks, 2a ediz. (Oxford: Blackwell, 1987).
  110. J. K. Chambers, Sociolinguistic Theory (Oxford: Blackwell, 1995), p. 250.
  111. Cfr. anche, A. Tabouret-Keller, "Language and Identity", in Coulmas, Sociolinguistics, pp. 315–26.
  112. J. R. Harrison, "Paul’s Language of Grace (Χάρις) in its Graeco-Roman Context", WUNT cur. J. C. B.Mohr, Tubingen. Cfr. anche il suo "Paul, Eschatology and the Augustan Age of Grace", TB 50 (1999) 79–91.
  113. Harrison, "Paul’s Language of Grace", p. 201 e p. 210.
  114. Cfr. anche G. N. Stanton, Jesus of Nazareth in New Testament Preaching (Cambridge: Cambridge University Press, 1974), pp. 86–116.
  115. Cfr. Longenecker, Narrative Dynamics in Paul.
  116. Cfr. F. Van Segbroeck et al., curr., The Four Gospels 1992, Vol. ii (Leuven: Leuven University Press, 1992), pp. 1190–5.
  117. Cfr. M. Hengel, "The Titles of the Gospels and the Gospel of Mark", nel suo Studies in the Gospel of Mark (London: SCM, 1985), p. 66f.
  118. Si veda il Capitolo 3.
  119. Cfr. A. von Harnack, Marcion: Das Evangelium vom fremden Gott (Leipzig: J. C. Hinrichs, 1921), pp. 165–6.
  120. H. Koester, "From the Kerygma-Gospel to Writen Gospels", NTS 35 (1989) 361–81, in particolare 377–81; la frase citata è usata a p. 381. Mentre a prima vista sembra improbabile che Giustino adottasse un uso introdotto per la prima volta dal suo acerrimo rivale Marcione, ciò non è impossibile. I rivali spesso si influenzano a vicenda in misura molto maggiore di quanto non ne siano consapevoli.
  121. Ibid., p. 381 n. 1. M. Hengel aveva già esposto lo stesso punto in dettaglio in precedenza. Cfr. i suoi "Titles", pp. 74–81.
  122. "Kerygma-Gospel", p. 373 n. 2.
  123. Cfr. M. Hengel, "Titles", p. 65. In un punto molto precoce Papia si riferisce ai nomi degli autori dei vangeli senza usare εὐαγγέλιον, ma sta commentando l'origine degli scritti, non riferendosi al titolo di un manoscritto.
  124. Koester, "Kerygma-Gospel", p. 374 suggerisce che ciò che Papia dice sia su Matteo che su Marco rivela che questi ‘vangeli’ avevano incipit simili a quelli ancora conservati nei vangeli della Biblioteca di Nag Hammadi. Ma questo non ci porta più avanti. Secondo la stessa indagine di Koester nel suo Ancient Christian Gospels: Their History and Development (London: SCM e Philadelphia: Trinity, 1990), pp. 20–3, la maggior parte degli incipit e dei colophon dei ‘vangeli’ di Nag Hammadi sono mancanti o sono chiaramente aggiunte successive ai manoscritti. È molto improbabile che Matteo e Marco siano mai stati definiti ‘Detti Segreti’ o ‘Libro Segreto’!
  125. W. R. Schoedel insiste (ma a mio avviso senza argomenti convincenti) sul fatto che Ignazio usa sempre τò εὐαγγέλιον per riferirsi alla proclamazione orale, non a uno scritto. Cfr. il suo Ignatius of Antioch, Hermeneia (Philadelphia: Fortress, 1985), p. 208 n. 6; p. 234.
  126. Cfr. W. Köhler, Die Rezeption des Matthäusevangeliums in der Zeit vor Irenäus, WUNT 24 (Tübingen: Mohr, 1987); O. Knoch, "Kenntnis und Verwendung des Matthäus-Evangeliums bei den Apostolischen Vätern", in L. Schenke, cur., Studien zum Matthäusevangeliums, FS W. Pesch (Stuttgart: Katholisches Bibelwerk, 1988), pp. 167–8.
  127. Ho citato da M. W. Holmes, sua revisione di J. B. Lightfoot, The Apostolic Fathers: M. W. Holmes, cur., The Apostolic Fathers: Greek Texts and English Translations, 2a ediz. (Grand Rapids: Baker, 1992).
  128. Koester, "Kerygma-Gospel", pp. 371ss., assegna questi passaggi in modo piuttosto arbitrario alla redazione finale della Didaché, che egli data alla fine del secondo secolo. Questa datazione tardiva e la sua negazione della dipendenza della Didaché da Matteo sono accettate da pochi altri studiosi.
  129. La discussione di W. Marxsen sull'uso di τò εὐαγγέλιον da parte di Marco è stata influente. Cfr. il suo Mark the Evangelist, in particolare pp. 126–38.
  130. W. Marxsen suggerisce che è quasi casuale che appaia qualcosa nel modo del resoconto, Mark the Evangelist, p. 131. R. Guelich sostiene con forza che 1:1 non è un titolo per l'intera opera poiché sintatticamente deve essere collegato alla frase che segue. Cfr. il suo Mark, Word Biblical Commentary (Dallas: Word, 1989), p. 9, e, più ampiamente, "The Gospel Genre", in P. Stuhlmacher, cur., Das Evangelium und die Evangelien (Tübingen: Mohr, 1983), pp. 183–219, in particolare pp. 204–8.
  131. Hengel, "Titles", p. 83.
  132. Marxsen, Mark the Evangelist, p. 124, sostiene che per Matteo "the gospel is of a piece with his speech complexes", ma 26.13 sicuramente lo esclude. A p. 141 ammette che c'è "a kernel of truth" nell'ipotesi che l'aggiunta di τοῦτο da parte di Matteo intenda stabilire una connessione tra il Vangelo in quanto tale e il libro di Matteo.
  133. J. D. Kingsbury, Matthew: Structure, Christology, Kingdom (London: SPCK, 1975), p. 130, e anche p. 163.
  134. Ibid., 131. Kingsbury fa riferimento a diversi autori precedenti che hanno sostenuto la stessa conclusione. Cfr. ora anche W. Schenk, Die Sprache des Matthäus (Göttingen, Vandenhoeck&Ruprecht, 1987), p. 265. U. Luz, Matthäus, p. 249 è favorevole a questa visione, ma suggerisce che non è ancora stato tracciato un collegamento diretto. In Ancient Gospels, p. 11, n. 4, H. Koester afferma piuttosto avventatamente che tutti i commentari moderni concordano sul fatto che "questo vangelo" in Matteo 26:13 non può riferirsi al Vangelo di Matteo, trascurando così i commentari di J. Schniewind (su Matteo 24:14) e W. Grundmann. Per una visione diversa, cfr. R. H. Gundry, "εὐαγγέλιον: How Soon a Book?", JBL 115 (1996) 321–5.
  135. Questoè un punto ben reso da M.Hengel in "Titles"; si veda la sua sezione intitolata "The Practical Necessity of the Titles", pp. 74–81.
  136. M. Hengel, che vede Marco come l'innovatore, non discute le differenze tra Matteo e Marco in "Titles". Accetto il punto di Hengel secondo cui Marco potrebbe essere stato definito "il vangelo" non appena iniziò a essere utilizzato nelle letture durante il culto. Se così fosse, allora questo uso avrebbe influenzato Matteo. Tuttavia, la prima prova esplicita dell'uso di τò εὐαγγέλιον per uno scritto si trova nel Vangelo di Matteo, non in quello di Marco.
  137. Per una visione molto diversa, cfr. H. Frankemölle, Jahwebund und Kirche Christi (Münster: Aschendorff, 1974), che sostiene che Matteo è un'opera letteraria, un Buch der Geschichte modellato sulla scrittura della storia ebraica come il Deuteronomio e le Cronache. Questa affermazione non rende giustizia all'importanza per Matteo degli scritti profetici dell'AT e del Vangelo di Marco.
  138. Devo la suggestiva espressione “benefattore disonorato (dishonoured benefactor)” a Harrison, “Paul’s Language of Grace”, p. 210.
  139. (Londra: Hodder & Stoughton, 1908). Nonostante il titolo, James Denney include solo un paragrafo sul termine "vangelo". Sorprendentemente, non esita ad accettare che Marco usi il termine "vangelo" nel senso della chiesa apostolica (p. 57).
  140. Di solito si suppone che il quarto evangelista abbia unito senza residui la proclamazione di Gesù e la proclamazione post-pasquale, così che ci sia una completa continuità tra le due. Questa non è proprio tutta la storia, perché l'evangelista distingue tra pre- e post-pasquale per mezzo del suo motivo di "memoria". Quando Gesù dice: "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" (2:19), né i leader ebrei né i discepoli capiscono cosa intenda. Tuttavia, l'evangelista spiega che alla luce della fede nella risurrezione i discepoli ricordarono questo detto e ne compresero il significato (2:22). Lo stesso vale per l'ingresso a Gerusalemme (12:16; cfr. anche 14:26 e 20:9).
  141. G. Ebeling, "Time and Word", in J. M. Robinson, cur., The Future of our Religious Past: Essays in Honour of Rudolf Bultmann (London: SCM, 1971), p. 265.