Filosofia dell'amicizia/Parte I

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Indice del libro
"Damone e Finzia", illustrazione del 1871
"Damone e Finzia", illustrazione del 1871


L’amicizia è una sola anima che abita in due corpi,
un cuore che batte in due anime.

(Aristotele)

Gli ideali classici dell'amicizia[modifica]

L'amicizia è uno dei temi più pervasivi negli scritti che ci sono pervenuti dagli antichi Greci. L'amicizia spesso guida la trama nella poesia epica greca (ad esempio Achille e Patroclo) e nella tragedia (ad esempio, il Filottete di Euripide). L'oratoria greca comporta appelli all'amicizia, e scrittori come Esiodo e Teognide erano pieni di consigli sull'importanza dell'amicizia. Tuttavia, ciò che troviamo particolarmente sorprendente è il fatto che i filosofi greci dei periodi classico ed ellenistico abbiano assunto l'amicizia come argomento filosofico e che le loro varie teorie sulla natura dell'amicizia fossero normative — indicando chiaramente come dovrebbe essere l'amicizia e il ruolo che dovrebbe svolgere nella vita politica delle loro comunità. Mentre le raffigurazioni di amicizia negli scritti greci antichi hanno avuto senza dubbio un impatto sul successivo pensiero occidentale, le teorie filosofiche degli ideali di amicizia sono state molto più influenti. In effetti, questi antichi ideali greci di amicizia dominano la scrittura autoriflessiva sul tema dell'amicizia fino al diciottesimo secolo. Di conseguenza, questa sezione si concentrerà meno sulle pratiche dell'amicizia nel mondo antico o sulla rappresentazione letteraria delle amicizie e più sugli ideali normativi dell'amicizia offerti dai filosofi.

Una cosa da notare all'inizio è che la parola greca tradotta come amicizia – philia (greco antico: φιλία) – abbraccia una gamma molto più ampia di relazioni rispetto a quelle descritte dalla parola "amicizia" in italiano. In effetti, come vedremo in questo libro, l'uso di "amicizia" o termini correlati per riferirsi esclusivamente ad amici intimi è un'innovazione relativamente recente. Philia per gli antichi greci includeva membri della famiglia e persone che avremmo descritto come conoscenti, non amici. Quindi le teorie filosofiche della philia coprono molto più terreno di quanto ci si potrebbe aspettare inizialmente.

Sebbene la philia racchiuda molte relazioni, le nostre testimonianze dagli antichi filosofi greci la guardano da un numero di punti di vista inferiore a quello che si potrebbe desiderare. Come con quasi tutti gli altri documenti dell'antichità, teorizzare sull'amicizia vuol dire farlo interamente con voce maschile. A volte i filosofi dell'antica Grecia discutevano dell'amicizia con/tra donne, ma non conosciamo scritti sul tema dell'amicizia tra donne filosofe. (Le opere attribuite alle donne della scuola pitagorica sono falsificazioni di un'era successiva la cui paternità deve rimanere incerta.) Dobbiamo riconoscere che queste discussioni filosofiche sull'amicizia sono situate sullo sfondo di strutture sociali e politiche molto diverse. (Discuteremo più in dettaglio il contrasto tra le città-stato greche relativamente indipendenti del periodo classico e i regni che hanno dominato il paesaggio storico dopo la morte di Alessandro Magno.) Per quanto diversi questi contesti politici fossero tra loro, lo erano ancor di più rispetto alla nostra visione moderna dello stato liberale. Ciò è particolarmente vero se consideriamo la questione di cosa serve lo stato. I filosofi greci erano quasi unanimi sull'esistenza dello stato come fine per rendere i cittadini uomini migliori e, nella misura in cui ciò era ritenuto possibile, di rendere anche le donne donne migliori. Questo è vero non solo per le città-stato come Sparta, ma per la città-stato democratica di Atene che tendiamo a pensare come più affine al nostro modo moderno di pensare a tali questioni. Dobbiamo tener conto di questa differenza se vogliamo capire cosa ci trasmette la filosofia dell'antica Grecia.

Questa nozione di "uomini (o donne) migliori" mette in evidenza un altro punto di contrasto con gran parte del liberalismo moderno. I filosofi greci si sentirono liberi di fornire teorie normative su come dovrebbe essere l'amicizia perché la loro struttura etica condivisa era eudemonistica. Eudaimonia (εὐδαιμονία) è l'antica parola greca tradotta più frequentemente come "felicità", ma tradotta in modo più accurato come "prosperità umana" o "benessere". Sebbene ciò sembri in qualche modo meno naturale, ha il vantaggio di annullare l'implicazione che l’eudaimonia fosse una sorta di transitorio stato di contentezza soggettiva. Eudaimonia era più di questo, e rifletteva il modo in cui lo scopo del vivere, per i Greci, non era semplicemente accontentarsi, ma vivere bene e quindi ottenere una buona reputazione e una fama duratura.

Aristotele definì l’eudaimonia come una vita in cui si manifesta l’aretê (ἀρετή) — un termine spesso tradotto come "virtù" ma forse meglio catturato da "eccellenza". Le virtù o le eccellenze sono quelle qualità che rendono una cosa buona nel suo genere. Come tali, non sono limitate agli esseri umani. Si può parlare delle virtù di un buon cavallo da corsa e indicare le qualità che lo rendono bravo a vincere le gare. Le virtù umane, quindi, saranno quelle qualità – in particolare i tratti caratteriali profondamente radicati – che rendono un uomo bravo a "svolgere la funzione umana", cioè ad adempiere la natura umana.

La virtù o l'eccellenza erano intimamente connesse al prosperare. Una persona che possedeva le virtù e agiva con esse agiva bene. Era una verità analitica per i greci che agire kat’aretên (in conformità con la virtù) significava agire con precisione, nobiltà, bellezza e benessere. (Termini come "precisione", "nobiltà" e "benessere" sono tutte sfumature di significato prese dall'aggettivo kalon.) Sicuramente la persona che ha quindi agito in modo fine, nobile, bello e benefico – e lo ha fatto costantemente – ha raggiunto almeno una parte importante del vivere bene. (Se la felicità fosse ben più che vivere in conformità con la virtù era questione di disaccordo tra i filosofi.) Dato il legame tra prosperare e vivere bene, la maggior parte dei filosofi concordava sul fatto che la virtù era una condizione perlomeno necessaria per prosperare.

Infine, è importante notare che la felicità di una persona, e il posto delle eccellenze nel garantirla, sono questioni di consumo pubblico, nonché di soddisfazione interiore. Dover evidenzia la tendenza pervasiva degli scrittori greci di dire cose come "Volevo essere visto come giusto", invece di poter dire semplicemente "Volevo essere giusto". Non è, pensa Dover, che conti solo l'apparenza. Piuttosto, "la bontà divorziata dalla reputazione di bontà era di scarso interesse" per i Greci dal V al IV secolo p.e.v.[1] Questo perché le azioni che incarnano la virtù dovrebbero essere riconosciute dai membri della propria comunità e dovrebbero tradursi in buona reputazione e fama.

Queste nozioni correlate di benessere e virtù forniscono quindi lo sfondo su cui gli antichi Greci consideravano l'importanza dell'amicizia. L'amicizia era in grado di formare un pezzo sostanziale nel puzzle di come si viveva una buona vita perché l'estensione del termine philia era molto più ampia di quella della parola italiana "amicizia". Pertanto, il ragionamento sull'importanza della philia in una vita buona implica molto più della nostra considerazione per il posto che occupa quella che chiamiamo "amicizia confidenziale" in una vita felice. Inoltre, ciò che teneva insieme le varie relazioni assunte sotto la philia era il principio secondo cui si dovrebbe cercare di aiutare gli amici e danneggiare i nemici. Questo era il principio generale che governava tutte le relazioni di philia. Lo troviamo in Esiodo: "Sii amico di quelli che sono amichevoli" (cioè quelli che sono disposti a farti un beneficio), e in Pindaro: "Lasciami esser amico del mio amico; ma sarò un nemico per il mio nemico, e mi ci avventerò come un lupo, percorrendo ogni sentiero storto". Non ci si limitava ai testi poetici, ma tale principio appariva come un assioma fondamentale d'azione morale nella difesa forense di un soldato da parte di Lisia: "Ho considerato sia ordinato [tetachthai] che si dovrebbe danneggiare i propri nemici e servire i propri amici". Famoso è Platone che trasforma il detto di Simonide "di rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto" in una definizione comune di giustizia articolata da Polemarco: "giustizia vuol dire beneficiare i propri amici e danneggiare i propri nemici".[2]

Come risultato di questo principio, sembra che il mondo dell'uomo greco fosse diviso in tre campi: quelli all'interno della propria cerchia di amici, quelli al di fuori e quelli che non erano né amici né nemici. Poiché anche quelli di quest'ultimo gruppo erano visti come potenziali amici o potenziali nemici,[3] la distinzione tra amici e nemici era quasi esaustiva nella pratica. Ma dobbiamo ricordarci che, sebbene le amicizie fossero viste come aventi utilità strumentale, il valore dell'amicizia non era esaurito da questo aspetto. Mary Blundell osserva che alcuni scrittori (ad esempio Democrito, Demostene, Aristotele) ammonivano che non dovremmo avere amici solo per motivi di beneficio.[4] Invece dovremmo formare amicizie che forniscano il miglior tipo di bene — ciò che è buono in sé e buono anche in termini di relative conseguenze.

Naturalmente, questi rapporti di amicizia e inimicizia tra individui all'interno della stessa città-stato rappresentavano una sfida all'azione collettiva. In risposta a questa tensione emerse la nozione di "amicizia civica" – caratterizzata da "mentalità simili" o homónoia (ὁμόνοια)[5] – un luogo comune politico.[6] L'amicizia ha quindi anche una dimensione politica.

Ora siamo in una buona posizione per capire perché gli antichi greci considerassero l'amicizia come un degno argomento di teorizzazione normativa. Tutte le nostre azioni sono finalizzate al raggiungimento di una vita eudaimon. Non si trattava solo di appagamento soggettivo, ma di una prosperità umana oggettiva. Le virtù o le eccellenze erano le qualità – qualunque qualità esse fossero – che ci permettevano di raggiungere la prosperità umana. Lo facevano permettendoci di compiere azioni eccellenti e nobili. Gli amici erano tenuti (con la pena di fare ciò che era ignobile e vergognoso) ad aiutare i loro amici a raggiungere obiettivi. Quindi, la varietà delle relazioni di philia forniva sia gli oggetti (i miei amici) ai quali potevo concedere benefici (compiendo azioni eccellenti e nobili) sia l’assistenza per il raggiungimento dei miei scopi. Per capire come vivere bene e raggiungere il benessere, dobbiamo riflettere sulla natura dell'amicizia e su come dovrebbe essere tale rapporto.

Se ciò è giusto, allora fornisce una matrice per pensare ai vari antichi ideali greci di amicizia. Esistono vari ideali di amicizia dell'antica Grecia perché, sebbene tutti i filosofi che tentano di teorizzare su di essa possano accettare la struttura delineata nel nostro ultimo paragrafo, vi comprendono cose leggermente diverse. Aristotele ed Epicuro sarebbero d'accordo, ad esempio, sul fatto che tutte le nostre azioni mirano all’eudaimonia, ma sarebbero in netto disaccordo su cosa fosse veramente l’eudaimonia. Di conseguenza, arrivarono a diverse concezioni di come fosse idealmente l'amicizia.

Esamineremo nelle successive sezioni di questo libro, la gamma e la varietà delle relazioni sociali che rientrano nel termine philia nel periodo classico, vale a dire il periodo dal quinto al quarto secolo p.e.v. Considereremo anche in modo un po' più dettagliato il presupposto comune che si dovrebbero aiutare i propri amici e danneggiare i propri nemici. Vedremo quindi le somiglianze e le differenze tra ideali teorici concorrenti dell'amicizia, derivati principalmente dagli scritti dei filosofi greci nel periodo classico. Il più influente di questi scrittori fu Aristotele e daremo alla sua relazione sull'amicizia il trattamento più completo prima di considerare sia la pratica che la teoria dell'amicizia nei periodi ellenistico e imperiale (dal terzo al primo secolo p.e.v.). Concluderemo con un breve esame della tradizione pitagorica di amicizia e il suo ruolo nella filosofia neoplatonica della tarda antichità, cioè fino alla chiusura dell'Accademia di Platone da parte dei cristiani nel 529 e.v.

Note[modifica]

  1. K. Dover, Greek Popular Morality in the Time of Plato and Aristotle, Oxford University Press, 1974, p. 226.
  2. Esiodo, Le opere e i giorni, p. 353; Pindaro, Pitiche, II.83–5; Lisia, IX.20; Platone, La Repubblica, 332a-b: Polemarco è convinto che il giusto, così come fa del bene agli amici onesti, debba danneggiare i nemici disonesti. Socrate introduce a questo punto una variante rispetto alla morale tradizionale: recar danno a una persona è sbagliato in ogni caso, perché la renderà solo più ingiusta. Quando si danneggia una persona o un animale, lo si danneggia nella virtù o eccellenza (aretê) che gli è propria. Se la giustizia è virtù umana, gli uomini che subiscono danno diventano per forza più ingiusti, e, come osserva Socrate, con la giustizia non si possono formare degli ingiusti. La tesi di Polemarco è così confutata: la massima "è giusto giovare agli amici e danneggiare i nemici" è attribuita addirittura a coloro che hanno realizzato "l'ingiustizia assoluta" e cioè i tiranni.
  3. Lynnette Mitchell, Greeks Bearing Gifts: The Public Use of Private Relationships in the Greek World, 435–323 BC, Cambridge University Press, 1997, p. 15.
  4. Blundell aggiunge: ""Questo può essere uno dei punti su cui l'ideale moralizzante si discosta di più dalla pratica ordinaria" (Helping Friends and Harming Enemies: A Study in Sophocles and Greek Ethics, Cambridge University Press, 1989, p. 35). Come illustrazione del punto di Blundell, si consideri quanto segue da un contesto forense chiaramente non moralizzante: "Pertanto rinuncio volontariamente alla tua amicizia, dal momento che, per il Cielo, non riesco a vedere quale pena dovrò soffrire non associandomi a te, poiché nemmeno la mia associazione con te mi arrecò beneficio" (Lisia, Orazioni: Accusa di calunnia contro un membro di una società", §18).
  5. Homonoia (in greco antico: ὁμόνοια, homónoia) è il concetto di ordine e unità, "essere di una sola mente insieme" o "unione di cuori". Fu usato dai Greci per creare unità nella politica della Grecia classica. Ebbe un uso diffuso quando Alessandro Magno ne adottò i principi per governare il suo vasto impero. Cfr. anche Henry M. de Mauriac, "Alexander the Great and the Politics of Homonoia", in Journal of the History of Ideas, vol. 10, nº 1, University of Pennsylvania Press, 1949, pp. 104–114.
  6. Aristotele, Ethica Nicomachea, 1167b2.