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I due mondi dell'ebraismo/Capitolo 12

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Indice del libro

Emmanuel Levinas, Messianismo e Mondo a venire

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Per approfondire, vedi La Coscienza di Levinas.

In questo Capitolo affronto la nozione di “messianismo” presentata da Emmanuel Levinas[1] così come appare nel suo lungo commentario su sei pagine del Trattato Sanhedrin del Talmud babilonese: bSanh 96b–99a.[2] Sostengo che Levinas commentò queste pagine talmudiche per uno scopo specifico: completare la sua critica alla nozione fenomenologica di “mondo”, sostituendola con una nozione religiosa del “mondo a venire” attraverso la quale possiamo determinare il parametro etico per vivere “in questo mondo”. Presumo che la lettura di Levinas sia stata fortemente influenzata da nozioni gnostico-filosofiche derivate dalla sua precedente monumentale monografia filosofica, Totalità e Infinito.[3] Di conseguenza, suppongo anche che la lettura di Levinas potrebbe essere riuscita ad affrontare, in termini religiosi, la questione di una “difficile libertà”, proprio come anticipa il titolo del suo commentario. Ha invece prodotto un commentario ermeneuticamente sbilanciato su alcune pagine talmudiche molto famose. Più specificatamente, ritengo che Levinas fornisca una selezione rigorosa delle parti talmudiche da commentare, mentre trascura importanti e specifici presupposti teologico-politici e alla fine impone una nozione normalizzata – se non generica – di “religione” infine "integrata", nel senso di Derrida, da un insieme di nozioni metafisiche.[4]

Per dimostrare ciò, il mio Capitolo è diviso in quattro Sezioni, come segue: una prima esposizione dei presupposti gnostico-filosofici di Levinas, un apprezzamento generale del suo commentario al Talmud, l'esame di una parte specifica del suo commentario al "messianismo", e infine l'esposizione del carattere “supplementare” dell'argomentazione di Levinas.

Critica "gnosico"-filosofica alla nozione di "mondo" husserliana

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L'interpretazione del Trattato Sanhedrin da parte di Levinas segue di poco la pubblicazione della sua monumentale monografia filosofica Totalità e Infinito, eloquentemente sottotitolata Saggio sull'esteriorità. Questa monografia fu scritta nel 1961, più di tredici anni dopo le sue puntuali indagini post-fenomenologiche.[5] Il suo scopo era quello di criticare le nozioni fenomenologiche di “mondo” e “orizzonte” di Husserl e di Heidegger. Levinas fonda la sua critica su una serie di premesse: (1) il rifiuto dell'ontologia tedesca continentale e specificamente post-romantica, (2) la valutazione della nozione di “infinito”, (3) l'esaltazione della nozione di “etica, ” e (4) la concezione di “giustizia” come atteggiamento ontologico più fondamentale.[6] Rispetto a questo insieme di presupposti, Levinas designava con il termine “esteriorità” proprio una dimensione della “realtà” che eccedeva i confini dell’ontologia tedesca e rivendicava un confronto “giusto” – ovvero fondato “eticamente” e “giuridicamente” – con “l'Altro”, sia che quest'ultimo venga identificato con “gli altri” come esseri umani [autrui] o con Dio stesso [Autre], "l'assolutamente altro è l'Altro [l’absolument Autre, c’est Autrui]".[7]

Levinas presuppone che l'“alterità” dell'“Altro” [Autre] debba essere intesa sia come alterità de “gli altri” [autrui] sia come “alterità” dell'Altissimo. Con questa premessa, egli misura evidentemente il grado di “alterità” in termini di “familiarità” di ciascuno con il “mondo”, che uno abita in mezzo a “cose” tenute a portata di mano. Il grado di “straniamento” si misura allora sull'“intimità” dell'“dimorare”: "To exist [exister] henceforth means to dwell [demeurer]. To dwell is not the simple fact of the anonymous reality of being cast into existence as a stone one casts behind oneself; it is a recollection, a coming to oneself, a retreat home with oneself as in a land of refuge, which answers to hospitality, an expectancy, a human welcome".[8]

Nella presente circostanza, non è possibile catalogare l'uso piuttosto problematico di metafore spaziali da parte di Levinas – come “dimora”, “abitazione” ed “esteriorità” – che rendono problematici se non solo provvisori i suoi sforzi di “sfuggire” alla metafisica. È sufficiente rivolgere la nostra attenzione al carattere ambiguo del “dimorare” in un “mondo”: da un lato, l'atto di “dimorare” in un “mondo” vincola l’individuo entro un “orizzonte” e lo aliena fondamentalmente, impedendogli di impegnarsi eticamente con “gli altri”; d'altro canto, l'atto di “dimorare” permette a ciascuno di possedere quel grado sufficiente, minimo, di intimità e di interiorità necessario per “uscire” dai confini dell’“orizzonte” e per connettersi eticamente con “gli altri”.[9] Levinas qui risolve questo paradosso introducendo un tono escatologico che emerge alla fine di Totalità e Infinito e si oppone a “the logic of violence that dominates the present”.[10]

Questa nozione di “logica” va intesa qui nel suo senso più forte, come riferimento alla “scienza della logica” hegeliana, che a sua volta è concepita come una sorta di commentario filosofico al Vangelo di Giovanni e al suo presupposto che la “storia” sia eminentemente lo sviluppo della “Parola” [Logos] di Dio nello spazio e nel tempo.[11] Di concerto con Hegel, Levinas esibisce anche in Totalità e Infinito toni e argomentazioni simili. Più specificamente, egli mantiene costantemente un sottofondo teologico quando gioca con le chiavi di volta della Scrittura ebraica: la rivelazione di Dio come “Parola”, la Rivelazione del “Visage” di Dio, il comandamento “Non uccidere”, e così via. Non c’è dubbio che Totalità e Infinito sia una parafrasi filosofica della Scrittura ebraica, in particolare dei libri di Genesi ed Esodo, dove il divino entra impetuosamente nel “mondo” umano e ne respinge fondamentalmente le autorità e i confini antropologici.

Levinas assume qui un atteggiamento genuinamente “gnostico” e sostiene che il “mondo” – insieme ai suoi strumenti, finalità e orizzonti – è profondamente estraneo alla dimensione etico-giuridica del “divino”; pertanto, Levinas conclude che la validità normativa del mondo sarà “sospesa” o “messa tra parentesi” dall'impetuosità trascendente del divino. Questo atto di “sospensione” ricorda ovviamente la nozione di epoché di Husserl, ma è riproposto enfatizzando l'atto di “dimorare” nella “propria” casa, dove ci si ritira dall'anonimato del “mondo”, dalla sua orribile “neutralità” ”, o la sua indifferenza al senso divino della giustizia. Pertanto, l'individuo che decide di “abitare” nella “propria” casa, entra nella sua interiorità e sospende – o ritarda – il suo “godimento” del “mondo”.[12]

Questa importante variazione della nozione fenomenologica di “sospensione” husserliana determina, agli occhi di Levinas, la scoperta dell'esistenza della “coscienza” come dimensione più intima e ritirata del sé. E tuttavia ciò comporta anche la sospensione della “violenza”, intrinsecamente connessa all'impegno con il mondo, alla sua ingiustizia ontologica e all'ambiguità etica. A questo proposito, l’“introversione” in sé stessi a scapito dell'impegno di qualcuno nel mondo è veramente un atto messianico. Esattamente come, lo stesso Levinas non mancherà di sottolinearlo, qualche anno dopo la pubblicazione di Totalità e Infinito, nel suo commentario al Trattato Sanhedrin. Eppure la metafisica etica di Levinas non aderisce né ai presupposti neoplatonici né rifiuta in linea di principio la “logica interna” della filosofia tedesca tardo postromantica. I presupposti di Totalità e Infinito sono piuttosto più raffinati. Levinas mobilita un ampio insieme di concetti “ebraici” contro la “desolazione” immorale – una vuota vacuità priva di presenza umana – che sarebbe il risultato ultimo di un pensiero ontologico rigoroso: “the Being of the existent is a Logos that is the word of no one”.[13]

L'introduzione di questi concetti “ebraici” coinvolge la nozione di “mondo” husserliana come anche la nozione di “ontologia” di Heidegger. Più specificamente, Levinas rifiuta l'assunzione fenomenologica di “mondo”, in quanto sostiene che l'“orizzonte” dato è epistemologicamente esaustivo e sostiene che non esiste “niente” al di là degli eventi attraverso i quali i fenomeni appaiono nel mondo. Allo stesso tempo, Levinas rifiuta l'onto-teologia di Heidegger che è implicita nel suo evento traslucido di “verità” – sia essa aletheia o Unverborgenheit – e sostiene che il “nulla” oltre l'“orizzonte” non è “l'Essere” [Sein] velato dal reame de “gli esseri” [die Seinende]; questo "nulla" è piuttosto l'emergere del "Visage", un evento ontologicamente ed eticamente impegnativo: "the Other is not the incarnation of God, but precisely by his face, in which he is disincarnate, is the manifestation of the height in which God is revealed".[14]

L'emergere del “Volto” [Visage] chiama l'individuo ad una serie di sfide etiche e ontologiche che Levinas enumera in Totalità e Infinito nei termini di una specifica “antropologia filosofica”: eros, amore, amicizia, legami familiari, ecc. La dimensione della “giustizia” è spesso evocata come una sorta di “qualità metafisica”, ma non è realmente apprezzata nelle sue specificità sociali e politiche. Di queste si tiene maggiormente conto nel successivo aridi Levinas al Trattato Sanhedrin. La sua rilevanza speculativa era già stata anticipata in una breve citazione in Totalità e Infinito, menzionando l'importanza di “nutrire” chiunque, indipendentemente dalla sua appartenenza etica, giuridica e sociale.[15] È questo senso della giustizia che Levinas attribuisce al Trattato Sanhedrin e che potrebbe averlo affascinato mentre terminava Totalità e Infinito e convincerlo della necessità di scrivere un commentario a questo testo.

È possibile che il Trattato Sanhedrin possa offrire una visione di un “mondo a venire” essenzialmente diverso e distante dai molti difetti di “questo mondo”? Cos'era allora il “messianismo” per Levinas?

Lettura levinasiana del Trattato Sanhedrin 99b–99a

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L'interesse di Levinas per il Trattato Sanhedrin non era mai stato occasionale. Nel corso degli anni Levinas lo commentò quattro volte, in quattro occasioni diverse e in quattro contesti diversi.[16]

È difficile determinare le ragioni di tale interesse rispetto ad altri trattati talmudici. In un primo momento si potrebbe sostenere che il Trattato Sanhedrin sia un testo talmudico famoso e ben studiato, e poi sarebbe sorprendente se Levinas non lo avesse studiato intensamente insieme a “Monsieur Chouchani” (un misterioso, ancora non ben identificato genio talmudico, che era solito vivere come un vagabondo e che introdusse Levinas al Talmud in una serie di lezioni private, dal 1947 al 1951).[17] Inoltre, il Trattato Sanhedrin parla di “giustizia” sia in termini astratti che pratici; prescrive infatti quali crimini debbano essere puniti con la pena di morte ma esamina anche le modalità con cui infliggerla ai trasgressori. Infine, il Trattato Sanhedrin comprende anche una famosa sezione sul “messianismo” che non si trova altrove nella letteratura rabbinica. Prima di esaminare la congruenza di queste pagine con le indagini filosofiche di Levinas, è necessario fornire ai lettori una breve descrizione della sezione talmudica esaminata nei suoi testi “messianici”.

Dal punto di vista formale, la sezione talmudica del Trattato Sanhedrin 96b-99a è una lunga appendice narrativa (haggadah) non giuridica, che si allega alla precedente trattazione sull'istituto della profezia, sulla giusta punizione per il falso profeta, e specificamente sull'opinione che il figlio del malvagio Haman potesse insegnare le Scritture.[18] Queste sei pagine sono scritte esclusivamente in ebraico – ad eccezione delle prime due righe scritte in aramaico (bSanh 96b) – e quindi dovrebbero essere considerate come una prima fonte esterna forse palestinesei [baraita] che era stata scartata dal Talmud palestinese per probabili ragioni di “prudenza politica” nei confronti del governo romano, mentre fu inclusa nel Talmud babilonese a causa della politica religiosa relativamente più rilassata nella Persia sassanide.[19] Pertanto, queste sei pagine dedicate al messianismo costituiscono un documento eccezionale, forse redatto in più strati e infine organizzato in un numero discreto di argomenti: (1) la generazione del Messia (bSanh 97a), (2) la nozione di "verità" (bSanh 97a), (3) una prima indagine sul tempo dell'avvento messianico (bSanh 97a–b), (4) la nozione di "giusti" in ogni generazione (bSanh 97b), (5) la nozione del "pentimento" (bSanh 97b–98a), (6) una seconda indagine sul tempo dell'avvento messianico (bSanh 98a), (7) i tempi precedenti l'avvento messianico (bSanh 98b), (8) l'identità del Messia (bSanh 98b) e (9) la durata dei tempi messianici (bSanh 99a).

La lettura di queste pagine così complesse da parte di Levinas è piuttosto selettiva. Levinas trascurò completamente le ragioni storiche della redazione di queste pagine, la loro natura linguistica e teorica nonché gran parte degli argomenti già sopra riportati. Levinas piuttosto concentra la sua attenzione soprattutto su quattro temi: (1) la durata dei tempi messianici (bSanh 99a), (2) la nozione di “pentimento” (bSanh 97b–98a), (3) il tempo prima dell'avvento messianico (bSanh 98b), e (4) l'identità del Messia (bSanh 98b), come può essere riassunto nella seguente tabella:

Tabella dei temi
Argomento della sughiya סוגיא Commentario di Levinas
(1) la generazione del Messiah (bSanh 97a)
(2) la nozione di "verità" (bSanh 97a)
(3) il tempo dell'avvento messianico I (bSanh 97a–b)
(4) la nozione di "giusti" (bSanh 97b)
(5) il concetto di "pentimento" (bSanh 97b–98a)
(6) il tempo dell'avvento messianico II (bSanh 98a)
(7) i tempi precedenti l'avvento messianico (bSanh 98b)
(8) l'identità del Messia (bSanh 98b)
(9) la durata dei tempi messianici (bSanh 99a)

Levinas espone più di una volta questi quattro temi selezionati in una prospettiva nonlineare e sembra discorrere più volte sullo stesso argomento, come se scavasse più a fondo alla ricerca di un significato etico-filosofico del testo. In particolare, Levinas propone una diversa segmentazione del testo secondo sei paragrafi che riordinano l'intera sezione narrativa: (1) la nozione di messianismo, (2) le condizioni etiche dell'avvento messianico, (3) le contraddizioni del messianismo, ( 4) il superamento del messianismo, (5) la questione sull'identità del Messia, e (6) la correlazione tra messianismo e universalismo.

È evidente che la risistemazione del materiale testuale operata da Levinas non segue la sequenza tematica del testo originale. In un primo momento si potrebbe obiettare che un testo narrativo nongiuridico può facilmente essere smontato e riordinato diversamente; si potrebbe quindi addirittura sostenere che Levinas abbia effettivamente chiarito la consistenza tematica di una lunga sezione talmudica che difficilmente sarebbe stata esposta altrimenti.

Al contrario, la mia argomentazione è che Levinas abbia deliberatamente imposto una lettura filosofica con uno scopo specifico: mobilitare un concetto apparentemente “ebraico” di “mondo” contro uno fenomenologico-ontologico. In altri termini, Levinas intendeva utilizzare la nozione talmudica di “mondo a venire” come correzione alla nozione fenomenologica di “mondo”. Più specificamente, la mia ipotesi è che Levinas sia interessato al Trattato Sanhedrin soprattutto a causa del suo bisogno di un'alternativa speculativa alla fenomenologia tedesca post-romantica. La rottura della nozione fenomenologica di “mondo” in Totalità e Infinito aveva implicato la necessità di fare i conti con la nozione escatologica di “mondo a venire” perché quest’ultima si sarebbe opposta alla prima nozione sotto molti aspetti: (1) la natura di un evento escatologico si opporrebbe all’uniformità ontologica del “mondo” ordinario; (2) la pretesa messianica di giustizia assoluta si opporrebbe alle società occidentali, eticamente neutre, e infine (3) l'emergere di un'intimità personale con l'“etica” si opporrebbe all'anonimato contemporaneo delle pratiche sociali e politiche.

Per brevità non è possibile passare in rassegna ciascuna di queste importantissime opposizioni tra “questo mondo” e “il mondo a venire” nel commentario di Levinas. Basterebbe quindi tener conto di quello più decisivo: l'opposizione tra l'anonimato di “questo mondo” e l'intimità del “mondo a venire”. Levinas fa coincidere la nozione di “messianismo” con una condizione specifica del sé dovuta a una particolare interpretazione di una breve indagine talmudica sull'identità del Messia:

« Qual è il suo nome [del Messia]? La Casa di Rabbi Shila disse: Il suo nome è Shilo, poiché sta scritto: "finché verrà Sciloh" (Gen 49:10). La Casa di Rabbi Yannai disse: Il suo nome è Yinnon, poiché sta scritto: "il suo nome durerà per sempre. . . il suo nome è Yinnon" (Sal 72:17). La Casa di Rabbi Hanina disse: Il suo nome è Hanina, poiché sta scritto: "dove non ti darò Haninah [cioè misericordia]" (Ger 16:13). »
(bSanh 98b)

In un primo momento Levinas ammette che la questione dell'identità del Messia presenta chiaramente specifiche inclinazioni storiche e culturali anticristiane. Tuttavia, Levinas respinge abbastanza facilmente queste implicazioni storiche e sottolinea che tali risposte implicano che “la relazione allievo-insegnante” ha un valore messianico.[20] Di conseguenza, le commenta e giunge a questa sorprendente conclusione:

« I venture to propose an interpretation of this text that is less special. . . . The Messiah is the Prince who governs in a way that no longer alienates the sovereignty of Israel. He is the absolute interiority of government. Is there a more radical interiority that the one in which the Self [moi] commends itself? Non-strangeness, par excellence is ipseity. The Messiah is the King who no longer commands from outside. . . . The Messiah is Myself [moi]; to be Myself is to be the Messiah. »
(Levinas, DF, 89)

Questo è probabilmente uno dei passaggi più eloquenti che testimonia l'uso pratico da parte di Levinas della letteratura talmudica per scopi filosofici.

Da un lato, Levinas intende chiaramente proporre una visione “etica” del “mondo a venire” che è intrinsecamente diversa dal “mondo” ordinario, circoscritto dall'anonimato e dalla negligenza. Dall'altro, Lévinas qui manipola la fonte talmudica – le cui intenzioni probabilmente sono ironiche rispetto al cristianesimo e apologetiche rispetto all'establishment rabbinico – e la riformula in termini strettamente filosofico-fenomenologici. Ciò che qui è rilevante è che Levinas indulge in questa interpretazione “egocentrica” della condizione messianica e allo stesso tempo ignora l'evidente impostazione teologico-politica di questo testo, che è facilmente dimostrata dalle prime righe, scritte in aramaico, del passo talmudico:

« Rav Nachman disse a Rabbi Itzhaq: Hai sentito quando arriverà “il figlio del caduto” [bar nafley]? Da dove viene [l’espressione] “il figlio del caduto”? Gli disse: Messia. Lo chiami Messia “il figlio del caduto”? Gli disse: non sta forse scritto: “Oggi rialzerò il tabernacolo di Davide che è caduto [ha-nofelet]” (Amos 9:11)? »
(bSanh 96b–97a)

Queste poche parole in aramaico non solo introducono la straordinaria discussione talmudica in ebraico sul “messianismo”, ma ne forniscono anche la chiave interpretativa alludendo ad una serie di presupposti teologici attraverso un complesso gioco di parole. Gli studiosi sono solitamente concordi nel ritenere che l'espressione aramaica bar nafley [il figlio del caduto] è infatti sia una traduzione sia un'interpretazione dell’espressione greca uios nefelon [il figlio delle nuvole] che alluderebbe all'avvento cosmologico della figura escatologica del “ figlio dell'uomo” nel libro di Daniele come anche alla sua riformulazione nel vangelo di Matteo.[21] Rabbi Nachman potrebbe aver fatto un gioco di parole sulla descrizione greca di Gesù come Messia e aver rivendicato l'intrinseca "ebraicità" del Messia stesso: un discendente della Casa di Davide che restaurerà il "tabernacolo di Davide" o restaurerà il rilievo teologico-politico di Israele. Eppure Levinas ignora queste importantissime connotazioni.

Di conseguenza, la pretesa di essere il Messia nell'interpretazione di Levinas viene privata del suo significato teologico-politico e viene piuttosto forzata in una prospettiva filosofica: l'“individualismo” con cui ogni eminente rabbino si autodefinisce Messia e quindi esalta gli ideali dell'educazione rabbinica, viene reinterpretata se non riformulata in termini di “ipseità” fenomenologica.

Quali sono le conseguenze di questo metodo con cui il materiale non filosofico viene riformulato in termini filosofici?

Ermeneutica talmudica di Levinas e sua interpretazione filosofica del testo

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L'ermeneutica talmudica di Levinas sembra riflettere il metodo interpretativo che probabilmente gli è stato insegnato da “Monsieur Chouchani”. Ciò implicava una sorta di fusione tematica di testi “legali” e “non giuridici”, partendo dal presupposto che sia i testi giuridici che quelli narrativi dovessero essere esaminati dagli stessi punti di vista: come testi suscettibili di essere interpretati in termini “etici”-“metafisici”. Per apprezzare l'impatto di questo metodo ermeneutico sull'integrità tematica e testuale del Talmud, mi concentrerò specificamente sul modo in cui Levinas tratta la nozione di “pentimento”. L'argomentazione di Levinas è molto complessa. Per ragioni di chiarezza riporto innanzitutto i punti essenziali della sua interpretazione. Solo in seguito lo analizzo nel dettaglio ed espongo il suo carattere metafisico e “supplementare”.

In primo luogo, Levinas descrive il dibattito tra due autorità talmudiche, Samuel e Rav Hiyya bar Abba a nome di Rabbi Johanan, sulla nozione di “pentimento” e solo allora si schiera con uno di loro (bSanh 99a):

« For Samuel, on the other hand, something foreign to the moral individual exists, something which must first be suppressed before the messianic era can come. The Messiah is, first and foremost, this break. For the lucid conscience in control of its intentions, the coming of the Messiah carries an irrational element or at least something which does not depends on man, which comes from outside: the outcome of political contradictions. . . . It matters little whether this outside is the action of God or a political revolution that is distinct form morality. »
(Levinas, DF, 64–65)

Dalle glosse sull'importanza dell'“etica” e dell'“impegno” per la giustizia, è abbastanza evidente che Levinas si nasconde dietro le parole di Samuel e offre una critica specifica, in termini talmudici, alla nozione fenomenologica di “mondo”. " Levinas sostiene qui che il “mondo” ordinario non può essere la vera fonte del “messianismo” nella misura in cui quest'ultimo implica una profonda riconfigurazione della morale e dell'etica. Il “mondo” può fornire solo una sorta di “utopia socialista”, come espresso nelle parole di Rav Hiyya bar Abba, ma non può realmente avviare un evento epocale come quello messianico. Ciò è impossibile per una ragione essenziale: il “messianismo” implica una rottura etica e metafisica nell'“orizzonte” ontologico del “mondo” ordinario, mentre qualsiasi utopia politica implica la convinzione che la salvezza possa eventualmente provenire dall’interno del "mondo" stesso.

Tuttavia, Levinas non si accontenta di questo primo esame della disputa tra Samuel e Rav Hiyya bar Abba in nome di Rabbi Johanan. Egli esamina quindi anche una discussione simile che avviene tra Samuel e Rav, il suo abituale avversario nel Talmud, sulla nozione di “pentimento”. Dopo aver esaminato diverse alternative per identificare chi è l'individuo che si dice sia in lutto per Israele (bSanh 97b–98a), Levinas riassume i termini di questa disputa come segue: "The two theses propounded by Rab and Samuel seem clearer: . . . either morality . . . will save the world or else what is needed is an objective event that surpasses morality and the individual’s good intentions".[22]

L’argomentazione di Levinas va oltre, riprendendo una precedente discussione sul “pentimento” tra Rabbi Eliezer e Rabbi Jehoshua (bSanh 97b) per sostenere il suo presupposto principale secondo cui il messianismo implica intrinsecamente un'irruzione extramondana del divino nella storia umana. Levinas assimila quindi la discussione tra Rabbi Eliezer e Rabbi Jehoshua alle due precedenti.

Per ora possiamo fermarci a questo punto del discorso e procedere con una prima valutazione dell'interpretazione di Levinas. Per quanto affascinante, la lettura di Levinas impone una sottile manipolazione del testo talmudico, indipendentemente dalle sue finalità e dalla sua composizione originaria. Nel testo originale del Trattato Sanhedrin, la discussione sulla nozione di “pentimento” è introdotta al centro di due sezioni testuali più ampie sul tempo in cui verrà il Messia. La discussione sulla nozione di “pentimento” (bSanh 97b–98a) divide specificamente la prima indagine sul tempo dell'avvento messianico (bSanh 97a–b) dalla seconda (bSanh 98a). Le ragioni apparenti di questa scelta redazionale sono abbastanza evidenti: proporre una discussione in due fasi sulla stessa questione del tempo dell'avvento messianico inserendo un nuovo parametro — la qualità morale degli individui che vivranno nel tempo dell'avvento messianico stesso.

Tuttavia, il modo in cui Levinas tratta queste due discussioni è molto meno accurato filologicamente ed ermeneuticamente di quanto sembrerebbe a prima vista. La mia ipotesi è che Levinas abbia manipolato la fonte talmudica e l'abbia “integrata” con una specifica argomentazione “etica”, con conseguenze particolari che hanno imposto specifici costi teologico-politici alla sua interpretazione del testo. Per apprezzarlo è necessario riprendere l'interpretazione di Levinas e confrontarla con la fonte talmudica originaria.

Integrazione levinasiana al Talmud

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La differenza più importante tra la pagina originale e la disposizione di questo testo da parte di Levinas è la segmentazione del materiale testuale. Il brano originale del Trattato Sanhedrin offre una sequenza molto specifica delle porzioni testuali su cui Levinas commenta: dapprima, il dibattito tra Rabbi Eliezer e Rabbi Joshuah (bSanh 97b) che anticipa il dibattito tra Samuel e Rav (bSanh 97b–98a), e poi – dopo una lunga sezione cosmologica sui cicli secolari dei tempi messianici (bSanh 98a–99a) – il dibattito tra Samuel e Rav Hiyya bar Abba in nome di Rabbi Yohanan (bSanh 99a). Questa disposizione segue criteri sia cronologici che tematici: da un lato, è chiaro che il dibattito amoraico tra Samuel e Rav (bSanh 97b–98a) riprende il dibattito tannaitico tra Rabbi Eliezer e Rabbi Jehosuha (bSanh 97b); dall'altro, è chiaro che il dibattito tra Samuele e Rav (bSanh 99a) conclude la lunga sezione narrativa talmudica sul messianismo (bSanh 96b–99a) e, più specificamente, riprende la precedente discussione sulla nozione di “pentimento”, dopo una discussione tra parentesi sulle prove cosmologiche dei tempi messianici (bSanh 98a–99a).

Levinas evidentemente non presta attenzione né alla complessa trama di questi passaggi talmudici né alla progressione dal periodo tannaitico al tardo amoraico. Al contrario, cambia profondamente l'ordine di lettura in due modi: in primo luogo, analizza il dibattito tra Samuel e Rav Hiyya bar Abba (bSanh 99a) prima del dibattito tra Samuel e Rav (bSanh 97b–98a); quindi incapsula il primo dibattito tra Rabbi Eliezer e Rabbi Jehoshua (bSanh 97b) all'interno della cornice più ampia dei due dibattiti tra Samuel e Rav Hiyya bar Abba, da un lato, e tra Samuel e Rav, dall'altro. L'inversione del materiale talmudico nel commentario di Levinas può essere facilmente visualizzata nella tabella seguente:

Commentario di Levinas
Sviluppo della sughiya סוגיא Sequenza di Levinas
dibattito Rabbi Eliezer/Rabbi Jehoshua (bSanh 97b) dibattito Samuel/Rav Hiyya bar Abba (bSanh 99a)
dibattito Samuel/Rav (bSanh 97b–98a) dibattito Samuel/Rav (bSanh 97b–98a)
dibattito Samuel/Rav Hiyya bar Abba (bSanh 99a) dibattito Rabbi Eliezer/Rabbi Jehoshua (bSanh 97b)

È proprio questa “dislocazione” del primo dibattito tannaitico che gioca un ruolo molto specifico nell'esegesi di Levinas. Levinas mette da parte il dibattito iniziale tra Rabbi Eliezer e Rabbi Johoshua con uno scopo specifico: integrare la sua argomentazione sull'indiscutibile natura extramondana dell'evento messianico. Sottolineo qui la nozione di “supplemento” di Derrida che designa, in termini decostruttivi, un "inessential extra added to something complete in itself".[23] Così, Lévinas dapprima ignora, poi disloca e infine riprende il dibattito tra Rabbi Eliezer e Rabbi Jehoshua per ribadire un punto esegetico – il valore del “pentimento” – sul quale aveva già commentato due volte: la prima in occasione della revisione del dibattito tra Samuel e Rav Hiyya bar Abba (bSanh 99a) e una volta durante la revisione del dibattito tra Samuel e Rav (bSanh 97b–98a). Ciò che qui rileva non è la semplice diversa disposizione del materiale testuale, quanto piuttosto l'effetto che Lévinas intendeva produrre offrendo una diversa segmentazione del testo. Levinas non sta semplicemente leggendo il testo originale in ordine inverso; sta anche imponendo una dinamica ermeneutica in esso, in modo da poter sostenere la propria lettura della nozione di “pentimento” e allo stesso tempo prevenire un'accusa specifica contro il suo presupposto principale secondo cui il messianismo sarebbe una “eruzione” – se non una “evasione” – dal “mondo” ordinario.

Questo brano è molto sottile. Consideriamo ancora una volta la struttura del testo talmudico originale, il commentario di Levinas, e il “supplemento” che egli trova per la sua interpretazione.

In un primo momento, il testo talmudico originale offre una linea di pensiero progressiva che si articola in tre tappe fondamentali:

  1. il dibattito tannaitico tra Rabbi Eliezer e Rabbi Joshuah (bSanh 97b) introduce l'alternativa tra una salvezza condizionata e una incondizionata da parte del Messia: Rabbi Eliezer sostiene che la salvezza dipenderà da uno scambio economico di buone azioni, una sorta di do ut des metafisico; al contrario, Rabbi Johoshua crede in una sorta di “grazia” divina che salverà tutti, indipendentemente dai suoi crimini.
  2. Queste opinioni vengono poi ampliate nel successivo dibattito amoraico tra Samuel e Rav (bSanh 97b–98a), i quali sostengono rispettivamente un avvento messianico incondizionato come un “evento esterno” e un evento condizionato che dipende fondamentalmente da uno specifico impegno morale, sociale, e politico dei singoli individui.
  3. Dopo una digressione sui cicli cosmologici dei tempi messianici (bSanh 98a–99a), le discussioni precedenti culminano nel dibattito tra Samuel e Rav Hiyya bar Abba (bSanh 99a) sulla natura stessa dell'avvento messianico: Samuel pensa all'avvento messianico come irruzione de "l'Altro", mentre Rav insiste sui presupposti morali, sociali e politici di questo evento. Una breve coda sacerdotale alla discussione conclude le sei pagine sul messianismo con un'eloquente invocazione al Paradiso e al Giardino dell'Eden.

Lévinas rifiuta, come già osservato, questa sistemazione originaria del testo. Comincia il suo commentario dalle ultime righe del testo sul mistero metafisico della fine dei tempi, ma è soprattutto turbato dalla possibilità che questi “testi messianici” possano assomigliare a qualche forma di cristianesimo: "The commentator [the Maharsha][24] was probably shocked by the idea of redemption which is obtained by the sole effect of suffering and without any positive virtue being required, something that reeks of Christianity [a un fort relent chrétien]".[25]

Egli inverte quindi l'ordine di lettura del lungo testo talmudico e comincia con la discussione tra Samuel e Rav Hiyya bar Abba (bSanh 99a), passando poi alla discussione tra Samuel e Rav (bSanh 97b–98a), e terminando infine con la dibattito tannaitico tra Rabbi Eliezer e Rabbi Jehoshua (bSanh 97b).

È proprio a questo punto che Lévinas espone la logica del “supplemento”. Ciò consiste fondamentalmente nel sostenere due presupposti contraddittori allo stesso tempo e tuttavia sostenere che l'uno effettivamente sostiene, o integra, l'altro.

Da un lato, Lévinas sostiene che il dibattito tra Rabbi Eliezer e Rabbi Jehoshua non va interpretato in termini di “grazia” divina: "Precisely, because evil is not simply a ‘backsliding,’ but a profound illness in being, it is the sick person who is first and principal worker of his own healing. This is a unique logic [singulière logique], and the opposite of the logic of grace. I can save you on condition that you return unto me".[26]

Dall'altro, Levinas sostiene che il dibattito tra Rabbi Eliezer e Rabbi Jehoshua supporta effettivamente una forma di salvezza "graziosa" sebbene questo intervento divino sia piuttosto descritto come “brutale” – in qualche modo espresso in "termini incivili": "Rabbi Joshua’s final argument consists in brutally [brutalement] affirming the deliverance of the world by a fixed date, whether or not men deserve such deliverance".[27]

Questo piccolo dettaglio linguistico è particolarmente rilevante perché in realtà espone la logica del “supplemento” qui all'opera. Levinas intende tenersi lontano da ogni interpretazione del testo che possa suggerire una qualche congruenza teologica tra ebraismo e cristianesimo, ma non può fare a meno di rimarcare due volte – sulla base di due discussioni simultanee – che l'avvento messianico rompe l'"orizzonte" ordinario del "mondo." La logica del “supplemento” può essere vista all'opera soprattutto quando Levinas applica implicitamente a questi testi la sua nozione di “religione”, come l'ha elaborata nel suo Totalità e Infinito: "We propose to call ‘religion’ the bond [lien] that is established between the same [Même] and the other [Autre] without constituting a totality. . . . For the relation between the being here below and the transcendent being that results in no community of concept or totality—a relation without relation [relation sans relation]—we reserve the term religion".[28]

La logica del “supplemento” interviene proprio per impedire al lettore di comprendere questa definizione fenomenologicamente neutra di “religione” in termini cristiani. Levinas intende evitare il sospetto che questa potente visione della “grazia” possa essere fraintesa come credenza cristiana. Particolarmente eloquente è l'espressione empirica, quasi banale che usa: "something that reeks of Christianity [a un fort relent chrétien]".[29] Questo piccolo lapsus di penna abbassa il dibattito religioso al livello della disputa tra ebraismo e cristianesimo, tradendo il sospetto che la nozione di “religione” di Levinas intenda essere non solo “fenomenologicamente”, ma anche “moralmente” se non addirittura “fisiologicamente” pura da contaminazioni – da qualcosa che in realtà “reeks” di forma popolare di religione.

Quali sono le conseguenze di questo tipo di lettura? La particolare segmentazione che Levinas impone al testo talmudico e soprattutto il suo interesse ad evitare qualsiasi “contaminazione” con l'interpretazione popolare della nozione di “pentimento” hanno costi specifici: la soppressione delle sfumature teologico-politiche a favore di un apprezzamento “metafisico” della nozione di “messianismo”. Questa “riduzione filosofica” non è infrequente nei commenti di Levinas al Talmud e riflette sia il metodo ermeneutico insegnato da “Monsieur Chouchani” sia il suo stesso impegno nella revisione della fenomenologia. Proprio come il suo Totalità e Infinito appare quale riformulazione filosofica dei libri biblici della Genesi e dell'Esodo, così il suo commentario al Trattato Sanhedrin appare come una "riduzione filosofica" della letteratura tradizionalmente ebraica e specificamente della dottrina religiosa del messianismo. La trascuratezza da parte di Levinas dei connotati teologico-politici di questo testo potrebbe allora apparire inadeguata se non paradossale, ma è piuttosto la conseguenza di un approccio filosofico e fenomenologico al testo.

Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico, Serie delle interpretazioni, Serie maimonidea e Emmanuel Levinas.
Emmanuel Levinas
Emmanuel Levinas
  1. Su Emmanuel Levinas, la sua vita e le sue opere, nonché la sua filosofia e teologia, si veda il mio precedente wikilibro La Coscienza di Levinas; per una bibliografia specifica delle sue opere e relativa critica accademica, cfr. la mia Bibliografia scelta. Per una recente esposizione generale del pensiero di Levinas, cfr. anche M. L. Morgan, The Cambridge Introduction to Emmanuel Levinas (Cambridge: Cambridge University Press, 2011).
  2. E. Levinas, “Messianic Texts,” in (EN)Difficult Freedom. Essays on Judaism (cur. E. Levinas; London: Athlone, 1990), 59–96 (d'ora in poi: DF).
  3. E. Levinas, (EN)Totality and Infinity: An Essay on Exteriority (Pittsburgh: Duquesne University Press, 1969) (henceforth, TI).
  4. Ovviamente seguo la famosa critica di Derrida su Totalità e Infinito. Saggio sull'esteriorità come viene presentata nel suo primo saggio, Jacques Derrida, “Violence and Metaphysics,” in Writing and Difference (Chicago: University of Chicago Press, 1978), 79–102. Cfr. anche P. Atterton e M. Calarco, curr., Radicalizing Levinas (New York: SUNY Press, 2010).
  5. Mi riferisco qui al breve testo di Levinas, The Time and the Other (Pittsburgh: Duquesne University Press, 1987 [1948] - ital. Il Tempo e l'Altro), in cui rivolge la sua attenzione a un'ontologia – più tardi chiamata “trascendenza” o “metafisica” – che non si conforma più alle linee guida della fenomenologia post-romantica di Husserl e Heidegger e si apre a una diversa “analitica esistenziale”.
  6. Per un commentario esaustivo a questo complesso testo, cfr. J. R. Mensch, Levinas’s Existential Analytic: A Commentary on Totality and Infinity (Evanston: Northwestern University Press, 2015). Si veda anche questa monografia eccellente, E. Severson, Levinas’s Philosophy of Time: Gift, Responsibility, Diachrony, Hope (Pittsburgh: Duquesne University Press, 2013).
  7. Levinas, TI, 39.
  8. Ibid., 156.
  9. Questa ambiguità fondamentale è un tema ricorrente negli studi di Levinas e soprattutto nei suoi commentari al Talmud.
  10. Levinas, TI, 177.
  11. La risonanza tra la “logica” hegeliana e il Vangelo di Giovanni è stata approfonditamente indagata in due monografie relativamente recenti che presuppongono rispettivamente una strutturazione “trinitaria” del divino epocale e la sua articolazione in una “logica” sia binaria che triadica: C. O'Regan, The Heterodox Hegel (New York: SUNY Press, 1994), e N. Adams, Eclipse of Grace: Divine and Human Action in Hegel (Londra: Wiley-Blackwell, 2013).
  12. La nozione di jouissance di Levinas risuona ovviamente con quella di Lacan, soprattutto quando entrambi insistono sulla dimensione della “femminilità” ai margini dell'etica. Cfr. in particolare S. Harasym, Levinas and Lacan: The Missed Encounter (New York: SUNY Press, 1998), 42–46 e soprattutto 90–96.
  13. Levinas, TI, 299.
  14. Ibid., 79.
  15. C’è infatti una breve citazione talmudica in Totalità e Infinito (201): "‘lasciare gli uomini senza cibo è una colpa che nessuna circostanza attenua; la distinzione tra volontario e involontario non si applica qui’, dice Rabbi Yochanan". Levinas afferma che questa citazione proviene da bSanh 104b, ma non c'è prova che un tale passaggio esista effettivamente. Rabbi Eliezer Chrysler (nel portale talmudico Kollel Iyun ha-Daf) ha recentemente suggerito che la citazione di Levinas era apparentemente un'elaborazione di diverse affermazioni dei fogli 103b-104a del Trattato Sanhedrin: vale a dire, la sentenza di Rabbi Yohannan secondo cui inavvertitamente non si dà da mangiare a chiunque sia nel bisogno, deve essere considerata una negligenza deliberata (bSanh 103b) e il sostegno della Gemara a questo punto di vista a causa di Rav Yehudah nel nome di Rav (in bSanh 104a). L'inesattezza di Levinas nel riportare la citazione dal Talmud non dovrebbe essere giudicata con leggerezza ma piuttosto essere considerata come un segno della sua ermeneutica talmudica, basata fondamentalmente sulla “elaborazione” dei passaggi testuali piuttosto che sulla loro effettiva “interpretazione”. Le conseguenze di questo approccio ermeneutico saranno evidenti nelle pagine susseguenti.
  16. Levinas commenterà sul bSanh 96b–99a (il testo qui esaminato) nel 1963 in Difficult Freedom; su bSanh 36b–37a nel 1968 in Four Talmudic Readings; su bSanh 67a–68a nel 1977 in From the Sacred to the Saint; e nel 1988 su bSanh 99a–b nel suo The Hour of the Nations.
  17. 17. Monsieur Chouchani (?–1968?), molto probabilmente un adattamento francese di Shushani, "una persona di Shushan", era un soprannome per un individuo ebreo ancora non identificato, che sembrava avere una conoscenza enciclopedica e che insegnava a un gruppo ristretto e selezionato numero di illustri studenti nella Francia del dopoguerra, tra cui E. Wiesel, E. Levinas e altri eminenti intellettuali. Per un rapporto investigativo su questo enigmatico individuo, cfr. S. Malka, Monsieur Chouchani: L’enigme d’un maitre du XXe siecle (Parigi: Lattès, 1994); cfr. anche Elie Wiesel, “The Wandering Jew”, in Legends of Our Time (New York: Avon Books, 1968), 121–142, e E. Wiesel, “The Death of My Teacher”, in One Generation After (New York: Random House, 1970), 120–25. Infine si consulti in merito il mio già citato La Coscienza di Levinas.
  18. Il commentario aramaico sulla sentenza mishnaica contro un falso profeta (mSanh 11:5ss) si trova nei fogli bSanh 89a–96b. Alla discussione giuridica sulla Mishnah si aggiunge la “piccola Apocalisse” (G. Stemberger) sui “tempi messianici”.
  19. Il diverso impatto del governo romano e persiano rispettivamente sugli ebrei palestinesi e babilonesi è stato esaminato da P. Schäfer con particolare attenzione ai sentimenti anticristiani espressi contro Gesù nel Trattato Sanhedrin. Cfr. P. Schäfer, Jesus in the Talmud (Princeton: Princeton University Press, 2009). Per un’indagine molto più dettagliata sull'ambientazione persiana del Talmud babilonese, si veda in particolare S. Secunda, The Iran Talmud: Reading the Bavli in Its Sasanian Context (Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 2013).
  20. Levinas, DF, 85.
  21. L'espressione aramaica bar nafley riflette probabilmente l’espressione greca uios nefelon [figlio delle nuvole] che sarebbe una deformazione o forse una riduzione del verso greco uios tou anthropou erchomenos epi ton nefelon tou ouranou [il Figlio dell'uomo che viene sulle nuvole del cielo] dal Vangelo di Matteo (Mt 24:30) che a sua volta è un'elaborazione del libro di Daniele (Dn 7:13). Ciò implicherebbe che Rav Nachman – ammesso che sia l’'utore di questa espressione – fosse consapevole che il vangelo di Matteo aveva descritto Gesù come “il figlio dell’uomo che viene sulle nuvole del cielo”. A questo proposito, la versione aramaica di Rav Nachman, bar nafley, fornirebbe sia lo scopo di riferirsi polemicamente a Gesù, sia lo sforzo di associare il Messia a Davide, che innalzerà la Casa d’Israele. Per un'identificazione classica di queste congruenze, cfr. H. Strack e P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch. Das Evangelium nach Matthaus, (Monaco: Beck, 1956), vol. 2, 956–59; cfr. anche C. A. Newsom, Daniel: A Commentary (Louisville: John Knox Press, 2014), 246.
  22. Ibid., 72.
  23. Questa è la definizione di J. Culler, On Deconstruction: Theory and Criticism after Structuralism (Ithaca: Cornell University Press, 1982), 103.
  24. Rabbi Shmuel Eliezer Edeles (più tardi chiamato Maharsha, l'acronimo di Morenu Ha-Rav Shmuel Edeles [Il nostro maestro Rabbi Shmuel Edeles], 1555–1631 EV) appartiene alla prima generazione degli Aharonim [gli ultimi, dal sedicesimo secolo EV in poi] dei commentatori del Talmud. Fu un eminente commentatore del Talmud a Lubin e in altre città polacche. Le sue Hiddushey Maharsha [Novellae di Edeles] sono solitamente pubblicate in ogni edizione del Talmud. Cfr. D. Bonami, “The Theological Ideas in the Hiddushey Aggadot of Maharsha” (Jewish Theological Seminary, 1976).
  25. Levinas, DF, 70.
  26. Ibid., 75.
  27. Ibid., 77.
  28. Levinas, TI, 40 e 80.
  29. Levinas, DF, 70. See above.