I due mondi dell'ebraismo/Capitolo 3
L'Aldilà nella Septuaginta
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Osservazioni introduttive
[modifica | modifica sorgente]Può sembrare strano, o addirittura scoraggiante, iniziare un'analisi della Septuaginta e dell'escatologia con una serie di avvertenze. Tuttavia, come vedremo, questi “caveat” costituiscono il necessario preludio a qualsiasi discussione responsabile su questo argomento. Se, come risulta essere il caso, non esiste un'unica prospettiva su tale argomento affascinante, allora è molto meglio che i lettori lo riconoscano prima di iniziare il processo, piuttosto che dopo.[1]
Innanzitutto è necessario ricordare ai lettori che la Septuaginta è per la maggior parte una traduzione, di fatto la prima traduzione della Bibbia, in questo caso dell'Antico Testamento o Bibbia ebraica. Non c’è motivo di dubitare che il processo che portò a questo testo greco, che può essere abbreviato in LXX, ebbe inizio ad Alessandria d’Egitto, nel primo terzo del III secolo AEV. È probabile che la traduzione fosse il risultato sia della rapida perdita di padronanza dell'ebraico da parte della comunità ebraica alessandrina, sia del desiderio del monarca regnante (Tolomeo II) di avere una copia della legge ebraica nella sua Biblioteca in continua espansione.[2]
Quindi è assolutamente logico, storicamente e teologicamente, che i Cinque Libri di Mosè o Pentateuco siano stati i primi libri affrontati dai traduttori (in numero di 72 o 70 secondo le fonti antiche) riuniti ad Alessandria. Ci sono sufficienti somiglianze tra le traduzioni dei primi cinque libri della Bibbia ebraica per ipotizzare qualche collegamento tra i loro traduttori. D'altra parte, esistono differenze abbastanza dimostrabili nella tecnica di traduzione per insistere sulla relativa indipendenza dei responsabili di ciascuno dei libri del Pentateuco.
Passando ai libri oltre il Pentateuco, non ci sono segni sicuri della cronologia relativa (per non parlare di quella assoluta) in cui furono tradotti, né siamo nemmeno vicini alla certezza riguardo al luogo o ai luoghi in cui i traduttori successivi lavorarono. Pertanto, non è del tutto sorprendente che molti libri della LXX sembrino traduzioni piuttosto letterali dell'ebraico tradotto [chiamato anche Vorlage], mentre altri libri quasi certamente riflettono un approccio molto più libero, persino perifrastico, al testo ebraico. E poi c'è un numero considerevole di libri che occupano posti più moderati (o mediani) nel continuum che separa (ma anche unisce) letterale e libero.
Si deve immediatamente riconoscere che il nostro giudizio sul modo in cui un dato traduttore della LXX ha trattato la sua Vorlage rimane alquanto speculativo, in quanto non sappiamo esattamente quale testo ebraico consonantico (la vocalizzazione fu uno sviluppo molto successivo) si trovasse a disposizione di coloro che tradussero la Bibbia in greco. Indubbiamente, un testo consonantico molto simile (in effetti, a volte identico) al tradizionale testo ebraico o masoretico (MT) è alla base di gran parte della LXX. I traduttori della LXX, possiamo facilmente immaginare, tipicamente seguivano quel testo ebraico, ma potrebbero averlo cambiato consapevolmente per una serie di ragioni. Un testo ebraico consonantico in varianza, in misura minore o maggiore, con il TM si trovava davanti ad altri traduttori della LXX. Ancora una volta, ci sono buone ragioni per supporre che spesso seguissero questo testo ebraico, separandosi da esso in alcune occasioni.
Dobbiamo quindi immaginare che l'insieme degli sforzi individuali o di gruppo che designiamo con il termine “Septuaginta” sia sempre stato un po’ disomogeneo nell'approccio dei suoi traduttori verso la loro Vorlage ebraica. In assenza di qualsiasi sforzo complessivo di standardizzazione o redazione editoriale, sarebbe difficile immaginare che ci sia un gran numero di elementi grammaticali, lessicografici o ideologici che si trovano in tutta la Septuaginta o anche nella maggior parte dei suoi libri.
Ciò di cui ho parlato nei paragrafi precedenti potrebbe più propriamente essere chiamato il greco antico, cioè la forma del testo come appariva quando i traduttori portavano a termine il loro compito. Sfortunatamente non sono presenti autografi (cioè originali) né alcun libro o blocco di libri della LXX. In assenza di tali autografi, si potrebbe sperare che la critica testuale consenta la ricostruzione delle formulazioni originali dei traduttori della LXX. Anche se tale procedura potrebbe funzionare su una quantità limitata di testo, siamo lontani dall'essere in grado di determinare il greco antico per una quantità estesa di testo LXX.
Anche nelle migliori circostanze, quando gli scribi copiarono attentamente il greco antico per diversi secoli, potremmo aspettarci che una pletora di nuove letture venissero introdotte per caso o intenzionalmente. Questo è semplicemente il risultato del fatto che gli scribi, anche quelli più attenti, erano dopo tutto esseri umani fallibili.
Ma trascorsero più di qualche anno tra la creazione della Septuaginta e i manoscritti esistenti che contengono tutti (o la maggior parte) dei libri che finirono per costituire il canone LXX. La Septuaginta fu probabilmente completata alla fine del II secolo AEV; i grandi codici onciali (Alexandrinus, Sinaiticus e Vaticanus) che costituiscono la nostra prima prova esistente della LXX come raccolta di libri risalgono al terzo e quarto secolo EV. Durante il lungo periodo che separa questi due eventi, il greco antico di alcuni libri andò completamente o parzialmente perduto e furono sostituite revisioni successive. In altri casi, ci sono buone ragioni per pensare che sforzi consapevoli da parte di scribi o commercianti abbiano introdotto ampi cambiamenti che forse originariamente erano intesi come commentario a un passaggio della LXX, ma che alla fine presero il posto del greco più antico.
Tutti questi fattori introducono ancora più eterogeneità nella Septuaginta come raccolta di testi vari provenienti da periodi di tempo e luoghi diversi. Inoltre, questi fattori servono a rafforzare l'osservazione fatta sopra circa la difficoltà di individuare e definire le caratteristiche della LXX su quella che potremmo definire una base globale. Potrebbe essere possibile, ad esempio, discernere un marcato interesse per l'escatologia da parte del traduttore responsabile dei Salmi LXX o di Isaia LXX, ma sarebbe una metodologia sciatta cercare di applicare tale interesse ad altri libri o blocchi di materiale senza un’attenta, si potrebbe dire scrupolosa, analisi del lavoro di ciascun traduttore.
Gli avvertimenti sopra esposti sono certamente formidabili, ma indicano la direzione che deve prendere qualsiasi studio serio della LXX e dell'escatologia. Ma non sono gli unici segnali di avvertimento. È necessario un riconoscimento che qualsiasi affermazione che inizia con “La LXX dice . . .” deve essere fortemente sfumato, se non addirittura abbandonato. Ma come dobbiamo trattare le asserzioni che sono limitate a un dato libro o gruppo di libri della Septuaginta? Insomma, cosa ricerchiamo?
Tipicamente, in ricerche come questa (cioè, come viene gestita l'escatologia da specifici traduttori della LXX) la massima importanza viene attribuita alle letture che si discostano dalla presunta Vorlage ebraica con cui ha lavorato il traduttore. A volte, come nel caso dei cambiamenti quantitativi (cioè quelli che comportano differenze di lunghezza tra il testo ebraico e quello greco), è abbastanza facile individuare le differenze e forse anche spiegarle o darne conto. Tuttavia, in generale, le differenze qualitative (dove il numero di parole è più o meno lo stesso, ma i significati sembrano distinti) sono più difficili da determinare.
Tuttavia non sarebbe opportuno sminuire il valore del testo greco laddove segue essenzialmente l'ebraico che lo sottende. In tali casi, possiamo ben immaginare che il punto di vista del traduttore sia identico (o quasi) alla posizione presentata nella sua Vorlage ebraica.
Dopo un'ulteriore riflessione, quasi ciascuna delle affermazioni dei due paragrafi appena precedenti richiede un'ulteriore analisi. Ad esempio, anche se ipotizziamo che il traduttore della LXX abbia utilizzato un testo ebraico identico alle consonanti del TM, non abbiamo modo di sapere se lo vocalizzò esattamente nello stesso modo dei Masoreti. Sebbene le differenze nella vocalizzazione siano spesso minori e facciano poca o nessuna differenza nel significato, certamente non è sempre così.
Ad un certo punto, dovremo accertare se, a nostro giudizio (e a giudizio di altri che hanno studiato il materiale) un dato traduttore della LXX generalmente seguisse da vicino il suo testo Vorlage ebraico o se fosse portato a frequenti inserimenti e omissioni, cosicché non possiamo sapere se un passaggio eventualmente significativo sia dovuto a un testo ebraico diverso dal TM o sia il risultato dell'intervento cosciente del traduttore.
Al di là di queste considerazioni ce ne sono altre due. In primo luogo, la LXX è dopo tutto una traduzione e quindi non necessariamente il mezzo ottimale per esprimere opinioni anche (soprattutto?) su argomenti di interesse attuale. È chiaro che i responsabili della LXX avevano opinioni divergenti sul modo migliore per rendere la formulazione ebraica in un greco comprensibile. Tuttavia, sembra metodologicamente corretto presumere che il traduttore abbia seguito il suo testo, a meno che non vi sia qualche motivo per pensare diversamente. E questo sarebbe vero, almeno in generale, indipendentemente dal fatto che il traduttore fosse d'accordo o meno con il testo. Pertanto, a meno che non abbiamo prova contraria, non possiamo dare troppo peso a qualsiasi esempio in cui la traduzione greca concorda con il suo presunto testo Vorlage ebraico. Detto con enfasi, l'accordo tra i testi non indica necessariamente che il traduttore fosse d'accordo con un dato sentimento espresso in quel testo.
La seconda considerazione è particolarmente appropriata quando si considera l'escatologia e le questioni correlate. Come è noto, la Septuaginta, in origine documento ebraico per un pubblico ebraico, divenne la Bibbia (e più precisamente l'Antico Testamento) per i cristiani. In questa veste, i teologi cristiani estraevano regolarmente dal testo il supporto di quelle che sarebbero diventate credenze caratteristiche. L'attenzione escatologica fu un'area che vide uno sviluppo particolarmente ricco nel cristianesimo primitivo. Pertanto, molti passaggi della LXX vennero intesi come portatori di un significato escatologico, indipendentemente dal fatto che tale fosse o meno l'intenzione (o probabilmente fosse stata l'intenzione) degli stessi traduttori del greco antico. In breve, dobbiamo essere sempre cauti nel non rileggere nella Septuaginta significati che appartengono a una cultura cronologicamente successiva e religiosamente diversa.
L’aldilà, come mezzo per premiare e punire individui (o forse gruppi di individui), è chiaramente una parte, ma solo una parte, della costellazione di credenze incentrate sul termine “escatologia”. Concentrandosi sulla fine del tempo (almeno, il tempo come lo conosciamo e lo sperimentiamo), l'escatologia ha sia un significato globale, persino universale, sia un'importanza in termini di destino degli individui. Spesso, ma non sempre collegata alla fine dei tempi è la figura del Messia (o, per alcuni ebrei del Secondo Tempio, dei messia). Cioè, i passaggi biblici che evidenziano il ruolo del Messia possono essere direttamente rilevanti per una visione escatologica più ampia, oppure potrebbero non esserlo. Gran parte dell'escatologia, ma non tutta, prevede una fine infuocata del nostro mondo, provocata da Dio e dal suo esercito angelico, spesso aiutato da quegli umani alleati con Lui contro le forze del male cosmico. Questo è l'apocalitticismo che, a mio avviso, aggiunge un senso di urgenza alla speculazione escatologica che altrimenti sembrerebbe riguardare solo un lontano futuro.
Da un lato, un'attenta delineazione dei diversi filoni del pensiero escatologico e messianico è essenziale per tracciare quelli che possono essere concepiti come sviluppi paralleli, ma comunque diversi. Dall'altro, è improbabile che qualche individuo o gruppo di individui con idee simili abbia approfondito molto le differenze di definizione o di enfasi nelle loro considerazioni escatologiche. Vale a dire, per motivi di analisi noi, come osservatori di un periodo precedente, potremmo desiderare di differenziare le convinzioni che coloro che le sostenevano avrebbero avuto in comune. Con questo in mente, discuterò di seguito una serie di passaggi che avrebbero potuto essere intesi come escatologici, indipendentemente dal fatto che si possa o meno sostenere che si riferiscano specificamente all'aldilà.
Il Salterio
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Inizieremo con il Libro dei Salmi (o Salterio) poiché questo è stato il punto di partenza per gran parte delle discussioni e analisi più vivaci nelle discussioni passate. Il Salmo 1, composizione iniziale e per molti versi introduttiva all'intera raccolta, inizia con il contrasto tra il destino dei giusti e quello dei malvagi. Una traduzione abbastanza letterale del Salmo 1:5 nel testo ebraico è il seguente: "Perciò non reggeranno gli empi nel giudizio, né i peccatori nell'assemblea dei giusti". Nel contesto ebraico di questo Salmo, ciò si riferisce chiaramente alle azioni di Dio, in questo mondo, per separare e premiare coloro che Gli sono fedeli, punendo coloro che si allontanano da Lui. Questo è un tema comune alla letteratura sapienziale, di cui il Salmo 1 è un esempio.
Secondo Joachim Schaper, "the Greek, on the other hand, has altered the psalm’s nature as a whole by reinterpreting a single word. The use of anisthmi as an intransitive verb referring to the future state of a group of individuals clearly confers the idea of ‘rising from the dead,’ ‘be resurrected’. . . The idea of a last judgment is implied in the Greek of Ps 1:5", che Schaper traduce: "Therefore unbelievers will not rise [from death] in judgment nor will sinners [rise] in the counsel of righteous men". Schaper sostiene questa interpretazione con riferimento ad altra letteratura ebraica (ad esempio, 2 Maccabei) che risale anch'essa al II secolo AEV, quando, secondo lui, è stato prodotto il Salterio greco.[3]
È degno di nota, soprattutto agli occhi di coloro che si oppongono all'interpretazione di Schaper (qui e, come vedremo, in altri passaggi) che egli non citi nessun altro uso di questo verbo greco nel Salterio. Concentrandosi su questo punto, Karen Jobes e Moisés Silva osservano: “Although Schaper’s interpretation may seem at first attractive, there is evidence to diminish its force. For example, the material in Hatch-Redpath shows the same Greek root translating the same Hebrew root even in contexts where the sense of resurrection is impossible. One such instance is in the Psalter itself at Psalm 93:16. With this in mind, we can characterize Schaper’s interpretation at best as ‘ambiguous’".[4] Date le nostre osservazioni introduttive supra, non sembra che Jobes e Silva abbiano fissato un livello interpretativo troppo alto per sforzi come quello di Schaper.
Considereremo ora una selezione di altri esempi di Schaper dal primo terzo del Salterio. Il primo passaggio addotto da Schaper è il Salmo 16 (15 nella LXX): 9-10. In ebraico il testo recita: "Perciò il mio cuore si rallegra, e la mia gloria esulta; anche la mia carne dimorerà fiduciosa e al sicuro; poiché tu non abbandonerai l'anima mia in potere della morte, né permetterai che il tuo santo subisca la decomposizione". Schaper, insieme ad altri, suggerisce che la parola tradotta “la mia gloria” dovrebbe invece essere letta “il mio fegato”. Ciò non comporta alcun cambiamento nelle consonanti. Schaper rende la Septuaginta per questi due versi come: "Lì il mio cuore si è rallegrato//e la mia lingua ha elogiato;//finanche la mia carne riposerà sulla speranza//perché non abbandonerai la mia anima nell'Ade//né lascerai che i tuoi giusti vedano la corruzione".
Per Schaper, le differenze escatologicamente significative tra l'ebraico e il greco sono due: il passaggio da “al sicuro” a “sulla speranza” e da “decomposizione” a “distruzione”, “corruzione fisica”. Come sostiene Schaper: "These changes indicate the introduction of the notion of physical resurrection (again only of the righteous) into the sacred text. . . The Hebrew text does not confer this idea. It just stresses that God will not let the righteous die an untimely death".[5]
Possiamo allora dire, con Schaper, che "the Greek version puts forward the promise of personal, physical resurrection. We have here one of the first, if not the first, instance of this hope"?[6] Sulla base delle ulteriori prove che Schaper utilizza come supporto; vale a dire, un midrash sul Salmo 16, non posso seguire la sua argomentazione, soprattutto in assenza di qualsiasi prova collaborativa da altrove nei Salmi greci, per non parlare del corpus dell'intera Septuaginta.
È giudizio di Schaper che gli ultimi tre versetti di Salmi 22 (21 nella LXX), cioè i versetti 30–32, forniscano "an illustration of the traditional Hebrew concept of divine justice with regard to human life and death". Questo è un passaggio particolarmente difficile in ebraico, soprattutto nel suo primo versetto. CEI (dove i versetti sono numerati 29-31) rende questo passaggio come segue: "Tutti i ricchi della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendono nella polvere e che non possono mantenersi in vita s'inchineranno davanti a lui. Una posterità lo servirà, si parlerà del Signore alla futura generazione. Essi verranno e proclameranno la sua giustizia a un popolo che deve ancora nascere, e che egli stesso ha fatto". Qualunque ambiguità risieda nell'ebraico, il greco è, secondo Schaper, inequivocabile. Nella sua traduzione si legge: "E i ricchi (“i grassi”) della terra mangiarono e si prostrarono,//tutti quelli che scendono nella terra cadranno davanti a lui.// Ma l'anima mia vive per lui//e la mia discendenza lo servirà://la generazione futura sarà annunziata al Signore//e proclameranno la sua giustizia//al popolo che nascerà, [tutte le cose] che il Signore ha fatto".
Delle tre differenze che Schaper discerne tra l'ebraico e il greco, solo una è di interesse per questioni escatologiche. Per l'ebraico reso “coloro che non possono mantenersi in vita”, LXX ha “l'anima mia vive per lui”. Nell'analisi di Schaper, la lettura greca potrebbe essere un'interpretazione dello stesso ebraico o una che varia, ma solo leggermente, da tale ebraico. Il significato di ciò è, per Schaper, chiaro: “‘my soul lives for him’ means ‘lives for him in eternity’, as is suggested by the use of the future tense in the immediate context".[7] Per coloro che seguono l'interpretazione escatologica fatta da Schaper per gli altri salmi, questa comprensione del Salmo 21 (enumerazione LXX) ha sicuramente un peso considerevolmente maggiore di quello che ha per coloro che rimangono scettici sull'approccio generale di Schaper al Salterio.
Il Salmo 46 (45 nella LXX) fornisce l'esempio successivo nell’elenco dei salmi dato da Schaper con una notevole rielaborazione escatologica da parte del traduttore greco. Nel testo ebraico di questo salmo, il v. 8 recita: “Venite, ammirate le opere del SIGNORE, egli fa sulla terra cose stupende”. A questo punto, la LXX ha (nella traduzione di Schaper): “Venite, vedete le opere del Signore//che egli ha posto sulla terra come portenti”. Come inteso da Schaper, "the change from ‘devastation’ {NASB: ‘desolations’} to ‘portents’ obviously expresses the need to adjust the text to reflect a modified concept of the inception of the messianic age. . . The shift probably also served to alter the idea itself, to make it more ‘humane.’ The stress was no longer laid on the destruction wrought by God but rather on the hope (for the coming of the Messiah?) itself". C’è certamente motivo anche per un osservatore imparziale di dubitare che questa lettura della LXX sia in realtà “una traduzione interpretativa” del tipo estrapolato da Schaper. Anche se lo fosse, non esiste una connessione chiara tra questa lettura e le altre che Schaper sviluppa nella sua sezione sull'escatologia.[8]
La situazione nel Salmo 48 (LXX 47) è piuttosto interessante. L'ultimo versetto di questo Salmo (NASB versetto 14) recita: “Poiché tale è Dio, Nostro Dio nei secoli dei secoli; Egli ci guiderà fino alla morte”. Per la Septuaginta, Schaper traduce: “Poiché questo è Dio, il nostro Dio,//in tutta l'eternità e nei secoli dei secoli,//egli stesso ci pascerà per sempre”. Secondo Schaper, l'equivalente greco del “guidare” ebraico è esatto. Tuttavia, l'espressione ebraica “fino alla morte” ha portato nella Septuaginta “to a theologically tendentious interpretation. . . . The Hebrew text . . . simply alludes to an inner-wordly guidance given to the righteous. . . . The Hebrew of Ps 48 does not confer any ideas about personal eschatology”. L'espressione greca eis tous aiwnon (varianti di questa si trovano tre volte nella riga precedente), che Schaper rende “per sempre”, è nella sua analisi un termine che è stato “democratizzato”, in modo tale che “it could be employed to lay out the prospects of personal salvation. The flock tended by the eternal shepherd could now hope to participate in his eternity”. Questo è, a prima vista, un esempio più importante di alcuni degli altri addotti da Schaper. Tuttavia, dato il fatto che una forma simile compare tre (altre) volte in questo versetto, non possiamo trascurare la spiegazione apparentemente più semplice della corruzione testuale nella fase di traduzione e/o trasmissione.[9]
La composizione immediatamente successiva, il Salmo 49 (LXX 48), è più complessa e fornisce a Schaper il contesto per una delle sue analisi più lunghe.[10] Il versetto 12 (v. 11 nella NASB) recita come segue: “Il loro pensiero interiore è, che le loro case dureranno per sempre, E le loro dimore per tutte le generazioni; Hanno chiamato le loro terre con i loro nomi”. Questo testo difficile viene spesso modificato all'inizio, in modo che appaia la parola ebraica per “tomba” o “tombe” invece di “pensiero interiore”. Un tale cambiamento, che implicherebbe la riorganizzazione di due consonanti, non è affatto impossibile, ma è categoricamente respinto da Schaper. Pertanto, egli sostiene, la LXX di questo versetto è un'altra “innovazione teologica” da parte dei traduttori: “E le loro tombe saranno le loro case per sempre,//le loro dimore per molte generazioni [=per sempre]”. Nelle parole di Schaper: "This theological exegesis, serves to stress the eternal death of the wicked . . . over against the eternal salvation of the righteous. . . [In other words,] there will be neither judgment nor resurrection for the wicked".
Dal punto di vista di Schaper, questa interpretazione è rafforzata dalla versione LXX al v. 15 (v. 16 nella LXX), dove un testo ebraico notoriamente difficile è reso in greco come: "[Li] misero nell'Ade come pecore, a Morte è il loro pastore://e i giusti regneranno su di loro al mattino,// e il loro aiuto svanirà dalla loro gloria [una volta che saranno] nell'Ade". Questo greco è simile, secondo Schaper, a ciò che è implicito nel testo ebraico, “but it further stresses an already prominent feature, i.e. the existence of the wicked in Hades. Whereas the Hebrew text tells us that their ‘form will vanish,’ the Greek claims that there will be no ‘help’ for them in the nether world”. Come spesso accade con i passaggi che Schaper sceglie di evidenziare, in questo salmo ci sono difficoltà sia testuali che interpretative. Ciò rende difficile offrire un supporto completo alle posizioni a favore delle quali Schaper avanza le sue affermazioni definitive.
Un altro “esempio sorprendente di reinterpretazione” si trova nel Salmo 56 (LXX 55), secondo Schaper. La NASB rende questo versetto difficile (v. 8 nella NASB; v. 9 nella LXX) come: (EN) “Thou hast taken account of my wanderings; Put my tears in Thy bottle; Are they not in Thy book?” Schaper escluderebbe l'ultima riga di questo versetto ("Are they not in Thy book?") come una probabile glossa. Come dobbiamo allora affrontare quella che apparentemente è la resa greca delle prime due righe di questo versetto: “I have told you my life,//[and] you have put my tears before yourself, just like in your promise”?
La cosa più importante, per Schaper, è la questione di quale “promise (=promessa)” si alluda in questa versione interpretativa del greco. Per Schaper, come per altri ricercatori, è a Isaia 25:8 che questa allusione ci attira. "Within the description of the great eschatological banquet drawing together the nations in Jerusalem it is announced that God ‘has wiped away the tears from every cheek’" (così la New Jerusalem Bible). Schaper costruisce anche l'argomentazione secondo cui la parola greca per “promessa” usata qui, epaggelia, era intesa “to mean the holy scriptures of Judaism qua embodiment of God’s promise to Israel.”. L'uso di tale terminologia tecnica serve, per usare un'espressione colloquiale, a suggellare l'accordo. Qui, come altrove, preferirei una valutazione molto più cauta dei Salmi LXX che sottolinei la possibilità, piuttosto che la verosimiglianza o addirittura la certezza.[11]
Il Salmo 59 (LXX 58) fornisce il prossimo esempio per Schaper. I versetti chiave, 12–13 in ebraico e 13–14 nella LXX, sono tradotti in questo modo dalla NASB: (EN) "On account of the sin of their mouth and the words of their lips, Let them even be caught in their pride, And on account of curses and lies which they utter. Destroy them in wrath, destroy them, that they may be no more; That men may know that God rules in Jacob, To the ends of the earth". Per questo, la LXX, nella versione di Schaper, riporta: "With regard to the sin of their mouth, to the word of their lips,//let them be taken in their pride.//And because of their curses and their lies, acts of judgement will be pronounced// on the day of consummation, and they will be no more.//And they will know that God rules over Jacob, until the ends of the earth".
L'elemento lessicale chiave qui è il termine greco sunteleiai. In generale, tale termine si riferisce alla “distruzione” in qualsiasi numero di contesti possibili. In questo caso, sostiene Schaper, deve essere inteso specificamente come “un terminus technicus apocalittico”. Schaper cita brani di Daniele LXX a sostegno della sua interpretazione di “consumazione” o “giudizio finale”. Schaper fa riferimento anche al frequente ricorso del Nuovo Testamento a “this particular usage . . . in many of its copious references to the last judgment”. Non possiamo fare a meno di chiederci se questa successiva interpretazione cristiana del termine abbia influenzato l'analisi di Schaper riguardo al suo significato in questo passaggio della LXX.[12]
L'ultimo dei brani escatologicamente significativi di Schaper dai Salmi LXX deriva dal Salmo 73 (LXX 72). A suo avviso, questo salmo è una controparte del Salmo 1: “Whereas in the former we find the idea that only the righteous will rise from the dead, the latter demonstrates another aspect of this fundamental belief, i.e. the concept that the wicked will forever be confined to the nether world”. Il versetto chiave qui è il v. 4 in ebraico (v. 5 nella LXX), reso nella NASB come: "For there are no pains in their death; And their body is fat". Per questo versetto in ebraico, Schaper preferisce un'interpretazione diversa, come incarnata nella RSV: "For they have no pangs; their bodies are sound and sleek".
In ogni caso, secondo Schaper, il traduttore della LXX intendeva l'ebraico in un modo che si avvicina alla traduzione letterale della NASB. Quindi, “they [i.e., the sinners] will see no return from death//nor find steadfastness in their affliction”. Schaper offre anche una traduzione alternativa per la seconda parte decisamente difficile di questo versetto nella Septuaginta, "and there is steadfastness in their scourge (i.e. their punishment is perpetual)".[13] Qualunque sia l'approccio di Schaper che trova favore, supporta sicuramente il suo quadro generale, messo insieme dai passaggi dei Salmi LXX da lui discussi, di dannazione eterna, punizione incessante e miseria come destino post mortem dei malvagi. Per loro non ci sarà né resurrezione né ricompensa.
Spero che questa presentazione dell'analisi fatta da Schaper per le interpretazioni LXX escatologicamente significative nei Salmi sia stata equa per lui e chiara per i lettori. Ho lasciato gran parte degli stralci nell'originale inglese come riportato nei vari testi biblici (EN) citati. È possibile fare una presentazione altrettanto simile della sua discussione dei passaggi in cui si ritiene sia stato introdotto un accresciuto senso di messianismo dal traduttore dei Salmi LXX. Tuttavia, sembra che a questo punto sarebbe più produttivo esaminare alcune delle recensioni raccolte in merito al libro di Schaper. In questo caso, siamo particolarmente interessati ai giudizi dei recensori riguardo alla solidità (o alla sua mancanza) della metodologia di Schaper, poiché è appropriato, a mio avviso, dubitare che una metodologia non corretta produca risultati validi.
Melvin K. H. Peters critica la mancanza di interesse di Schaper per “the history of the transmission of the Greek text on the one hand . . . [and] of the immediate context of a passage in question on the other. . . . Rather, he is more interested in tracing connections (echoes) in other parts of the Greek Bible, the Talmud, the Apocrypha, or Pseudepigrapha. For those enamored by that sort of midrash-like ‘eclecticism,’ this monograph will prove quite engaging; for those accustomed to more thoroughgoing, context-sensitive interpretive techniques, it will be disappointing”. Il suo giudizio sommario, con il quale sono solidale se non del tutto d'accordo, è il seguente: “Some may be convinced that a collection of weak examples makes a strong case, or that similarity indicates dependence, but such views are not everywhere held and certainly not in this quarter”.[14]
In un articolo incentrato su LXX 49:15 (cfr. supra per l'interpretazione di Schaper), ma che va ben oltre questo particolare passaggio, Staffan Olofsson fa numerose osservazioni sulla metodologia di Schaper, non molte delle quali di tono positivo. Pur riconoscendo che "an LXX translator [was] influenced by the interpretation prevalent in his lifetime and by his cultural and religious environment", Olofsson rifiuta l'idea che ciò dia diritto a uno studioso moderno “to suggest from differences between the meaning of the MT and the Greek translation and the use of certain Greek terms in Jewish interpretations of the Hebrew Bible that the translator is engaged in theological exegesis".[15] Cita con approvazione l'osservazione di Albert Pietersma, in una recensione di Schaper, secondo cui "it is not acceptable methodologically, that one (or several) instances be given special treatment and be elevated to a higher level of interpretation . . . in distinction from the more mundane text-criticism".[16]
Nel delineare il proprio approccio, Oloffson afferma apertamente: “My methodological proposals do not presuppose that the theological convictions of the Septuagint translator . . . have not affected his translation in any way. They only suggest that in order to make that proposition probable one has first to take a look at more obvious possibilities of interpretation, since theological exegesis is not the primary aim of [the] translator [of LXX Psalms].”[17] In breve: "the burden of proof is thus on the scholar who suggests that an interpretation of the [Greek] translator of the Hebrew text is at variance with the translation of the same or a similar Hebrew text in a modern translation is based on the theological Tendenz of the [Greek] translator".[18] Il risultato di questa critica è, se così posso dire, che Schaper ha posto il carro davanti ai buoi, il presupposto prima dell'evidenza, la conclusione prima del duro lavoro di critica testuale. Nel complesso, se non su ogni punto particolare, sono d'accordo con questa valutazione.
In uno dei suoi numerosi articoli sulla LXX, Pietersma ci invita a considerare la questione da una prospettiva più ampia, anche se rimaniamo concentrati sul Salterio greco. Qui Pietersma costruisce “a continuum for the field of Septuagint hermeneutics with minimalism at the one extreme and maximalism at the other”. Ai limiti estremi del reame del “minimalista”, “the translator [is seen and understands himself or herself ] as a mere medium (a conduit) of the source text. Such a translator, prototypically, does not add to nor subtract from the text being transmitted, nor are alterations made to it”.[19] Una comprensione “massimalista”, con cui Pietersma identifica Schaper, eleva effettivamente il traduttore greco “to the status of an author, whose work becomes a substitute or replacement for the source text”.[20] E, aggiunge Pietersma, “Schaper is evidently not speaking of exegetical potential inadvertently created by the Greek translator, but about actual exegesis, consciously breathed into his text in the process of translating his source”.[21]
Questa distinzione, tra reale e potenziale, è della massima importanza, come Pietersma mostra efficacemente più avanti in questo stesso articolo attraverso la sua analisi di diversi esempi, anche dai Salmi LXX, da parte di Martin Rösel. Dopo aver esaminato attentamente questi esempi, conclude: “All of [this] is not to say that the phrase in question cannot possibly be read in the way that Rösel seeks to read it. That the church Fathers often read [the Greek terms under investigation] as having to do with eschatological revelation is certainly true. . . . What I would suggest, however, is that here we are no longer in the domain of the original Septuagint, but at a certain stage in its reception history”.[22] Non cedo a nessuno nel mio quasi inestinguibile interesse per la storia di ricezione della Bibbia; tuttavia, spero di mantenere tale interesse separato da una preoccupazione focalizzata sul significato che una determinata parola o passaggio aveva nel suo contesto iniziale. Come ho osservato in diversi punti in precedenza in questo Capitolo, non è così chiaro se Schaper abbia consapevolmente riconosciuto queste diverse fasi e mantenuto la distanza necessaria tra di loro.
Questa, tuttavia, non è proprio l'ultima parola sull'escatologia nel Salterio LXX. Nella sua monografia sulla “translational technique” nel Salterio LXX 3–41 per i verbi e i participi ebraici, John Sailhamer sottopone il Salmo 37 a uno studio approfondito.[23] Egli determina che “the LXX translator was guided in his choice of equivalences by a social and religious interpretation of the psalm. The interest . . . is eschatological. This interest, the expectation of the coming age, had a significant impact on the choice of tenses in the LXX psalm. . . . In this area there was a measure of freedom to translate according to the understanding of the psalm by the translator, and thus the religious concerns of the translator show through”.[24] Pertanto, sarebbe inappropriato ignorare una maggiore enfasi sull'escatologia nei Salmi LXX semplicemente segnalando possibili carenze metodologiche da parte di un singolo studioso, in questo caso Schaper. Il Salterio greco merita senza dubbio ulteriori ricerche.
Il Libro di Giobbe
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Data la lunghezza del Salterio e la varietà dei suoi argomenti, non ci sorprende che sia stato al centro di numerose ipotesi, come quelle legate all'escatologia e al messianismo. Un altro libro biblico a cui potremmo immaginare che i ricercatori si rivolgeranno è Giobbe. È un libro straordinariamente difficile sotto quasi tutti gli aspetti: il linguaggio, la struttura, i probabili (o possibili) significati. La versione greca del Libro di Giobbe è più breve del tradizionale testo ebraico o masoretico e presenta una serie di interpretazioni che evidentemente non sono letterali.
In un articolo della metà degli anni ’50, Donald Gard discusse quelle che considerava le componenti principali del concetto di vita futura così come costruito dal traduttore LXX di questo libro. Elencava i suoi esempi in tre categorie: “One in which the future life is stated as a fact in G, one in which an afterlife is implied in G, and one in which the Greek translator describes conditions in the future life”.[25]
Per Gard, il primo esempio della categoria 1 (la vita futura è dichiarata come un fatto) si trova nella versione greca di Giobbe 14:14 (secondo la numerazione dei versetti in ebraico). Nella traduzione di Gard, l'ebraico recita: "If a man die, will he live (again)?//All the days of my service I wait,//Until my relief should come". Per questo, la LXX ha (di nuovo, nella resa di Gard): "For if a man dies, he will live,//Having completed the days of his life;//I will abide until I be born again". Conclude Gard: "In other words, the Hebrew text merely raises the question concerning life after death, while G states it as a fact with the further assertion of a new existence for Job".[26]
Nell'introdurre gli esempi della categoria 2, Gard scrive: "It is the Greek translator’s theology of the future life which governs his treatment of passages in the Hebrew in such a way as to imply a future life".[27] Come il suo primo esempio in questa categoria, cita Giobbe 4:20b nel MT, dove "Elifaz sottolinea l'esistenza effimera dei re umani" con queste parole (come tradotte da Gard): "Without anyone’s heeding they perish forever". Non fornendo una traduzione della parola ebraica “per sempre”, "the rendering by the [Greek] translator does not exclude future life: ‘Because they were not able to help themselves, they perished’" (nella traduzione di Gard).[28]
Gard inizia la sua discussione sugli esempi nella categoria 3 affermando: "Since the translator does accept a life after death, it should not be surprising to note that he also indicates conditions in the afterlife".[29] La versione greca del difficile ebraico in 6:10, soprattutto nella terza riga, "suggests a reason for Job’s joy at the prospect of death—he has a claim to vindication in afterlife". Così, nella LXX si legge (traduzione di Gard): "So may my city be a grave,//Upon which, upon whose walls I used to leap, I will//not spare (i.e., refrain from, forbear);//For I have not falsified the holy words of my God."[30] "The kind of punishment which the Greek translator sees for the wicked in the future life is seen, for example, in his rendering of MT 40:13: ‘Hide (them) in the earth outside together;//But fill their faces with dishonor’".[31]
Gard espone chiaramente le sue conclusioni generali: "For the book of Job, the writer [Gard] concludes that differences between [the MT] and [LXX] in passages relating the afterlife are not due to a completely different Vorlage. The differences are due rather to a tendency on the part of the Greek translator to introduce a theological point of view".[32] Non sorprende che la metodologia e le conclusioni di Gard non siano rimaste incontrastate. Nella sua critica ad un libro diverso ma situato in modo simile, Harry M. Orlinsky afferma apertamente: la vera natura sia del testo ebraico che di quello greco di Giobbe "would be clear to anyone who would allow the Jewish translator and the author of the Hebrew text to speak for themselves where their texts are not obscure".[33] Orlinsky non è sicuramente il solo a giudicare che Gard sia tra coloro che hanno portato avanti un dialogo unilaterale piuttosto che una discussione interattiva con i testi di Giobbe. Ciononostante, non possiamo escludere la possibilità o anche la probabilità che un accresciuto interesse per l'aldilà si manifesti, anche se solo molto raramente, in Giobbe LXX.
Il Libro di Isaia
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I prossimi esempi sono tratti dal Libro di Isaia. Come è noto, è questo libro che ha fornito agli autori del Nuovo Testamento la più ricca fonte di citazioni e fraseologia “scritturale”. Molti fattori hanno portato a questo uso frequente da parte loro, tra cui una serie di passaggi che si leggono come predittivi della venuta di Gesù e della vita, inclusa l'aldilà, che questo epocale evento (o, meglio, serie di eventi) ha comportato. Tuttavia, come abbiamo visto in precedenza, soprattutto a proposito del Salterio, dobbiamo cercare, anche se non sempre ci riusciamo, di distinguere il significato iniziale di un testo greco dal/i modo/i in cui è stato successivamente recepito.
Rodrigo de Sousa ha pubblicato un'importante monografia sull'escatologia e il messianismo nei capitoli 1-12 dell'Isaia greco.[34] Il primo brano che sottopone ad un'analisi approfondita è Isaia LXX 2:2-4. Questo noto passo, che in ebraico inizia con “nei giorni a venire” e si conclude con “le nazioni non si eserciteranno più nell'arte della guerra”, è ovviamente inserito in un contesto escatologico. La resa della LXX aggiunge, sottrae o semplicemente mantiene i contorni di questo contesto? La stessa domanda si pone con riferimento a Isaia 4:2-6, che in ebraico inizia con una frase significativa, “in quel giorno”.
De Sousa conclude:
In altre parole, il traduttore dell'Isaia greco non era impegnato nella riscrittura di alcune frasi ebraiche certamente difficili, ma cercava invece di comprendere il testo come meglio poteva e di trasmettere questa comprensione al suo pubblico. Conclusioni così sfumate non hanno l'effetto pirotecnico delle dichiarazioni di altri, ma allo stesso tempo ispirano più fiducia da parte di coloro che cercano di determinare la posizione di un dato traduttore della LXX.
Nonostante il suo utilizzo successivo, de Sousa sostiene "that the rendering of LXX Isa 7:14–16 does not give sufficiently strong evidence of a conscious, systematic messianic reading of the passage. . . . The choice of parthenon does not seem to have any special significance. . . . The important points to note are that the translator of LXX Isa 7:16 understood the promised child of Isa 7 as having a proper name . . . and that he sought to safeguard his extraordinary moral character. In so doing, he inserted elements that belonged to wider streams of Jewish thought".[35] Nel giungere a queste conclusioni, de Sousa è in sostanziale accordo con Johan Lust, che scrive: "Our reading . . . does not deny that the LXX facilitates a Christological-Messianic interpretation, especially with respect to its choice of words, in particular the use of the term parthenon ‘virgin’ and the future tense of the verbal expression ‘she shall become pregnant.’ On the other hand, it would seem that such a messianic accentuation was not intended by the translator".[36]
Osservazioni conclusive
[modifica | modifica sorgente]Sarebbe possibile trarre ulteriori esempi da passi qua e là in altri libri della Bibbia greca. Tuttavia, a questo punto un simile approccio, che ignorerebbe necessariamente questioni contestuali più ampie all'interno del libro o dei libri selezionati, non esemplifica l'attenta metodologia presentata all'inizio di questo Capitolo e promossa nelle Sezioni susseguenti.
Per alcuni lettori, i risultati della mia analisi saranno deludenti e in gran parte negativi. Non possiamo, ad esempio, fare alcuna affermazione generale sulla posizione della Septuaginta nei confronti delle principali questioni escatologiche. Oppure, detto in altro modo, semplicemente non possiamo affermare che i traduttori della LXX abbiano consapevolmente e deliberatamente cambiato il loro Vorlage ebraico per riflettere un accresciuto interesse per l'aldilà, anche se quell'accresciuto interesse costituiva un'influenza crescente all'interno della loro comunità ebraica.
Questi giudizi “negativi” risultano dalla struttura della Septuaginta come l'abbiamo ora; si tratta cioè di una raccolta eterogenea di testi di secoli diversi, ambienti culturali e religiosi diversi, traduttori diversi che utilizzano tecniche diverse per presentare l'ebraico al loro pubblico di lingua greca. Mentre a livello lessicale ci furono alcuni sforzi per standardizzare la rappresentazione greca dei termini ebraici chiave nella LXX, non riusciamo rilevare tali sforzi nel reame della teologia o dell'ideologia.
Di fronte alle affermazioni contrarie, cioè alle affermazioni secondo cui alcuni libri della Bibbia LXX riflettono effettivamente gli sforzi dei loro traduttori per introdurre concetti escatologici che vanno oltre la Vorlage ebraica, solo un'analisi attenta, spesso parola per parola, può determinare la validità (o la mancanza di validità) di tali punti di vista. La cosa più importante per quanto riguarda la metodologia è che il duro lavoro di critica testuale deve precedere qualsiasi pretesa di esegesi teologica da parte di qualsiasi traduttore della Septuaginta. È quindi responsabilità di coloro che pretendono di individuare tale esegesi teologica dimostrare la loro tesi. Porre un livello così alto, che costituisce un ostacolo a un ragionamento facile, è essenziale se davvero cerchiamo di determinare, al meglio delle nostre capacità, ciò che intendevano i traduttori stessi. E, come notato sopra, questa non è decisamente la stessa cosa di come questi testi furono interpretati successivamente in contesti religiosi e culturali molto diversi.
Al di là di queste considerazioni, dobbiamo ricordare questa importante osservazione: "In fact, it is not clear that the LXX translators would have viewed their task as compatible with giving expression to their (own) views of the afterlife. Other types of works, including (speculatively) commentaries and midrashim on the LXX, would have provided more likely vehicles for the presentation and reflection of their authors’ views on eschatology".[37]Non abbiamo antichi commentari alla LXX composti dagli stessi traduttori. Ma abbiamo molti documenti delle comunità ebraiche degli ultimi secoli AEV e i primi secoli EV. È a questi che gli studiosi si rivolgono per determinare cosa pensassero gli ebrei di questo periodo riguardo all'aldilà e alla rivendicazione post mortem dei giusti e alla punizione dei malvagi. E così deve essere.
Note
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico, Serie delle interpretazioni e Serie maimonidea. |
- ↑ Cfr. anche, ad esempio, le osservazioni preliminari in Alison Salvesen, "Messianism in Ancient Bible Translations in Greek and Latin", in Redemption and Resistance: Festschrift for William Horbury (curr. M. Bockmuehl e J. N. Carlton Paget; Edinburgh, 2007), 245–48.
- ↑ Per dettagli sugli argomenti menzionati in questo paragrafo e nei successivi, cfr. Leonard Greenspoon, “The Septuagint,” in The New Interpreter’s Dictionary of the Bible (Nashville: Abingdon, 2009), 5.170–77.
- ↑ Joachim Schaper, Eschatology in the Greek Psalter (Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testament—2. Reihe 76; Tübingen: J. C. B. Mohr [Paul Siebeck]), 46–48.
- ↑ Karen H. Jobes e Moisés Silva, Invitation to the Septuagint (Grand Rapids: Baker, 2000).
- ↑ Schaper, Eschatology, 49.
- ↑ Ibid., 50.
- ↑ Ibid., 50–52.
- ↑ Ibid., 52–53.
- ↑ Ibid., 53–57.
- ↑ Ibid., 57–62.
- ↑ Ibid., 62-65.
- ↑ Ibid., 65-68.
- ↑ Ibid., 68–72.
- ↑ Melvin K. H. Peters, “Review of Eschatology in the Greek Psalter, by Joachim Schaper”, Journal of Biblical Literature 116 (1997): 350–52.
- ↑ Staffan Olofsson, “Death Shall Be Their Shepherd: An Interpretation of Ps 49:15 in LXX,” in Helsinki Perspectives on the Translation Technique of the Septuagint: Proceedings of the IOSCS Congress in Helsinki 1999 (curr. Raija Sollamo e Seppo Sipilä; Publications of the Finnish Exegetical Society 82; Helsinski: Finnish Exegetical Society, 2001), 143–44.
- ↑ Ibid., 144.
- ↑ Ibid., 144–45.
- ↑ Ibid., 145.
- ↑ Albert Pietersma, “Exegesis in the Septuagint: Possibilities and Limits (The Psalter as a Case in Point),” in Septuagint Research: Issues and Challenges in the Study of the Greek Jewish Scriptures (curr. Wolfgang Kraus e R. Glenn Wooden; SBL Septuagint and Cognate Studies 53; Atlanta: Society of Biblical Literature, 2006), 35.
- ↑ Ibid., 36.
- ↑ Ibid.
- ↑ Ibid., 41–42.
- ↑ John H. Sailhamer, Translational Technique of the Greek Septuagint (Pss. 3–41) (New York: Peter Lang, 1991), 149–73.
- ↑ Ibid., 149–50, 173.
- ↑ H. Gard, “The Concept of the Future Life According to the Greek Translator of the Book of Job,” Journal of Biblical Literature 7 (1954): 137.
- ↑ Ibid., 137–38, seguito da altri esempi dalla categoria 1.
- ↑ Ibid., 139.
- ↑ Ibid., 139–40.
- ↑ Ibid., 140.
- ↑ Ibid., 141–42.
- ↑ Ibid., 142–43.
- ↑ Ibid., 143.
- ↑ Harry M. Orlinsky, “Review of Studies in the Septuagint: I. Book of Job; II. Chronicles by Gillis Gerleman,” Journal of Biblical Literature 67 (1948): 386.
- ↑ Rodrigo F. de Sousa, Eschatology and Messianism in LXX Isaiah 1-12 (The Library of Hebrew Bible/Old Testament Studies 516; New York: T & T Clark, 2010).
- ↑ Ibid., 101–2.
- ↑ Johan Lust, Messianism and Septuagint: Collected Essays (Louvain: Peeters, 2004), 175.
- ↑ Jobes e Silva, Invitation, 302.