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I due mondi dell'ebraismo/Capitolo 4

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Affresco dalla Sinagoga Dura Europos (100 AEV)

Rabbi Akiva, altri Martiri e Socrate: sulla vita, la morte, e la vita dopo la vita

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Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Rabbi Akiva, Tannaim, Amoraim, Dieci martiri (ebraismo) e Socrate.

La morte dei saggi in generale e l'esecuzione dei Dieci Martiri in particolare hanno un posto di rilievo nelle leggende talmudiche e midrashiche. La morte di Rabbi Akiva, tuttavia, sembrerebbe aver lasciato un'impressione maggiore nella letteratura rabbinica rispetto alla morte di tutti gli altri Tannaim e Amoraim. Le leggende sulla morte di Rabbi Akiva si confrontano con due dilemmi principali. In primo luogo, l'orrore per la sua fine crudele e il modo in cui fu giustiziato quest'uomo molto anziano (120 anni, secondo la leggenda). Il dilemma qui riguarda la questione della teodicea, nel caso di qualcuno che ha vissuto una vita lunga e piena ed è arrivato a una fine così terribile. Il secondo dilemma riguarda il significato della morte di qualcuno che si è sforzato così tanto di dare un senso alla sua vita, e soprattutto la sofferenza e la sfortuna che lo hanno colpito nel corso di essa. La vita è il terreno su cui si costruisce il significato e, quando giunge al termine, la morte è forse priva di significato?

È questa la Torah e tale la sua ricompensa?!

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Le leggende talmudiche e midrashiche raccontano come Rabbi Akiva catturò l'attenzione di figure come Adamo e Mosè. Queste leggende rafforzarono ulteriormente lo status di Rabbi Akiva nella coscienza culturale, paragonandolo ai padri del mondo e della nazione e ponendolo alla pari con loro. Come racconta il Talmud, il primo a essere colpito dall'irragionevole morte di Rabbi Akiva fu Adamo, il quale, "quando raggiunse la generazione di Rabbi Akiva, si rallegrò della sua Torah e fu rattristato dalla sua morte".[1] Un'altra leggenda ben nota, che racconta della scoperta di Rabbi Akiva da parte di Mosè, accresce il dilemma associato alla morte di quest'ultimo:

« Rabbi Yehudah disse nel nome di Rav: Quando Mosè salì al cielo, trovò Dio seduto e che legava corone alle lettere. Gli disse: "Signore dell'Universo, chi Ti chiede questo?" Gli disse: "C'è un uomo che vivrà tra poche generazioni e il suo nome è Akiva ben Joseph, che imparerà cumuli e cumuli di leggi da ogni cuspide. . . ." Egli [Mosè] Gli disse: "Signore dell'Universo, mi hai mostrato la Torah; mostrami la sua ricompensa!" Gli disse: "Guarda dietro di te". Guardò dietro di sé e li vide pesare la sua carne [di Rabbi Akiva] al mercato. Gli disse: "Signore dell'Universo, è questa la Torah e tale la sua ricompensa?" Gli disse: "Silenzio! È così che Io l'ho concepita". »
(TB, Menahot 29b)

Non c’è alcun tentativo, in questo testo, di giustificare il fatto del brutale omicidio di Rabbi Akiva, ma semplicemente l'accettazione arbitraria e incondizionata del decreto di Dio. La schiettezza della risposta di Dio a Mosè, come formulata dall'autore di questa leggenda, accresce l'inutilità della teodicea e rafforza il senso di ingiustizia alla morte di Rabbi Akiva. Di conseguenza, non è la risposta di Dio – inequivocabile, assoluta e così difficile da accettare per la mente umana – ad essere rimasta nella mente di lettori e studiosi, ma piuttosto il grido sonoro di Mosè: "Signore dell'universo, è questa la Torah e tale la sua ricompensa?!"

Anche se alcuni spiegano che la risposta di Dio significa che non bisogna mettere in discussione le Sue vie e le Sue azioni[2] o "investigare ciò che va oltre la propria comprensione",[3] e sebbene la risposta fosse in definitiva destinata ai lettori e agli studenti comuni, non possiamo trascurare il fatto che, nel contesto della leggenda stessa, non è stata data a un profeta o saggio qualsiasi, ma a Mosè, il nostro maestro, il più grande di tutti i profeti passati e futuri. Non sarebbe nel costume dei lettori dell'Aggadah accontentarsi di una semplice deduzione a fortiori ("Se persino Mosè ricevette una risposta del genere, chi siamo noi da aspettarci qualcosa di più?"). Come notato, ciò che è rimasto più impresso nella mente di questi lettori è infatti il grido angosciato di Mosè: "È questa la Torah e tale la sua ricompensa?!"

In effetti, questo grido ha risuonato in tutta la storia ebraica, dai tempi del Talmud ai giorni nostri, ed è al centro della discussione sull'ingiustizia nel mondo, sulla divina provvidenza, sulla ricompensa e sulla punizione, sulla sofferenza dei giusti e sulla prosperità dei malvagi. Al grido fanno eco le parole dei rabbini riguardanti i Dieci Martiri,[4] brutalmente giustiziati dai romani.

Secondo il midrash dei Dieci Martiri, il primo ad essere giustiziato fu Shimon ben Gamliel, presidente [nasi] del Sinedrio, che fu decapitato. Si dice che Rabbi Ishmael, il Sommo Sacerdote, tenesse la testa di Rabbi Simeon tra le mani, gridando amaramente: “Dov'è la Torah e dov'è la sua ricompensa! Ahimè, la lingua che spiegò la Torah in settanta lingue ora lecca la polvere!”[5] Rabbi Ishmael giustifica il suo sfogo, spiegando che Shimon ben Gamliel era stato più grande di lui per Torah e saggezza, e la sua morte fu quindi una grande perdita per lui personalmente e per l'intera generazione. La morte stessa non ha senso. Le conseguenze dell'assenza di Shimon ben Gamliel, tuttavia, furono considerevoli: per se stesso, poiché non fu più in grado di dedicarsi al compito della sua vita – spiegare la Torah in ogni lingua – per Rabbi Ishmael e per l'intero popolo ebraico.

In alcuni midrashim il grido è attribuito agli angeli che protestano contro Dio. Quando Rabbi Ishmael fu ucciso, il boia gli rimosse la pelle del viso. Quando raggiunse il luogo dove sono deposti i filatteri, Rabbi Ishmael lanciò un grido terribile che scosse il trono divino. "Gli angeli ministranti [allora] dissero al Santo, benedetto sia Lui: 'Che un uomo giusto come lui, al quale hai rivelato tutti i misteri dei reami superiori e i segreti dei reami inferiori, debba essere ucciso così orribilmente da quest'uomo malvagio. È questa la Torah e questa la sua ricompensa?"[6] Attribuendo lo shock ai reami superiori, al trono divino e agli angeli – la cui intera esistenza è segnata da un ordine immutabile – l'autore cerca di attribuire alla morte dei Martiri il potere di sconvolgere le fondamenta stesse dell'universo. Alla morte di Rabbi Akiva, anche gli angeli[7] – non solo Mosè, come nella fonte sopra citata – gridano a Dio: “È questa la Torah e tale la sua ricompensa?!”

La storia della morte di Rabbi Ishmael sottolinea la preferenza dell'osservanza dei precetti in questo mondo rispetto alla vita eterna nel mondo a venire. Come vedremo più avanti, la storia della morte di Rabbi Akiva evidenzia lo stesso principio. C'è una certa somiglianza tra le modalità di esecuzione: la carne di Rabbi Akiva viene incisa con pettini di ferro e il volto di Rabbi Ishmael viene scuoiato. Anche il loro comportamento è simile, nell'autocontrollo che mostrano quando vengono messi a morte. Rabbi Akiva adempie al comandamento di recitare lo Shema, e Rabbi Ishmael grida solo quando il boia raggiunge il luogo dove sono deposti i filatteri, inducendo l'imperatore romano a chiedere: "Fino ad ora non hai pianto né gridato, eppure ora gridi?" Rabbi Ishmael rispose: "Non grido per la mia anima ma per il comandamento dei filatteri che mi sono stati tolti". Fino al loro ultimo respiro, Rabbi Ishmael e Rabbi Akiva dedicarono ogni sforzo umano a fare ciò che è giusto in questo mondo. Il loro intero focus interpretativo, secondo i testi aggadici, è sulla vita, non su ciò che accade all'anima dopo la morte.

Quando Rabbi Hanina ben Teradion viene bruciato vivo,[8] avvolto in un rotolo della Torah, sua figlia grida: “È questa la Torah e tale la sua ricompensa?!” Tra loro nasce un dialogo, in cui Rabbi Hanina respinge le sue parole – forse anche per consolarla e darle forza – affermando che un simile grido è fuori luogo: “Se è per me che piangi, accetto la mia sofferenza con amore, e preferirei espiare i miei peccati ed essere consumato dalle fiamme alimentate dall'uomo in questo mondo piuttosto che dalle fiamme che non sono alimentate: le fiamme della Geenna”.[9] Considera la possibilità, tuttavia, che lo shock di lei possa essere dovuto non alla sua esecuzione, ma all'incendio del rotolo della Torah, e aggiunge: “E se è per il rotolo della Torah che piangi, la Torah è fuoco e non può essere consumata dal fuoco. Le sue parole volano nell'aria e il fuoco consuma semplicemente la pergamena."[10] Secondo questo approccio, lo shock per l'esecuzione mediante fuoco di Hanina ben Teradion e l'incendio del rotolo della Torah fu il risultato della visione limitata di coloro che, come la figlia di Hanina, fu testimone del terribile evento, ma non riuscì a distaccarsi dall'orrore e ad interpretarlo ad un livello più profondo. La sofferenza estrema era un privilegio, che lo purificava dai suoi peccati, forse addirittura concessogli come ricompensa per la sua devozione, piuttosto che inflitto come punizione.

Bisogna anche trascendere l'atto barbaro di bruciare un libro sacro. La santità della Torah non è una funzione delle sue componenti fisiche. Il paragone con il fuoco è appropriato, poiché il fuoco non può consumare il fuoco. "Le sue parole volano nell'aria", poiché la Torah, secondo Rabbi Hanina, è il suo contenuto, non inchiostro su pergamena. Non c’è quindi motivo di gridare di rimostranza o di dolore. Occorre trascendere l'oppressore umano e l'orrore visibile e percepire l'evento come un evento di purificazione, il cui significato non ha nulla a che vedere con la distruzione e la morte, ma piuttosto con un fuoco inestinguibile e con le parole che volano nell'aria.

La morte di Rabbi Akiva può anche essere vista nel contesto dell'eternità della Torah o del legame con l'eterno di cui godono i suoi studenti, in particolare alla luce del suo scambio con Pappus ben Judah.[11] Sebbene Rabbi Akiva disapprovasse alcuni degli insegnamenti di Pappus,[12] il seguente, noto scambio, riguarda direttamente lo studio della Torah in un periodo in cui era proibito dalle autorità e la punizione in cui incorrevano coloro che violavano l'interdizione. Lo scambio avviene in due distinte occasioni: quando Rabbi Akiva insegna la Torah in pubblico, in violazione del divieto di studio della Torah, e quando i due uomini si ritrovano insieme in una prigione romana:

« I Rabbini insegnavano: Una volta il governo malvagio decretò che gli ebrei non dovessero impegnarsi nello studio della Torah. Pappus ben Judah si imbatté in Rabbi Akiva, che stava radunando la folla e impegnandosi pubblicamente nello studio della Torah. Gli disse: “Akiva, non hai paura del governo?” Lui rispose: “Ti darò una parabola. È come una volpe che passeggiava lungo la riva del fiume e vide i pesci muoversi insieme da un posto all'altro. Disse loro: ‘Da cosa fuggite?’ Essi risposero: ‘Dalle reti che gli uomini hanno gettato su di noi’. Disse loro: ‘Perché non salite sulla terra e io e voi abiteremo insieme, come i miei antenati abitarono con i tuoi?’ Risposero: ‘Sei tu quello che chiamano il più intelligente degli animali? Non sei intelligente, ma uno sciocco! Se abbiamo paura nel nostro elemento vitale, quanto più ne abbiamo paura in un elemento in cui moriremmo!’ Anche noi lo siamo. Se questo è il modo in cui stanno le cose ora che ci sediamo e ci impegniamo nella Torah, di cui è scritto 'perché questa è la tua vita e la lunghezza dei tuoi giorni', quanto sarebbero peggiori se dovessimo astenerci da essa?”
Si racconta che non passò molto tempo prima che Rabbi Akiva fosse catturato e gettato in prigione, e Pappus ben Judah fu catturato e imprigionato con lui. Gli disse: “Pappus! Chi ti ha portato qui?" Egli rispose: “Fortunato sei tu, Rabbi Akiva, per essere stato arrestato per lo studio della Torah; guai a Pappus che fu arrestato per parole oziose” »
(TB Berakhot 61b)

Al loro primo incontro, Pappus sembra responsabile e razionale.[13] In tempi di tali decreti, sarebbe stato prudente studiare la Torah in segreto e certamente non provocare le autorità radunando grandi folle. Per Rabbi Akiva, tuttavia, la sospensione dell'istruzione pubblica, che è al centro della vita culturale nazionale, avrebbe costituito una sorta di suicidio spirituale-culturale collettivo. Non c'erano dubbi che sarebbero caduti nelle reti romane, ma sospendere lo studio in comune sarebbe stato ancora peggio. Pappus fu convinto dalla spiegazione di Rabbi Akiva? Non lo sappiamo, perché la leggenda talmudica non cita alcuna risposta da parte sua.

Lo scambio continua in prigione, e questa volta l'ultima parola spetta a Pappus, che fa una chiara distinzione tra il regime crudele che imprigiona e giustizia a piacimento e le azioni dei condannati. Sono questi ultimi a definire il significato della punizione. Per Pappus, arrestato per parole oziose, la punizione era davvero una punizione. Fu catturato, come tanti altri sotto il dominio romano, senza aver fatto nulla di male, semplicemente per aver posto una domanda a Rabbi Akiva, ricevuto una risposta ed essere rimasto in silenzio. Alle autorità bastò che non contestasse la dichiarazione di Rabbi Akiva, e così lo arrestarono per il suo silenzio. Rabbi Akiva, invece, venne arrestato per aver violato palesemente un decreto del governo: radunare folle e insegnare pubblicamente la Torah. Per Rabbi Akiva la punizione era, infatti, una ricompensa: “Questa è la Torah e tale è la sua ricompensa!” – nel senso più letterale, non come una rimostranza contro il cielo o un grido di dolore.

Il grido "È questa la Torah" generalmente è inteso come riferito specificamente allo studio della Torah, alla diligenza, alla conoscenza e all'erudizione dei Dieci Martiri.

Un uso insolito di "Questa è la Torah e tale la sua ricompensa" può essere trovato nel caso di Elisha ben Abuyah ("Aher"), che fu testimone della morte dei martiri e trasse conclusioni molto diverse da quelle tratte dalla maggior parte dei suoi amici e colleghi. Si dice che la vista della lingua mozzata di Rabbi Judah il fornaio nella bocca di un cane sia stata una delle cose che portarono Ben Abuyah ad abbandonare la sua fede e a rinnegare i suoi principi. Se "Questa è la Torah e tale la sua ricompensa", conclude Eliseo, è inutile studiare la Torah e osservare i precetti, e non esiste ricompensa e punizione al mondo.[14]

"È questa la Torah e tale la sua ricompensa?" (o in senso affermativo: "Questa è la Torah e tale la sua ricompensa") è stato usato per trasmettere vari significati ed è stato variamente interpretato: come espressione di profondo shock; una rimostranza contro il cielo, espressa da esseri umani o angeli; un'introduzione a una discussione su ricompensa e punizione; un'introduzione a una discussione sulla teodicea; una riaffermazione delle ricompense di cui godono i giusti in questo mondo e soprattutto nel mondo a venire; o un rifiuto della divina provvidenza e una punizione.

Come notato all'inizio di questo Capitolo, il testo talmudico che racconta lo shock di Mosè davanti alla “ricompensa” di Rabbi Akiva non affronta affatto la questione della teodicea. Esiste una fonte, non centrale, che attesta la teodicea di Rabbi Akiva,[15] in grado di plasmare interpretazioni della morte di Rabbi Akiva — basate, piuttosto, su un'ampia gamma di testi rilevanti. Non compare tra le leggende talmudiche e midrashiche che cercano di raccontare la storia di Rabbi Akiva, ma deriva da una fonte successiva, dedicata principalmente alla questione della teodicea riguardo alla morte dei Dieci Martiri. Quindi, anche se dovessimo affermare che l'autore di questa leggenda avesse trovato una risposta adeguata alla clamorosa domanda di Mosè: “È questa la Torah e tale la sua ricompensa?” (assumendo che, effettivamente, spieghi l'omicidio brutale stesso da una prospettiva teodicea), la questione del significato rimarrebbe comunque. È il significato – così essenziale per Rabbi Akiva durante la sua vita e al centro dei primi midrashim che trattano della sua filosofia e della sua storia di vita – che è la preoccupazione principale delle leggende che descrivono il suo comportamento e le sue parole al momento della sua esecuzione.

Una lezione finale sulla filosofia dell'amore

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Il significato della morte di Rabbi Akiva è infatti discusso in diversi luoghi. Alcuni, come il testo seguente, si riferiscono direttamente alla sua immagine di saggio dell'amore:

« Quando portarono Rabbi Akiva ad essere giustiziato, era l'ora stabilita per recitare lo Shema. Mentre gli solcavano la carne con pettini di ferro, accettò il giogo del cielo, e i suoi alunni gli dissero: “Rabbi, anche adesso?!” Disse loro: “Tutti i miei giorni mi sono addolorato alle parole ‘con tutta l'anima’ (Deuteronomio 6:5) — anche quando la tua anima ti è stata tolta. Ho detto: quando avrò l'opportunità di realizzare ciò? E ora che si presenta l'occasione, non la realizzerò?” Egli esclamò [la parola] “uno” [ehad] finché la sua anima dipartì con “uno”. »
(TB, Berakhot 61a)

L'ultima lezione sulla filosofia dell'amore fu impartita dal saggio dell'amore al momento della sua esecuzione. I suoi studenti, che avevano imparato da lui, durante gli anni dei loro studi, che la sofferenza è amata e va accettata e anche abbracciata, non riuscivano a rendersi conto della sua morte. Coloro che erano stati al suo fianco al momento della morte di suo figlio, e anche allora si meravigliarono del suo comportamento, trovano difficile mantenere la compostezza, ma di fronte all'equanimità del loro rabbino, fecero uno sforzo per controllarsi. Se avessero voluto piangere o gridare, non avrebbero potuto farlo in presenza di quest'uomo che, anche mentre veniva torturato a morte, accettò il giogo del cielo recitando lo Shema, con serenità, compostezza e concentrazione.

Queste circostanze erano diverse da qualsiasi cosa avessero provato o imparato prima con Rabbi Akiva. Anche quando una persona soffre terribili angosce e grandi disgrazie le capitano, è pur sempre un essere umano che vive e respira, al di là della sofferenza e della disgrazia. Il significato della sofferenza risiede nella vita stessa ed è offerto dai vivi. Possiamo così comprendere e accettare, sia pure con grande difficoltà, la teodicea e l'accettazione della sofferenza, fondata sulla distinzione tra afflitto e afflizione e basata sulla speranza che la redenzione possa realizzarsi tramite la sofferenza e dalla sofferenza. Come testimoni dell'esecuzione di Rabbi Akiva, ciò che vissero fu l'assoluto, il punto di non ritorno — una situazione in cui non si può più distinguere tra l'uomo e il suo destino, quello di cessare di esistere. Tutto ciò che avevano imparato fino a quel momento dal loro maestro sulla teodicea e sul significato della sofferenza non era più applicabile, perché riguardava solo coloro che vivono in questo mondo, capaci, nella loro immaginazione, con gli occhi della mente, di immaginarsi vivi dopo essere stati liberati dalle loro disgrazie. Il significato si manifesta nel comportamento morale, nell'osservanza dei comandamenti e nel rispetto dei propri obblighi in una determinata situazione. Per quanto insopportabile possa essere, è pur sempre l'esistenza in opposizione all'inesistenza o all'annullamento dell'esistenza il risultato della morte.

Lo osservano mentre viene giustiziato, con ammirazione, profondo dolore, shock per la violenza dell'evento e la crudeltà dei carnefici, e ansia per l'imminente separazione e l'avvicinarsi dell'essere orfani. Tra tutte queste emozioni ribollenti, tuttavia, la paura più grande è che la sua perdita non abbia significato. Come fedeli studenti che hanno interiorizzato la sua filosofia del significato che dà valore e importanza ad ogni situazione ed evento, si rivolgono a lui con una domanda-grido: “Rabbi, anche adesso?!” Qui e ora, mentre vieni giustiziato e sei a un passo da morte certa, non sei arrivato al punto in cui ogni significato è perduto? Anche adesso ti attieni ai tuoi principi? Accetti anche adesso il giudizio di Dio? Fino a quando?

E allora viene spontaneo richiamare alla mente il Pirkei Avot:[16] "Se io non sono per me, chi è per me? E, se io sono solo per me stesso, cosa sono? E se non ora, quando?"

Rabbi Akiva, in modo chiaro, preciso e semplice, spiega ai suoi studenti il significato della sua morte: l'amore. Amore fino all'ultimo respiro! La Torah è la Torah dell'amore e ci comanda di amare Dio, un comandamento che, in circostanze ordinarie, non può mai essere pienamente osservato. "Tutti i miei giorni mi sono addolorato per le parole ‘con tutta la tua anima’". Come saggio dell'amore, Rabbi Akiva era profondamente consapevole del fatto che uno dei più importanti precetti dell'amore: "E tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze" (Deuteronomio 6:5) — non può realizzarsi nella sua interezza. La maggior parte delle persone non avrà mai la possibilità di osservare il comandamento di amare Dio “con tutta l’anima”, nemmeno al momento della morte. Per tutta la sua vita pianse la quasi certa incompletezza della sua osservanza del comandamento di amare Dio. "E ora che si presenta l'occasione, non la realizzerò?" Cosa potrebbe avere più significato, in quel momento, il suo ultimo, il punto di non ritorno che è la morte? “‘Con tutta la tua anima’ (Deuteronomio 6:5) — anche quando la tua anima ti sarà tolta!”

Mentre i legionari gli squarciano la carne con pettini di ferro per porre fine alla sua vita in una terribile agonia, egli accetta il giogo del cielo e insegna a coloro che lo circondano, con parole e azioni, il significato della sua morte. Manca qualcosa, però, in questo incredibile scambio tra Rabbi Akiva e i suoi studenti, qualcosa di molto basilare. Rabbi Akiva sceglie di non rispondere alla loro domanda – “Anche adesso?” – nel modo più semplice e ovvio: la vita dopo la morte. Avrebbe potuto dire loro che non si tratta di perdita di significato perché il corpo è semplicemente un vaso e l'anima ritorna alla sua fonte. Nel momento più appropriato immaginabile, non discute della fede nel mondo a venire, evitando la soluzione relativamente facile al problema del significato della sua morte. La sua enfasi è su ciò che si può ancora fare in questo mondo: compiere il comandamento di amare Dio. Secondo lui il significato va ricercato nella vita stessa e non al di là di essa.

L'evitare da parte di Rabbi Akiva il tema della vita dopo la morte in un frangente così ovvio diventa ancora più pronunciato esaminando i concetti che impiega nelle sue brevi parole ai suoi studenti: "Disse loro: ‘Tutti i miei giorni mi sono addolorato per le parole «con tutta la tua anima [nafshekha]» (Deut. 6:5), anche quando la tua anima [nishmatkha] ti viene portata via. Ho detto: quando avrò l'opportunità di realizzare questo? E ora che si presenta l'occasione, non la realizzerò?’"

I significati associati alle parole nefesh e neshamah (entrambi qui tradotti “anima”) sono molti e vari. Quanto segue è presentato come un suggerimento interpretativo che non deve necessariamente affrontare ogni singolo uso o inflessione di questi due concetti nella Bibbia e nella letteratura rabbinica. Base della discussione sarà il significato primario di queste parole nella prima parte del libro della Genesi e altrove nel Pentateuco. Genesi 2:7 dice: " il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita [nishmat hayyim] e l'uomo divenne un’anima vivente [nefesh hayyah]" La parola nefesh è usata in modo simile riguardo al divieto di mangiare consumando sangue: "Tuttavia astieniti dal mangiare il sangue, perché il sangue è la vita [nefesh]; tu non devi mangiare la vita insieme con la carne" (Deuteronomio 12:23).

Prima di affrontare le varie interpretazioni omiletiche di queste parole, vorrei sottolineare che il termine hisha’arut hanefesh [vita dopo la morte; letteralmente “resto dell'anima”] è un termine preso in prestito, che appare per la prima volta nelle fonti ebraiche dell'alto medioevo. Le prime fonti rabbiniche usavano il termine hayyei ha’olam haba, a volte nel senso della vita dopo la morte e talvolta in altri sensi. Ai fini della presente trattazione, l'accento sarà posto sull'adempimento del comandamento di amare Dio “con tutta la tua anima [nafsheka]”, fino al momento in cui non si ha più una nefesh perché gli è stata tolta. L'unica domanda che interessa a Rabbi Akiva è: “Lo adempirò?”: quale comandamento gli ha presentato la realtà affinché potesse adempierlo? E che dire dell'anima [neshamah] e del mondo a venire [o hisha’arut hanefesh]? Rabbi Akiva è completamente assorbito da “con tutta la tua anima” [bekhol nafsheka]. Secondo le leggende talmudiche e midrashiche, egli non dedica né pensieri né parole all'argomento e non comunica nulla riguardo al destino dell'anima che sta per essergli portata via. Il suo immenso sforzo si concentra interamente su ciò che può fare finché ha il “soffio di vita” [nishmat hayyim] dentro di sé – finché è un'anima vivente [nefesh hayyah].[17] Con il suo corpo, può pienamente osservare il comandamento dell'amore. La questione dell'anima e del suo destino non viene affatto affrontata.

Non è la prima volta che gli studenti di Rabbi Akiva sono esposti a questa visione, che in effetti fa parte di un metodo coerente rivelato in varie occasioni. Il più sorprendente di questi riguarda il comportamento di Rabbi Akiva al capezzale del suo insegnante, Rabbi Eliezer ben Hyrcanus, che giaceva morente in agonia.[18] I suoi amici, Rabbi Joshua, Rabbi Tarfon e Rabbi Elazar ben Azariah, anch'essi presenti al capezzale del loro insegnante, superarono il momento, il dolore e la sofferenza, per parlare della vita eterna e dell'anima immortale: “e il mio maestro è in questo mondo e nell’altro.”[19] Rabbi Akiva, d'altro canto, con franchezza e determinazione riporta Rabbi Elazar alla realtà, con tutte le sue difficoltà, come l'unico luogo in cui l'uomo può trovare un significato, impedendogli di fuggire anche per un solo istante nel mondo dell'eternità e dell'immortalità. “Amata è la sofferenza” qui e ora per l'opportunità morale che offre ad una vera introspezione e per accettarla con amore. Anche al momento della propria morte, non vuole sottrarsi ai terribili momenti finali con rassicuranti descrizioni dell'aldilà. Trova la sua pace proprio in questi momenti e nella sfida morale che essi presentano, una sfida che solo la vita in questo mondo può offrire.

Le circostanze intensificano la dimensione morale dell'adempimento del comandamento di amare Dio. I legionari romani gli scorticano la carne con pettini di ferro, mentre lo torturano a morte. Naturalmente esiste una sorta di connessione – il contatto fisico – tra carnefici e condannato. In ogni loro movimento, in ogni pezzo di carne che strappano dal suo corpo, rappresentano la più grande depravazione morale possibile: la loro e quella del regime che ha ordinato loro di fare tali cose in una missione di odio. (Il mio uso dell'espressione “missione di odio” qui, per quanto riguarda i carnefici, intende creare un parallelo con la missione d'amore del saggio giustiziato e non fa alcuna affermazione riguardo alla reale presenza dell'odio). Sarebbe stato perfettamente comprensibile se il condannato avesse maledetto i suoi carnefici mentre lo tormentavano, ma ciò avrebbe trasformato il contatto fisico forzato in una sorta di dialogo sullo stesso piano dell'odio. Rabbi Akiva riesce a isolarsi completamente dai carnefici, la cui presa sul suo corpo è unilaterale.[20] Il testo esprime in modo eloquente il fatto che le due parti agirono in modo del tutto indipendente: "Mentre graffiavano la sua carne con pettini di ferro, egli accettò il giogo del cielo".

Non solo non li maledice; non risponde affatto alle loro azioni, nemmeno per gridare al terribile dolore che gli stanno infliggendo. Non c'è alcun dialogo tra i carnefici e il prigioniero, il quale non emette né imprecazioni né grida né lamenti. Al di sopra del loro basso piano di depravazione morale, di fronte ai carnefici e ai governanti che hanno perso la loro umanità, Rabbi Akiva presenta un altro piano separato di comportamento morale, attraverso il quale – osservando il comandamento di amare Dio pienamente in un momento di sofferenza e di fronte alla morte – insegna ai suoi studenti e alle generazioni future la connessione tra moralità e amore. Questa è la lezione ultima di Rabbi Akiva sulla filosofia dell'amore.

Socrate e i suoi compagni a confronto con Rabbi Akiva e i suoi studenti

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Rabbi Akiva (illustrazione del XVI sec.)
Busto di Socrate

È interessante confrontare la discussione tra Rabbi Akiva e i suoi studenti durante la sua esecuzione e la conversazione tra Socrate e i suoi compagni mentre si avvicinava il momento di bere la coppa di cicuta, in particolare per quanto riguarda la questione dell'immortalità dell'anima.[21] Entrambi i resoconti sottolineano l'equanimità con cui i due uomini accettano la propria morte, in netto contrasto con l'agitazione di coloro che li circondano. Rabbi Akiva, sottoposto a terribili tormenti, accetta il giogo del cielo con compostezza e devozione. I suoi studenti non possono permettersi di gridare o piangere di fronte alla compostezza del loro rabbino. I compagni di Socrate scoppiano in lacrime e lui li rimprovera. Anche lì sembra che le circostanze pesino più su coloro che rimarranno indietro che sullo stesso Socrate, che rimane calmo fino alla fine. La somiglianza tra le due storie termina però nella compostezza con cui i protagonisti accettano la propria morte e il comportamento di chi li circonda. La discussione sul significato della morte e sulla fonte del conforto di Socrate non potrebbe essere più diversa da quella di Rabbi Akiva.

I compagni di Socrate vengono a trovarlo in prigione il giorno della sua esecuzione mediante veleno. Tentano di convincerlo a fuggire e a salvarsi l'anima o almeno a chiedere ai suoi giudici la grazia o un condono. Segue una discussione, nel corso della quale Socrate rifiuta le loro proposte. L'evento e le argomentazioni di Socrate sono descritti ampiamente nel dialogo Fedone di Platone.

La base della discussione socratico-platonica è la dicotomia tra il corpo mortale e l'anima immortale, per cui il corpo ostacola lo sviluppo dell'anima poiché orienta le azioni umane verso la soddisfazione dei desideri fisici. La vita è quindi una lotta tra i desideri del corpo e le aspirazioni dell'anima di unirsi alle forme, qualcosa che è possibile solo dopo la morte, una volta che l'anima ha lasciato il corpo. Pertanto, ogni persona, e in particolare i filosofi che hanno dedicato la propria vita all'avvicinamento alle forme (“idee”) e hanno vissuto una buona vita nella pratica e nella ricerca della conoscenza, dovrebbero ben accogliere la morte. Non è possibile suicidarsi, cioè separare l'anima dal corpo, o precipitare la morte, ma la morte non dovrebbe essere temuta quando arriva, poiché il mondo del significato, il mondo delle forme, si trova oltre la morte. Coloro che hanno nutrito la propria anima mentre erano ancora attaccati al proprio corpo – e niente più del filosofo – raggiungeranno il loro obiettivo finale dopo la morte. Questa idea, espressa nel Fedone e nella teoria dell'anima proposta da Platone in generale, gettò le basi per la teologia del corpo e dell'anima presente in importanti correnti religiose, in particolare nelle fedi monoteistiche.[22]

Il confronto tra Socrate e Rabbi Akiva è importante, per l'assenza di un discorso teologico riguardante l'immortalità dell'anima e il suo significato nella descrizione della morte di quest’ultimo. Rabbi Akiva identifica il reame dell'azione umana dalla nascita alla morte come il locus del significato. Sebbene Socrate attribuisca grande importanza all'azione e al comportamento umano in questa vita, trova il locus del significato nel mondo oltre la morte, dove l'anima può finalmente unirsi con le forme intelligibili.

Il dialogo platonico affronta anche questioni politiche di governo e di legge che non hanno paralleli nella storia dell'esecuzione di Rabbi Akiva. Socrate, un rispettabile cittadino ateniese, viene condannato a morte da una giuria particolarmente numerosa, composta da cinquecentouno dei cittadini più importanti della sua città. Ritiene che abbiano sbagliato ad accettare le accuse contro di lui e a respingere la propria difesa. Tuttavia, riconosce la legittimità del sistema politico e giuridico ateniese, compresi eventuali errori di giudizio, come nel suo caso. L'esecuzione di Rabbi Akiva, invece, è compiuta da un regime straniero, illegittimo ai suoi occhi e agli occhi della maggior parte dei suoi connazionali,[23] e il suo comportamento intensifica e mette in luce l'immoralità dei suoi carnefici.

Ci rimane così il paragone con Socrate, che sceglie di consolare i suoi compagni, dicendo loro di non piangere la sua morte perché la morte non è la fine dell'essenza dell'uomo, che è l'anima. La conclusione che ne trae è di carattere morale:

« Se l'anima è realmente immortale, quale cura bisogna avere di lei, non solo rispetto alla porzione di tempo che si chiama vita, ma rispetto all'eternità! E il pericolo di trascurarla da questo punto di vista appare davvero enorme. Se la morte fosse stata solo la fine di tutto, i malvagi avrebbero fatto un buon affare nel morire, perché sarebbero stati felicemente liberati non solo del loro corpo, ma anche del proprio male insieme alle loro anime. Ma ora . . . non c'è liberazione o salvezza dal male eccetto il raggiungimento della virtù e della saggezza più elevate. »
(Platone, Fedone, 106–7)

Nel nocciolo della discussione, cerca di dimostrare l'immortalità dell'anima rispetto all'effimero del corpo e all'esistenza finita dopo la morte. Socrate (secondo Platone) presenta argomenti teologici/metafisici, dai quali trae conclusioni morali. Come notato, Rabbi Akiva avrebbe potuto facilmente sostenere la stessa argomentazione, ma non si rivolge alla teologia, scegliendo piuttosto di concentrarsi interamente sull'argomento morale. La portata morale delle parole di Socrate riguarda il modo in cui ci si dovrebbe avvicinare alla morte senza avanzare pretese riguardo allo sforzo continuo di aggrapparsi alla vita e di continuare ad agire in modo morale. Il punto principale del suo discorso d'addio è l'affermazione che la morte è semplicemente un passaggio verso l'immortalità:

« In quanto l'anima si dimostra immortale. . . Sia di buon animo l'uomo che ha gettato via i piaceri e gli ornamenti del corpo. . . e ha seguito i piaceri della conoscenza in questa vita; che ha adornato l'anima con i suoi propri gioielli, che sono la temperanza, la giustizia, il coraggio, la nobiltà e la verità, con questi ornamenti è pronta a partire per il suo viaggio nel mondo inferiore, quando verrà il suo momento. »

Sebbene Platone non predichi l'astinenza e coloro che soddisfano i bisogni del corpo non siano considerati peccatori, tali azioni sono in definitiva prive di significato – una conseguenza dell'esistenza fisica, finché l'anima è attaccata al corpo, cioè finché uno vive. Dopo la morte, l'anima di chi ha vissuto una vita degna, di un filosofo che ha nutrito la sua anima studiando, aiutando gli altri e adempiendo ai suoi doveri verso la società come soldato o cittadino rispettoso della legge; di chi ha detto la verità e perseguito la giustizia – otterrà il posto che gli spetta nel mondo delle forme. Una persona del genere non ha nulla da temere dalla morte e dovrebbe essere preparata ad affrontarla. Sono questi i pensieri che Socrate condivide con i suoi compagni, mentre la sua morte si avvicina.

Sulla base di queste affermazioni riguardanti il corpo, l'anima, e il diverso significato che la morte riveste per ciascuno di loro, egli conforta i suoi compagni, dicendo loro che non devono piangere la sepoltura del suo corpo:

« Quando avrò bevuto il veleno vi lascerò. . . e allora [Critone] soffrirà meno della mia morte, e non si addolorerà quando vedrà il mio corpo bruciato o sepolto. Non vorrei che si rattristasse per la mia dura sorte, né dicesse alla sepoltura: Così deponiamo Socrate, o Così lo seguiamo alla tomba o lo seppelliamo; poiché le parole false non solo sono cattive in sé, ma infettano l'anima con il male. »

Socrate non si aggrappa alla vita né ritarda a bere il veleno fino all'ultimo minuto possibile, sottolineando ulteriormente il fatto che la sua morte trae il suo significato non dalla vita stessa, ma dall'immortalità dell'anima. Dal momento in cui fa i conti con la sua morte, Socrate non apprezza più la vita: cos'è un'altra ora di vita rispetto all'eternità?

È in questi pochi minuti che sta la differenza tra Socrate e Rabbi Akiva. Rabbi Akiva rifiuta di smettere di perseguire il suo obiettivo morale in questo mondo anche per un solo istante e quindi si aggrappa ai momenti più terribili della sua vita come se fossero il tesoro più grande. Socrate crede che l'uomo entri in questo mondo contro la sua volontà e debba sforzarsi di vivere in modo buono e adeguato, ma non ha senso aggrapparsi alla vita quando l'eternità è proprio dietro l'angolo. Quando l'uomo sta per fondersi con il significato ultimo, può solo ridere di se stesso per aver cercato di dare significato ad altri pochi istanti di vita.

Le differenze tra queste due posizioni possono essere riassunte nelle parole di Rabbi Jacob Kurshai,[24] maestro di Rabbi Judah ha-Nasi — senza tentare, come fa, di risolvere il dilemma che sorge dalla giustapposizione delle due posizioni o affermare che non c’è alcun problema: "Un'ora spesa nel pentimento e nelle buone azioni in questo mondo è migliore di tutta la vita nel mondo a venire; e un'ora di soddisfazione nel mondo a venire è migliore di tutta la vita in questo mondo" (Mishnah, Avot 4, 17). Nella Mishnah precedente (Avot 4,16), Rabbi Jacob sottolinea l'importanza dell'azione in questo mondo: "Questo mondo è come un'anticamera davanti all'altro mondo. Preparati nell'anticamera per entrare nella sala del banchetto". Queste parole corrispondono alla visione socratico-platonica. In tale Mishnah (4,17), Rabbi Jacob mantiene la distinzione tra questo mondo – il mondo dell'azione, in cui si deve aspirare alla perfezione attraverso il pentimento e le buone azioni – e il mondo dell'aldilà – il mondo della ricompensa e del godimento spirituale. Non esiste equivalenza tra "pentimento e buone azioni", che sono obiettivi morali, e "soddisfazione", che è realizzazione spirituale perché appartengono a mondi diversi. Alcuni hanno suggerito un'altra lettura della Mishnah: "Un'ora trascorsa nel pentimento e nelle buone azioni in questo mondo è come la vita nel mondo a venire".[25]

Spetta quindi all'uomo scegliere: Rabbi Akiva decise a favore di un'ora spesa nel pentimento e nelle buone azioni in questo mondo, e la lettura proposta della Mishnah concorda con la sua visione; mentre Socrate decise a favore di un'ora di soddisfazione nel mondo a venire. Nelle sue ultime parole, tuttavia, Socrate riporta momentaneamente in primo piano l'argomento morale, anche se in un modo piuttosto comico, come se l'autore (Platone) non volesse eclissare il suo messaggio precedente:

« E il servo entrò e rimase qualche tempo, poi ritornò col carceriere che portava una coppa di veleno. Socrate disse: “Tu, mio buon amico, che hai esperienza in queste questioni, mi darai indicazioni su come devo procedere”. L'uomo rispose: “Devi solo camminare finché le tue gambe non saranno pesanti, e poi sdraiarti, e il veleno agirà”. Allo stesso tempo porse la coppa a Socrate, che nel modo più semplice e gentile, senza il minimo timore o cambiamento di colore o di lineamenti, guardò l'uomo con tutti i suoi occhi. . . e disse: “Che ne dici di fare una libazione con questa coppa a qualche dio? Posso oppure no?” L'uomo rispose: “Prepariamo, Socrate, solo ciò che riteniamo sufficiente”. “Capisco”, disse: “tuttavia posso e devo pregare gli dei affinché facciano prosperare il mio viaggio da questo a quell'altro mondo: possa questa, quindi, che è la mia preghiera, essermi concessa”. Poi, avvicinando la tazza alle labbra, bevve il veleno con tutta rapidità e allegria... Cominciava ad avere freddo... quando si scoprì il viso, poiché se l'era coperto, e disse (furono le sue ultime parole) – disse: “Critone, devo un gallo ad Asclepio; ti ricorderai di pagare il debito?” »
(Platone, Fedone, 117-18)

Tre affermazioni collegano la morte di Socrate e la partenza della sua anima verso il divino. La prima: la sua domanda (seria, divertente o ironica) sulla possibilità di offrire una libagione agli dei dalla sua coppa di veleno. Sono immortali, quindi il veleno non danneggerebbe loro. Provocherebbe la morte del suo corpo ma, allo stesso tempo, collegherebbe la sua anima all'eterno, cioè agli dei. Questa è forse la dimensione seria della domanda di Socrate: è giusto versare agli dei una libagione dalla coppa del veleno che provocherà la morte del suo corpo e il passaggio della sua anima al reame dell'eternità? Il rappresentante delle autorità, il carceriere incaricato dell'esecuzione della sentenza, non si lascia trascinare in questioni filosofiche/teologiche, ma risponde con tono di fatto che la coppa contiene veleno quanto basta per uccidere il condannato. Socrate si accontenta quindi di una preghiera per la felice dipartita della sua anima da questo mondo al reame delle anime. Questa è la sua seconda affermazione. Sia il tentativo di versare una libagione che la preghiera hanno lo scopo di propiziarsi gli dei e ricevere la loro benedizione e assistenza per un buon passaggio dell'anima all'aldilà. La preghiera di Socrate, quindi, non può essere paragonata alla recitazione dello Shema da parte di Rabbi Akiva, che non è né preghiera né supplica ma accettazione del giogo del cielo e massimo adempimento del comandamento di amare Dio.[26] Socrate rivolge richieste agli dei per il proprio bene, mentre Rabbi Akiva osserva i comandamenti di Dio per amore, senza chiedere nulla in cambio.

Socrate pronunciò la sua terza affermazione poco prima che la sua anima se ne andasse: "Devo un gallo ad Asclepio; ti ricorderai di pagare il debito?", come per dire: "Sto andando in viaggio verso l'eternità con le buone azioni che ho maturato per la mia anima durante la mia vita. Tu che continui a vivere hai comunque un obbligo morale". Il gallo in questione era un'offerta di ringraziamento ad Asclepio, dio greco e romano della guarigione, portato abitualmente da coloro che avevano goduto di una vita sana. In questo contesto si potrebbe dire, nonostante l'irriverenza del paragone, che anche Socrate esalò la sua anima affermando il suo legame con il divino. Ancora una volta, però, la preghiera di Socrate è espressione di gratitudine verso il dio per un beneficio fisico ricevuto piuttosto che l'adempimento disinteressato di un obbligo. Tutti i tentativi di confronto tra i due casi sono necessariamente superficiali. Come notato sopra, c’è una differenza fondamentale tra la conversazione di Socrate con i suoi compagni e lo scambio tra Rabbi Akiva e i suoi studenti. Per Socrate, la fonte del significato è l'immortalità dell'anima: il suo viaggio e il suo destino quando lascia il corpo dopo la morte. Per Rabbi Akiva, invece, è la sfida morale in questo mondo, nella vita stessa, a costituire il significato.

Amore fino all'ultimo respiro

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Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Nephesh.

Come al solito, Rabbi Akiva non si concentra sulla teoria del comportamento morale, ma sulla sua pratica. Spesso agisce per primo e solo dopo spiega la sua azione. Ad esempio, quando uno dei suoi studenti si assentò per qualche tempo dall'aula di studio, andò a trovarlo e scoprì che era gravemente malato. Si prese cura di lui con grande devozione, lavandolo e curandolo per riportarlo in salute, salvandogli così la vita. Solo quando lo studente si fu completamente ripreso, Rabbi Akiva passò dalla pratica alla teoria (o alla formulazione della teoria dietro l'azione appropriata), insegnando che chi non visita gli ammalati è come se avesse sparso sangue.[27] Anche in altre occasioni, univa l'azione all'insegnamento. Così persino nella sua lezione finale sulla filosofia dell'amore – sul completo adempimento del comandamento di amare Dio – incorpora sia la teoria che la pratica: "Accettò il giogo del cielo... Egli espirò [la parola] ‘uno’ [ehad] finché la sua anima si separò con ‘uno’". Egli adempie attivamente il comandamento mentre ne spiega le basi teoriche ai suoi studenti: “Tutti i miei giorni mi addoloravo per le parole ‘con tutta la tua anima [nafshekha]’ — anche quando la tua anima [nishmatkha] ti viene portata via. Mi son detto: quando avrò l'opportunità di realizzare questo? E ora che si presenta l'occasione, non la realizzerò?”

Come spiegato supra, il modo in cui nafshekha viene interpretata in relazione a nishmatkha influenza la nostra comprensione delle parole di Rabbi Akiva. Naturalmente le due parole possono essere viste semplicemente come sinonimi e niente più. Un simile approccio è certamente legittimo, ma sarebbe incoerente con i molteplici significati attribuiti dal midrash a parole come nefesh, neshamah, ruah. Come abbiamo già visto, entrambe le parole compaiono in Genesi 2:7: "E il Signore Dio formò l'uomo dalla polvere della terra e soffiò nelle sue narici un alito di vita [nishmat hayyim]; e l'uomo divenne un'anima vivente [nefesh hayyah]". Secondo il chiaro significato dei versetti di Genesi, come anche la loro interpretazione midrashica,[28] l'uomo aveva un’"anima" [nefesh] quando fu creato per la prima volta – "dalla polvere della terra".

Similmente, il sangue di un animale macellato è equiparato alla nefesh, in Deuteronomio 12:23: "poiché il sangue è la vita [nefesh]; e tu non mangerai la vita insieme con la carne". Quando il “soffio della vita” [nishmat hayyim] fu insufflato nell'uomo, egli divenne un’“anima vivente” [nefesh hayyah]. La nefesh riguarda quindi l'esistenza terrena: "dal basso" nelle parole del midrash; la neshamah vivificante è "dall'alto".[29] Quando Rabbi Akiva parla dell'adempimento del comandamento di amare Dio, bekhol nafshekah [“con tutta la tua anima”], si riferisce all'atto compiuto con il corpo fisico, la nefesh — cioè con il proprio sangue – e questo è il motivo per cui riguarda la vita in questo mondo. La neshamah consente l'atto in virtù della vita che dà al corpo e alla nefesh, e Rabbi Akiva adempie al comandamento bekhol nafsho – con tutto la sua nefesh – finché non è completamente esaurito con la dipartita della neshamah.

Accetta il giogo del cielo, legge lo Shema ed esala la parola ehad [uno], e il completamento del comandamento si fonde con la dipartita della sua anima, adempiendo così attivamente al versetto “e amerai il Signore Dio tuo... con tutta la tua nefesh, anche quando la tua neshamah ti sarà tolta”. In quel preciso momento gli viene tolta la sua neshamah – il suo “soffio di vita” – mentre adempie il comandamento di accettare il giogo del cielo e il comandamento di amare Dio con il suo corpo e la sua nefesh.

“Egli esalò [la parola] ‘uno’ [ehad] finché la sua anima dipartì con ‘uno’”. Con tutta la forza del suo corpo, con tutta la forza della sua nefesh, con incommensurabile amore per Dio, dedica il suo ultimo afflato a “uno”. "E amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua nefesh e con tutte le tue forze": amore fino all'ultimo respiro.

  1. TB Sanhedrin 38b e fonti parallele.
  2. Pesikta Zutarta (Lekah Tov) su Ruth, introduzione.
  3. TB Hagigah 13a; Ben Sira 3:21.
  4. I resoconti dei martiri (non necessariamente dieci) si possono trovare nelle seguenti fonti talmudiche: TB Bava Batra 10b, Sotah 48b, Berakhot 61b, Avodah Zarah 8b e Sanhedrin 14b. Le morti di Rabbi Simeon ben Gamaliel e Rabbi Ishmael sono descritte anche nel trattato Semahot, capitolo 5. La storia dei Dieci Martiri proviene da Lamentazioni Rabbah 2; è menzionata anche nell’Epistola di Sherira Gaon. Il suo posto di rilievo nella coscienza culturale, tuttavia, deriva dal kinah [lamento] dei Dieci Martiri, recitato in molte comunità il 9 di Av e/o nel Giorno dell'Espiazione.
  5. J. D. Eisenstein, Ozar Midrashim, s.v. “Asarah harugei malkhut”, vol. 2, 440.
  6. Ibid.
  7. Berakhot 61b.
  8. Trattati Minori, Semahot, 8, 12.
  9. Si confrontino le parole di Rabbi Akiva: "Egli è severo con i giusti e li chiede conto in questo mondo per le loro poche azioni malvagie, affinché possa elargire felicità e abbondanti ricompense su di loro nel mondo a venire" (Genesi Rabbah 33,1). Allo stesso modo, l'affermazione di Rabbi Akiva: “Cara è la sofferenza” (TB Sanhedrin 101a–b); cfr. anche sotto.
  10. Semahot, 8, 12.
  11. Berakhot 61b; Yalkut Shimoni, Va’ethanan.
  12. Mekhilta, ed. M. Friedmann, 33a.
  13. Cfr. anche lo scambio tra R. Jose ben Kisma e R. Hanina ben Teradion in TB Avodah Zarah 18a.
  14. TG Hagigah 2,1.
  15. Citato in Eisenstein, Ozar Midrashim, vol. 2, 441–42.
  16. Rabbi. Hillel, Pirkei Avot I:14
  17. Per i midrashim che supportano l'interpretazione di nefesh e neshamah in tale vena, cfr. Genesi Rabbah, Bereshit 12 e 14.
  18. TB Sanhedrin 101a e fonti parallele.
  19. Sia questa che la citazione seguente provengono da Sanhedrin 101a.
  20. L'isolamento del prigioniero dai suoi carnefici invita al confronto con i martiri di altre culture e con la filosofia della nonviolenza.
  21. Platone, Fedone, 58–118. Tutte le traduzioni da questo dialogo sono di Monozigote.
  22. Ci sono molti paragoni tra la morte di Gesù e la morte di Socrate. Cfr., ad esempio, Emily Wilson, The Death of Socrates: Hero, Villain, Chatterbox, Saint (Cambridge: Harvard University Press, 2007), 141–68.
  23. Dichiarazione di R. Jose ben Kisma: "Hanina, fratello mio, non sai che questa nazione è stata nominata dal cielo a governare?" (TB Avodah Zarah 18a), non dovrebbe essere visto come un atto che conferisce legittimità politica o morale al dominio romano, anche secondo l'opinione di chi parla. Roma è stata il simbolo dell'odio antiebraico dai tempi antichi fino all'era moderna. Tali riferimenti simbolici a Roma abbondano nella letteratura ebraica di tutti i secoli.
  24. Alcuni attribuiscono questa affermazione a Rabbi Akiva, sebbene fonti parallele non offrano alcun supporto per questo punto di vista.
  25. Cfr. Avigdor Shinan, Pirkei Avot: Perush Yisre’eli hadash (Gerusalemme: Yediot Aharonot, 2009), 162.
  26. Non c'è contraddizione tra questa affermazione e il racconto talmudico secondo cui "una voce celeste disse: ‘Fortunato sei tu, Rabbi Akiva, perché sei convocato nell'aldilà’" (TB Berakhot 61b), poiché ciò non era in risposta ad una preghiera o richiesta dello stesso Rabbi Akiva.
  27. TB Nedarim 40a.
  28. Genesi Rabbah, Bereshit 12.
  29. Ibid.
Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico, Serie delle interpretazioni e Serie maimonidea.