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Non c'è alcun altro/Dio è Simpatico

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"Mercy and Truth are Met Together, Righteousness and Peace Have Kissed Each Other", di William Blake (1803)
"Mercy and Truth are Met Together, Righteousness and Peace Have Kissed Each Other", di William Blake (1803)


Rotolo della Torah su pergamena
Rotolo della Torah su pergamena

Le nostre immagini di Dio sono in tensione. Tale comunque sembra essere una delle conclusioni del nostro studio fin qui. Dio è echad ma non ancora. Dio è onnipotente ma non nel tempo storico. Ora però tratteremo dell'espressione più drammatica di tale tensione: Dio si interessa a noi, ci ama? O Dio ci abbandona e perfino ci maltratta? Di nuovo, la nostra risposta sarà duplice — a volte l'una, a volte l'altra. I testi ebraici classici forniscono ampio supporto per entrambe le opzioni, ma la tensione è ben lungi dall'essere semplicemente testuale. Questi testi emergono dall'esperienza di vita dei loro autori umani. La nostra esperienza stessa conferma tale tensione. Anche noi conosciamo momenti in cui Dio ci sembra vicino e amorevole. Ma conosciamo anche momenti in cui Dio sembra essere distante e persino crudele.

Si devono tenere in mente due ammonimenti metodologici. Primo, qui più che mai dobbiamo ricordarci che attribuire a Dio caratteristiche positive o negative vuol dire esprimere le nostre percezioni umane, non di rappresentare l'essenza di Dio, che nessun essere umano può conoscere. Quello che cerchiamo di caratterizzare con queste metafore è come Dio ci appare, come Lo sentiamo, in un dato momento. Nessuno di noi ha una linea diretta al pensiero divino.

Secondo, è ugualmente importante notare che la distinzione tra un Dio amorevole e un Dio punitivo è anche una questione di prospettiva. Un esempio ovvio: un genitore che punisce un figlio per aver attraversato la strada col semaforo rosso viene percepito dal figlio come punitivo. "Sei cattivo!" dice il bambino, ma il genitore sa che questa punizione è espressione di interessamento paterno. Parimenti, che Dio permetta ai lupi di mangiare conigli viene percepito come amore dal lupo ma come crudeltà dal coniglio.

D'altra parte, noi tutti abbiamo amici o conoscenti che sembrano destinati ad una vita di sventure. Mi viene in mente un fumetto dove il personaggio principale girava sempre con una nuvoletta di pioggia che lo seguiva sul capo, ma attorno a lui il sole splendeva su tutti gli altri. Io stesso conosco persone che soffrono in simile maniera. Poi ci sono persone che invece hanno vissuto una vita idilliaca. Ma la maggioranza di noi sta circa nel mezzo. Quelli di noi che credono in Dio nel mondo, devono cercare di spiegarsi questo enigma esistenziale.

La nostra discussione è comunque sempre permeata di soggettività. Non possiamo mai sfuggire alla nostra condizione umana. Con questi avvertimenti in mente, cominciamo ad esaminare testi in cui Dio appare "simpatico".

Iniziamo con l'inno che cantiamo alla conclusione del nostro servizio mattutino durante il Sabbath e le festività, il noto Adon Olam. L'ultima strofa evidenzia che questo poema, di autore sconosciuto e probabilmente datata a partire dall'undicesimo secolo e.v., fu composto originalmente per concludere le preghiere private recitate subito prima di andare a dormire la notte; appare anche alla conclusione di tale servizio. Inizia con una nota cosmica e poi cambia e questa potenza cosmica diventa molto personale:

Traduzione italiana Traslitterazione Ebraico
Il Signore dell'Universo che regnò, Adon 'olam, 'asher malakh, אֲדוֹן עוֹלָם אֲשֶׁר מָלַךְ
Prima che ogni cosa fosse creata. b'terem kol yetzir niv'ra בְּטֶרֶם כָּל יְצִיר נִבְרָא
Quando tutto fu compiuto per Sua volontà, L'et na'asa v'ḥeftso kol, לְעֵת נַעֲשָׂה בְחֶפְצוֹ כֹּל
Egli fu riconosciuto quale Re. Azai melekh sh'mo nikra אֲזַי מֶלֶךְ שְׁמוֹ נִקְרָא
Quando questo nostro mondo non ci sarà più[1], V'aḥarey kikh'lot hakol וְאַחֲרֵי כִּכְלוֹת הַכֹּל
Egli ancora regnerà in maestà, L'vado y'imlokh nora לְבַדּוֹ יִמְלוֹךְ נוֹרָא
Egli era, è, V'hu hayah v'hu hoveh וְהוּא הָיָה וְהוּא הֹוֶה
E sarà nella gloria. V'hu yih'yeh b'tif'arah וְהוּא יִהְיֶה בְּתִפְאָרָה
Egli è uno, incomparabile, V'hu 'eḥad v'eyn sheyni וְהוּא אֶחָד וְאֵין שֵׁנִי
senza divisione o alleato. L'ham'shil lo l'haḥbirah לְהַמְשִׁילֹ לוֹ לְהַחְבִּירָה
Senza inizio, senza fine, B'li reyshiyt b'li taḥ'liyt בְּלִי רֵאשִׁית בְּלִי תַכְלִית
ed a Lui appartengono la sovranità ed il potere. V'lo ha'oz v'hamis'rah וְלוֹ הָעֹז וְהַמִּשְׂרָה
Egli è il mio Dio, il mio Vivente Redentore V'hu 'Eli v'ḥay go'ali וְהוּא אֵלִי וְחַי גּוֹאֲלִי
in lui mi rifugio in tempo di dolore, v'tsur ḥevli b'eit tsarah וְצוּר חֶבְלִי בְּעֵת צָרָה
e Lui è la mia bandiera e il mio rifugio, V'hu nisi 'umanos li וְהוּא נִסִּי וּמָנוֹס ִלִי
che risponde nel giorno in cui io chiamo. m'nat kosi b'yom 'ekra מְנָת כּוֹסִי בְּיוֹם אֶקְרָא
Nelle sue mani io rimetto il mio spirito B'yado af'kid ruḥi בְּיָדוֹ אַפְקִיד רוּחִי
quando dormo e quando mi sveglio, b'et 'ishan v'a'ira בְּעֵת אִישָׁן וְאָעִירָה
e col mio spirito, col il mio corpo[2] v'im ruḥi g'viyati וְעִם רוּחִי גְוִיָּתִי
Dio è con me e non avrò timore. Adonai li v'lo 'ira אֲדֹנָי לִי וְלֹא אִירָא

Leggendo un testo come questo, dobbiamo iniziare identificando la metafora o le metafore espresse nel testo e poi provare ad identificarne i sentimenti che hanno spinto l'autore a costruire tali metafore. Qui le metafore sono chiare: Dio è sovrano, eterno, trascendente e onnipotente. Ecco perché Dio può essere anche la roccia personale del poeta, il suo rifugio, bandiera e porzione, nelle Cui mani il poeta sente sicurezza, fiducia assoluta e serenità. Non c'è tensione nel poema, almeno non apertamente.

Il contesto liturgico originale di questo inno è importante perché andare a dormire la notte può essere irto di ansia. Addormentarsi significa perdere il controllo del nostro destino. Quando leggo questo testo, cerco di ricollegarmi alla mia infanzia quando andavo a letto la sera; poi penso ai miei figli e, più recentemente, ai miei nipotini, quando li mettevo a dormire. I bambini creano complicati rituali serali, per addormentarsi: vogliono che si legga loro storie e filastrocche (ninna nanne e melodie rasserenanti); abbracciano bambole o orsacchiotti; alcuni recitano preghiere. Non esiste cultura al mondo che non abbia in qualche modo ritualizzato il processo di andare a dormire. Questi rituali vengono chiamati dagli psicologi "oggetti transizionali". Sono creati per guidare i bambini – e anche gli adulti, poiché anche noi ritualizziamo il nostro addormentarci in altri modi – oltre la soglia della veglia verso il sonno. Le soglie sono stati mediani e tutti intrinsecamente producono ansietà — come gli aeroporti per i viaggiatori.[3]

Gli antichi sembra avessero compreso che il sonno è un'esperienza di "piccola morte". Un esame veloce della liturgia serale indica come sia pervasa da riferimenti alla morte, mentre le preghiere recitate appena ci si desta sono pervase di riferimenti alla risurrezione. Il senso subliminale che il sonno sia come la morte persiste in tutti noi. Nel poema, tuttavia, tale ansietà è nascosta e i versetti sono permeati di serenità. La fiducia dell'autore in Dio gli permette di lasciarsi andare, di accogliere il sonno, di abbandonare il controllo della propria consapevolezza e del proprio destino. Poiché quel Dio cosmicamente potente è lì, e poiché quel Dio è anche il Dio personale del poeta, cosa c'è allora da temere?

Perché i Salmi?

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Questa immagine di Dio come rifugio e protettore, con il concomitante sentimento di fiducia nella Sua potenza, è onnipresente nei Salmi, un'antologia di 150 poemi — probabilmente solo un assaggio di tutti quelli che furono composti originariamente. Scritti nel corso dei secoli, i loro autori sono anonimi, nonostante soprascritti come "un Salmo di Davide" o "un Salmo dei figli di Korach" che ne introducono alcuni. Possiamo comunque solo congetturare il loro contesto personale o storico. Il Salmo 137, che inizia "Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion", fu scritto probabilmente da un membro della comunità di esuli Israeliti poco dopo la distruzione di Gerusalemme per mano di Babilonia nel 586 p.e.v. Tuttavia, tale contesto storico esplicito è una rara eccezione.

Più importante per noi del contesto originale in cui un salmo è stato scritto e della sua data di compossizione, sono due questioni: in primo luogo, come è stato inserito un dato salmo nella tradizione susseguente? Quando e perché venne ad essere recitato da generazioni successive nella tradizione postbiblica? In secondo luogo, qual è il suo persistente messaggio teologico? Cosa ci dice delle convinzioni degli autori riguardo a Dio, a Israele e all'esperienza umana?

Sulla prima domanda, secondo il Libro di Preghiere ufficiale,[4] circa settantacinque salmi appaiono nella liturgia, in varie sezioni. Molti di questi salmi vengono riportati solo una volta e sono recitati saltuariamente. Altri appaiono diverse volte; il Salmo 91, che stiamo per studiare qui, appare quattro volte ed è recitato quotidianamente e settimanalmente dagli ebrei devoti. Perché il Salmo 91 e perché l'altra metà dei salmi nell'antologia biblica non viene inclusa nella liturgia? Non siamo mai sicuri delle risposte a queste domande, ma siamo sicuri di una conclusione: quei salmi che sono stati recitati più o meno regolarmente hanno avuto un particolare impatto nel formare la sensibilità religiosa ebraica. Sebbene le donne dicano spesso tehillim invece del servizio di preghiere obbligatoriamente maschile, la maggior parte degli uomini ebrei vengono raramente in contatto con l'intero Libro dei Salmi biblico, ma usano il libro di preghiere ogni singolo giorno della loro vita.

Se la prima domanda implica solo congetture, la secondo è ancor più pericolosa. I salmisti biblici non erano teologi sistematici. Condividevano una serie di credenze apprese dal loro contatto con il resto della tradizione biblica, ma tale tradizione era multivocale e, ancor più importante, non si sentirono mai vincolati ad essa. L'ebraismo non ha mai riconosciuto un'autorità teolgica suprema, un qualche comitato di sacerdoti o rabbini responsabili di supervisionare l'espressione teologica. I salmisti erano probabilmente semplici credenti che vivevano e provavano più o meno quello che proviamo noi nel corso delle nostre vite. Ciò che però li distingueva è che erano consapevoli di vivere sotto la presenza di un Dio trascendente che, credevano, governava il corso di tutte le cose. Tutto ciò che provavano, quindi, era in qualche modo un'espressione delle loro credenze riguardo alla natura di questo Dio e del Suo governo della natura, della storia e delle loro stesse vite. Le loro composizioni erano reazioni a tale esperienza. Anche quando erano arrabbiati con Dio, rivolgevano comunque la loro rabbia a Dio; non uscirono mai dalla loro comunità religiosa. Tocca a noi ipotizzare quale fu la loro esperienza, come si sentissero e come espressero quei sentimenti verso Dio che, così credevano, era accessibile alle loro preghiere, si interessava a loro e li ascoltava.

Infine, ogni salmo è un poema. Il linguaggio poetico non è mai lineare. Usa la metafora, l'allusione e l'iperbole; indica un sentimento piuttosto che trasmettere un messaggio o insegnare una lezione. Ecco perché l'uso di un salmo come asserzione teologica è doppiamente incerto. Non possiamo mai arrivare al messaggio direttamente. Dobbiamo iniziare lasciando che il poema ci parli, venendo a contatto con i nostri stessi sentimenti mentre lo leggiamo, facendo filtrare nel nostro conscio le reazioni a ciò che dice il poeta. La nostra reazione può quindi guidarci verso i sedntimenti del poeta. Tali sentimenti sono il nostro indizio su come il salmista abbia reagito ad una data esperienza provata. Lì sta la chiave alla teologia implicita del salmo.

Il Salmo 91 è recitato quale parte della liturgia tradizionale prima di addormentarsi, ma appare anche nella selezione di salmi che precede il servizio mattutino formale del Sabbath e delle festività (pesukei dezimra — letteralmente, "versi dell'inno"), nella liturgia del servizio funebre e alla chiusura del Sabbath.[5] All'inizio, la voce del poeta rassicura un'altra:

« [Dio] ti libererà dal laccio del cacciatore,
dalla peste che distrugge.
Ti coprirà con le sue penne
sotto le sue ali troverai rifugio.
La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza;
non temerai i terrori della notte
né la freccia che vola di giorno,
la peste che vaga nelle tenebre,
lo sterminio che devasta a mezzogiorno.
Mille cadranno al tuo fianco
e diecimila alla tua destra;
ma nulla ti potrà colpire.
Solo che tu guardi, con i tuoi occhi
vedrai il castigo degli empi.
Poiché tuo rifugio è il Signore
e hai fatto dell'Altissimo la tua dimora,
non ti potrà colpire la sventura,
nessun colpo cadrà sulla tua tenda.
Egli darà ordine ai suoi angeli
di custodirti in tutti i tuoi passi.
Sulle loro mani ti porteranno
perché non inciampi nella pietra il tuo piede. »

Al culmine del salmo, Dio appare in prima persona per rassicurare ulteriormente:

« Lo salverò, perché a Me si è affidato;
lo esalterò, perché ha conosciuto il Mio nome.
Mi invocherà e gli darò risposta;
presso di lui sarò nella sventura,
lo salverò e lo renderò glorioso.
Lo sazierò di lunghi giorni
e gli mostrerò la Mia salvezza. »

Non sappiamo nulla del contesto originale in cui fu composto questo salmo, ma il suo motivo sotteso è il pericolo associato con un viaggio — viaggio reale, o sonno, o morte, o forse la vita stessa, il tutto interpretato come viaggi. I viaggi sono anche esperienze transizionali, stati mediani. Anche oggi non è insolito sentirci ansiosi o vulnerabili quando ci impegnamo in un viaggio. Io stesso viaggio moltissimo e le ore prima di lasciar casa – specialmente se devo volare verso destinazioni remote (come l'Australia o l'Alaska) – sono invariabilmente piene d'ansia, che persiste finché non ho raggiunto la destinazione. Molti libri di preghiera includono la preghiera tradizionale del viaggiatore (Teffilat HaDerekh), che si rivolge a tale ansietà.[6]

Tale tensione, più tenue del poema Adon Olam citato precedentemente, è esplicita nel Salmo 91. Da notare le molte forme di pericolo qui evocate: laccio del cacciatore, peste, sterminio, frecce, pietre, vipere, dragoni, leoni e aspidi. Questa ansietà acutizzata evoca metafore ugualmente acute di Dio come protettore: Dio è rifugio e bastione, Dio ci protegge come scudo e corazza, Dio ordina agli angeli di portarci sulle loro mani. La serenità di Adon Olam qui manca, ma rimane la fiducia nell'amore protettivo di Dio.

Una terza espressione familiare di questo tema è il noto Salmo 23. La metafora d'apertura qui è Dio come pastore. Dio fa tutte quelle cose che fanno i pastori. Dio

« su pascoli erbosi mi fa riposare
ad acque tranquille mi conduce.
Mi ristora l’anima,
mi guida per il giusto cammino. »

Di nuovo, come nel Salmo 91, Dio protegge il salmista anche se i pericoli abbondano. Il salmista cammina nella "nella valle dell’ombra della morte". Anche qui possiamo solo congetturare che esperienza abbiano ispirato questo salmo. È forse un altro salmo di viaggio? Forse. Sebbene questo viaggio sia più metafora delle altre precedenti. Inoltre Dio apparecchia una mensa "sotto gli occhi dei miei nemici", probabilmente nemici umani. Chiaramente, il salmista ha incontrato, o sta per incontrare, e fra breve incontrerà, grandi pericoli — pericoli sufficienti a mettere a rischio la sua vita stessa. Forse questo salmista interpreta la sua attuale esperienza di vita come un viaggio pericoloso, tuttavia ha fiducia che "felicità e grazia [di Dio] mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita."

Il sentimento è qui più vicino al Salmo 91 di quanto non lo sia in Adon Olam? C'è qui serenità oppure la tensione del salmo? Ognuno legge un testo di questo tipo in maniera differente. Secondo me questo salmo specifico abbonda di tensione; l'autore è in pericolo e spera che Dio lo proteggerà, ma non ne è troppo convinto, nonostante l'ultimo versetto. Tuttavia, molti non sono d'accordo su tale lettura e ci vedono invece fiducia e sicurezza. C'è persino chi si sente a disagio con la rappresentazione di Dio come pastore perché il lettore non si vuole paragonare ad una pecora.

Non esiste un contesto liturgico fisso per la recitazione di questo salmo. Viene spesso recitato a funerali o a servizi di rimembranza (Yizkor) e viene cantato nel tardo pomeriggio dello Sabbath, prima della sua chiusura.[7] In ciascun caso, l'umore di base è nostalgico, elegiaco, o anche di compianto. Ma di tutti i salmi, il Salmo 21 è quello che viene usato più spesso per ispirare sentimenti di fiducia e sicurezza davanti ad una qualche crisi personale. Tale utilizzo evidenzia come venga compreso solitamente.

Roccia e Redentore

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Un sintomo più sottile della continua tensione tra ansia e fiducia si trova nel breve passo liturgico di origine medievale che precede la recita dell’amidah nel servizio mattutino. È il culmine di una lunga unità che segue la recitazione dello Shema e che tratta del tema di Dio come Redentore. Appare in questo preciso contesto con l'intento di far giustapporre al fedele una preghiera di redenzione con l’amidah.

« Roccia di Israele, sorgi alla difesa sua difesa.
Libera Giuda e Israele, come Tu hai promesso.
Il nostro Redentore è il Santo di Israele...
Che Tu sia lodato, che hai redento Israele. »

Dio è la roccia di Israele — fermo, fidato, sicuro, potente, una vera Rocca di Gibilterra! Ma allo stesso tempo, il liturgista invoca questo Dio che è roccia di difendere e redimere Israele. Ciò indica che il contesto storico del passo è quello di Isreale in esilio e in profonda sofferenza. La redenzione rpomessa non è ancora avvenuta, pertanto il salmista supplica che Dio possa redimere. Questa qualità di Dio come roccia è quindi più una speranza che una realtà. La storia di Israele suggerisce che Dio sia veramente una roccia redentrice, ma tale ricordo è in netto contrasto con la realtà corrente.

Una pari tensione pervade l'uso della metafora di Dio come guaritore. Il Salmo 147:3 afferma che Dio "risana i cuori affranti e fascia le loro ferite", attribuendo quindi a Dio poteri di guarigione sia medici che psicologici. Il Salmo 30:3 personalizza le guarigioni di Dio: "Signore Dio mio, a te ho gridato e mi hai guarito." A volte Dio non guarisce ( o almeno non subito). "Abbi pietà di me, o Signore, perché sono sfinito; risanami, o Signore, perché le mie ossa sono tutte tremanti" (Salmo 6:2). Il profeta Geremia applica questa ambiguità al fato di Israele:

« Non v'è forse balsamo in Gàlaad?
Non c'è più nessun medico?
Perché non si cicatrizza
la ferita della figlia del mio popolo? »
(Geremia 8:22)

In un altro contesto, il lamento di Geremia diventa una preghiera per la sua stessa guarigione: "Guariscimi, o Signore, e io sarò guarito, salvami e io sarò salvato, poiché Tu sei il mio vanto" (Geremia 17:14). Questa preghiera, nella forma plurale ("Guariscici"), è stata susseguentemente incorporata nella amidah quotidiana, dove viene recitata tre volte al giorno durante la settimana. Di nuovo, l'uso liturgico di tale metafora ha riflesso e quindi modellato la sensibilità ebraica per generazioni. Ogni Sabbath mattutino, durante il servizio di culto, lo chazan (cantore) della congragazione recita una preghiera per la guarigione degli infermi della comunità, che sono poi identificati per nome individualmente. Per l'ebreo, Dio ha il potere di sanare, anche se tale potere non è ancora manifesto nella vita del sofferente o nella storia ebraica. Una volta ancora, la nostra necessità umana di essere sanati è irta di ambiguità; a volte veniamo guariti, ma non sempre.

L'immagine di Dio che sostiene, protegge e guarisce viene concretizzata nella metafora di paternità. Abbiamo studiato precedentemente alcune di queste metafore paterne, ma dobbiamo esaminarle ancora, questa volta da una prospettiva differente, leggermente più ambigua.

L'ambiguità è multidimensionale. Tipicamente, in tutti i testi classici, il genitore è il padre. La nostra sensibilità moderna alle problematiche di genere (maschile o femminile?) ci dà la tentazione di sostituire "genitore" a "padre", dato che la genitorialità include sia padre che madre — ma nell'ebraico originale non ci sono dubbi: indica chiaramente "padre". Tale questione di genere è una delle ragioni dell'ambiguità che evoca questa metafora.[8] Una seconda ragione, più delicata, è che come ogni altra metafora, questa evoca echi differenti in differenti persone, a seconda dei nostri rapporti con i nostri padri (o madri), quasi sempre uno dei rapporti più complicati. Alcuni di noi hanno sentimenti inquietanti per i rispettivi genitori; altri hanno sentimenti di profondo affetto. La maggioranza di noi rientrano in entrambe le situazioni. Altri ancora sono in grado di distinguere tra genitori umani e genitore divino: Dio è il genitore che non abbiamo mai avuto o che desideravamo di avere. Dio è persino descritto come "padre degli orfani" (Salmo 68:6), padre dei senza padre, il padre idealizzato.

Secondo tale modalità, Dio sembra apparire come il padre benevolo, amorevole. Il Salmo 103 è un peana alla disponibilità da parte di Dio di perdonare i Suoi figli erranti:

« Come il cielo è alto sulla terra,
così è grande la sua misericordia su quanti Lo temono;
come dista l'oriente dall'occidente,
così allontana da noi le nostre colpe.
Come un padre ha pietà dei suoi figli,
così il Signore ha pietà di quanti Lo temono. »
(Salmi 103:11-13)

I padri sono compassionevoli verso i propri figli, dice il salmo, ma notiamo l'ammonimento ripetuto due volte: "su quanti Lo temono". E quello che non Lo temono? La propagandata benevolenza di Dio dipende dal nostro "timore" di Dio. "Timere" non è forse qui la traduzione più accurata dell'originale ebraico; è qualcosa di più simile a "venerare"; tuttavia, il significato rimane lo stesso: la compassione di Dio non è incondizionata.

La compassione paterna di Dio è condizionale perché anche la compassione paterna umana è condizionale. La genitorialità è complicata. Ovviamente i genitori amano i figli, ma la genitorialità richiede anche una sana dose di tutoraggio, giudizio e talvolta punizione. Un genitore che si rifiuta sistematicamente di punire un figlio turbolento fallisce come genitore. Le immagini divine che evidenziano la dura qualità di Dio sono comunemente attribuite a questa dimensione punitiva della Sua genitorialità.

Tale percezione viene riflessa dalle prime parole del lungo poema liturgico citato precedentemente e recitato durante la stagione delle Grandi Festività. In tutto il poema, ci si rivolge a Dio con Avinu Malkenu, "Padre nostro, nostre Re" (o, in modo più generico, "Nostro Genitore, nostro Sovrano"). La giustapposizione delle due metafore suggerisce che Dio si relaziona con noi simultaneamente in due modi: il primo, con compassione; il secondo, in giudizio. L'uno modera l'altro. La tensione persiste fino alla fine della preghiera: "Padre nostro, nostro Re! Sii benevolo con noi e rispondici, anche se siamo indegni; trattaci con compassione e bontà, e salvaci."

La supplica sembra voler asserire che veniamo davanti a questo Genitore-Sovrano a mani vuote, ma non è certo così. In verità, veniamo davanti a Dio nella stagione della Grandi Fesitività con le promesse di perdono spesso ribadite da Dio, col merito dei nostri antenati che ci supporta, con le rassicurazioni che Dio è sempre disposto ad accettare un pentimento sincero. Qui, però, asseriamo che se Dio da Sovrano ci giudica, allora siamo perduti. Pertanto preghiamo che Dio lasci da parte la Sua natura sovrana e ci tratti con compassione paterna.

E qui incontriamo la questione del sesso, del genere. Alcuni di noi tendono a stereotipare i padri come severi e le madri come amorevoli e compassionevoli. Tale divisione del lavoro nella genetorialità non è quasi più attuale e,a volte come abbiamo visto, la punizione è espressione d'amore. Ma attribuire il genere femminile o femminilità a Dio era del tutto impensabile per i nostri antenati biblici (e successivi). Ciò che allora fecero fu di espandere la metafora della paternità ad includere anche una buona dose di quello che a loro sembrava appartenesse agli attributi della maternità. Avvenne solo molti secoli dopo che l'ebraismo sviluppasse un'immagine femminile completa di Dio nel concetto mistico di Dio come Shekhinah, la presenza divina immanente che pervade tutta la creazione e che è un nome femminile.[9]

Linguaggio divino

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Molte femministe ebree contemporanee sono state alquanto critiche delle immagini gerarchiche maschili/mascoline dominanti relative a Dio nei testi ebraici. Tale attacco ha preso due direzioni complementari: in primo luogo, un programma aggressivo di sostituzione dei pronomi maschili di Dio con forme di genere neutro (ove grammaticalmente possibile) o anche esplicitamente femminile. Ci si riferisce ora a Dio con "Ella" o "Ella /Egli" o alternando "Egli" ed "Ella" in paragrafi differenti, oppure evitando di usare pronomi personali riferiti a Dio, che comunque in italiano è un sostantivo maschile. In ebraico vengono cambiati i pronomi della seconda persona, che differiscono a seconda se ci si rivolge ad un uomo (atah) o ad una donna (at), quando ci si rivolge a Dio.

La seconda e più radicale strategia è quella di cercare metafore di Dio che sono percepite come esplicitamente femminili. Una delle più popolari è Mekor HaChayim — Dio è "la fontana di vita" o "la fonte di vita". Implicita nell'immagine è la nozione di Dio che dà alla luce il mondo. Altre metafore maggiormente radicali riflettono il senso di Dio come Dea. Judith Plaskow cattura l'impulso di tali nuove metafore, che manifestano "un senso di fluidità, di movimento e di molteplicità, un intrecciare audace di esperienze femminili con immagini ebraiche, native americane e divine che dà a chi legge/sente un senso espanso di ciò che è possibile fare quando si parla di/a Dio."[10]

Plaskow riconosce che Dio non è né maschile né femminile, ma insiste che simboli di questo tipo debbano essere presi seriamente, sebbene non letteralmente. Difende la femminizzazione radicale delle metafore di Dio:

« La Dea è, ovviamente, Dio, ma in un modo più chiaro e più potente. Non semplicemente una rielaborazione femminile della divinità maschile ma una potenza antica di per sé, riunisce in lei tutte le qualità e prerogative delle dee dai molti nomi. Ella è Asherah, Ishtar, Isis, Afrekete, Oyo, Ezuli, Maria e Shekhinah. È amante, creatrice, guerriera, garante di fertilità, legislatrice, vergine, madre e vegliarda.[11] »

Non c'è da sorprenderci che lettori più tradizionalisti abbiano tacciato di paganesimo tutte queste proposte.[12]

Il fulcro della critica femminista è la convinzione che il problema non sia soltanto di linguaggio. Il linguaggio che usiamo riflette e modella a sua volta il modo in cui costruiamo la nostra esperienza del mondo. Plaskow riconosce che tutte queste immagini di Dio sono elaborate metafore umane, ma le nostre metafore emergono da specifici contesti culturali e politici. Quando tali contesti cambiano, le vecchie metafore devono cambiare insieme a loro.

« Le metafore di Dio che una volta potevano essere avvincenti nonostante la loro risonanza politica – o grazie ad essa – non solo hanno perso la loro immediatezza e potenza, ma sono diventate moralmente sospette e inquietanti. Specialmente quelle immagini di Dio estratte dalla vita politica e famigliare sono cambiate nelle loro associazioni e significati, coi cambiamenti delle nuove prospettive relative all'ordine politico e famigliare. Tuttavia, quando le immagini diventano inadeguate socialmente, politicamente, o moralmente, allora diventano inadeguate anche religiosamente. Invece di puntare alla realtà di Dio ed evocarla, [tali immagini] bloccano la possibilità di un'esperienza religiosa.[13] »

La conclusione di Plaskow influenza le ipotesi generali di questo nostro studio. Tutte le nostre metafore relative a Dio sono designate a facilitarne la nostra esperienza, a rivelare Dio, ad aprirci gli occhi. Funzionano come un paio di occhiali. Mi è stata suggerita un'analogia del film Il mago di Oz, in cui Dorothy deve indossare un paio di occhiali per poter vedere la città di Oz. A volte, tuttavia, dopo un cambiamento nelle condizioni culturali, invece di rivelare, le metafore accecano. E questo si può applicare a tutto. Alcuni hanno indicato per esempio, che la metafora di Dio come Re o Sovrano che pervade la liturgia della Grandi Festività ebraiche non funziona più per coloro che non vivono sotto una monarchia.

Questo è precisamente la rimostranza delle femministe ebree. Rifiutano entrambe le metafore — la metafora del re a causa delle sue associazioni gerarchiche, e la metafora paterna perché esclude la loro esperienza distintivamente femminile. Il mondo è cambiato e quindi devono cambiare le immagini divine. L'intero problema è tuttora in fase "lavori in corso". I libri di preghiera delle ale più liberali della comunità religiosa hanno incorporato il processo meno radicale di utilizzare un linguaggio che rappresenti un Dio di "genere neutro". Più radicalmente, i libri di preghiera femministi hanno rimpiazzato le metafore mascoline con metafore femminine.[14]

Ciononostante, e al di là della questione femminista, non c'è proprio nessuna ambiguità riguardo all'interessamento protettivo di Dio per Israele nell'omelia rabbinica su Esodo 14:19-20. Il passo biblico descrive come Dio protesse Israele dall'esercito egiziano in inseguimento, dopo l'esodo: "L'angelo di Dio, che precedeva l'accampamento d'Israele, cambiò posto e passò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò indietro. Venne così a trovarsi tra l'accampamento degli Egiziani e quello d'Israele." Il midrash riporta:

« Come si spiega questo? È come un uomo che camminava per strada e spingeva suo figlio davanti. Quando dei ladroni arrivarono davanti per poter catturare il figlio, l'uomo prese suo figlio e dal davanti lo mise di dietro. Quando un lupo arrivò da dietro, egli prese suo figlio e dal di dietro lo mise davanti. Quando ladroni vennero davanti e lupi dietro, egli prese suo figlio tra le braccia. Quando il figlio iniziò a soffrire per il troppo sole, suo padre lo coprì col proprio mantello. Quando il figlio ebbe fame, egli lo nutrì. Quando ebbe sete, egli gli diede da bere.[15] »

L'ebraismo è la religione centrata paradigmaticamente sul testo. La sostanza dei desideri di Dio per Israele e per il mondo sono incorporati in un libro. L'immediate implicazione di tale affermazione è che l'obbligo ebraico supremo è quello di studiare il libro. Lo studio diventa l'ingresso alla comprensione della volontà di Dio. Nessuna altra cultura esalta l'atto di studiare, lo studente e l'insegnante come fa l'ebraismo. Lo studio della Torah è "confrontato e soppesato con tutti gli altri comandamenti" secondo la Mishnah (Pe`ah 1:1), perché come facciamo a capire come osservare tutti gli altri comandamenti se non studiando la Torah? L'ebraismo è l'unica religione in cui lo studio è equivalente al culto. Il rinomato rabbino Louis Finkelstein usava dire: "Quando prego, parlo a Dio; quando studio, Dio mi parla." E con le parole della liturgia:

« Benedetto sei Tu, Signore nostro Dio, Sovrano dell'universo... che ci comandò di studiare le parole della Torah. Possano le parole della Torah... essere dolci sulle nostre labbra e sulle labbra di tutto il Tuo popolo cosicché noi, tuoi figli, e tutti i figli della Casa di israele possano venire ad amarTi e a studiare la Tua Torah... Benedetto sei Tu, Signore, che insegna la Torah alla Casa di Israele. »

Da notare il tempo del verbo: Dio "insegna", non "ha insegnato", la Torah a Israele. Dio quindi è un insegnante non solo al Sinai, nell'antichità, ma anche oggi, e n on solo oggi ma anche nel mondo a venire. Le anime dei giusti che sono defunti vengono descritte come andate alla "yeshiva nell'Alto", dove Dio sarà il loro insegnante e chiarirà tutti gli enigmi della Torah che non furono mai esplicati mentre vivevano sulla terra.[16]

Dio come sposo, amante, genitore, guaritore, giudice e pastore sono tutte metafore alquanto convenzionali, ma Dio è anche insegnante! Tale immagine è molto suggestiva e unicamente ebraica. È inoltre significativamente libera dalle tensioni che pervadono le immagini positive di Dio studiate finora. Tuttavia, tali tensioni stanno anche al centro delle metafore negative di Dio, a cui ora passiamo.

  1. ...Se così stanno le cose, allora i nostri Maestri sono d'accordo sul fatto che il mondo sarà distrutto e che esso tornerà al suo stato iniziale (Nachmanide)
  2. oppure: "Anche qualora il mio spirito mi lasciasse".
  3. Keren Fortuna, Liora Baor, Salomon Israel, Adi Abadi e Ariel Knafo, Attachment to inanimate objects and early childcare: A twin study, in Frontiers in Psychology, vol. 5, 22 maggio 2014. Vedi anche John Bowlby, Attachment and loss, New York, Basic Books, 1969, ISBN 978-0-465-09716-6.
  4. Mi riferisco specialmente all’Authorized Daily Prayer Book curato da Joseph H. Hertz, ediz.riveduta, 1948, uno dei libri di preghiera ebraica più diffusi nel mondo. La lista di salmi appare nell'ultima pagina del libro (senza numero).
  5. Si veda The Complete Artscroll Siddur, p. 58. Cfr. anche A Guide to Jewish Prayer, Rabbi Adin Steinsaltz, Shocken Books. ISBN 0-8052-4174-4
  6. Testo (IT): "Sia la Tua volontà, Signore, nostro Dio e Dio dei nostri avi, di guidarci alla pace, di guidare i nostri passi verso la pace, e farci raggiungere la nostra desiderata destinazione per la vita, la felicità e la pace. Salvaci dalle mani del nemico, dagli agguati lungo la via e da tutte le punizioni della terra. Benedici il nostro lavoro e concedici grazia, bontà e misericordia ai Tuoi occhi e agli occhi di tutti coloro che ci incontrano. Ascolta la nostra umile supplica perché Tu sei Dio e ascolti le nostre richieste in preghiera. Sii benedetto Tu, o Signore, che ascolti le preghiere." Vedi "Ask Moses" di Rabbi Naftali Silberberg, What is Tefilat Haderech?
  7. Vedi spec. "Yizkor e le funzioni di rimembranza" (EN).
  8. Si veda Judith Plaskow, Standing Again at Sinai: Judaism from a Feminist Perspective, Harper & Row, 1990, 141-142 e passim, come da citazioni successive in questo capitolo.
  9. Vedi "Shekinah", voce della Jewish Encyclopedia (1906); cfr. anche Giulio Busi, Simboli del pensiero ebraico, Einaudi, 1999, ad hoc.
  10. Judith Plaskow, Standing Again at Sinai: Judaism from a Feminist Perspective, Harper & Row, 1990, 141 segg.
  11. Judith Plaskow, Standing Again at Sinai: Judaism from a Feminist Perspective, cit., 146 segg.
  12. Una forte critica della posizione di Plaskow è stata fatta da Cynthia Ozick, "Notes toward Finding the Right Question", in Susannah Heschel (cur.), On Being a Jewish Feminist: A Reader, Schocken Books, 1983. Per la risposta di Plaskow, si vedano pp. 149 segg. del suo libro.
  13. Judith Plaskow, Standing Again at Sinai: Judaism from a Feminist Perspective, cit., 135-136.
  14. La letteratura sul femminismo ebraico è vasta e in continua crescita. A parte Plaskow, si possono esaminare i testi di: Rachel Adler, Engendering Judaism: An Inclusive Theology and Ethics, Jewish Publication Society, 1998, spec. Cap. 3 sulle immagini di Dio nella liturgia; Marcia Falk, The Book of Blessings: New Jewish Prayers for Daily Life, the Sabbath and the New Moon, Harper, 1998, per la revisione femminista della liturgia ebraica.
  15. Mekhilta BaHodesh, Cap. 2.
  16. Midrash Tanchuma, Vayyiggash, Cap. 12. Vedi anche Sefaria: Midrash Tanchuma, testo (He)/(EN)