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Teatro greco/Euripide

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Indice del libro

Secondo la nota interpretazione di Nietzsche, Euripide è il distruttore della tragedia. Vero è che con il suo sperimentalismo ha trasformato radicalmente il genere tragico rispetto al teatro di Eschilo e Sofocle.

Cenni biografici

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Busto di Euripide, copia romana di un originale greco del IV secolo a.C. Antikensammlung, Berlino

Euripide nacque tra il 485 e il 480 a.C. nel demo di Flia, in una famiglia agiata. Ricevette un'educazione accurata: le fonti lo vogliono allievo di Anassagora ed ebbe forse rapporti anche con Protagora, Prodico e Socrate. Diversamente da Sofocle ed Eschilo, non partecipò in prima persona alla vita pubblica di Atene. Trascorse gli ultimi anni alla corte di Archelao, re di Macedonia, e morì nel 406 a.C. a Pella.

Caratteri della drammaturgia di Euripide

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L'opera di Euripide ebbe sulla tragedia greca un effetto dirompente, che fu riconosciuto dai suoi stessi contemporanei. L'eroe euripideo non hanno la grandezza di quelli sofoclei; sono piuttosto vicini al sentire comune, e non di rado vengono inseriti nelle trame anche personaggi di estrazione umile (come servi e nutrici), con ruoli di primo piano. Euripide inoltre dimostra grande capacità di introspezione psicologica, analizzando le emozioni dei suoi personaggi. Le loro azioni sono ancora sovradeterminate, solo che non sono più il destino o le divinità a muovere gli uomini, bensì i loro stessi istinti irrazionali. Gli dèi compaiono ancora, ma solo come personaggi teatrali, mentre sono distanti dal punto di vista morale, non sono in grado di dare risposte sull'agire dell'uomo. Euripide mette in scena, allo stesso tempo, il trionfo e la crisi della ragione: da un lato i suoi eroi sono in grado di compiere sottili analisi della situazione che stanno vivendo, ma dall'altro finiscono per soggiacere alle forze nascoste che si muovono dentro di loro. Eliminata la sfera divina e soprannaturale, tutto si risolve quindi in un confronto tra la collettività e l'individuo, attraversati entrambi da passioni e brama di potere. Euripide però non dà spiegazioni per la sofferenza degli uomini, che rimane incomprensibile.

Euripide fu inoltre un innovatore della tragedia. Tra le caratteristiche principali delle sue opere ci sono il prologo narrativo, in cui un personaggio spiega al pubblico la situazione all'inizio del dramma, e la monodia, con cui un personaggio tiene un lungo discorso a solo, solitamente nei momenti più tesi. Altra caratteristica ricorrente è l'intervento del deus ex machina, che scioglie l'azione drammatica: Euripide si concentra infatti sugli aspetti psicologici, portando le situazioni fino all'estremo. Giunto a questo punto, il tragediografo perde di interesse per la conclusione dell'azione, che talvolta viene chiusa con finali posticci, altre volte rimane aperta. Anche il suo stile si adatta alle esigenze delle sue opere: il suo linguaggio è duttile, spesso colloquiale ma sempre dotto, capace di adottare anche termini tecnici, in grado di spaziare dalle elevazioni liriche a momenti comici e realistici.[1]

Diversamente da quanto accadde per gli altri tragediografi, di Euripide sono sopravvissute molte tragedie. Le fonti più antiche gli attribuivano novantadue opere, ma in seguito fu stabilita una selezione che ne comprendeva solo dieci: Alcesti, Andromaca, Ecuba, Ippolito, Medea, Oreste, Reso, Troiane, Fenicie e Baccanti. A queste si aggiungono altre dieci opere, derivate da un'antica edizione critica, che comprende un dramma satiresco, il Ciclope, e nove tragedie: Ecuba, Elena, Elettra, Eraclidi, Eracle, Ione, Supplici, Ifigenia in Tauride, Ifigenia in Aulide. Poiché l'Ecuba torna in entrambe le tradizioni, in totale di Euripide ci sono giunte diciotto tragedie (anche se la paternità del Reso è incerta) e un dramma satiresco (di cui si parlerà nel prossimo modulo).

Dell'Alcesti (Ἄλκηστις) si conosce la data esatta di rappresentazione: il 438 a.C. È una tragedia a lieto fine e alcuni personaggi hanno tratti tipicamente comici. Secondo alcune fonti, queste caratteristiche si spiegano con il fatto che fu presentata come quarta opera, al posto del dramma satiresco.[2]

Trama

Admeto, re di Fere in Tessaglia, deve morire, ma grazie ad Apollo ha la possibilità di sfuggire alla morte, purché trovi qualcuno disposto a morire al suo posto. L'unica ad accettare è la moglie Alcesti: la tragedia si apre quindi con la casa in lutto per l'addio alla regina, che si congeda dal marito, dai figli e dai vecchi che compongono il coro. Inaspettatamente arriva un ospite, Eracle, che viene accolto con tutti gli onori. Nel frattempo Admeto ha un alterco con il padre, che nonostante l'età avanzata si era rifiutato di prendere il posto del figlio. Compare poi sulla scena Eracle ubriaco, che si fa spiegare da un servo il motivo del lutto. L'eroe corre all'inseguimento di Thanatos (la morte) e si fa restituire Alcesti. Prima di riportarla al marito, però, ne mette alla prova la fedeltà, fingendo che si tratti di un'altra donna. Avuta la prova dell'amore di Admeto per Alcesti, gliela riconsegna.

La Medea (Μήδεια) fu rappresentata nel 431 a.C. e rappresenta il vertice dell'introspezione psicologica di Euripide.

Trama

Giunta a Corinto con i figli avuti da Giasone, Medea scopre che quest'ultimo ha preso accordi per sposare la figlia del re Creonte. Decide quindi di vendicare l'offesa, e con l'aiuto delle donne del coro ottiene dal re la possibilità di rimandare la sua partenza. Ha quindi un confronto con Giasone, dal quale emerge l'ambiguità e la meschinità dell'uomo. Successivamente incontra Egeo, re di Atene, che le accorda la sua ospitalità. A questo punto attua la vendetta: tramite i figli invia alla figlia di Creone degli abiti che ha intriso di filtri mortali. Quando il messaggero torna per narrare l'orribile morte del re e della figlia, Medea rientra nel palazzo e uccide i due figli avuti da Giasone. Compiuta la vendetta, fugge da Corinto su un carro alato, mentre a Giasone non resta altro che maledirla.

La vendetta di Medea, che viola le principali norme etiche greche, è una rivolta della donna che afferma la propria dignita contro le ipocrite parole di Giasone e contro una società che non accetta che vengano criticate le sue istituzioni. L'uomo è abbandonato dagli dèi e può quindi scegliere da sé il proprio destino, ma, secondo il pessimismo euripideo, questo corrisponde con l'annientamento affettivo.[3]

L'Ippolito (Ἱππόλυτος) fu rappresentato nel 428 a.C.

Trama

Ippolito, figlio del re Teseo, è un giovane dedito alla caccia che disprezza le gioie dell'amore e di Afrodite. La dea, offesa, fa nascere nel cuore della matrigna Fedra un sentimento di amore per il ragazzo. La donna rivela le sue ansie alla nutrice e al coro, timorosa di infangare il proprio nome per una passione sconveniente. La nutrice riferisce la cosa a Ippolito, che ne rimane sdegnato. Sentendosi perduta, Fedra si impicca lasciando un messaggio in cui mentendo accusa il ragazzo di averla disonorata. Teseo, tornato a casa, maledice il figlio, lo caccia da Trezene e chiede a Poseidone di vendicare l'affronto. Poco dopo un messaggero giunge a palazzo con la notizia che Ippolito è stato assalito da un toro mostruoso uscito dal mare, e che è in fin di vita. La situazione è chiarita da Artemide, che, alla presenza di Ippolito morente, spiega a Teseo la verità.

La tragedia è divisa in due metà dalla morte di Fedra, creando una struttura a dittico già usata anche da Sofocle, e tutta la tragedia è costruita sulla polarità generata dai due personaggi di Fedra e Ippolito. La prima soggiace completamente alla passione fino ad annullare la dimensione dello spirito; Ippolito, viceversa, ha una forte repulsione per ciò che è corporeo ed esalta un'idea assoluta. Due caratteri che però sono destinati ad annientarsi, incapaci di trovare una soluzione al conflitto.[4]

Più difficile è la datazione degli Eraclidi (Ἡρακλεῖδαι), che viene collocata nel periodo compreso tra il 430 e il 417 a.C. È una tragedia minore, che risente della fase storica in cui fu scritta, i primi anni della guerra del Peloponneso.[5]

Trama

Per sfuggire alla vendetta di Euristeo, re di Argo e nemico del padre, i figli di Eracle guidati da Iolao arrivano a Maratona. Di fronte a Demofonte, re di Atene, Iolao chiede asilo per i supplici, scontrandosi con l'araldo di Euristeo, che minaggia di guerra gli ateniesi. Demofonte accorda l'asilo agli Eraclidi, decisione che fa scoppiare una guerra. Il giovane Macaria, seguendo il responso di un vaticinio, si sacrifica in modo da garantire la vittoria agli ateniesi. Alla fine, grazie anche alle truppe ausiliarie portate Illo, figlio di Eracle, Atene sconfigge le truppe di Argo; lo stesso Euristeo viene sconfitto in duello da un ringiovanito Iolao e infine giustiziato.

Anche per l'Ecuba (Ἑκάβη), un'altra tragedia minore, non è possibile indicare un anno esatto di rappresentazione, che dovette avvenire tra il 430 e il 417 a.C.[5]

Trama

Dopo la fine della guerra di Troia, le navi achee sono bloccate nel Chersoneso tracico a causa dei venti. Per ingraziarsi le divinità viene deciso il sacrificio sulla tomba di Achille di Polissena, principessa troiana. La madre Ecuba tenta invano di commuovere Odisseo, venuto a prendere la ragazza. Il suo cadavere viene poi riportato a Ecuba da un messaggero, che racconta a lei e alle prigioniere troiane del coro il coraggio dimostrato dalla principessa. Subito dopo, Ecuba apprende che il figlio Polidoro, che aveva affidato al re dei Traci Polimestore insieme a molti tesori, è stato ritrovato morto in mare. Con il consenso di Agamennone, Ecuba attira nella sua tenda Polimestore per compiere la sua vendetta: il re viene accecato mentre i suoi due figli sono uccisi. Nel finale della tragedia, Agamennone riconosce che la punizione attuata da Ecuba è stata giusta.

Anche l'Elettra (Ἠλέκτρα) risale al periodo compreso tra il 430 e il 417 a.C. In particolare, è difficile stabilire se sia stata composta prima questa oppure l'omonima tragedia di Sofocle, che partono dallo stesso tema delle Coefore di Eschilo. In ogni caso dal raffronto si nota da subito la differenza di Euripide, che ambienta la scena in campagna e conduce il riconoscimento tra Elettra e Oreste secondo uno schema rigidamente razionale. Clitemnestra, invece, è una donna debole, divorata dal rimorso e dal dolore per avere perso l'amore della figlia.[6]

Trama

Dopo l'uccisione di Agamennone, Elettra è stata data in sposa da Egisto a un contadino argivo. Oreste e Pilade, giunti nella casa, si presentano come amici del figlio di Agamennone, ma vengono riconosciuti da un servo. I due fratelli, Elettra e Oreste, si riuniscono. Viene quindi ordito un piano di vendetta, della cui attuazione viene data notizia da un messo: Egisto, mentre celebra un sacrificio, è colpito a morte da Oreste. Clitemnestra è invece attirata in casa di Elettra con la falsa notizia di una sua prossima maternità. Clitemnestra ed Elettra hanno uno scontro, durante il quale la regina ricorda le colpe di Agamennone. Clitemnestra torna poi in casa, da cui escono le sue urla di dolore. Elettra e Oreste ricompaiono sulla scena sconvolti dal loro delitto. Nel finale compaiono i Dioscuri, che annunciano l'imminente matrimonio di Elettra con Pilade e l'assoluzione di Oreste da parte dell'Areopago.

L'Andromaca appartiene al gruppo delle tragedie composte tra il 430 e il 417 a.C. È una tragedia particolarmente innovativa, per la tensione che la attraversa e per la libertà con cui Euripide fonde assieme elementi provenienti da miti diversi.[7]

Trama

Andromaca, vedova di Ettore, è a Ftia presso Neottolemo, figlio di Achille, che l'ha avuta come schiava e da cui ha avuto un figlio. La donna è però in pericolo a causa della moglie di Neottolemo, Ermione, che tenta di ucciderla con l'aiuto del padre Menelao. Andromaca si rifugia all'altare di Teti, ma a salvarla interviene il vecchio Peleo, che dopo un agone costringe Menelao ad andarsene. Ermione teme ora l'ira del marito, ma a salvarla giunge Oreste, che annuncia di avere predisposto una trappola contro Neottolemo. Infatti un messo giunge poco dopo, raccontando della morte del figlio di Achille, ucciso da sicari. Nel finale Teti predice ad Andromaca la gloria di suo figlio, mentre Peleo diventa immortale e potrà vivere per sempre nel regno del mare.

Le Supplici (Ἱκετίδες) risalgono al periodo compreso tra il 430 e il 417 a.C.[8]

Trama

Il coro composto dalle madri dei soldati che hanno seguito Polinice nella guerra contro Tebe, chiedono l'aiuto del re di Atene, Teseo. Desiderano infatti chiedere la restituzione dei corpi dei figli, che il re di tebe, Creonte, ha proibito di seppellire. Le donne sono accompagnate anche da Adrasto, a cui Teseo nega il suo appoggio; successivamente cambia idea per l'intervento della madre Etra, che si è lasciata impietosire dalle donne. Giunge però un araldo di Tebe che chiede la consegna di Adrasto, richiesta che viene rifiutata da Teseo. Ne scoppia una guerra, narrata da un messo, durante la quale Teseo sconfigge Tebe e recupera i cadaveri, che possono così essere sepolti. Durante la cerimonia Evadne, vedona di Capaneo, si getta sulla pira del marito. Atena, nel finale, ingiunge ad Adrasto di prestare fedeltà eterna ad Atene.

Le Troiane (Τρῳάδες) furono rappresentate nel 415 a.C., in un momento di grave crisi durante la guerra del Peloponneso, quando Atene si accingeva alla fallimentare spedizione in Sicilia. La tragedia mette in scena gli orrori provocati dalla sete di potere, attraverso l'immagine delle troiane e delle loro sofferenze dopo la caduta di Troia.[9]

Trama

Nel prologo Atena e Poseidone si accordano per far morire per mare i Greci che hanno provocato la caduta di Troia. Intanto, nelle tende degli Achei, Ecuba e le donne troiane piangono pensando al loro triste destino; poco dopo apprendono da Taltibio, l'araldo degli Achei, che Cassandra è stata assegnata ad Agamennone, Andromaca a Neottolemo ed Ecuba a Odisseo. Cassandra consola la madre, quindi sulla scena compare Andromaca con il figlio Astianatte, pronunciando parole in ricordo del marito Ettore. Ma Astianatte deve morire: così è stato deciso e Taltibio strappa il bambino dalle braccia della madre. Arrivano anche Menelao ed Elena, che avviano una disputa con Ecuba sulle cause della guerra: Elena cerca di giustificare il suo comportamento, ma Ecuba ne chiede la morte. Menelao, alla fine, annuncia che la porterà con sé. Nel finale Ecuba veglia il corpicino di Astianatte, mentre gli Achei danno l'ordine della partenza.

Anche l'Eracle (Ἡρακλῆς) fu composto dopo il 417 a.C. Tema centrale è il crollo dell'eroe glorioso, che precipita nella situazione più crudele e umiliante. Ma è presente anche un encomio di Atene, attraverso l'apparizione di Teseo, che riconduce tutto l'evento narrato alla sua dimensione umana.[10]

Trama

Lico, tiranno di Tebe, minaccia la famiglia di Eracle, composta dal padre Anfitrione, dalla moglie Megara e dai figli. Il gruppo si rifugia presso l'altare di Zeus, a cui Lico minaccia di dar fuoco. La soluzione giunge con Eracle, che uccide il tiranno e libera i familiari. Ma mentre si trovano tutti nel palazzo, Eracle diventa vittima di Lissa, demone della pazzia inviato da Era. Un messo racconta quindi dello sterminio della famiglia da parte dell'eroe impazzito. Quando rinsavisce, Eracle vorrebbe uccidersi, ma desiste dal suo intento grazie alla parole di Teseo, che lo convince che l'eroismo consiste nell'accettare i dolori della vita. Eracle e Teseo si dirigono quindi verso Atene.

L'Elena (Ἑλένη) risale al 412 a.C., quando ormai la spedizione ateniese in Sicilia si stava rivelando una disfatta. Euripide rende vano uno dei miti cari ai Greci, quello della vittoria su Troia, e pone a capo dell'azioni umane il caso: l'irrazionale è quindi qualcosa di immanente nella realtà. Per altro, l'intervento del caso consente all'autore di abbandonarsi anche a soluzioni fantasiose o poco realistiche.[11]

Trama

Elena non è stata condotta a Troia: Paride ha infatti portato con sé solo un'immagine fittizia, mentre la vera Elena si trova in Egitto, protetta da Proteo. Quando questi muore, suo figlio Teoclimeno cerca di convincere Elena a diventare sua moglie. La donna cerca riparo alla tomba di Proteo, dove viene raggiunta da Teucro, che le porta la notizia della morte di Menelao. Le schiave greche che compongono il coro consolano Elena, la convincono a non suicidarsi e le suggeriscono di chiedere aiuto alla profetessa Teonoe. Giunge intanto sulla costa egiziana Menelao, spinto dalla corrente del mare. Qui marito e moglie si riconoscono. Teoclimeno però ha minacciato di morte tutti gli stranieri: per questo motivo Menelao si finge un marinaio e informa Teoclimeno della propria morte. Elena chiede quindi il permesso di potere compiere un sacrificio in mare, in onore del marito defunto. La nave, tuttavia, porta i due sposi in Grecia. Teoclimeno vorrebbe rivalersi su Teonoe, complice dei due, ma viene calmato dai Dioscuri.

Ifigenia in Tauride

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È ignota la data in sui presentata l'Ifigenia in Tauride (Ἰφιγένεια ἐν Ταύροις), anche se probabilmente è successiva all'Elena, di cui riprende lo schema costruttivo. In entrambi due parenti si ritrovano in una terra straniera, e dopo un complesso riconoscimento fuggono insieme.[12]

Trama

Ifigenia non è morta: poco prima di essere sacrificata in Aulide, è stata salvata da Artemide ed è diventata una sua sacerdotessa. Nel paese dei Tauri dove vive, giunge Oreste, accompagnato da Pilade, che per ordine di Apollo deve portare in Attica la statua di Artemide taurica. I due però vengono catturati e preparati ad essere sacrificati ad Artemide, secondo un'usanza propria del paese. Oreste e Ifigenia però si riconoscono e progettano un piano di fuga. Ifigenia convince il re Toante che è necessario purificare i due prigionieri e la statua della dea in mare aperto. Il successo del piano viene poi raccontato sulla scena da un messaggero, e l'ira di Toante, che vorrebbe inseguire i prigionieri, viene smorzata dall'arrivo della dea Atena.

Lo Ione (Ἴων) presenta una delle trame più libere e complesse della drammaturgia di Euripide, secondo un estro inventivo che caratterizzerà la fase finale della sua attività.

Trama

Ione è figlio di Apollo e Creusa, figlia di Eretteo, ed è stato cresciuto a Delfi. Qui giungono Creusa e il marito Xuto, re di Atene, per consultare l'oracolo su una questione importante: la coppia infatti non ha figli. Dopo un incontro tra Creusa e Ione, che non porta al riconoscimento, Apollo fa credere a Xuto che Ione sia suo figlio. Il re è felice della notizia, ma Creusa non può accettare in casa un bastardo e tenta quindi di assassinarlo con del vino avvelenato. Il delitto fallisce e Creusa si rifugia all'altare di Apollo, dove finalmente riconosce il figlio grazie all'intervento della Pizia, che conserva ancora il cesto in cui ragazzo fu riposto da neonato. Atena, nel finale, predice un glorioso avvenire per Ione.

Le Fenicie (Φοίνισσαι) ritornano ancora una volta al mito di Edipo e della sua discendenza. Alcuni eventi fondamentali della storia vengono però stravolti da Euripide, in uno sfoggio di virtuosismo artistico.[13]

Trama

Antigone, dall'alto delle mura di Tebe, osserva l'avanzata dell'esercito argivo. Fa il suo ingresso il coro di giovani fenici devote ad Apollo, quindi compare Polinice, convocato dalla madre Giocasta per cercare di appianare i dissapori con Eteocle. Il tentativo si rivela però un insuccesso: Polinice si schiera con gli argivi, mentre Eteocle si accorda con Creonte per difendere la città. L'indovino Tiresia rivela allora che la città sarà salva solo se Meneceo, figlio di Creonte, verrà sacrificato. Creonte cerca di mettere in salvo il figlioletto, ma questo decide di immolarsi. Giunge un primo messaggero, che racconta come i due fratelli Eteocle e Polinice stiano per affrontarsi; un secondo messo, però, riporta la notizia della morte di entrambi e il suicidio di Giocasta. Creonte, diventato nuovo re di Tebe, scaccia Edipo e proibisce di seppellire Polinice. Antigone decide di seguire il padre nell'esilio e annuncia che seppellirà il fratello.

L'Oreste (Ὀρέστης) fu rappresentato nel 408 a.C. Anche qui il racconto proveniente dal mito viene stravolto dal poeta. Manca però l'elemento tragico, il rapporto problematico dell'eroe con se stesso; al contrario, gli eroi mitici vengono qui ridotti a fantocci pieni di esitazioni.[14]

Trama

Dopo l'omicidio della madre, Oreste giace sconvolto nel palazzo di Argo, dove è accudito da Elettra e dal coro delle donne argive. Il suo delitto dovrà essere giudicato dal popolo di Argo e Oreste chiede l'assistenza di Menelao, che però si defila. Oreste decide quindi di presentarsi di persona davanti all'assemblea. Un messo annuncia la sentenza: Elettra e il fratello sono stati condannati a morte, e Pilade accetta di condividere la stessa sorte. Prima però decidono di vendicarsi di Menelao uccidendo Elena, causa della guerra di Troia e di tutti i loro dolori. Elena viene quindi fatta prigioniera, mentre Oreste minaccia di uccidere Ermione, figlia di Menelao, e di dar fuoco alla reggia. La situazione viene risolta da Apollo, che annuncia l'elevazione di Elena tra gli dèi, l'assoluzione di Oreste all'Aereopago, il matrimonio tra Elettra e Pilade e tra Ermione e Oreste.

Ifigenia in Aulide

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Sappiamo che l'Ifigenia in Aulide (Ἰφιγένεια ἐν Αὐλίδι) fu presentata postuma, nel 406 a.C. La tragedia riprende un tema già affrontato da Euripide, quello della scelta di un personaggio di sacrificarsi volontariamente per il bene della patria. Inoltre mette in atto una trasformazione dell'eroe tragico, che non è più monolitico e stabile nelle sue convinzioni, ma conosce un processo di evoluzione, confrontandosi con le idee di altri personaggi.[15]

Trama

Secondo un oracolo interpretato da Calcante, le navi greche avranno una buona navigazione solo dopo che Ifigenia, figlia di Agamennone, sarà stata sacrificata alla dea Artemide. Il re manda quindi a chiamare la figlia e la madre, che raggiungono l'Aulide, dove si trova la flotta. Agamennone vorrebbe impedire il sacrificio, ma Menelao glielo propibisce. All'arrivo delle due donne, Agamennone non sa come rivelare la verità. Questa viene però svelata a Clitemnestra e Achille da un vecchio, e Achille promette di difendere Ifigenia. Clitemnestra lancia gravi accuse contro il marito, mentre Ifigenia cerca di convincere il padre a cambiare la propria sorte. Tuttavia cambia presto idea, suggestionata dall'idea che il suo sacrificio renderà possibile la presa di Troia. Nel finale, spurio, un messaggero racconta che Ifigenia si è salvata perché è stata sostituita da una cerva.

Come l'Ifigenia in Aulide, anche le Baccanti (Βάκχαι) furono presentate postume, nel 406 a.C. È l'unica tragedia, tra quelle che ci sono giunte integre dall'antichità, ad avere un dio per protagonista.

Trama

A Tebe, le donne della famiglia reale guidate dalla regina Agave hanno negato la divinità di Dioniso. Il dio, però, raggiunge la città insieme a un coro di baccanti, e costringe le donne di Tebe a compiere le sue orge sul Citerone. Il re Penteo, nonostante gli avvertimenti di Cadmo e Tiresia, è deciso a impedire il culto di Dioniso, che viene incarcerato. Il dio però riesce facilmente a libersarsi dalla prigione. Un messaggero racconta a Penteo quello che succede su monte e il re, incuriosito, accetta di traversi da baccante per spiare. Un secondo messaggero però giunge a raccontare la sorte di Pente: sorpreso dalle donne e scambiato per un leone, viene fatto a pezzi. Arriva Agave che porta in mano la testa del figlio, convinta ancora che sia quella di un leone; quando l'euforia dionisiaca svanisce, si accorge con orrore del delitto che ha commesso. Dioniso, nel finale, scaccia Agave e le sorelle, mentre annuncia per Cadmo e Armonia una vita nella terra dei beati.

Le Baccanti sono una tragedia sulla crisi della ragione, in cui l'intelletto si scontra con il mistero della divinità. Penteo porta avanti una lotta laicista contro l'accecamento religioso, fino a sacrificare la propria vita. Ma allo stesso tempo, è punito per la sua hybris, per aver pensato di potere decidere il destino dei suoi cittadini. Come i suoi predecessori, Euripide cerca di sondare la distanza che c'è tra l'uomo e il divino; mostrando però un dio come protagonista della tragedia, lo avvicina alla sfera dell'umano.[16]

Il Reso (Ῥῆσος), incluso dagli antichi tra le opere di Euripide, è oggi considerato spurio dalla maggioranza degli studiosi. Dall'opera mancano gli spunti problematici tipici della drammaturgia di Euripide, e la sceneggiatura è troppo rigida e ricca di trame secondarie che non vengono sviluppate. La vicenda riprende un episodio narrato nel Libro X dell'Iliade, quello di Reso che giunge tardivamente in aiuto di Ettore e degli assediati troiani.[17]

Trama

Nel campo troiano, poco dopo un'importante vittoria, il coro delle sentinelle avvisa Ettore degli strani movimenti che accadono nel campo acheo. Dolone viene quindi inviato a spiare quello che succede. Nel frattempo arriva al campo Reso, re dei Traci, con il suo esercito. Ettore accoglie l'alleato e gli indica dove acquartierarsi con i suoi soldati. Diomede e Odisseo, dopo avere catturato e ucciso Dolone presso il campo greco, raggiungono le postazioni troiane e, guidati da Atena, raggiungono il campo dei Traci. Subito dopo compare sulla scena l'auriga di Reso, che racconta la strage dei Traci, l'uccisione del re e il furto dei loro cavalli. Tersicore, musa e madre di Reso, appare per svelare l'inganno messo in atto da Odisseo e Diomede e per piangere la morte del figlio.
  1. Giulio Guidorizzi, Il mondo letterario greco. L'età classica, vol. 1, Torino, Einaudi, 2000, pp. 234-238.
  2. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, p. 220.
  3. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, p. 221.
  4. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, p. 222.
  5. 5,0 5,1 Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, p. 223.
  6. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, pp. 225-226.
  7. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, p. 224.
  8. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, p. 225.
  9. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, p. 226.
  10. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, p. 227.
  11. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, p. 228.
  12. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, p. 229.
  13. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, p. 230.
  14. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, p. 231.
  15. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, p. 232.
  16. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, pp. 233-235.
  17. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, pp. 235-236.