Umorismo ebraico e storielle yiddish/Capitolo 14
Tropi afroamericani nell'umorismo ebraico contemporaneo
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Storiella ebraica e Jewish humor (en). |
Gli ebrei americani hanno spesso articolato la loro identità etnica in relazione agli afroamericani. A volte – come durante i movimenti socialisti degli anni ’30 o il movimento per i diritti civili degli anni ’60 – ciò si è manifestato attraverso l'identificazione ebraica con la condizione oppressa degli afroamericani e ha portato alla cooperazione tra i due gruppi.[1]
Spesso, tuttavia, gli ebrei parteciparono alla sottomissione degli afroamericani come mezzo per rivendicare la propria identità bianca assimilata. Uno degli eventi più affascinanti legati a questo fenomeno è l'uso da parte degli ebrei del makeup nero. Nel diciannovesimo secolo, il menestrello blackface era tra le espressioni culturali più popolari del paese, ma a quel tempo la maggior parte degli artisti blackface erano irlandesi americani della classe operaia.[2] Nel ventesimo secolo, tuttavia, il blackface si spostò dalle sale da concerto e dagli spettacoli di menestrelli al vaudeville e al cinema, dove la maggior parte degli artisti che indossavano il blackface erano ebrei.
L'ebreo più famoso che si è dipinto la faccia è stato senza dubbio Al Jolson nel film del 1927 The Jazz Singer, ma anche George Burns, Sophie Tucker, Fanny Brice, Eddie Cantor e i Fratelli Marx hanno tutti indossato il blackface. Michael Rogin sostiene in modo convincente che il blackface ebraica nella prima metà del ventesimo secolo fungeva da “rito di passaggio” culturale, trasformando l'ebreo immigrato in un americano.[3] Partecipando all'esclusione e alla stereotipizzazione dei neri, gli ebrei americani si resero bianchi. Rogin spiega che per gli artisti ebrei americani, “[f]ocusing attention on blackness protects [their own] whiteness as the unexamined given”.[4]
Negli anni ’60, la maschera blackface era quasi scomparsa e, come la parola-N e la svastica, divenne, secondo le parole di John Strausbaugh, “utterly taboo”.[5] Da allora, la blackface ebraica fece ancora apparizioni occasionali, ma tipicamente prese la forma di ciò che Strausbaugh chiama “virtual blackface” o “blackface as lifestyle”, in cui i bianchi adottano i manierismi, la moda o il linguaggio stereotipati degli afroamericani senza letteralmente dipingersi la faccia.[6] Il miglior esempio ebreo americano di questa sorta di “virtual blackface” potrebbe essere il trio hip-hop ebraico The Beastie Boys, che ha svolto un ruolo determinante nel portare la musica rap nel mainstream culturale.[7]
Oggi il blackface ebraico sta facendo una sorprendente rinascita nella cultura popolare. Sebbene il blackface letterale sia ancora raro, molti intrattenitori ebrei, e in particolare umoristi ebrei, possono essere visti interpretare i neri, rivendicare retoricamente l'identità afroamericana o esprimere un fascino per la lingua, lo stile o la musica della cultura nera. Un esempio estremo può essere trovato nel film del 2003 The Hebrew Hammer, una riscrittura comica ebraica del genere blaxploitation degli anni ’70. Questa rinascita del blackface ebraico, a mio avviso, suggerisce una reazione contro le motivazioni assimilazioniste dei primi artisti di spettacolo ebrei. Nel ventunesimo secolo, gli ebrei americani si sono, per la maggior parte, assimilati con successo nell’America bianca e godono dei privilegi del gruppo etnico dominante. Come sottolinea Eric Goldstein, tuttavia, molti ebrei contemporanei si sentono a disagio con questa posizione di whiteness indifferenziata: “many Jews at the turn of the twenty-first century seem particularly conscious of the way that being seen as white delegitimizes their claim to difference as Jews.”[8] Questo disagio si manifesta in diversi modi, uno dei quali è l’adozione della cultura afroamericana come mezzo per riaffermare lo status di minoranza degli ebrei. La differenza principale, quindi, tra il blackface ebraico contemporaneo e il blackface ebraico dell’inizio del XX secolo è che gli umoristi ebrei oggi usano il blackface non per nascondere la loro ebraicità ma piuttosto per evidenziarla ed esplorarla. Mentre Rogin sostiene che i primi artisti ebrei indossavano il blackface come mezzo per rivendicare l'identità bianca, oggi gli ebrei rivendicano la blackness per prenderne le distanze.
Ciò non avviene, tuttavia, in modo ovvio o diretto. Gli umoristi di cui parlerò – Sarah Silverman, Larry David e Sacha Baron Cohen – creano una serie di personaggi immaginari attraverso i quali recitano o rivendicano in altro modo l'identità nera. Mentre gli stessi comici sono ben consapevoli delle complesse questioni razziali sollevate dal loro umorismo, i loro personaggi – che spesso condividono somiglianze con gli artisti stessi – sono ignoranti e insensibili alle sfumature dell'identità razziale ed etnica. Il loro umorismo, quindi, spesso appare scioccante e politicamente scorretto, e individuare un commentario razziale stabile o coerente in mezzo a questo umorismo è praticamente impossibile. Ciononostante, tutti e tre i comici esplorano l'ansia che molti ebrei contemporanei nutrono riguardo al loro posto nel panorama multietnico del ventunesimo secolo.
The Sarah Silverman Program
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Tra i comici ebrei recenti, Sarah Silverman non solo fornisce l'esplorazione più esplicita del blackface negli ultimi anni, ma traccia anche un collegamento diretto tra la maschera blackface e l'identità ebraica americana. Nel Sarah Silverman Program (dal 2007), Silverman interpreta un personaggio immaginario chiamato anche Sarah Silverman.[9] La Sarah immaginaria è una fannullona disoccupata, insensibile e poco intelligente che vive sulle spalle di sua sorella. Lo show tratta spesso temi afroamericani, ma l'episodio della seconda stagione "Face Wars" è il più importante per la nostra discussione.[10] Nella scena di apertura dell'episodio, Sarah non è ammessa in un country club WASP e presume di essere discriminata perché ebrea. Un cameriere afroamericano la sente lamentarsi con i suoi amici che essere ebreo è più difficile di ogni altra cosa, e questi afferma che essere nero in realtà è più difficile. Sarah e l'afroamericano decidono quindi di scambiarsi di posto per un giorno onde decidere quale gruppo soffra di più.
Sarah quindi ingaggia un truccatore per trasformarla in un'afroamericana. Il makeup nero, tuttavia, è semplicemente uno strato di grasso marrone scuro spalmato sul suo viso, ed è chiaro dal collo e dalle braccia bianchi che Sarah è bianca. Per completare il costume, Sarah si lega una bandana intorno alla testa e diventa l'immagine offensiva di un menestrello "darky". Quando Sarah esce nel mondo per provare la sua nuova identità nera, viene rimproverata dal pubblico per il suo aspetto offensivo. Ignorante come sempre, Sarah presume che le persone la stiano sgridando perché è nera, non perché indossa il blackface, e conclude che è davvero più difficile essere neri che ebrei. L'afroamericano con cui Sarah aveva fatto la scommessa subisce una trasformazione simile, perché il suo costume da ebreo consiste in un cinturino di plastica sul naso, una kippah [copricapo circolare], boccoli laterali (peot) al viso e una maglietta con la scritta "I Love Money". Quando incontra di nuovo Sarah, ammette che è più difficile essere ebreo che nero. Sarah e l'afroamericano concordano di non essere d'accordo.
Dietro l'assurdità palese di questa trama, si nasconde un'affascinante inversione della logica comunemente accettata nei rapporti tra ebrei e neri. La maschera blackface di Sarah non solo invoca la lunga storia di discriminazione contro gli afroamericani, ma non tenta nemmeno di nascondere la complicità ebraica in tale discriminazione. Allo stesso tempo, però, Sarah invoca anche la storia dei pregiudizi contro gli ebrei. Ciò inizia con la scena del country club WASP (club di questo tipo erano famosi per gran parte del ventesimo secolo sia per le loro pratiche di esclusione che per il loro palese antisemitismo), e continua con la raccolta di immagini offensive che compongono il travestimento da ebreo dell'uomo afroamericano. Mentre la disputa di Sarah con il nero su quale gruppo soffra di più è ridicola e potenzialmente offensiva per entrambi i gruppi, il punto importante è che Silverman usa la maschera del blackface come mezzo per evidenziare l'identità ebraica e allontanare quell'identità da un'identità bianca indifferenziata (leggi: WASP).
Man mano che l'episodio va avanti, l'identità ebraica viene apparentemente eclissata da una trattazione estesa delle relazioni bianco/nero. Del nero - e del suo costume ebraico - non si ha più notizia, ma l'abbigliamento da blackface di Sarah dà inizio a una tendenza: anche i bianchi di tutta la città iniziano a indossare il blackface, e Sarah è vista come un'eroica crociata antirazziale. In una scena, una folla di devoti seguaci blackface di Sarah rivendica il diritto, attraverso un canto ripetitivo, di esplorare le questioni razziali in America “through the use of postmodern irony”. Questa svolta degli eventi sposta l'episodio nel reame della metacommedia altamente consapevole di sé. Mentre Sarah rimane ignorante e insensibile, Silverman dimostra di conoscere non solo la storia razzista della maschera blackface ma anche i dibattiti contemporanei sui possibili usi di quella maschera nella cultura contemporanea. Il regista afroamericano Spike Lee, ad esempio, esplora la questione stessa della “ironic blackface” nel suo film del 2000, Bamboozled. Sebbene Silverman non postuli mai un commento razziale preciso, il momento in cui l'ignoranza di Sarah la rende una crociata della razza anticipa la reazione politicamente corretta che l'episodio avrebbe probabilmente ricevuto e fornisce un occhiolino d'intesa – o, a seconda di come lo guardiamo, un colpo satirico – a membri del pubblico che sono in sintonia con le discussioni contemporanee sulla razza e sulle sue rappresentazioni nella cultura popolare.[11]
Sotto questi strati di sapiente ironia e umorismo salace, sostengo che questo episodio riflette una genuina ansia riguardo al ruolo che gli ebrei svolgono nell'America multiculturale. Infatti, dopo aver esplorato gli usi del blackface per commentari razziali, l'episodio ritorna alla sua preoccupazione originale per gli ebrei e la persecuzione ebraica. Durante una manifestazione blackface, Sarah viene accidentalmente sparata al braccio da un agente di polizia inetto e in ospedale sua sorella inizia a pulirle il makeup nero. Viene però interrotta dalla donna WASP che aveva negato a Sarah l'ingresso al country club nella scena iniziale. L'unico trucco rimasto sul viso di Sarah quando saluta la donna è una piccola macchia appena sopra il labbro: i baffi di Hitler. Sarah, da dietro i suoi baffi da Hitler, chiede alla donna del country club se "she had hated any Jews lately". La donna ammette di non aver fatto entrare Sarah nel club perché era ebrea, ma spiega che quando ha visto Sarah in TV con la faccia nera, si è resa conto che "it could have been a lot worse". Dice a Sarah che è la benvenuta a giocare a tennis nel club in qualsiasi momento, ma non "during peak hours".
Come il resto dell'episodio, questa scena finale è ridicola in superficie. Al di là della stupidità, tuttavia, emerge un'ambiguità sulla persecuzione ebraica in America. L'implicazione dietro il commento della donna WASP è che l'ebreo americano si trova in un punto intermedio nel binario razziale bianco/nero.[12] In quanto ebrea, Sarah non è “bad” come un'afroamericana, ma non è ancora del tutto bianca. Si presume quindi che, mentre a Sarah è consentito andare al country club nelle ore fuori dall'ora di punta (off peak), a un afroamericano non sarebbe consentito andarci affatto. L'affermazione mina la posizione originale di Sarah secondo cui gli ebrei in America soffrono più dei neri (non che qualcuno fin dall’inizio abbia preso sul serio quella posizione). Ma il maggior imbarazzo durante questa conversazione sono i baffi Hitler sulla faccia di Sarah. Anche se l'episodio prende in giro l'idea che gli ebrei americani contemporanei soffrano più dei neri, ricorda anche agli spettatori la reale e grave persecuzione degli ebrei nella storia recente. Mentre la maschera blackface simboleggia secoli di razzismo nei confronti degli afroamericani, l'immagine dei baffi di Hitler connota allo stesso modo l'Olocausto e secoli di antisemitismo europeo. Silverman trasforma così la maschera blackface in una maschera ebraica e riafferma l'ebreo americano come minoranza etnica.
Curb Your Enthusiasm
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Curb Your Enthusiasm, Larry David, Jeff Garlin e Susie Essman. |
Mentre Sarah Silverman applica letteralmente il makeup nero, Larry David, star e creatore della serie HBO Curb Your Enthusiasm (dal 2000), fornisce una versione più sottile della faccia nera ebraica, che riflette un'ansia simile nei confronti dell'identità ebraica. Come Silverman, David ritrae una versione immaginaria, grossolana e insensibile di se stesso. Come nella vita reale, l'immaginario Larry David è un ricco magnate televisivo ebreo, famoso per essere il co-creatore della serie TV di successo Seinfeld e la base del timido personaggio George Costanza. A parte la sua personalità irritante e la sua abitudine a mettersi in situazioni imbarazzanti, la differenza fondamentale tra David e il suo personaggio sullo schermo è che il Larry immaginario è sposato, per gran parte della serie, con una donna non-ebrea mentre nella vita reale David ha una (ex)moglie ebrea. Questo cambiamento evidenzia il fatto che una delle principali preoccupazioni di David su Curb è l’esplorazione dell'identità ebraica nell'America contemporanea. Come afferma Simcha Weinstein, Curb "is one of the most openly Jewish comedy series ever".[13] Questa ebraicità si manifesta in una serie di trame che si sviluppano attorno alle lotte di Davide con la moglie shiksa e i suoi suoceri goy. Nonostante sia sposato con una non-ebrea, Larry esprime spesso l'ansia di essere visto come un bianco completamente assimilato. Ad esempio, nell'episodio della terza stagione "Mary, Joseph e Larry", Larry si oppone all'idea di avere un albero di Natale in casa perché ha paura che Dio possa pensare che stia "cambiando fede".[14] Inoltre, nell'episodio pilota, ammette al suo manager che ha “a tendency to nod to black people” per far loro sapere che non è “one of the bad ones”.[15]
Uno dei metodi di Larry per affrontare la sua ansia è identificare o formare legami con varie minoranze culturali, in particolare gli afroamericani. Lo vediamo nella scena di apertura dell'episodio della terza stagione “Krazee-Eyez Killa”. Durante un barbecue all'aperto, Larry si ritrova a conversare con un artista hip-hop afroamericano di nome Krazee-Eyez Killa. Krazee-Eyez rappa il testo osceno di una canzone e chiede feedback a Larry. Larry, inizialmente scettico, sorride con apprezzamento e offre alcuni piccoli suggerimenti. Krazee-Eyez esprime la sua gratitudine, dicendo: "You my dog. You my nigger." Larry risponde: "I am your nigger, absolutely".[16] Questo momento, in cui Larry accetta l'etichetta dell'identità nera e la rivendica come propria, è una forma sottile di blackface ebraica e suggerisce che, come Krazee-Eyez, Larry è un outsider rispetto all'America bianca tradizionale.
Una trattazione più estesa delle relazioni ebrei/neri avviene nei dieci episodi della sesta stagione, in cui Larry diventa un membro virtuale di una famiglia afroamericana chiamata allegoricamente "the Blacks". Larry e sua moglie portano a casa loro la famiglia Black, che è stata sfollata a causa di un devastante uragano. La famiglia è composta da Loretta Black, i suoi due figli, sua zia (di nome Auntie Ray) e suo fratello Leon. Quando Larry incontra per la prima volta questa famiglia, non può fare a meno di commentare il loro cognome: "Now let me get this straight; your last name is Black? . . . That’s like if my last name was Jew, like Larry Jew". Dopo una pausa imbarazzante, Larry prosegue spiegando: "Cause I’m Jewish. . . . Don’t you see? You’re black; I’m Jewish!"[17] È importante notare qui che Larry avrebbe potuto facilmente suggerire il nome “Larry White”, ma tenta di formare un legame con i neri – e per estensione con tutti gli afroamericani – collegando esplicitamente la propria ebraicità al "black" dei Blacks. Dal momento che Larry afferma apertamente la sua identità ebraica, questo non è veramente blackface, ma mostra l'impulso opposto degli intrattenitori ebrei blackface all'inizio del XX secolo. Larry si rivolge all'identità nera per accentuare piuttosto che nascondere la sua identità ebraica.
Per tutta la sesta stagione, Larry offende ripetutamente i Blacks con il suo comportamento peculiare. Ad ogni trasgressione, tuttavia, i neri alla fine accettano Larry di nuovo nel gruppo. Si potrebbe sostenere che ciò è dovuto solo al fatto che Larry li aiuta finanziariamente. Lo stesso Larry, tuttavia, gioca volentieri un ruolo importante nella loro famiglia, accompagnando i bambini a scuola, cercando di aiutare Loretta a trovare un lavoro e riservando spazio nel cortile per il giardino di Auntie Ray. Inoltre, in un modo che ricorda la sua amicizia con Krazee-Eyez, Larry diventa particolarmente intimo col fratello di Loretta, Leon, e a volte sembrano essere simbolicamente uniti. Portano cellulari identici, ad esempio, e nell'episodio "The Rat Dog" si bloccano erroneamente mutue chiamate importanti. E in “The Anonymous Donor”, una complessa serie di eventi li porta a indossare maglie da baseball identiche. Vestiti in modo identico, i due uomini si siedono insieme sul divano giocando a carte e sembrano rispecchiarsi a vicenda. Durante tutti questi episodi, Larry continua ad alienarsi dai ricchi bianchi e dagli ebrei assimilati che costituiscono il suo ambiente sociale. La sua identificazione e amicizia con un afroamericano suggerisce quindi un simbolico allontanamento dalla cultura bianca tradizionale.
Questa separazione dall’America bianca raggiunge il culmine nell'episodio finale della stagione, intitolato “The Bat Mitzvah”. La moglie di Larry, Cheryl, lo lascia a metà stagione (parallelamente al divorzio nella vita reale di Larry David dalla moglie Laurie David), e quasi tutti gli amici di Larry – principalmente bianchi ed ebrei assimilati – si schierano con Cheryl e abbandonano lui. Questa alienazione dalla società bianca fa sì che Larry si avvicini ancor di più ai neri. Sentendosi solo e abbandonato, Larry invita Loretta Black a partecipare a un Bat Mitzvah con lui perché sa che Cheryl sarà lì con il suo nuovo ragazzo.
Il Bat Mitzvah stesso è un evento sontuoso e ricorda le famigerate feste "sweet sixteen" che i bianchi ricchi organizzano per le loro figlie. Larry viene ostracizzato dagli ospiti e Loretta viene semplicemente ignorata. In una stanza piena di ebrei assimilati e cristiani bianchi, sia Larry che Loretta sono chiaramente degli outsider. Infatti, schierandosi dalla parte di Cheryl e lasciando da parte Loretta, gli ospiti ebrei affermano la propria pretesa di assimilazione a identità bianca. Larry non ha più una comunità propria, quindi si rivolge ai Blacks.
Nella scena finale, Larry abbraccia pienamente il suo status di outsider e chiede a Loretta di ballare. Mentre ballano, sia gli spettatori che gli ospiti del Bat Mitzvah si rendono conto di un legame romantico. La telecamera poi cambia scena e inquadra Larry e Loretta che si svegliano a letto insieme mentre i figli di Loretta corrono nella stanza e saltano sul letto. Quello che segue è un montaggio esilarante di Larry e i Black che vivono come una famiglia a Los Angeles: vanno al cinema, assistono alle partite di calcio e litigano con i vicini. L'immagine finale dell'episodio, e della stagione, è un biglietto con una fotografia di Larry e della famiglia che dice: "Happy Holidays from Larry and the Blacks".[18] La blackface virtuale in questo momento è chiara: incapace di aderire all'identità bianca, Larry diventa letteralmente un Black.
Borat e Da Ali G Show
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Sacha Baron Cohen, Ali G, Ali G (film), Da Ali G Show, Borat e Brüno. |
Tra i tre artisti in discussione, l'uso dell’ebraicità e del blackface da parte del comico britannico Sacha Baron Cohen è il più sconcertante. Cohen è famoso per la sua serie televisiva Da Ali G Show (2000) e per i suoi lungometraggi Ali G Indahouse (2002), Borat (2006) e Brüno (2009), tutti basati su personaggi creati per Da Ali G Show.[19] In tutti questi lavori, Cohen assume uno dei suoi bizzarri personaggi immaginari – l'aspirante gangster britannico Ali G, il reporter kazako Borat o il fashionista austriaco Brüno – e interagisce con vittime ignare, spesso costringendole a mettersi in imbarazzo davanti alla telecamera. Poiché nessuno dei personaggi immaginari di Cohen è ebreo, nero o americano, la sua arte comica non si adatta facilmente alle discussioni sull'identità afroamericana o ebraica. Tuttavia, sia la cultura afroamericana che l'ebraicità sono le principali preoccupazioni del suo umorismo.
Per apprezzare appieno la blackface ebraica di Cohen, bisogna interpretare i suoi personaggi (in particolare Borat e Ali G) in conversazione tra loro. Cohen fa inoltre affidamento sulla conoscenza preliminare della propria ebraicità da parte dei suoi spettatori per ottenere il pieno significato del suo umorismo. Ad esempio, ogni volta che l'antisemita Borat si suppone parli kazako, Cohen in realtà usa invece l’ebraico. L'uso dell'ebraico ammicca ai membri del pubblico che sono al corrente e fornisce una contronarrativa ironica all'ignoranza di Borat che odia gli ebrei. In effetti, uno dei temi principali di Borat, sia nei suoi segmenti su Da Ali G Show che nel lungometraggio, è l'antisemitismo nel mondo contemporaneo. L'antisemitismo di Borat è una forma esagerata di stereotipo che è spesso associata ai contadini dell'Europa orientale ignoranti e superstiziosi. Ad esempio, nel suo film Borat racconta che in Kazakistan uno dei passatempi locali preferiti è noto come “The Running of the Jew”, in cui la gente del posto indossa maschere giganti con caratteristiche stereotipicamente ebraiche e insegue i bambini kazaki per le strade.[20] Nei suoi viaggi in tutta l'America, Borat continua a diffondere la sua retorica antisemita, spesso spingendo i cristiani americani bianchi a rivelare i propri sentimenti antiebraici. Un esempio famoso si verifica in un episodio del Da Ali G Show in cui gli avventori di un bar country-western americano cantano insieme la canzone di Borat “In My Country There is Problem” con testi come: "Throw the Jew down the well / So my country can be free / You must grab him by the horns / Then we have a big party".[21] Una preoccupazione simile nei confronti della persecuzione ebraica si riscontra nei segmenti Brüno di Cohen, dove l’esperto di moda austriaco decide quali celebrità, a causa del loro abbigliamento, possono “stay in the ghetto” e quali devono prendere “the train to Auschwitz”.[22]
Anche se i suoi personaggi non sono ebrei, l'enfasi di Cohen sull'ebraismo e sulla persecuzione ebraica lo rende un comico riconoscibilmente ebreo e fa di Da Ali G Show una delle serie televisive più esplicitamente ebraiche dall'inizio secolo. Questa ebraicità, suggerisco, informa la nostra comprensione del personaggio virtuale blackface di Cohen, Ali G. Ali G viene da Staines, un sobborgo operaio di Londra, ma i suoi vestiti e il suo linguaggio suggeriscono un'affinità con la cultura afroamericana. Ali G è estremamente ignorante del mondo che lo circonda e sembra capire poco oltre la musica hiphop, il fast food e gli abiti firmati. In uno sketch, ad esempio, Ali G afferma che i film sulla schiavitù sono “racialist” perché hanno sempre attori neri che interpretano gli schiavi.[23] Pertanto, mentre il tono della pelle di Ali G (come quello di Cohen) è coerente con l'etnia bianca, il suo aspetto, il suo linguaggio e la sua personalità incarnano alcuni degli stereotipi più maligni sugli afroamericani. Lo stesso Ali G, comunque, afferma di essere nero.
Tenendo conto di tutto ciò, Ali G sembra essere costruito come un deliberato enigma razziale. I critici hanno ipotizzato che sia di origine asiatica, turca o ebraica, ma la maggior parte lo considera un aspirante "gangsta" bianco, innamorato della cultura afroamericana anche se ne ha solo una comprensione superficiale.[24] Tuttavia, con gli occhiali da sole, il cappello e la maggior parte del corpo di Ali G coperti da abiti larghi, è troppo difficile vederne abbastanza per distinguere eventuali caratteristiche etniche. Questa mancanza di specificità etnica spesso guida l'umorismo del personaggio, soprattutto quando Ali G intervista celebrità inconsapevoli. Ad esempio, in un'intervista con l'esperto di 60 Minutes Andy Rooney, Ali G esaspera ripetutamente il burbero Rooney con errori nella coniugazione dei verbi che sono coerenti con Ebonics. Quando Rooney afferma di averne avuto abbastanza e si alza per lasciare l'intervista, Ali G chiede: "is it ‘cause I is black?" Ali G prosegue poi accusando Rooney di essere “racialist”. Rooney, visibilmente confuso, guarda Ali G e chiede: "you’re black?"[25] L'etnia indeterminata di Ali G costringe quindi i suoi intervistati (e spettatori) a rivalutare la loro comprensione delle categorie razziali.
In Ali G quindi, Cohen presenta una sorta di blackface peculiare. Come i primi spettacoli di menestrelli, Ali G rappresenta uno stereotipo culturale riconoscibile, ma poiché Cohen in realtà non indossa il trucco nero, lo stereotipo si sgonfia. Cohen gioca a fare il nero. I primi spettacoli di menestrelli, secondo Eric Lott, rappresentavano le emozioni contrastanti che i bianchi provavano nei confronti della cultura nera: “a dialectical flickering of racial insult and racial envy”.[26] Sebbene i bianchi trovassero affascinanti la danza, lo stile e la musica degli afroamericani, temevano però di entrare in stretto contatto con i veri afroamericani. Pertanto, lo spettacolo dei menestrelli forniva ai bianchi uno sbocco per esprimere il loro fascino per la cultura nera in un ambiente sicuro e completamente bianco. Agendo da nero, Cohen si fa beffe di questa sorta di fascino-e-paura dei bianchi nei confronti della cultura nera. Poiché nel Da Ali G Show i segmenti con Ali G vengono mostrati insieme agli sketch più apertamente ebrei di Borat e Brüno, agli spettatori non è mai permesso dimenticare che dietro il personaggio di Ali G c'è un uomo ebreo. Questi strati confusi di identità etnica fanno parte di ciò che guida l'umorismo di Cohen. Sarah Silverman e Larry David sembrano suggerire che gli ebrei contemporanei debbano scegliere o di integrarsi nella società bianca tradizionale oppure di rifiutarla identificandosi con la minoranza nera. Il personaggio di Ali G, tuttavia, spezza e rifiuta questo binario, poiché attraverso di esso Cohen è contemporaneamente bianco e nero. Cohen sovrappone così diverse identità etniche (ebrea, bianca, nera) l'una sull'altra. Questa sovrapposizione presuppone che le categorie razziali ed etniche siano definite non da categorizzazioni rigide ma piuttosto in relazione tra loro. Il risultato non è tanto un'ansia per il posto degli ebrei nel panorama multietnico contemporaneo, ma l'affermazione che l'ebraicità ne è parte integrante — da non sussumersi o rimuovere dalle culture circostanti.
Conclusione
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Ebrei statunitensi e Happiness in Judaism (en). |
Ciò che spero di aver fatto qui è evidenziare un’affascinante tendenza nell'umorismo ebraico contemporaneo che evidenzia come molti ebrei, nel corso dell'ultimo secolo, abbiano cambiato il modo in cui pensano e presentano la propria identità etnica. Piuttosto che cercare modi per nascondere l'ebraicità e confondersi nella società bianca tradizionale, molti ebrei stanno facendo esattamente il contrario e si rivolgono alla razza nera per riaffermare il proprio status di minoranza. Da un lato, si potrebbe sostenere che questa tendenza suggerisce che anche gli ebrei vogliono avere la loro torta e mangiarsela: godere dei privilegi del gruppo etnico dominante e allo stesso tempo rivendicare la separazione da tal gruppo. Dall'altro, si potrebbe sostenere che, nonostante i diversi contesti e intenzioni, quello che ho chiamato “the new Jewish blackface” non è così nuovo ma è solo un altro esempio di una lunga serie di bianchi che si appropriano della cultura nera per i propri fini. È chiaro, tuttavia, che i comici ebrei oggi sono ben consapevoli della miriade di cambiamenti che si verificano sia all'interno della comunità ebraica che nella cultura americana nel suo insieme.[27] Inoltre, questi comici stanno trovando modi per adattare la lunga tradizione dell'umorismo ebraico a questi cambiamenti e fornire un umorismo che rifletta la complessità della nostra cultura contemporanea e multietnica.
Note
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Serie delle interpretazioni, Serie dei sentimenti e Serie letteratura moderna. |
- ↑ Cfr., per esempio, Cheryl Lynn Greenberg, Troubling the Waters: Black-Jewish Relations in the American Century (Princeton: Princeton University Press, 2006).
- ↑ Per una storia particolareggiata dell'uso di blackface da parte degli americani-irlandesi, cfr. Eric Lott, Love and Theft: Blackface Minstrelsy and the American Working Class (Oxford: Oxford University Press, 1995).
- ↑ Michael Rogin, Blackface, White Noise: Jewish Immigrants in the Hollywood Melting Pot (Berkeley: University of California Press, 1996), 5.
- ↑ Ibid., 27.
- ↑ John Strausbaugh, Black Like You: Blackface, Whiteface, Insult, & Imitation in American Popular Culture (New York: Penguin, 2006), 9.
- ↑ Ibid., 314.
- ↑ Il cabaret di Lenny Bruce può anche servire come un primo esempio di “virtual blackface” ebraico. L’umorismo di Bruce era influenzato dai ritmi e dalla struttura del jazz, e il suo linguaggio era intriso di un vernacolo afroamericano. Come osserva Mel Watkins, Bruce “conveyed a comic attitude reflecting prominent aspects of genuine black American humor.” Watkins, On the Real Side (New York: Simon and Schuster, 1994), 485.
- ↑ Eric Goldstein, The Price of Whiteness: Jews, Race, and American Identity (Princeton: Princeton University Press, 2006), 236.
- ↑ Nel testo, uso “Sarah” per riferirmi al personaggio dello show e “Silverman” per riferirmi all'artista.
- ↑ "Face Wars", The Sarah Silverman Program, andato in onda per la prima volta su Comedy Central il 17 ottobre 2007. Tutti i riferimenti alSarah Silverman Program si riferiscono a questo episodio.
- ↑ “Face Wars” non ha ricevuto tante critiche quanto ci si potrebbe aspettare. Per quanto ne so, né gli accademici né i giornalisti tradizionali hanno offerto una discussione approfondita dell’episodio.
- ↑ Karen Brodkin asserisce che gli ebrei americani "have a kind of double vision that comes from racial middleness: an experience of marginality vis-à-vis whiteness, and an experience of whiteness and belonging vis-à-vis blackness". Karen Brodkin, How Jews Became White Folks & What That Says About Race in America (New Brunswick: Rutgers University Press, 1998), 2.
- ↑ Simcha Weinstein, Shtick Shift: Jewish Humor in the 21st Century (Fort Lee: Barricade Books, 2008), 27.
- ↑ “Mary, Joseph, and Larry,” Curb Your Enthusiasm, Television. Prima puntata in onda su HBO (10 novembre 2002).
- ↑ Larry David: Curb Your Enthusiasm, Television. Puntata in onda su HBO (17 ottobre 1999).
- ↑ “Krazee-Eyez Killa,” Curb Your Enthusiasm, Television. Puntata in onda su HBO (3 novembre 2002).
- ↑ “Meet the Blacks,” Curb Your Enthusiasm, Television. Puntata in onda su HBO (9 settembre 2007).
- ↑ “The Bat Mitzvah,” Curb Your Enthusiasm, Television. Puntata in onda su HBO (11 novembre 2007).
- ↑ Da Ali G Show venne trasmesso inizialmante nel Regno Unito nel 2000. Gli episodi sono stati successivamente riconfezionati, dotati di nuovi titoli e ritrasmessi su HBO, negli Stati Uniti dal 2003 al 2004. Qui uso i titoli statunitensi con link ital.
- ↑ Borat: Cultural Learnings of America for Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan, Film, Twentieth Century Fox, 2006.
- ↑ “Peace,” Da Ali G Show, Television. Puntata in onda negli USA su HBO (1 agosto 2004).
- ↑ Ibid.
- ↑ “Jah,” Da Ali G Show, Television. Puntata in onda su HBO (15 agosto 2004).
- ↑ Per un’esplorazione approfondita dell’etnia di Ali G, cfr. “Is it cause I is black?,” The Guardian (12 gennaio 2000).
- ↑ “Realness,” Da Ali G Show, Television. Puntata in onda su HBO (22 agosto 2004).
- ↑ Lott, Love and Theft: Blackface Minstrelsy and the American Working Class, 18.
- ↑ Infatti mi qui sono concentrato esclusivamente sul rapporto ebraico angloamericano. In Italia la questione è nella penombra, ma viene portata alla ribalta da personaggi come Moni Ovadia e Gioele Dix.