Umorismo ebraico e storielle yiddish/Capitolo 6

Wikibooks, manuali e libri di testo liberi.
Indice del libro

Sholem Aleichem, barzellette ebraiche e narrativa yiddish[modifica]

Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Sholem Aleichem, Martin Buber e André Neher.

Cominciare con la semplice affermazione che “la risata è universale; l'umorismo è locale” significa affermare che l'umorismo è un’area in cui le risonanze culturali sono piuttosto prominenti. Tuttavia, sebbene le culture abbiano umorismo, e sebbene l'umorismo non sia esclusivo degli ebrei, all'interno del sistema culturale ebraico, e specificamente all'interno del polisistema culturale ebraico ashkenazita, l'umorismo è ebraico. Un'incarnazione importante di questo umorismo è la barzelletta. Naturalmente c’è molto da dire sulle barzellette e, nell'esaminare alcuni scritti su questo genere notoriamente sfuggente, mi concentrerò su un argomento che riceve un'attenzione accademica relativamente breve: l'importante relazione tra raccontare una barzelletta e narrare una storia. Ritengo che tale rapporto esista, che sia intimo e complicato allo stesso tempo, che sia stato riconosciuto da alcuni degli autori più importanti della letteratura yiddish moderna e che, di conseguenza, abbia esercitato una certa influenza sullo sviluppo di tale letteratura. Per supportare queste affermazioni, analizzo la loro relazione con il racconto “Der daytsh” (Il Tedesco; 1902) di Sholem Aleichem (1859-1916), uno dei grandi scrittori satirici popolari dell'Europa orientale in lingua yiddish. Io sostengo che questa storia sia, tra le altre cose, una lunga barzelletta vestita da narrazione letteraria: uno scherzo letterario. La tecnica impiegata, la specifica “veste” utilizzata, mostra l'imbastitura culturale tra la barzelletta ebraica e la letteratura yiddish.

La seguente barzelletta, per ovvi motivi, occupa una posizione speciale tra coloro che studiano l'umorismo ebraico:[1]

When one tells a joke to a farmer, he laughs three times. The first time he laughs when one tells him the joke; the second time when one explains it to him; and the third time when he understands it.

A nobleman laughs twice. One time he laughs when one tells it to him and the second time when one explains it, because in any case he doesn’t understand it.

An officer only laughs once: when one tells it to him, because he won’t let it be explained and he doesn’t understand.

But a Jew, when one tells him a joke, says: “What are you talking about! That’s an old joke!” and he can tell the joke better![2]

Questo testo è il primo esempio che si trova in quella che è, a tutti gli effetti, una raccolta di barzellette, messa insieme da Immanuel Olsvanger e intitolata Röyte Pomerantsen. C'è, ovviamente, una ragione tematica per cui una raccolta di barzellette dovrebbe iniziare con un meta-scherzo, cioè una barzelletta sul raccontare barzellette.[3] Rivela però anche qualcosa dell'“ebraicità” dell'attività stessa. Si dovrebbe prendere nota del peso discorsivo ebraico di questa battuta sull’one-upmanship (e l'idea correlata designata in yiddish come griblen zikh, indagare in modo approfondito) e sull'impegno competitivo, che sono parte della chiave per comprendere la questione.

Olsvanger apre la sua introduzione con una dichiarazione programmatica: "Allow me to present you with this edition of Yiddish folk tales, that I took down just as they were told to me by the Jews of Eastern Europe themselves".[4] Occorre prestare attenzione a due elementi riguardanti i dati (cioè le barzellette) presenti in questo libro: vengono definiti “folk tales”; e vengono ripetuti e raccolti oralmente. In che senso la barzelletta sopra citata, ad esempio, è un “folk tale”, un racconto popolare? La risposta breve è che lo è e non lo è. Tuttavia, non dobbiamo dare per scontato che Olsvanger sia stato negligente con le sue etichette. Questa categorizzazione indica uno slittamento terminologico tra due concetti che si sovrappongono a livello intraculturale ma sono distinti a livello interculturale. Barzellette, storie e racconti popolari possono essere mantenuti come categorie separate, come fanno molte culture occidentali. Tuttavia, nonostante la loro riconoscibile vicinanza nello spazio semantico, le categorie all'interno della cultura yiddish sono più confuse. Questa confusione è stata percepita dai partecipanti a quella cultura (come Olsvanger), che si riflette nell'esperimento letterario intrapreso da Sholem Aleichem.

Un'importante somiglianza evidenziata da questa connessione tra racconti popolari e barzellette è la componente orale. Olsvanger afferma di aver raccolto i suoi campioni oralmente da informatori nell'Europa orientale. La nozione di evento, performance o scambio di narrazione o battuta non dovrebbe essere sottovalutata. In effetti, la struttura a due livelli di storia/barzelletta e raccontare una storia/raccontare una barzelletta sostiene un complicato sistema di connessioni culturali tra ciò che è narrativo e ciò che è performativo. In definitiva, queste corrispondenze guidano alcune delle innovazioni nella moderna lingua letteraria yiddish, come discuterò di seguito in relazione a “Der daytsh”. A questo proposito, un aspetto importante delle barzellette è che funzionano in parte agendo sulle ipotesi probabili, finanche collettive, del pubblico e manipolandole. In questo modo, le barzellette coinvolgono attivamente il pubblico nel contesto sociale del raccontare barzellette.[5] Parte di questa implicazione e manipolazione di presupposti è l’intenzione del narratore di “frustrare” queste aspettative.[6]

Se l'implicazione sociale del pubblico nel contesto della rappresentazione del raccontarle è parte del Sitz im Leben della barzelletta, allora il suo contenuto discorsivo ebraico è parte del suo Sitz in der Kultur. Il discorso ebraico è un modo di pensare, parlare e scrivere che si è sviluppato in parte dal linguaggio rabbinico tradizionale ed è entrato nella cultura ebraica più in generale.[7] Questa caratteristica della cultura ashkenazita di lingua yiddish fu un elemento importante nella creazione e nello sviluppo di una moderna lingua letteraria yiddish. Quando la cultura degli studiosi di lingua yiddish, che costituivano l’élite di quella società, entrò in contatto con la cultura più ampia, alcuni dei modelli del suo discorso – inclusi il vocabolario, le caratteristiche grammaticali e le modalità di argomentazione – furono “nativizzati” e assorbiti in quella cultura. Rispondere con domande, ad esempio, oppure argomentare in competizione[8] o addirittura raccontare barzellette, devono a questo principio parte della loro diffusione culturale.

Parole e testi erano oggetti focali all'interno della realtà ebraica dell'Europa orientale di lingua yiddish, data la forza centripeta esercitata dal Talmud su quella cultura.[9] Lo yiddish reagì fortemente alla “logica” associativa e all'orientamento narrativo multidirezionale della sua struttura e del suo stile. La modalità dialogica del testo veniva rispecchiata dal contesto dialogico in cui era studiato e dibattuto. E quel contesto era, in mancanza di un termine migliore, competitivo. Una domanda penetrante che fa demolire una proposizione è spesso più apprezzata di una dimostrazione conclusiva. Il discorso ebraico appare come un modo per impegnarsi, comprendere e venire a patti con una realtà orientata al testo basata su modelli di pensiero e di parola riconosciuti e non marcati.

Ci si potrebbe chiedere come funziona nella pratica una volta che il discorso è stato adattato e assorbito nella cultura più ampia. La risposta è, tra le altre cose, umoristicamente. Un esempio significativo dal punto di vista del discorso ebraico e del dire barzellette e raccontar storie è il seguente:

We had in our shtetl a coachman whose name was Dovidke. When one would call him “coachman” he didn’t like it at all. As he used to say: “I am no coachman! I have a wagon and a horse, and I drive; and whoever wants to ride along, let him ride! But I am not a coachman.” And as for driving he used to drive with wisdom. One night there was a big storm. And just that night he departed on a long journey. Some days later they asked him how he got through that night. So he says: “It was a difficult journey. But I drove with great acuity.” So they ask him: “What does that mean, ‘drove with acuity’?” So he says: “I drove by means of a kal-vekhoymer and a gezeyre-shove.[10] So listen up. Having set out several miles that night, a wheel of my wagon gets it in its head to fall off. So what do I do? I drive with a kal-vekhoymer! If a little cart on two wheels can go, then my wagon with three wheels will certainly be able to go! So I drove on. I hadn’t gone two minutes when another wheel fell off. So I gave it a thought and found a gezeyre-shove: just as a little cart goes on two wheels, so I will go with two wheels!—And I drove on. Another misfortune, and a third wheel fell off! Do you think I got rattled? Perish the thought! I drove on with a kal-vekhoymer: if a sled without wheels can go, how much more so will my wagon with only one wheel surely go! So I drove on! The fourth wheel then also up and fell off. So what is one to do? I drove on with a gezeyre-shove: just as a sled goes without wheels, so will my wagon go without wheels! And I drove! Don’t ask what became of me and my passengers and my wagon; but I drove![11]

Ciò che è pertinente a questo affascinante testo è la forza pratica che si ritiene eserciti sul mondo la manipolazione di queste strategie discorsive. Le strutture logiche, incarnate come strumenti destinati a negoziare la realtà, sono in grado di persuadere il cocchiere a mantenere la rotta, gettando alle ortiche il buon senso. Il fatto che un cocchiere – un lavoro di sostentamento di basso status i cui rappresentanti tipici generalmente non avevano un'istruzione testuale – essenzialmente comprenda e utilizzi ancora tale logica fornisce prova della diffusione e dell'assimilazione di un discorso testuale d’élite nella più ampia cultura di lingua yiddish.[12]

Questo ci riporta alla domanda: cos’è una barzelletta ebraica? Esiste una cosa del genere? Il filosofo Ted Cohen ha sostenuto che “Jews have no monopoly on jokes, nor on good jokes, nor even on jokes of a particular kind, and yet there is a characteristic association of Jews with a certain joking spirit”. Cohen afferma giustamente: "it is impossible to define Jewish humor; however, one may describe or characterize it as follows: (1) it is the humor of outsiders; (2) it exploits a deep and lasting concern with logic and language".[13] Questa descrizione rappresenta parte di un importante cambiamento nella più ampia discussione sulle barzellette ebraiche e sull'umorismo ebraico. Come categoria, la barzelletta ebraica ha ricevuto il suo certificato kosher come oggetto di moderna indagine intellettuale da Sigmund Freud nel suo famoso studio Jokes and Their Relation to the Unconscious (1905), già più volte citato nell'ambito di questo wikilibro. La lunga ombra di quell'opera continua ancora oggi, con le sue letture psicologiche e l'essenzializzazione dell'umorismo ebraico come autocritica o ridicolo diretto verso l'interno. Il commento di Irving Howe secondo cui “Jewish humor was conceived as a means of internal criticism”[14] è un'iterazione semplice e classica di quella premessa. Sebbene questa idea persista in alcune aree, in particolare e in modo interessante nell'analisi dell'opera di Sholem Aleichem e in particolare nelle sue storie sul personaggio Tevye il lattaio, ci sono state linee di indagine divergenti che hanno messo in discussione e problematizzato proprio quell'approccio. Uno dei primi studi in questo senso è stato il saggio dalle parole forti di Dan Ben-Amos, “The ‘Myth’ of Jewish Humor”. Cominciando con lo sfatamento della saggezza freudiana accettata come “interpretazione”, e perseguendo le sue ramificazioni attraverso varie discipline, alla fine presenta il suo caso quale critica folkloristica del concetto di umorismo ebraico come categorizzazione retrospettiva piuttosto che come realtà sociologicamente verificabile di vere comunità.[15] Come folklorista vuole poter verificare con metodi socio-scientifici l'esattezza delle affermazioni psicologiche persistenti.[16] La sua conclusione è meglio riassunta nel titolo.

L'idea alla base dell'importante commento di Ben-Amos – "The textual basis for the whole idea of Jewish humor, as it developed in the twentieth century, is the personal recollections or literary collections of jokes"[17] – è ripresa, tra gli altri, dall'antropologo Elliott Oring. Sostenendo che l'umorismo ebraico è un costrutto, “un’idea”,[18] cerca di storicizzare tale idea, vale a dire la concettualizzazione dell'umorismo ebraico. Laddove Ben-Amos cita uno slancio antologico della prima parte del Novecento, annotando le numerose raccolte di barzellette e aneddoti umoristici apparsi all'epoca,[19] Oring ipotizza una serie di legature tra lo sviluppo del concetto di umorismo nella storia intellettuale europea di fine Ottocento e la condizione degli ebrei nelle società europee. Il risultato fu che sì, gli ebrei hanno umorismo – la cui negazione all'epoca serviva a far sembrare gli ebrei in qualche modo meno umani o, al contrario, l'identificazione di un particolare tipo di umorismo li esponeva all'accusa di perniciosa adulterazione culturale.[20] L'umorismo ebraico era anche visto come distinto e in grado di coinvolgere la condizione umile e sofferente degli ebrei in certi modi circoscritti.[21] È facile vedere come la psicologizzazione di Freud possa derivare da un simile costrutto. Ancora una volta, entrambe queste posizioni rappresentano una tendenza che milita contro la “psicopatologia”[22] che viene criticata.

Per questo motivo, la caratterizzazione dell'umorismo ebraico da parte di Cohen come non psicologico ma come qualcosa allo stesso tempo sociologico e formale o concettuale, è qui particolarmente utile.[23] Sono anche d'accordo che questo tipo di approssimazioni sono quanto di più vicino possibile a una definizione, qualora una cosa del genere fosse anche desiderata.[24] È molto più possibile produrre una tipologia di forme umoristiche o di probabili elementi costitutivi. (Freud fa anche una serie di categorizzazioni delle battute di spirito, e soprattutto di quelle ebraiche. Le sue classificazioni, tuttavia, seguono uno schema orientato psicologicamente, con l'assunto di fondo che le barzellette sono motivate da realtà psicologiche in cerca di espressione. Il mio interesse è nello spazio culturale delle barzellette, che è molto più linguistico che psicologico.) Sebbene produrre una tipologia non sia lo scopo di questo Capitolo, due elementi importanti saranno particolarmente utili nella successiva discussione di un racconto di Sholem Aleichem: in primo luogo, il cosiddetto “shaggy dog” in cui una serie di eventi simili continuano a verificarsi, prolungando lo scherzo o alterando sottilmente le proprie aspettative e anticipazioni, fino a raggiungere la conclusione o la battuta finale; e, in secondo luogo, l'argomento delle molteplici possibilità.

Gli esempi che seguono giocano sulle connessioni tra questo tipo di divisioni generiche e il discorso ebraico. Nel primo esempio, la costruzione di una lunga catena di ipotesi condizionali viene infranta dall'inversione conversazionale riscontrata nella battuta finale:

In nineteenth-century Russia a young Jew is told he is to be conscripted into the army. So he asks an old Jew for advice.

“There’s nothing to worry about,” says the old man. “Just go into the army and things will turn out well.”

“How can you be sure?” asks the young man.

“Well, when you have joined the army, there are two possibilities — either you will be sent to a combat group, or you won’t. If not, then there is nothing to worry about.

“If you are sent to a combat group, then there are two possibilities — either the group will be sent into combat, or it won’t. If not, then there is nothing to worry about.

“If the group is sent into combat, then there are two possibilities — either you will be wounded, or you won’t. If not, then there is nothing to worry about.

“If the wound is mortal, then there are two possibilities —either you will go to hell or you will go to heaven. If you go to heaven, then there is nothing to worry about.

“If you go to hell, then there are two possibilities — either they take bribes or they don’t. If they take bribes, there is nothing to worry about.

“Of course they take bribes.”[25]

Questa barzelletta gioca sulla risonanza emotiva dell'impotenza ebraica di fronte alla coscrizione forzata, sminuendone la gravità mortale.[26] La debole consolazione psicologica (al di là del cliché “potrebbe esser peggio”) dell'inferno che rispecchia la realtà umana, dove si possono sfruttare le fragilità personali, corrisponde a quella deflazione. Esiste una versione molto più lunga di questa barzelletta ambientata prima della Prima guerra mondiale tra un gruppo di giovani ebrei a Londra. A un giovane viene chiesto del suo atteggiamento ottimista nei confronti della guerra imminente, e lui si lancia in una lunga successione di possibilità binarie proprio nella forma della storiella di cui sopra. Culmina nella possibilità di ricevere una grave ferita in battaglia:

There are two possibilities: either I’ll get well or I’ll die. Should I get well then that’s terrific and there’s nothing to worry about. But what if I die? Should I die then there’s surely nothing to worry about! But who said I’m going to die?[27]

Questa versione sembra meno riuscita della sua controparte più completa, soprattutto a causa della sua lunghezza eccessiva. La specificità del contesto bellico (per non parlare della potenziale fusione di parte del sangue freddo altrimenti associato agli inglesi in questo contesto londinese) è meno risonante dal punto di vista culturale rispetto alla più vaga attribuzione a qualche arruolamento, o in realtà a qualsiasi arruolamento a cui gli ebrei erano particolarmente inclini.

C'è anche una componente formale che incide sulla ricezione di questa barzelletta. Laddove la seconda versione dello scherzo si ferma alla morte, la prima versione procede nel mondo successivo. Oltre a coinvolgere le credenze tradizionali di questa società, con demoni di aspetto umano soggetti alle leggi degli ebrei e alle debolezze umane, la battuta gioca con l'immagine culturale della corte divina del paradiso parallela alla burocrazia infernale dell'inferno, che funziona in modo riconoscibilmente umano. La logica delle ipotesi accoppiate, come nota Cohen, “paródia” un certo tipo di ragionamento connesso al discorso ebraico. La parodia funziona allineando quel ragionamento a un'atmosfera burocratica, che prende in giro.

Questo tipo di deflazione comica a più livelli è molto comune in quello che chiamo umorismo ebraico. Al centro della deflazione comica in questo insieme di battute c'è una serie di ipotetiche opposizioni binarie.[28] Ciò ha un analogo nell'argomentazione delle possibilità multiple, dove il contenuto comico inizia con l'assurdità di questa simultaneità. Prendiamo il seguente brano dal monologo di Sholem Aleichem “Dos tepl” (The Pot/La Pentola; 1901) in cui la monologa Yente racconta il suo lamento per aver prestato una pentola nuova alla sua vicina:

[A]nd she gives me back a banged-up pot. So I say to her, “What kinda pot is this?” So she says, “It’s your pot.” So I say, “So how come I get back a banged-up pot when you took from me a perfectly good pot?” So she says, “Quiet, don’t carry on so, it’s no use! First, I gave you back a perfectly good pot. Second, when I took the pot from you it was a banged-up pot. And third, I never took a pot from you; I have my own pot, so leave me alone!”... The things a libertine will say![29]

Lo si confronti con un passo che Freud presenta come barzelletta:

A. borrowed a copper kettle from B. and after he had returned it was sued by B. because the kettle now had a big hole in it which made it unusable. His defense was: “First, I never borrowed the kettle from B. at all; secondly, the kettle had a hole in it already when I got it from him; and thirdly, I gave him back the kettle undamaged.”[30]

Nella sua analisi, Freud chiama questo pezzo “sofismo” e mette in dubbio il suo “diritto di essere definito una barzelletta”. In superficie, la differenza formale più importante tra i due è la presenza di un contesto giuridico. Il brano di Freud è privato del suo umorismo proprio a causa di quell'elemento forense. Si può supporre che questa sia la forma del materiale così come Freud lo ha incontrato, forse in una raccolta di qualche tipo, o che Freud avesse un orecchio piuttosto debole per l'umorismo, o una combinazione dei due. In questo e in altri casi, tuttavia, l'analisi di Freud soffre di una disattenzione proprio verso il terreno culturale occupato dalle battute e soprattutto verso il loro collegamento con il discorso ebraico. Come nota Cohen, "It is probably more accurately thought of as one of those jokes meant to parody — or represent — Talmudic reasoning and in some cases as the insane logic and the maniacal moves through language, [which] are abiding features of Jewish humor".[31] Ciò non vuol dire che questa barzelletta fosse essa stessa una parodia diretta di tale ragionamento, ma piuttosto che l'influenza di tali modelli di pensiero si diffuse nella cultura ebraica (in gran parte di lingua yiddish) dell'Europa centrale e orientale. Da parte sua, la tradizione della parodia del ragionamento talmudico risale addirittura al Talmud stesso, dove il testo talvolta presenta una precisa parodia della forma del discorso talmudico. Daniel Boyarin, analizzando attentamente un passaggio del trattato Bava Metzia, mostra come "the text is not an assertion of but rather a critique of its own practices, of its own forms of epistemological certainty. Rabbi Elazar’s logical deduction [i.e., a line of reasoning he proposes to a law enforcement official as to how to determine who is a thief, a line of reasoning that by its absurd inexactitude leads to the execution of innocents] with its concomitant certainty must be read, I suggest, as parodic of the practices of rabbinic deduction itself".[32] Sebbene un testo che descriva un simile errore giudiziario non sia certamente comico, un corpus testuale che codifica la parodia delle proprie strutture logiche e del proprio discorso non può che avere ramificazioni umoristiche. In effetti, la mediazione discorsiva ebraica di tale contenuto parodico,[33] in particolare attraverso la fusione di elementi di registro alto e basso,[34] può essere vista confluire nella cultura yiddish, in particolare nella sfera domestica.

Il fatto che l'esempio di Freud (basato sulle regole interne specifiche del testo) sembri in qualche modo più narrativo mentre il passaggio di Sholem Aleichem sia più scherzoso ci riporta a una domanda precedente: esiste un modo di distinguere il racconto di storie e dal racconto di barzellette, o, in altre parole, uno scherzo narrativo da una storia divertente? Anche se non credo che si possa parlare di costituenti essenziali, si può parlare di tendenze. Le storie possono, e spesso lo fanno, coinvolgere il discorso ebraico, ma tendono a farlo come tecnica formale, spesso come un modo per incorporare la verosimiglianza. Anche le barzellette coinvolgono il discorso ebraico, ma tendono a farlo come parte del meccanismo trainante della barzelletta nel suo insieme, come parte del punto e del significato della barzelletta. Barzellette e storie sono entrambe artificiali. La barzelletta, tuttavia, è consapevolmente artificiale, mentre una “storia” di per sé lo è meno; per la barzelletta non c'è verosimiglianza percepita – al di là di quella linguistica – o almeno la verosimiglianza non è una forza trainante.

Un paio di ulteriori esempi chiariranno questo punto. Le barzellette, come è stato notato, possono essere semplici come una singola riga o lunghe come una routine comica di più ore. Prendiamo la seguente coniugazione ebraica di un verbo latino: amo, amas, amat, a mame, a tate, a kind.[35] Ciò funziona ad un livello secondario dove la forma latina immediatamente anticipata è amamus, vale a dire che esiste una somiglianza sonora, e forse anche motivante, della forma a mame. (Si presuppone una familiarità condivisa con le lezioni di latino delle scuole elementari per rendere questa battuta efficace a quel livello secondario.) Ancora più importante, però, questa appartiene a un sottoinsieme di barzellette yiddish che trattano (e giocano) con le pratiche di insegnamento-kheyder (apprendimento meccanico, ecc.) o con l'attività citativa del discorso ebraico.

Questo è particolarmente uno “scherzo linguistico”, sebbene tutti gli scherzi siano in qualche modo linguistici. Cioè, alcune barzellette giocano specificamente sulle peculiarità paradigmatiche o sintagmatiche del linguaggio; queste iniziano con giochi di parole e procedono in su. Parte di questa distinzione risiede nel fatto che una delle caratteristiche più riconoscibili di una barzelletta è la battuta finale. L'artificialità consapevole delle barzellette, al contrario delle storie, deriva dal fatto che spesso sembrano costruite a partire dalla battuta finale stessa. Inizi con la conclusione e costruisci la barzelletta attorno ad essa.

Questo non vuol dire che le storie non siano costruite attorno alla peripeteia, all'amartia o all'anagnorisi (inversione improvvisa, difetti comportamentali o scoperta sorprendente). Piuttosto, l'effetto dell'artificiosità di tali dispositivi – che sono tematici in un modo in cui le battute finali tendono a non esserlo – è qualitativamente diverso. Il famoso racconto di Y. L. Peretz “Oyb nisht nokh hekher” (Se non ancora più in alto; 1900) è costruito proprio attorno all'enigmatica “conclusione” del protagonista, che è sia l'ultima riga che il titolo stesso del racconto. Eppure non è certamente divertente, né si può dire che sia una battuta finale. Inoltre, spesso è difficile leggere le barzellette come storie. C'è poco “punto” tematico nell'esempio seguente, che è orientato attorno alla relazione tra il kashe (una difficoltà posta da un passaggio talmudico) e i teyrets (la soluzione di quella difficoltà):

Once a yeshivah-bokher entered the study-house and saw one of his friends running around back and forth, holding his head in his hands, and yelling: ‘Oy, vey! Good, fine! Oy, vey!’ He asked him: ‘Shmerke, what’s with you that’s good and fine; why are you yelling?’ Shmerke said: ‘Oy, good brother! Do I have a teyrets! Gold! Genius! Only one thing is wrong: I don’t have the kashe!’[36]

La barzelletta ebraica, quindi, riguarda i teyret alla ricerca di un kashe.

Gran parte di quanto precede può essere riunito in due ulteriori caratteristiche: concisione e battute ritardate. Il principio di concisione è preso in prestito da Ted Cohen. Spiegare una battuta, o prepararla con tutti i presupposti necessari e le informazioni “richieste”, “ingombra” la battuta, la rende “faticosa e perfino artificiosa”.[37] Le barzellette implicano una sorta di concisione, ovvero possono essere brevi o lunghe, ma “what matters is what makes the concision possible. What makes it possible is that so much can go unsaid. And why can it go unsaid? Because the audience already knows it”.[38] Questo “unsaidness” è ciò che rende il discorso ebraico all'interno delle barzellette una sovrapposizione così importante nella cultura ebraica; il discorso talmudico reso popolare coinvolge una cultura del presupposto in cui l'accento è posto su una rigorosa economia del linguaggio. Per dirla in un altro modo: una “barzelletta” è conciso; una “storia” non lo è. Prendendo in considerazione la barzelletta del cocchiere di cui sopra, anche se è una barzelletta relativamente lunga – e in parte una "storia shaggy-dog" – per spiegarla a qualcuno al di fuori della vita culturale ebraica e con poca conoscenza del discorso ebraico richiederebbe tre volte tanto tempo e difficilmente varrebbe la pena di una risata.

Possiamo anche vedere come, nelle sue analisi, Freud prenda sul serio gli elementi del motto di spirito come prova delle realtà psicologiche sottostanti. Le sue conclusioni, però, spesso mancano il bersaglio. Tale è il caso nel passaggio seguente su uno “Schnorrer”, il mendicante abituale ebreo, che Freud raggruppa in barzellette appartenenti ad un proprio sottogenere:

“A Schnorrer on his way up a rich man’s staircase met a fellow-member of his profession, who advised him to go no further. ‘Don’t go up today,’ he said, ‘the Baron is in a bad mood to-day; he’s giving nobody more than one florin.’—‘I’ll go up all the same,’ said the first Schnorrer. ‘Why should I give him a florin? Does he give me anything?’”
This joke employs the technique of absurdity, since it makes the Schnorrer assert that the Baron gives him nothing at the very moment at which he is preparing to beg him for a gift. But the absurdity is only apparent. It is almost true that the rich man gives him nothing, since he is obliged by the Law to give him alms and should, strictly speaking, be grateful to him for giving him an opportunity for beneficence. The ordinary, middle-class view of charity is in conflict here with the religious one.[39]

Il presupposto alla base dell'umorismo di questa barzelletta è che un mendicante pensa istintivamente di avere diritto al denaro di un uomo ricco e che in qualche modo è già suo.[40] Il “conflitto” architettato da Freud tra la “carità borghese” e la “carità religiosa” non ha senso all'interno del mondo discorsivo della barzelletta stessa perché la disparità è in definitiva una questione di prospettiva. Un conflitto in un certo senso presuppone due ricorrenti relativamente uguali; lo scherzo presuppone la validità di uno solo di essi.

Da parte loro, le battute ritardate sono un'altra caratteristica importante del raccontare questo tipo di barzellette. Con battuta finale ritardata mi riferisco a quelle battute che agiscono come una sorta di scatola cinese, incorporando una barzelletta, la cui battuta finale “inganna” uno a pensarci sopra, in un'altra. Olsvanger ha sviluppato una propria terminologia per questo fenomeno: "The significance of the Jewish version lies in the ‘super-climax’ that renders the original conclusion of the story a mere ‘pseudo-climax.’ I regard such ‘pseudo-climaxes’ and ‘super-climaxes’ as typical of the Jewish way of storytelling".[41] Il commento di Freud su una barzelletta che egli classifica come uno “scherzo di spostamento” offre un'intuizione degna di nota relativa all'inganno sotteso dell'atto di ritardo:

Here we are expected to laugh at the impertinence of the demand; but it is rarely that these jokes are not equipped with a façade to mislead the understanding. The truth that lies behind is that the Schnorrer [in a different joke than the one above], who in his thoughts treats the rich man’s money as his own, has actually, according to the sacred ordinances of the Jews, a right to make this confusion. The indignation raised by this joke is of course directed against a Law which is highly oppressive even to pious people.[42]

Per Freud, questa “façade” copre una realtà psicologica seria (in opposizione a quella umoristica). Nonostante tale gravità, è legato alla “battuta finale ritardata”/“pseudo-climax”, tranne che in senso strutturale e culturale, non psicologico.

Le barzellette che coinvolgono tali battute ritardate richiedono una certa ingegnosità costruttiva per poter essere realizzate, come nell'esempio seguente:

A melamed was teaching his students. In the middle of teaching he remembered that he had to do something in the attic. So he told the children that until he came back they had to repeat and memorize such and such a passage and then he would examine them. And should they not understand some word, they were to go outside to ask him. The teacher left and the boys started studying. They understood all the words except for one which they didn’t know: “mimaylo”.[43] So a boy ran out of the kheyder and yelled to the teacher up in the attic: “Rebe, what is the meaning of mimaylo?” The teacher answered: “Higher.” He thought the teacher had not heard and so he should speak louder.[44] So he yelled louder: “What is the meaning of mimaylo?” So the teacher again replied: “Higher.” So the boy yelled quite loudly: “What’s mimaylo mean?” Then the teacher angrily yelled back: “A devil take your dad! [a ruach in dayn tatn arayn!]”[45] So the boy went away. Then, when the teacher came back, he asked: “So, have you done what I told you?”—“Yes.”—“So, Yankele, translate the verse.” Yankele started translating, and when he came to the word mimaylo he said: “A devil take your dad [a ruach in dayn tatn arayn].” The teacher got very mad and gave the boy quite a slap on the cheek. So the boy started to cry. His friend said to him: “How can you speak that way to the teacher? To a teacher do you use the familiar? You have to say: ‘A devil take your father [a ruach in ayer tatn arayn].’”

Il peso discorsivo ebraico attribuito al ribaltamento dei presupposti, alla messa in discussione di ogni proposizione da più angolazioni, alle manifestazioni competitive di politica del rischio calcolato analitico e alla digressione associativa è anche e particolarmente all'opera in una barzelletta come questa. L'acutezza mentale e la destrezza argomentativa tanto apprezzate da questa cultura ebraica si rispecchiano nell'ingegnosità compositiva di molte di queste barzellette con battuta finale ritardata.

Parte dell'efficacia delle barzellette che giocano sia sul contenuto del discorso ebraico che sul suo contesto, come nella scena comune del kheyder (vedi la barzelletta precedente), risiede nella sensibilità verso le strutture dell'autorità. Come ho accennato in precedenza, è stato versato molto inchiostro a discutere dell’umorismo ebraico come risposta culturale alla sofferenza e come espressione di impotenza di fronte ad essa. In una caratterizzazione correlata, lo studioso di letteratura Robert Alter osserva: "Jewish humor typically drains the charge of cosmic significance from suffering by grounding it in a world of homey practical realities".[46] Anche se questo può valere o meno a seconda di come si vede l’argomento psicologico, l'intuizione di base su cui si fonda è l'istinto profondamente radicato di abbassare l'alto, di confondere l'alto e il basso e di infilare spilli satirici nei palloni gonfiati.

Esistono quindi quattro differenze – o potenziali differenze – tra il raccontare barzellette e il raccontare storie che non sono necessariamente condizioni sufficienti individualmente, o in particolari combinazioni, ma costituiscono un insieme di linee guida per la caratterizzazione: il rapporto con il discorso ebraico; la battuta finale come organizzatore concettuale; concisione; e artificio. Ho iniziato facendo una distinzione tra inter- e intraculturale. Le barzellette diventano ancora più interessanti se viste non solo attraverso la lente della differenza, come appena descritto, ma anche attraverso la lente della somiglianza con il raccontar storie. In un'acuta analisi etnografica della narrazione nella società ebraica dell'Europa orientale, Barbara Kirshenblatt-Gimblett delinea uno schema basilare relativo a quando avviene la narrazione di storie e quali forme solitamente assume. Come regola di base: "There are various types of speech events in which stories play an important role and though not defined by the society in terms of storytelling, these events may require that stories be told, may be dominated by narration, will be structured so as to accommodate taletelling, and will influence the form of the narrative performance".[47]

Molti di questi “adattamenti strutturali” alla narrazione possono spesso consentire alle barzellette di prendere il posto delle storie. All'interno di questo quadro, Kirshenblatt-Gimblett delinea una tipologia narrativa di base.[48] Da questa tipologia si può ricavare una dicotomia essenziale tra la storia come glossa e la storia come Ding an sich (una cosa in sé). Il discorso ebraico può essere visto all'opera molto più facilmente in quest'ultima che nella prima.[49] Di conseguenza, queste sono strutturalmente più propense ad accogliere gli scherzi. In tali casi,

Most highly valued, then, is the use of stories as an illustration to conversational or situational topics... But stories in conversation may also be told for their own sake. When this is the case, one option is for the odd tale, especially in the case of jokes and humorous anecdotes, to be embedded in conversation as a topic in and of itself.[50]

Incapsulato in questo resoconto c’è quello che chiamo il principio di sostituzione. Lo scherzo in questi casi può facilmente adattarsi a determinati spazi culturalmente “assegnati” alla narrazione. In effetti, questo è un modo elegante per spiegare le somiglianze tra la narrazione di barzellette e la narrazione di storie, vale a dire che sono trattati abbastanza similmente da poter entrambi verificarsi in alcune delle stesse condizioni pur essendo "compresi" come cose in qualche modo diverse.

La questione ora si rivolge alla letteratura. Ho delineato i tratti di continuità e discontinuità, le somiglianze e le differenze (per quanto nebulose possano essere naturalmente) tra il raccontar storie e raccontar barzellette, che a loro modo rispecchiano quelle tra storie e barzellette. E la letteratura? Come si relaziona la narratività delle barzellette con la narratività letteraria? Questo è un argomento immenso, molto più vasto di quanto lo spazio qui consenta. Tuttavia, un esempio può far luce non solo su come affrontare la questione, ma anche sull'importanza del ruolo particolare che le battute giocavano in un momento formativo nelle lettere yiddish. Come ho cercato di mostrare in questo Capitolo, parte dell’importanza di mantenere un concetto endogeno di barzelletta ebraica (in contrapposizione a categorie esogene correlate come Judenwitz)[51] è la sua potenziale applicazione alla creazione, all'innovazione o all'adattamento di forme di letteratura che siano immediatamente comprensibili e attraenti per il pubblico di lettori yiddish. Sholem Aleichem è un buon banco di prova proprio per la sua acuta manipolazione degli schemi del discorso ebraico in yiddish, soprattutto nel discorso yiddish. La sua forma di “scherzo letterario”, di cui troviamo un esempio esemplare in “Der daytsh”, è un passo sperimentale che gioca su questi schemi e forme.

La struttura della storia stessa è una sorta di monologo esteso. Si apre con la frase "So I am myself, as I told you, a Drazhner, that is, from Drazhne, a little shtetl in Podolia, quite a small shtetl" (Bin ikh aleyn, vi ikh hob aykh gezogt, a drazhner, fun drazhne heyst dos, a kleyn shtetl in podolyer gubernye, gor a kleyn shtetl).[52] In primo luogo, l'inversione sintattica soggetto-verbo indica la continuazione di un discorso o testo precedente di cui noi lettori non siamo a conoscenza. Questo è un importante segnale contestuale enfatizzato dalla frase “as I told you”. Inoltre, la struttura dialogica è contrassegnata dal destinatario espresso “you”, e la struttura orale è contrassegnata dal verbo “told” (gezogt). Il legame narrativo tra storia e narrazione è proprio questa oralità.[53] Come è così comune nel lavoro di Sholem Aleichem, e ciò che lo rende così interessante – anche se non necessariamente unico – è l'approssimazione molto ravvicinata del linguaggio popolare che si trova nelle sue opere. È una versione yiddish di ciò che i formalisti russi chiamavano skaz, “a stylistically individualized inner narrative placed in the mouth of a fictional character and designed to produce the illusion of oral speech.”.[54] Lo scrittore e critico yiddish Meyer Wiener, in uno studio pubblicato per la prima volta nel 1941, esprime un giudizio simile non solo sull'abile stilizzazione del linguaggio popolare da parte di Sholem Aleichem, ma anche sull'umorismo che era quasi grammaticalmente legato ad esso:

« Sholom Aleichem has a special sort of “comic” prose style. All the usual poetic devices are transformed into elements of verbality: the comedy derives not so much from the stories as from the style in which they are recounted—from the various styles of garrulousness of the characters. These are, so to speak, his metaphors, tropes, stylizations, and so forth. »
(Meyer Wiener, “On Sholem Aleichem’s Humor,” trad. Ruth R. Wisse, Prooftexts 6, no. 1 (1986), 46)

In questa particolare costruzione di “Der daytsh”, il carattere orale del “discorso” è fondamentale. Questo perché, sulla base dell'oralità e della nozione di sostituzione discussa in precedenza, il materiale scherzoso diventa un gioco leale, per così dire, e kosher da utilizzare come narrativa letteraria. Insomma, "Der daytsh" è proprio una barzelletta.

Inoltre, il linguaggio utilizzato dal narratore è carico di svolte discorsive ebraiche. La “logica” interna della storia è un elemento, il vocabolario ne è un altro. Così, ad esempio, troviamo infiniti tautologici in diversi casi come anche alcuni elementi del vocabolario discorsivo talmudico che sono stati resi "nativi" in yiddish: davke, mekhteyse, a kayme-lon, meyle e aderabe, per citarne alcuni. Si tratta di strumenti stenografici per trasmettere la qualità “orale” del linguaggio dei personaggi.

Dando uno sguardo più attento alla storia stessa, è strutturata come segue, in breve: dopo un preludio che presenta la mis-en-scène o cornice narrativa, una storia più lunga incorpora due sequenze più brevi shaggy-dog, seguite da una meta-pseudo-battuta finale, una battuta finale e una coda narrativa. In un certo senso, è un esperimento su come trasformare una barzelletta leggermente divertente in una storia in piena regola.

L'idea del pezzo è che questo ebreo di shtetl anonimo sta cercando modi per fare soldi dalla nuova stazione ferroviaria di Drazhne quando spia un uomo ben vestito bisognoso di assistenza. Le cose succedono in modo tale che lui porta a casa con sé il gentiluomo, un uomo d'affari tedesco che parla poco o niente yiddish e lo ospita come suo inquilino per alcuni giorni, facendolo pagare piuttosto pesantemente. Una volta che tutto questo è finito e il tedesco se ne è andato, l'ebreo riceve lettera dopo lettera, pacco dopo pacco, tutte cose che deve pagare in contrassegno, e tutte provenienti dal tedesco, che ringrazia l'ebreo per la sua ospitalità. Ciò continua finché non viene convocato tramite telegramma a Odessa per incontrare un certo mercante di nome Gorgelshteyn. Lo fa a caro prezzo. Dopo una serie di indugi, finalmente incontra il mercante che gli trasmette un'altra nota di ringraziamento da parte del tedesco.

Riassumendo, si tratta a malapena di una storia, tanto meno di una barzelletta, che supporta ulteriormente la precedente tesi sulla sua natura ibrida. Ciò è infine confermato dal modo in cui funziona effettivamente la storia. Inizia con un preludio che descrive lo shtetl Drazhne e le modifiche apportate ad esso dopo la costruzione della stazione ferroviaria (stantsye drazhne). Ciò presenta un collegamento con le storie ferroviarie, come le ayznbangeshikhtes (storie ferroviarie) di Sholem Aleichem, e l'intero genere delle barzellette ferroviarie.[55] Il preludio si conclude descrivendo come il protagonista intende trarre profitto da questa nuova istituzione.

La storia vera e propria inizia con la formula “It happened that...” (treft zikh a mayse). Non è, credo, un caso che in questo idioma mayse significhi anche “storia”, tanto da rappresentare quasi un’autocategorizzazione. In ogni caso, l'incontro tra il narratore e il tedesco ben vestito suona come una commedia etnica, con stilizzazione e presa in giro del linguaggio etnico. Per primo c'è il tedesco, che saluta il cantastorie “Gut mo-yen”; non solo è tedesco, ma è anche un dialetto berlinese. (L'umorismo viene ripreso più tardi quando il narratore chiede a parte "“But what does an Austrian know?" [nor vos farshteyt a kiredaytsh?].) Un tedesco sta cercando di parlare yiddish a un ebreo e un ebreo sta cercando di parlargli tedesco, che diventa un quasi-tedesco yiddishizzato. Poi, quando tornano a casa del narratore, c’è la scena necessaria in cui lui cerca di convincere la moglie ad accettare il piano. Naturalmente, parlando con la moglie, cerca di farle parlare uno yiddish degermanizzato, per paura che il tedesco capisca qualcosa di quello che dicono: “‘Jewess beware,’ I say to her, ‘Don’t speak in our language because the Sir understands German.’” Lo yiddish—“Idene beloy, zog ikh tsu ir. diber nit af unzer tsung, makhmes der oden iz meyvin beloshen ashkenez”[56] — sostituisce il femminile idene al previsto yehudi in una formula standard intesa a indurre qualcuno a enfatizzare la componente ebraica dello yiddish per impedirne l'intelligibilità ai non ebrei, o almeno a chi parla tedesco.

La storia continua con la prima subunità shaggy-dog, raccontando come ogni notte il tedesco li tiene svegli con la stessa serie di assurdi rumori evocativi dal punto di vista sonoro: "He started off snoring, wheezing, panting, then groaning and moaning, snorting and scratching himself, spitting and grumbling, then rising and throwing off all of the bedding, spitting insistently, getting mad, and cursing in his language: ‘To the devil! Sacramento! Thunderrrrr-weatherrrrr!’"[57]

Questa sequenza, una sorta di mini-scherzo onomatopeico interno, è seguita dalla scena del calcolo di tutte le spese sostenute dal tedesco, un monologo molto divertente che mette in mostra la pratica contabile molto creativa del narratore. Questa sequenza si conclude con quanto segue: "‘You really are a clever German,’ I think to myself, ‘but I have more sense [seykhl] than you; what I have in my heel you don’t have in your whole head!’"[58] Questo è esattamente lo scenario che verrà demolito dalla seconda sequenza shaggy-dog e dalla battuta finale della barzelletta, vale a dire che tutti i suoi guadagni dall'ospitare il tedesco sarà perso nel pagare le spese nell'accettare le sue note postali di ringraziamento.

La seconda sezione shaggy-dog è una lunga serie di eventi simili in cui arriva una lettera o un pacco senza l'indicazione del mittente. Ogni volta il narratore paga il prezzo della lettera e la porta a leggere dal farmacista che conosce il tedesco. E ogni volta dice la stessa cosa, un messaggio di ringraziamento e apprezzamento da parte del tedesco. Il narratore continua su questa linea perché spera ogni volta che la lettera possa riguardare qualche affare che non può ignorare. Poi: "Several months passed—there was an end to it, and no more German! Thank God, rid of that misfortune, silenced at last! I was simply overjoyed!...But are you ready for this? So you wait, and there’s still no end."[59] Cioè, sebbene non sia un falso finale, è il gesto di Sholem Aleichem nei confronti della tradizione di dare un falso finale, di ribaltare aspettative e simili. In questo senso Sholem Aleichem sembra consapevole della convenzione dello scherzo e gli conferisce una casta leggermente letteraria.

Alla fine, le cose si concludono con la scena esagerata a Odessa con il mercante Gorgelshteyn che fa aspettare il narratore per giorni prima di presentarsi finalmente a consegnare il suo messaggio di ringraziamento da parte del suo amico tedesco. Qui la “barzelletta” finisce, ma Sholem Aleichem impiega qualche altra frase per concludere la storia, cioè per concludere la cornice narrativa presentata all'inizio. Questa coda presenta una conclusione narrativa all'interno della struttura della storia ma al di fuori di quella della barzelletta. L'esperimento di Sholem Aleichem in questo e in altri lavori, quindi, è quello di guardare e giocare con la questione di come una storia letteraria differisce da una storia orale. Ciò risuona con l'oralità che è una caratteristica così importante nella creazione di una moderna lingua letteraria yiddish. Ciò sottolinea anche l'interesse di questi autori per la duttilità di tutto il potenziale materiale a loro disposizione, tra cui spicca la barzelletta.

Non sono il primo a menzionare che Sholem Aleichem a volte basava le storie su barzellette/scherzi.[60] “Der daytsh” è uno dei suoi primi tentativi. Ted Cohen sottolinea che dover spiegare le circostanze “ingombra” la barzelletta, l'appesantisce. In un certo senso, in “Der daytsh” è la barzelletta che “ingombra” il racconto, e di conseguenza entrambi non hanno successo. Non è né uno scherzo molto bello né una storia particolarmente bella. Altre storie di Sholem Aleichem basate su materiale scherzoso – ad esempio, "Iber a hitl" (On Account of a Hat; 1913) – hanno successo come storie proprio perché le caratteristiche narrative sono quelle che sono state sviluppate come dominanti, rendendo le caratteristiche scherzose meno consapevoli e quindi meno “concise”. Come nota David Roskies a proposito di “Iber a hitl”: "Because the story is made up of so many heterogeneous elements…all in the context of an old joke retold in so lively a fashion that it remains a perennial howler—it defies a sustained reading along any single generic route".[61] In effetti, uno dei motivi per cui Roskies considera questa storia tra le migliori di Sholem Aleichem è la sua complessità narrativa, "a written transcript of several dialogically linked, spoken narratives. At least five such narratives can be heard simultaneously, each with its own diction and direction".[62] È infatti l'umorismo a collegare “Der daytsh” e “Iber a hitl”, ma nel primo un esperimento ibrido non è del tutto riuscito, mentre nel secondo, dopo più di un decennio, l'esperimento di Sholem Aleichem ha progredito, rendendo dominante la sua padronanza dell'arte narrativa, che comportava la prevalenza di un diverso insieme di tratti generici. Detto in altro modo, l'esperimento di “Der daytsh” consiste nel gonfiare uno scherzo in qualcosa che assomiglia a una storia ma senza trasformarlo o trasmutarlo in una storia vera e propria come fa “Iber a hitl”.

In un periodo di notevole fluidità nel concetto di forma e lingua letteraria yiddish, il lavoro di Sholem Aleichem offre uno sguardo allettante sul processo della loro creazione. Parlando ancora dell'oralità di Sholem Aleichem, Wiener ha osservato che "Sholem Aleichem’s works, even the smallest of his master-stories, are therefore a sort of wordplay, depicting an illusory, playacting, world. This is a new genre in world literature. On the surface it appears to be prose, but in essence, it resembles high comedy".[63] Anche se non sto suggerendo che "Der daytsh" rappresenti un "nuovo genere nella letteratura mondiale", sembra chiaro che l'esperimento di Sholem Aleichem con un nuovo tipo di “scherzo letterario” ci dice ancora di più su quanto profondamente l’umorismo fosse radicato nei sistemi discorsivi e letterari intrecciati della cultura yiddish, nonché sulla natura complicata di quell'umorismo stesso. David Neal Miller ha dimostrato che Sholem Aleichem era molto sensibile alle “severe critiche” rivolte al suo lavoro alla fine degli anni ottanta dell'Ottocento, con l'accusa che fosse troppo spensierato – in una parola, troppo divertente – e quindi non sufficientemente sobrio per soddisfare le gravi condizioni e sfide affrontate dai suoi lettori in quel momento.[64] "Rabinovitsh’s dual predilections [namely for humor and for socially responsible realism] could not possibly coexist without creating serious structural problems in his narratives", afferma Miller, e poi prosegue offrendo una soluzione interpretativa a questo enigma, basata su criteri autoriali e personae narrative.[65] A ciò vorrei aggiungere che, soprattutto data l'ineluttabilità dell'umorismo per Sholem Aleichem,[66] egli non era vincolato da una scelta dicotomica tra opzioni letterarie, ma sperimentava forme e linguaggio che, almeno in una direzione, sembrano aver portato a questa forma di scherzo letterario.

Una delle osservazioni intraculturali chiave sulle barzellette è che esse possono essere inserite negli spazi culturali assegnati al racontar storie (il principio di sostituzione), ma non necessariamente il contrario. Tuttavia, il loro status iconico, sicuramente da quando lo studio di Freud è apparso per la prima volta nel 1905, ha generato notevole interesse e ansia. Il mio obiettivo è stato quello di trovare un modo per spiegare la barzelletta ebraica come un prodotto culturale, strutturalmente correlato alla storia, il cui contesto di articolazione – il raccontare barzellette – imita il raccontarie storie, ma la cui distinzione principale risiede nella sua relazione con il discorso ebraico. Questa costellazione di caratteristiche, che collegano barzellette e storie come prodotti culturali complicati, ci consente un apprezzamento più ricco della raffinatezza della creatività letteraria yiddish.

Note[modifica]

Martin Buber
Martin Buber
Per approfondire, vedi Serie delle interpretazioni, Serie dei sentimenti e Serie letteratura moderna.
  1. Immanuel Olsvanger, Röyte Pomerantsen, or How to Laugh in Yiddish (New York, 1978), 3. Questa barzelletta viene anche citata e discussa, per esempio, in Irving Howe, “The Nature of Jewish Laughter,” American Mercury 72 (1951): 211, ristampata in Jewish Wry: Essays in Jewish Humor, cur. Sarah Blacher Cohen (Detroit, Mich., 1987), 16–17; Avner Ziv, “Psycho-Social Aspects of Jewish Humor in Israel and in the Diaspora,” in Jewish Humor, cur. Avner Ziv (New Brunswick, N.J., 1998), 52; Dan Ben-Amos, “The ‘Myth’ of Jewish Humor,” Western Folklore 32, no. 2 (1973): 113; nonché in Elliott Oring, Jokes and Their Relations (Lexington, Ky., 1992), 112–13.
  2. Oring la chiama “metahumor” (Oring, Jokes and Their Relations, 113).
  3. Olsvanger, Röyte Pomerantsen, xvii.
  4. Ted Cohen, Jokes: Philosophical Thoughts on Joking Matters (Chicago, 1999), 3-4.
  5. Ibid., 8.
  6. Questa osservazione è penetrata anche in alcune discussioni divulgative sull'“essenza” della lingua e della cultura yiddish. Michael Wex, ad esempio, nel suo libro bestseller Born to Kvetch, osserva: "Talmudic ways of speech and thought are not so much the forerunners of Yiddish as its matrix, the womb and long-term gestational home of a language that was waiting to happen, a language that couldn’t help but be born. From a linguistic point of view, the Talmud is nothing less than Yiddish in utero." (Michael Wex, Born to Kvetch: Yiddish Language and Culture in All of Its Moods [New York, 2005], 15).
  7. In un brano significativo di Y. L. Peretz, Bilder fun a provints-rayze (1891), un resoconto quasi romanzato del tour etnografico fatto da Peretz delle comunità ebraiche polacche, un seguace del Vorke Rebbe racconta una storia digressiva sulla fama del suo rebbe: "His fame was apparently so great that even non-Jews come to consult him, as did German Jews and Litvaks (Lithuanian Jews), whose antipathy toward the Polish Jews (and vice versa) is the stuff of Jewish cultural legend. There is even a story about an interpretation of the Tosafot: a Litvak has to show how sharp his mind is, so this Litvak asks about the Tosafot on something in Tractate Nedarim. The rebbe, may his memory be a blessing, intentionally interpreted it in the opposite way. ‘How is that possible, rebbe?!’ the Litvak said, jumping up, ‘A Tosafot in Tractate Rosh Hashanah on the same topic says precisely the opposite of your words?!’ So, what do you think—it was a miracle from heaven that our compatriots [i.e. Hasidim] didn’t beat him up on the spot.” (Yitskhok Leybush Peretz, Rayze-bilder [Moscow, 1947], 34). Non solo questo risuona con il tropo culturale profondamente radicato di Chassidim contro Mitnagdim (un tropo che Peretz ha sfruttato con grande effetto in alcune delle sue opere più famose), ma mostra anche che, al di fuori delle mura della yeshivah o della casa di studio, il dibattito colto era una vera e propria competizione, in questo caso con posta in gioco potenzialmente fisica.
  8. Questa importante idea viene solitamente data per scontata nella ricerca accademica. Si veda specialmente, Max Weinreich, History of the Yiddish Language, trad. Shlomo Noble (Chicago, 1980), 175-246, e Benjamin Harshav, The Meaning of Yiddish (Berkeley, 1990), 89-116.
  9. Kal-vekhoymer e gezeyre-shove sono i nomi di due operazioni logiche nell'argomentazione rabbinica, rispettivamente un'inferenza a fortiori e un argomento analogico.
  10. Olsvanger, Röyte Pomerantsen, 100-101. Questo testo è citato e discusso ulteriormente in Jordan Finkin, A Rhetorical Conversation: Jewish Discourse and Modern Yiddish Literature (University Park, Pa., 2010).
  11. Per l’importanza dei cocchieri e di altre figure di basso status nella diffusione di diversi tipi di conoscenza (spesso tecnica), cfr. Barbara Kirshenblatt-Gimblett, “The Concept and Variety of Narrative Performance in East European Jewish Culture,” in Explorations in the Ethnography of Speaking, cur. Richard Bauman e Joel Sherzer, 2nd ed. (Cambridge, 1989), 293–304.
  12. Cohen, Jokes, 60.
  13. Howe, “The Nature of Jewish Laughter,” 19.
  14. Ad esempio, il folklorista ed editore Alter Druyanov, nella sua raccolta di barzellette ebraiche in ebraico, cerca di sostenere l'essenza "ebraica" dell'umorismo popolare degli ebrei. Cfr. il suo Sefer ha-bedichah ve-ha-chidud, vol. 1 (Tel Aviv, 1935), 8–11. Individua l'essenzialismo linguistico (cioè lo yiddish) con un certo disprezzo e sostiene la legittimità degli adattamenti ebraici di contenuti umoristici ebraici. Per un'accurata discussione dei dibattiti ideologici nei circoli sionisti riguardanti le versioni ebraiche non solo delle barzellette ma anche del materiale folkloristico in generale, si veda Adam Rubin, “Hebrew Folklore and the Problem of Exile,” Modern Judaism 25, no. 1 (2005): 62–83.
  15. Ben-Amos, “The ‘Myth’ of Jewish Humor,” 123.
  16. Ibid., 1230.
  17. Oring, Jokes and Their Relations, 114.
  18. Ben-Amos, “The ‘Myth’ of Jewish Humor”, 120. Per inciso, sono stati fatti alcuni tentativi interessanti per utilizzare proprio questi dati empirici ed avanzare affermazioni su questo tipo di umorismo ebraico in un contesto storico socio-psicologico. Cfr., in particolare, Samuel Juni e Bernard Katz, “Identification with Aggressions vs. Turning Against the Self: An Empirical Study of Turn-of-the-Century European Jewish Humor”, Current Psychology 14, n. 4 (1996): 313–28. Come ho detto, però, il mio obiettivo è formale e culturale, non psicologico, e quindi non sono nella posizione di valutare queste affermazioni.
  19. Per un importante studio sul fenomeno Judenwitz (barzelletta ebraica), cfr. Jefferson S. Chase, Inciting Laughter: The Development of “Jewish Humor” in 19th-Century German Culture (Berlino, 2000). Si veda anche la spiegazione di Sander Gilman "of the missing link of the Jewish joke and its role in defining Jewish identity in the 1890s" nel pensiero di Freud nel suo "Jewish Jokes: Sigmund Freud and the Hidden Language of the Jews", Psychoanalysis and Contemporary Thought 7 (1984): 604. Questa identità è specificamente ebraico-tedesca, e Gilman entra nei dettagli sulla preoccupazione di Freud per le barzellette che evidenziano “the juxtaposition of ‘bad’ German, Mauscheln, and ‘good’ German, the German in which Freud embeds the joke” (605). Questi argomenti riguardanti la “hidden language of the Jews” sono applicabili, però, solo in una società in cui gli ebrei funzionavano nella lingua della maggioranza (qui, il tedesco); hanno meno presa in una comunità che parla yiddish o per i testi yiddish.
  20. Oring, Jokes and Their Relations, 117-119.
  21. Ben-Amos, “The ‘Myth’ of Jewish Humor,” 115.
  22. Ciò non significa che le battute non riflettano o non trattino realtà psicologiche. Piuttosto, le affermazioni su come queste battute manifestino un profilo psicologico ebraico collettivo sottostante (definito “psicopatologia” da Ben-Amos) sono estremamente difficili da dimostrare.
  23. Tentativi di questo tipo vengono tuttavia fatti spesso. Cfr., e.g., Avner Ziv, “Introduction” in Ziv, Jewish Humor, 12, e Oring, Jokes and Their Relations, 114-115.
  24. Cohen, Jokes, 8. (EN) 《Paddy Chayefsky’s play “The Tenth Man” confirms the vivacity of this joke form. The principals of the play, a group of elderly Jews, are discussing the possible whereabouts of one of their granddaughters, an 18-year-old girl who, they are convinced, is possessed by a dybbuk that they are planning to exorcise. One of them, Alper, designated at this point as “the Talmudic Scholar,” reasons as follows: “If I call the girl’s home, there are two possibilities. Either she is home or she is not home. If she is home, why call? If she is not home, then [there] are two possibilities. Either her father has already called the police, or he has not called the police. If he has already called the police, then we are wasting a telephone call. If he has not called the police, he will call them. If he calls the police, then there are two possibilities. Either they will take the matter seriously or they will not. If they don’t take the matter seriously, why bother calling them? If they take the matter seriously, they will rush down here to find out what we already know, so what gain will have been made? Nothing. Have I reasoned well, Zitorsky?” (Paddy Chayefsky, The Collected Works of Paddy Chayefsky: The Stage Plays [New York, 1995], 146). In this case, the passage does not need an explicit punch line as its humor is produced both in its contextual application and, I would argue, in the fact that it already sounds like a well-worn joke formula.》
  25. Questa battuta si riferisce probabilmente alla coscrizione obbligatoria durante la guerra russo-giapponese e alla sua grande probabilità di morte. Senza dubbio sullo sfondo di tali battute sulla leva ebraica si trova la risonanza culturale e l’aldilà, anche se non necessariamente le realtà storiche, dell’istituzione zarista del cantonismo degli inizi del XIX secolo, che comportò una lunga coscrizione nell'esercito di molti ragazzi ebrei, a partire dall’età di 12 (e in alcuni casi anche più giovane). Per trattamenti recenti di questo fenomeno, cfr. Yohanan Petrovsky-Shtern, Jews in the Russian Army, 1827–1917: Drafted into Modernity (New York, 2009); per le sue ramificazioni letterarie, cfr. Olga Litvak, Conscription and the Search for Modern Russian Jewry (Bloomington, Ind., 2006).
  26. Olsvanger, Röyte Pomerantsen, 60-61; per l'intera barzelletta, cfr. ibid., 59-61.
  27. (EN) At the beginning of the presentation of binary possibilities in the longer version of the joke, we encounter the Yiddish word mimonefsekh. By way of digression, this phrase in Yiddish—also variously pronounced [mi]mónefshekh or [mi]móneshekh—can mean “either or; one or the other; that being the case.” The expression (literally, “what is your desire?”) is sometimes used in the Talmud to give two possible alternative arguments. As Jewish Jokes, Yiddish Storytelling, and Sholem Aleichem: A Discursive Approach 103 part of Jewish discursive nativization into Yiddish, the phrase appropriates a notational device that signals, in this case, the existence of two alternative positions. An expression whose literal meaning in the source language is “what’s your desire?” develops the idiomatic meaning of “either/or” in the target language. The Yiddish lexicographer Yitskhok Niborski cites a pair of examples from Sholem Aleichem that shows the two primary semantic trajectories in Yiddish. First: “mimonefshekh, yo—yo, neyn—neyn” (one or the other, yes—yes, no—no). Second: “mimonefshekh, ir hot gevart azoy fil, vet ir vartn nokh a bisl” (that being the case, since you have waited so long, you can wait a little longer). (Yitskhok Niborski, Verterbukh fun loshn-koydesh-shtamike verter in yidish [Paris, 1999], 174.) In Y. L. Peretz’s famous story “Mekubolim” (1894), we are introduced to the last two members of the Lashtshev yeshivah, its leader and his student. “And the two of them also often suffered hunger. From eating too little comes too little sleep, and from whole nights without sleeping or eating—a desire for the Kabbalah! In either case—should one have to be awake for whole nights and to be hungry for whole days—one should at least get some use out of it” (monefshekh—darf men oyf zayn gantse nekht un hungern gantse teg—loz men khotsh derfun a nutsn hobn). (Y. L. Peretz, Ale verk fun Y. L. Peretz, vol. 5: Khsidish [New York, 1930], 109. Interestingly, this phrase is not used in Peretz’s Hebrew version [1891] of the story.) Peretz’s conscious phrasing of the situation—using a common word but from the study language—puts the sting in his criticism. Take your pick of abject poverties, he says, it is all of a piece for Kabbalah study.
  28. Sholem Aleichem, Ale verk fun sholem aleykhem, vol. 3, sez. 4 (New York, 1942), 24.
  29. Sigmund Freud, Jokes and Their Relation to the Unconscious, trad. James Strachey (New York, 1960), 72. Questi passaggi straordinariamente simili di Sholem Aleichem e Freud, entrambi ritrovati in opere pubblicate a quattro anni di distanza, suggeriscono la possibilità di un testo di origine condiviso, che potrebbe rivelarsi molto prezioso, ma che non sono ancora riuscito a trovare.
  30. Cohen, Jokes, 9, 63.
  31. Daniel Boyarin, “The Talmud as a Fat Rabbi: A Novel Approach” Text and Talk 28, no. 5 (2008): 611.
  32. Ciò non intende incoraggiare un'associazione automatica delle strutture della parodia ebraica e dell'umorismo. La parodia può essere divertente. Il punto, tuttavia, è che l'umorismo del discorso ebraico non è limitato o confinato ai suoi aspetti parodici. David Roskies accenna in questa direzione quando si riferisce a un “sistema di yiddishkayt” più ampio come un particolare “sistema di significato” di cui la parodia non è che una parte visibile. (David G. Roskies, “Major Trends in Yiddish Parody” The Jewish Quarterly Review 94 [2004]: 117). Il discorso ebraico in quanto tale, tuttavia, è molto più strettamente correlato a questo livello sistematico di spazio semantico che alla parodia (come sostiene Roskies altrove in quell'articolo).
  33. In vena relativa, Boyarin sostiene: “the Talmud is most abundantly read... in the context of the late-ancient genres... characterized by their indecorous mixing of genres both ‘high’ and ‘low’ ” (“The Talmud as a Fat Rabbi,” 609).
  34. Questo passaggio è ambientato all'interno di un testo molto più ampio, che è un monologo composto interamente da discorsi “riportati”. Questa giocosità è implicata dal fatto che il passaggio è incorporato in una narrazione strutturata oralmente.
  35. Letteralmente: “Io amo, tu ami, egli ama, una mamma, un papà, un bimbo" — notare la consonanza yiddish. Olsvanger, Röyte Pomerantsen, 150.
  36. Cohen, Jokes, 25.
  37. Ibidem. È vero che la conoscenza condivisa è una caratteristica delle barzellette così come delle storie. Il punto della concisione in una battuta è che serve all'umorismo. Se le storie fossero concise allo stesso modo, rimarrebbe poco spazio per gli scopi estetici, artistici, didattici, polemici, politici o altri scopi della narrativa non scherzosa.
  38. Freud, Jokes and Their Relation to the Unconscious, 135.
  39. Questo è anche l’umorismo al centro del racconto di Y. L. Peretz “Hakhnoses kale” (1894). Siegbert Prawer, in un elegante saggio sull'umorismo ebraico, analizza una serie di barzellette sullo “Schnorrer”, la battuta finale di una delle quali decodifica come segue: "The beggar’s last reply, when literally translated from the original Judaeo-German, reads: ‘For my health nothing is to me too expensive.’ To me. The ethical dative shows that the Schnorrer is treating the rich man’s money as his own; the point of the joke being that in a way the money is his own" (Siegbert Prawer, “The Jew and the General: A Study in Diasporean Humour,” The Cambridge Journal 3 [Oct. 1949–Sept. 1950]: 352).
  40. Olsvanger, Röyte Pomerantsen, xi. Si noti ancora una volta il grado in cui Olsvanger ha incluso la barzelletta nella categoria di “storia”.
  41. Freud, Jokes and Their Relation to the Unconscious, 134-35.
  42. L'umorismo è legato al fatto che il significato letterale di questa parola è "da su" o "dall'alto".
  43. La parola yiddish—hecher—può significare sia più alto fisicamente che più forte acusticamente.
  44. Per la formulazione di questa maledizione, cfr. James A. Matisoff, Blessings, Curses, Hopes, and Fears: Psycho-Ostensive Expressions in Yiddish (Stanford, 2000), 76-77.
  45. Olsvanger, Röyte Pomerantsen, 8.
  46. Robert Alter, “Jewish Humor and the Domestication of Myth” in Cohen, Jewish Wry, 26.
  47. Kirshenblatt-Gimblett, “Concept and Variety of Narrative Performance,” 285.
  48. (EN) 《In fine the typology is as follows: “story as gloss,” to exemplify a point as a kind of evidence; “single story as topic,” which functions either to maintain conversational flow or to effect topical shift; “storytelling round,” which is the realm of the competitive element of Jewish discourse; and “storytelling solo,” which is the purview of storytelling virtuosi.》 Kirshenblatt-Gimblett, “Concept and Variety of Narrative Performance,” 287-289.
  49. (EN) 《In story-dominated events, there is a preoccupation with narratives as things in themselves... There is a tendency for story-dominated events to be organized like beads on a string. Free association, one story triggering the recall of another, is an important organizing feature of these events (ibid., 291). Clearly conversational logic is at work, employing a Jewish discursive strategy. Having evoked Jewish discourse, what of the competitiveness and focus on one-upmanship mentioned earlier as components of this discourse? Of two operative principles outlined by Kirshenblatt-Gimblett in storytelling events, the second is particularly instructive: “There is sometimes a building of intensity to climactic points, as competitive narrators vie with each other and try to top each other’s jokes or as the teller of saints’ legends and their audience become caught up in the spirit of the tales they are narrating” (ibid.)
  50. Ibid., 295. Da notare anche l'implicita distinzione generica presente nella frase “jokes and humorous anecdotes” (mio corsivo).
  51. Judenwitz (battuta ebraica) si riferisce all'isolamento tedesco dell'umorismo, e della barzelletta in particolare, nel diciannovesimo secolo come componente essenziale (e in gran parte negativa) del carattere ebraico, e quindi oggetto di dibattito pubblico e critica.
  52. Sholem Aleichem, Ale verk fun sholem aleykhem, vol. 16. (New York, 1920), 133.
  53. Va ricordata l’oralità strategica del “Dos tepl” di Sholem Aleichem. Non va dimenticata anche l’analogia con lo scherzo e il racconto di barzellette. Come ha osservato Kurt Schlesinger: “Jewish humour as an oral tradition handed down over generations of joke telling is a form of secular communal ritual which both binds and characterizes the community, and acts adaptively for its survival.” Kurt Schlesinger, “Jewish Humour as Jewish Identity,” International Review of Psycho-Analysis 6 (1979): 319.
  54. Victor Erlich, “A Note on the Monologue as a Literary Form: Sholem Aleichem’s ‘Monologn’—A Test Case” in For Max Weinreich on His Seventieth Birthday: Studies in Jewish Languages, Literature, and Society (The Hague, 1964), 45.
  55. Cfr., e.g., Olsvanger, Röyte Pomerantsen, 133–37. Per l'importanza dei viaggi in treno in generale nella letteratura yiddish, cfr. Leah Garrett, “Trains and Train Travel in Modern Yiddish Literature” Jewish Social Studies n.s. 7, no. 2 (Winter 2001): 67–88. Per esami contemporanei delle ayznbangeshikhtes di Sholem Aleichem, si vedano Dan Miron, The Image of the Shtetl and Other Studies of Modern Jewish Literary Imagination (Syracuse, N.Y., 2000); Sidra DeKoven Ezrahi, Booking Passage: Exile and Homecoming in the Modern Jewish Imagination (Berkeley, 2000), 109–15; Todd Samuel Presner, Mobile Modernity: Germans, Jews, Trains (New York, 2007), 106–13; infine, David G. Roskies, A Bridge of Longing: The Lost Art of Yiddish Storytelling (Cambridge, Mass., 1996), 176–88.
  56. Sholem Aleichem, Ale verk [1920], 136.
  57. Ibid., 139: "[F]rier gekhrapet gefayft un gesapet un gekhorkhelt, un nokhdem gekrekhtst un geoyket, geforshket un gekratst zikh un geshpign un gevortshet, un ufgekhapt zikh un aropgevorfn dem gantsn betgevant un geshpign klek un gebeyzert zikh un gesholtn af zayn loshn: ‘tsum tayvl! sakramento! donnerrrrr-veterrrr!’" L'onomatopea grezza della lingua qui era chiaramente progettata per essere ridicola.
  58. Ibid., 140.
  59. Ibid., 145.
  60. Cfr. l'analisi della storia “On Account of a Hat” in David G. Roskies, “Inside Sholem Shachnah’s Hat,” Prooftexts 21, no. 1 (2001): 39-56: “As in the best of Sholem Aleichem’s oeuvre, ‘On Account of a Hat’ is based on a well-known joke” (44).
  61. Ibid., 46.
  62. Ibid.
  63. Wiener, “On Sholem Aleichem’s Humor,” 49.
  64. David Neal Miller, “‘Don’t Force Me to Tell You the Ending’: Closure in the Short Fiction of Sh. Rabinovitsh (Sholem Aleykhem),” Neophilologus 66 (1982): 107.
  65. Ibid., 108.
  66. Miller cita una lettera del 1889 in cui Sholem Aleichem fa quello che Miller descrive come un "rifiuto piuttosto curioso dell'umorismo": "Despite my powerful leanings toward upbeat humor, in the present social situation I simply do not have the courage to clown around" (ibid., 107). È “curioso” proprio perché la scrittura umoristica di Sholem Aleichem è continuata senza sosta.