Emozione e immaginazione/Differente conoscenza
Un tipo differente di conoscenza
[modifica | modifica sorgente]Agli inizi del Seicento, un nuovo modo di conoscere e comprendere noi stessi e il mondo in cui viviamo apparve in Occidente e rapidamente salì alla ribalta. Così efficace e potente fu questo nuovo approccio alla conoscenza che in un tempo relativamente breve – solo pochi secoli – ha raggiunto il vertice praticamente in tutti i campi dell'attività umana, e successivamente è diventato, come è oggi, il metro con cui misuriamo nozioni così difficili e fondamentali come "verità" e "realtà". Alcuni secoli possono non sembrare pochi, ma se confrontiamo i cambiamenti avvenuti nell'esistenza umana da quando questo nuovo modo di conoscere è emerso per la prima volta, ai millenni che l'hanno preceduto, non esagereremo dicendo che è avvenuta una vera e propria rivoluzione. Come più di uno storico ha sottolineato, la vita umana, e anche quella del pianeta stesso, è cambiata più nei quattro secoli trascorsi dall'arrivo di questo nuovo modo di conoscere, che nelle lunghe epoche che l'hanno preceduta. Quello che accadde nei primi anni del Seicento non fu uno sviluppo graduale, un'aggiunta a quanto era avvenuto prima, ma una rottura totale con il passato e un radicale nuovo inizio.
Certo, le radici di questo nuovo modo di conoscere potrebbero essere fatte risalire a tempi più remoti. Le sue origini si possono riscontrare nella filosofia greca, in Platone e in Aristotele. Ma vanno ancora più indietro e si possono trovare in pensatori molto precedenti, come Talete, Anassimandro, Pitagora e gli altri filosofi presocratici che apparvero lungo il Mediterraneo orientale nei secoli intorno al 500 p.e.v.. Questo fu il periodo che il filosofo esistenziale tedesco Karl Jaspers ha battezzato "Era Assiale". Jaspers attribuì un'importanza unica a questo periodo perché sostenne che fu durante esso che "furono poste le basi spirituali dell'umanità", uno sviluppo che ebbe luogo in tutto il mondo.[1] Durante l'Era Assiale di Jaspers, Confucio e Lao-Tse apparvero in Cina; l'India vide la creazione delle Upaniṣad e l'apparizione del Buddha; Zoroastro emerse in Persia e gettò le basi dello zoroastrismo, che vedeva il mondo come un campo di battaglia tra le forze cosmiche del bene e del male; e in Terra di Israele sorsero i profeti ebrei, che predicavano un nuovo rapporto tra Dio e la Sua creazione.
Fu durante questo periodo che in Grecia apparve un nuovo tipo di individuo, mosso da nuovi interessi e sensibilità. Mentre in altre parti del globo l'Era Assiale vide la comparsa di potenti sentimenti e intuizioni religiose ed etiche che avrebbero informato intere civiltà, in Grecia e in Asia Minore – quella parte della moderna Turchia che si affaccia sul Mar Mediterraneo – accadde qualcosa di diverso. Qui ebbe luogo quello che possiamo chiamare un passaggio da una prospettiva "mitica" a una "mentale". Apparve per la prima volta un nuovo tipo di personaggio, il "pensatore", quello che il filosofo Edmund Husserl chiamò "uomo teorico". Questo nuovo tipo di personaggio aveva una strana curiosità impersonale per il mondo che lo circondava. Come disse il critico letterario George Steiner, a differenza della maggior parte delle persone intorno a lui, si ritrovò "enigmaticamente interessato a qualcosa di per se stesso", e non per le ragioni pratiche che fino ad allora avevano motivato la maggior parte delle ricerche umane.[2] Che questo sia ancora il caso oggi non è troppo difficile da confermare.
Per una persona del genere, i vecchi miti sulla creazione del mondo che si trovavano in Omero ed Esiodo non erano più soddisfacenti. Non era interessata a una narrazione che spiegasse come era nato il mondo o l'origine soprannaturale di altri elementi in tale mondo. Ciò che Talete di Mileto o il suo allievo Anassimandro e altri pensatori molto simili a loro volevano sapere era di cosa era fatto il mondo. Secondo il filosofo John Shand, questi pensatori stavano cercando "the original and controlling stuff and first principle of the universe, the nature of which provides an explanation of the existing universe, and its origin, as a whole".[3] Per Talete ciò era l'acqua. Per Anassimene, un giovane contemporaneo di Anassimandro, era l'aria. I saggi successivi avevano altre idee. Eraclito – chiamato il "filosofo oscuro" a causa dei suoi detti gnomici – credeva che la "materia originale e di controllo" fosse il fuoco. Altri pensatori avevano ipotesi simili.
Potremmo non essere colpiti da queste risposte a quelli che potrebbero sembrarci tentativi infantili di "spiegare" l'universo, anche se Talete, Anassimene e gli altri avevano argomenti sostanziali a sostegno delle loro teorie. Ma il loro impeto continua ancor oggi. Lo vediamo quando i media di tutto il mondo si eccitano alla scoperta di un'altra particella subatomica ancora più elementare dell'ultima, che presumibilmente ci permetterà di risolvere finalmente il "mistero" dell'esistenza — fino a quando, cioè, la prossima particella non si presenti.
Più vicino al Seicento, possiamo dire che il nuovo modo di conoscere di cui parlo sorse dal rinnovato interesse per la Natura come oggetto di studio e contemplazione, che presagiva l'ascesa del Gotico nel XII secolo. Intorno all'862 e.v., John Scotus Eriugena, un monaco e teologo irlandese, scrisse un'opera chiamata De divisione Naturae (La divisione della natura). Eriugena – il nome significa "nato in Irlanda" – aveva precedentemente tradotto dal greco al latino un'opera di un anonimo monaco siro che molto probabilmente visse intorno al 500 e.v.[4] Expositiones super Ierarchiam celestem S. Dionysii (La Gerarchia Celeste) unì la filosofia neoplatonica che era fiorita secoli prima ad Alessandria d'Egitto con la nascente teologia del cristianesimo primitivo, per creare la grande panoplia di esseri spirituali – Serafini e Cherubini e giù fino agli angeli – che abitano l'universo cristiano. Eriugena assorbì questa influenza neoplatonica e attraverso di essa iniziò a vedere la Natura sotto una luce diversa, cosa che traspare nella sua opera. Piuttosto che relegare il mondo naturale ai pagani irredenti o, peggio, al diavolo, come accadeva da secoli, vi riconobbe la presenza del divino. Parlò delle "teofanie manifeste" della natura — la presenza di Dio al suo interno.
Per gli studiosi successivi della Scuola di Chartres nel XII secolo, queste immagini erano più riconoscibili in quella che divenne nota come "geometria sacra". Ciò è stato esemplificato in formule come la "sezione aurea", o phi, che trovavano incarnate in forme diverse in tutta la natura e che furono utilizzate nella costruzione di molte cattedrali gotiche. Dal Timeo – una delle poche opere di Platone a loro disposizione – questi studiosi appresero che Dio era un geometra e un matematico. Come era stato per Platone – e ancor di più per il suo predecessore Pitagora – il numero divenne un modo per afferrare il divino. Le immagini del Creatore che usa un compasso apparvero sulle cattedrali, con lo stesso Pitagora immortalato sul portale occidentale di uno dei più grandi esempi di geometria sacra apparsi in qualsiasi epoca, la Cattedrale di Chartres.
Deve essere ormai chiaro al lettore che il "nuovo modo di conoscere" di cui scrivo era quello che siamo venuti a conoscere come scienza. Come i primi saggi dell'antica Grecia, agli inizi del Seicento, cominciarono ad apparire individui curiosi del mondo in un modo sorprendentemente e inquietantemente diverso. Come i loro predecessori greci, volevano sapere cosa faceva funzionare il mondo – frase qui anacronistica che si sarebbe presto rivelata alquanto appropriata. Due secoli prima, il Rinascimento aveva dato a molti spiriti audaci la convinzione che l'uomo fosse qualcosa di più della creatura umile e peccaminosa del Medioevo, sempre in pericolo di allontanarsi dalla via della redenzione e di trovare la sua strada attraverso le tentazioni di Satana. La riscoperta delle opere di saggi come Platone e ancor più del presunto fondatore di ogni cultura, il celebre Ermete Trismegisto, diede agli spiriti creativi del Rinascimento un rinnovato senso del potenziale umano. L'uomo poteva scegliere la propria strada; non era più trattenuto dai limiti e dai vincoli del dogma e della paura. Era una forza creativa. C'era la sensazione che l'uomo, a modo suo, fosse davvero una specie di dio. Era certamente più dotato di vita e in una posizione strategica rispetto agli angeli, credenza che trovò vivida espressione in un'opera rappresentativa dell'epoca, la Oratio de hominis dignitate (1486) di Pico della Mirandola.
Questa stimolante fiducia e incentivo ora informava una nuova generazione di geni. Come i magi del Rinascimento, credevano nella capacità dell'umanità di comprendere il proprio mondo, di liberarsi dalle catene dell'ignoranza e della paura. E come gli studiosi di Chartres, credevano che il numero fosse essenziale per questo sforzo. Il numero, come Pitagora aveva detto tempo addietro, era davvero alla base di tutto. Lo era. Ma per questi nuovi uomini, non era nel modo in cui Pitagora aveva creduto.
Per Pitagora i numeri avevano una realtà metafisica; erano simboli o espressioni di certe qualità, di certe caratteristiche fondamentali o essenze che fornivano il modello e la forma della realtà. C'era un qualità di ciò che chiameremmo "dualità" proprio come c'era una qualità di "treità". Pitagora e i suoi seguaci riassunsero questa intuizione in una figura che chiamarono tetraktys, che comprendeva l'intero universo in una piramide formata da dieci punti. In questo modo dimostravano come, attraverso certi stadi, il mondo fisico emergeva dall'Uno indifferenziato. Una variante successiva di questa credenza può essere trovata nella Cabala, la tradizione esoterica dell'ebraismo, come anche nel neoplatonismo.
Il numero fu inteso per qualche tempo in quello che potremmo chiamare modo mistico, ma con il sorgere del nuovo modo di conoscere, ciò cambiò. Dalle qualità abitative e dagli archetipi della realtà, il numero venne visto principalmente come un agente di misura. Tramite una strana, breve, ma efficace collaborazione, la Chiesa e una scienza nascente, presto nemiche giurate, lavorarono temporaneamente insieme per svuotare il mondo del suo carattere qualitativo, di ciò che il filosofo del linguaggio Owen Barfield chiama le sue "insides". Ciò che restava era il suo "outside", la sua forma fisica, la sua superficie che, si capiva sempre più, era soggetta a quelle che cominciavano a essere chiamate "le leggi della natura". Queste leggi erano di carattere puramente fisico, il tira e molla di causa ed effetto meccanici. A questo punto l'idea di scoprire cosa faceva "funzionare" il mondo, divenne qualcosa di più di una metafora. Si constatò sempre più spesso che la Creazione era solo la forma più grandiosa di una varietà di dispositivi meccanici – macchine – che avevano recentemente catturato l'immaginazione occidentale. Da un mondo di qualità emergeva un mondo di quantità. E così vigorosa fu la ricerca di questo nuovo approccio al numero che ciò che presto entrò in vigore fu quello che il filosofo tradizionalista René Guénon chiamò il "Regno della Quantità".
Tale è stato il cambiamento sismico nel rapporto dell'uomo occidentale con il mondo – il cambiamento è avvenuto più tardi in altre parti del pianeta, ma ha ormai circondato il globo – che Jaspers sostiene che sia stato un evento "incisivo" nella storia umana come il suo "Era Assiale".[5] È probabile che il suo effetto sia stato ancora più profondo, almeno a livello delle nostre vite materiali. Ci vuole un minimo sforzo di immaginazione per riconoscere che il modo in cui la persona media occidentale vive oggi sarebbe stato inconcepibile per chiunque fosse vissuto prima della "rivoluzione scientifica". Abbiamo a portata di mano una tecnologia che i grandi re di un tempo precedente non potevano nemmeno sognare, per non parlare di possedere. Dagli smartphone agli anestetici, dalle automobili alle sonde spaziali interstellari, il "regno della quantità" ha prodotto risultati notevoli. Nessuno lo nega e solo un pazzo o un luddista convinto crederebbero che si potrebbe in qualsiasi senso positivo tornare a un mondo pretecnologico. Dico "senso positivo" perché non mancano visioni distopiche, anticipazioni apocalittiche di un futuro prossimo in cui il nostro mondo tecnologico crolla intorno a noi e ci ritroviamo, e non solo metaforicamente, di nuovo nelle caverne. Sembra che per molti l'unico modo di concepire il mondo senza tecnologia sia farlo finire: la fine del mondo, appunto.
Eppure, sembra ormai quasi un cliché sottolineare che il potere e la padronanza sul mondo naturale che ci sono pervenuti attraverso il regno della quantità, e che rivolgiamo sempre più su noi stessi, ha avuto un prezzo molto alto. Lo svuotamento del "dentro" del mondo – e sempre più di noi stessi – che era necessario per il nuovo modo di saper mettere radici, non è stato un successo assoluto. Sebbene all'inizio fosse una fase necessaria nello sviluppo dell'umanità – o almeno così la vedo io – il potere sul mondo naturale che è venuto nelle nostre mani negli ultimi tempi ha iniziato a mostrare il suo lato oscuro. Il riscaldamento globale, l'urbanizzazione, l'industrializzazione e i problemi ambientali e sociali che ne derivano, come anche una varietà di altre crisi che dobbiamo affrontare oggi, hanno le loro radici nel tipo di dominio sul mondo fisico che è arrivato con il nostro nuovo modo di conoscere. Ma per quanto pressanti e urgenti siano queste sfide – e ne ho menzionate solo alcune, meramente come indicazione della loro natura – non sono gli unici effetti collaterali imprevisti della "rivoluzione della conoscenza" di quattro secoli fa.
Anche il nostro "dentro" ne è stato drammaticamente influenzato. La libertà della mente che è stata raggiunta abbandonando il dogma e la fede ha avuto un duplice effetto. Ha liberato la mente umana, ma sembra anche averla portata alla deriva. Uno dei risultati del nuovo modo di conoscere è che ha lasciato molti di noi con la sensazione, come ha detto il romanziere Walker Percy, d'essere "persi nel cosmo". L'uomo, nella sua ignoranza, aveva creduto di essere il centro dell'universo. La nostra nuova conoscenza ci ha disilluso da questo equivoco. Non siamo al centro. Occupiamo una posizione modesta vicino a una stella di medio raggio in un braccio di una galassia, essa stessa piena di miliardi di altre stelle, ambientata in un universo pieno di miliardi di altre galassie. E per quanto ne sappiamo, ci sono miliardi di altri universi.
Cominciammo a perdere i nostri ormeggi verso la metà del Cinquecento, quando Copernico scostò il sole dalla terra e cominciammo, come diceva il filosofo Nietzsche, a "rotolare dal centro verso X".[6] Il successo che ebbe il nuovo modo di conoscere nel disintossicarci da qualsiasi idea che fossimo in qualche modo necessari, importanti o essenziali per l'universo, è forse meglio espresso in un'osservazione del rispettato astrofisico Steven Weinberg. In The First Three Minutes, il suo libro su ciò che accadde subito dopo il Big Bang, Weinberg scrive: "The more the universe seems comprehensible, the more it also seems pointless".[7] Comprehensible qui significa quantificabile. Non ci vuole molto per dedurre da questo che noi, gli abitanti di questo universo inutile ma quantificato, siamo, inevitabilmente, ancora più inutili.
Anomia, apatia, alienazione, un senso di "E allora?" esistenziale, hanno accompagnato il successo del nostro obiettivo ora apparentemente inarrestabile di quantificare tutta l'esistenza e la nostra esperienza di essa. La quantificazione dell'esistenza umana si è svolta in modi diversi, con discipline un tempo considerate parte delle "scienze umane" che ora adottano i metodi efficaci del nuovo modo di conoscere. Il desiderio di ottenere lo stesso tipo di risultati "oggettivi" "misurabili" che le scienze "dure" stavano ottenendo, rendeva gelosi i loro parenti "più soffici", e così praticamente tutte le forme di studio, ricerca, analisi e approfondimento imitavano il nuovo approccio. Ciò significava che la scienza stava rapidamente diventando, o dando vita, allo "scientismo". Questo, secondo l'eminente storico Jacques Barzun, è "the fallacy of believing that the method of science must be used on all forms of experience and, given time, will settle every issue".[8]
Sebbene dall'avvento del nuovo modo di conoscere molti abbiano discusso del suo uso improprio e delle ovvie inadeguatezze nell'affrontare molte forme di esperienza – incontreremo alcuni di questi critici man mano che andiamo avanti – per la maggior parte lo "scientismo" è il "sistema di credenze" dominante – chiamiamolo meno astrattamente, "religione" – dei tempi moderni. Quando vogliamo risposte ai "misteri" dell'universo, o di noi stessi, non andiamo da filosofi, poeti, mistici o sacerdoti. Andiamo dagli scienziati, molti dei quali, mi sembra, sono fin troppo felici di fornire risposte sicure e convincenti, nonostante abbiano le stesse inconfessate perplessità del mistero di chiunque altro.
Barzun sottolinea che all'inizio qualcuno ben addestrato nel nuovo modo di conoscere, e che era benedetto da un talento naturale, fu anche abbastanza preveggente da riconoscere che se non usata con saggezza tale conoscenza poteva portare a grandi problemi. Blaise Pascal nacque nel 1623 e non passò molto tempo prima che venisse riconosciuto come un prodigio; all'età di dodici anni partecipava a discussioni di matematica con il filosofo René Descartes, considerato uno dei fondatori del mondo moderno e brillante esponente del nuovo modo di conoscere. Pascal era un matematico, logico, fisico e inventore; gli esperimenti che condusse portarono all'invenzione del barometro e ideò la prima macchina calcolatrice, nota come La Pascalina, che aveva inventato per aiutare suo padre, un esattore delle tasse. Ma Pascal era anche un filosofo religioso e quello che possiamo chiamare un primo esistenzialista. E sebbene non fosse un mistico, come viene spesso descritto, ebbe almeno un'esperienza mistica, il cui significato aveva scritto e cucito nella sua tunica; fu solo alla sua morte che la nota fu scoperta. Era guidata da una parola, "fuoco", e parlava di "lacrime di gioia". L'essenza era che credeva nel "Dio vivente" di Abramo, Isacco e Giacobbe, non nell'astrazione anemica degli "eruditi e filosofi".[9]
Sempre dopo la sua morte fu scoperta una raccolta di appunti che Pascal aveva realizzato per un libro in difesa del cristianesimo contro i "liberi pensatori" in ascesa, esponenti del nuovo modo di conoscere. Questi appunti sono pervenuti a noi come i suoi Pensées, "Pensieri". Notoriamente in essi egli espresse ciò che alle nostre orecchie colpisce la nota familiare dell'ansia cosmica. Osservando il vasto e strano universo rivelato attraverso il "metodo scientifico", Pascal scrisse la stupenda frase: "Il silenzio eterno degli spazi infiniti mi sgomenta". Sembra che molto prima di Steven Weinberg, Pascal fosse preoccupato della nostra comprensibile, ma inutile, esistenza.
Ma nei suoi Pensées Pascal esprimeva anche una preoccupazione per il nuovo modo di conoscere che aveva aperto le porte agli spazi che lo terrorizzavano. All'inizio dei Pensées, Pascal scrive delle differenze tra ciò che chiama la "mente matematica e intuitiva", o lo esprit géométrique, e lo esprit de finesse, lo "spirito della geometria" e lo "spirito della finezza".[10] Come spiega Barzun, "the spirit of geometr yworks with exact definitions and abstractions in science or mathematics", mentre "the spirit of finesse works with ideas and perceptions not capable of exact definition".[11] Non c'è dibattito sulla definizione di un triangolo ad angolo retto o sulla gravità, sottolinea Barzun, mentre cose come l'amore, la libertà, la poesia e altri fenomeni significativi ma meno esatti non sono così ben definiti. Lo spirito della geometria lavora in sequenza, ragionando passo dopo passo, seguendo le sue regole, mentre la mente intuitiva vede tutto in una volta — raggiunge il suo obiettivo in un colpo d'occhio, non per un processo di deduzione.
Lo svantaggio qui è che, poiché la mancanza di definizione è radicata nei suoi soggetti stessi e non a causa di informazioni o "fatti" insufficienti su di essi – quando avremo mai tutti i fatti sull'amore o sulla libertà? – coloro che seguono lo spirito della finezza trovano difficile, se non impossibile, spiegare come sanno quello che sanno. Non ci sono fasi 1, 2 e 3; li colpisce nell'attimo ed è ovvio, evidente. Ascoltiamo una sonata di Beethoven e sappiamo che è bella e significativa; non arriviamo a questa conoscenza attraverso una serie di passaggi logici. Non ci diciamo: "Beh, ha un numero x di note in questo passaggio, il che significa che..." e così via. Ma se ci viene chiesto come sappiamo che è bello e significativo e, peggio ancora, se possiamo dimostrarlo, allora ci blocchiamo perplessi. Lo spirito della geometria può prenderci per mano e guidarci dalla definizione, dal teorema e dall'assioma alla meta. Ma il processo è meccanico, praticamente tautologico, poiché ogni definizione è semplicemente un altro modo per affermare la stessa cosa (4 è solo un altro modo per dire 2 + 2). E funziona meglio con le cose pratiche e utilitarie, non con quelle che hanno un impatto sul nostro essere emotivo.
Pascal era mirabilmente attrezzato per seguire il ragionamento matematico, ma conosceva anche altri ragionamenti; come scrisse famosamente: "Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce". Le conosce attraverso lo spirito di finesse, l'approccio intuitivo, una delle due direzioni, come dice Barzun, che "the one human mind can take".[12]
La distinzione di Pascal tra lo spirito della geometria e lo spirito della finezza è stata espressa in modi diversi in tempi diversi da pensatori diversi. Alcuni secoli prima di Pascal, Tommaso d'Aquino propose la propria distinzione tra i "tipi di conoscenza". La conoscenza "inferiore" ottenuta attraverso il ragionamento la chiamò "ricerca attiva" della conoscenza, mentre il tipo "superiore", l'intelletto, ne era "il possesso intuitivo".[13] Alcuni secoli dopo Pascal, nella sua opera inclassificabile Das abenteuerliche Herz (Il cuore avventuroso), lo scrittore tedesco Ernst Jünger parlò di qualcosa che venne a chiamare "la chiave maestra". "La nostra comprensione è tale", scrive Jünger, "che è in grado di impegnarsi sia dalla circonferenza che dal punto medio. Nel primo caso, possediamo un'operosità da formica, nel secondo, il dono dell'intuizione." Jünger continua: "Per la mente che comprende il punto medio, la conoscenza della circonferenza diventa secondaria, proprio come le chiavi delle singole stanze perdono importanza per qualcuno con la chiave maestra di una casa."[14]
Allo stesso modo, il filosofo Michael Polanyi distinse tra ciò che chiamava conoscenza "tacita" e "esplicita". La conoscenza esplicita è quella che possiamo mettere in relazione passo dopo passo, come in un esperimento scientifico o in un'equazione matematica. La conoscenza tacita è implicita. Non può essere affermata chiaramente allo stesso modo della conoscenza esplicita. È il tipo di conoscenza di cui, come dice Polanyi, "possiamo sapere più di quanto possiamo dire".[15] Puoi spiegare, passo dopo passo, il processo di risoluzione di un'equazione quadratica; questa è una conoscenza esplicita, a cui siamo soggetti durante i nostri anni scolastici. Ma se provi a spiegare a qualcuno come andare in bicicletta, lo troverai molto difficile. Puoi mostrare loro come farlo; è facile perché è conoscenza tacita, conoscenza che hai ma di cui non puoi dire molto. Ma non puoi dire esplicitamente passo dopo passo cosa fai quando mostri loro come andare in bicicletta. Molto probabilmente se provi a farlo, cadrai. Ed è così che impariamo ad andare in bicicletta in primo luogo. Non ci andiamo a metà, poi ci andiamo un po' di più, finché finalmente possiamo andarci "del tutto".[16] Scopriamo un giorno che all'improvviso possiamo andare in bicicletta, tutto in una volta. Una parte di noi diversa dalla nostra mente cosciente ha assorbito ciò che abbiamo imparato e lo fa per noi, ciò che Colin Wilson chiama "il robot". In effetti, questo assorbimento è "apprendimento". E la conoscenza rimane, implicitamente, a meno che non si commetta l'errore di pensarci troppo. Se comincio a pensare a come digitare su una tastiera, perderò presto traccia di ciò che voglio digitare.
Il filosofo Alfred North Whitehead lo ha riconosciuto quando ha detto: "Civilisation advances by extending the number of important operations which we can perform without thinking about them". Whitehead ha anche fatto una distinzione tra due tipi di percezione che condividono somiglianze con la conoscenza "tacita" ed "esplicita" di Polanyi, e gli spiriti della geometria e della finesse di Pascal. In Symbolism: Its Meaning and Effect, Whitehead parla di "immediacy perception (percezione dell'immediatezza)" e "meaning perception (percezione del significato)".[17] In poche parole, la percezione dell'immediatezza ci fornisce i "fatti" individuali e immediati di ciò che vediamo, a poco a poco, mentre la percezione del significato ci dà il quadro completo, tutto in una volta.
Non è troppo difficile vedere che l'immediatezza di Whitehead si adatta bene al tipo di conoscenza quantitativa che diventò prominente nel diciassettesimo secolo, e che la "percezione del significato" è un altro modo di parlare della "chiave maestra" di Ernst Jünger. Altrove ho scritto del lavoro di Whitehead nel contesto dei nuovi sviluppi nella psicologia "split-brain".[18] In The Master and His Emissary, lo studioso e neuroscienziato Iain McGilchrist riavvia l'intera discussione "cervello sinistro/cervello destro", che si era esaurita negli anni 1990, quando i neuroscienziati "duri" erano contrari all'essere associati a qualcosa che era stato ripreso dalla psicologia pop e dagli appassionati di New Age.
Un altro fattore ha anche allontanato la ricerca seria dal tema del nostro "cervello diviso". La netta separazione e localizzazione delle diverse funzioni psicologiche proposta inizialmente quando iniziò l'indagine sul motivo per cui abbiamo due cervelli, cominciò a crollare abbastanza presto. Quando apparve che, con la maggior parte delle funzioni, erano coinvolti entrambi i lati del nostro cervello – con enfasi su alcune cose da una parte e altre cose dall'altra – gli scienziati iniziarono a dubitare che ci fosse una ragione significativa per cui avessimo comunque due cervelli. Alcuni hanno persino scherzato sul fatto che uno fosse di "ricambio". Tuttavia, ciò che McGilchrist ha scoperto è che mentre entrambi i lati del nostro cervello possono fare le stesse cose, le fanno in modo molto diverso. Non è una questione di quello che fanno, afferma McGilchrist, ma di come lo fanno.
In breve, il nostro cervello destro, che secondo McGilchrist è più vecchio e primario – è il "master" del suo titolo – vede il mondo nel suo insieme, come una data totalità, una presenza vivente, proprio come vediamo un'altra persona. Nei termini di Pascal, vede le cose in modo intuitivo, "a colpo d'occhio". È interessato ai significati impliciti. Per questo motivo, la sua immagine è alquanto vaga, un po' "sfocata". Ha un senso generale e indubitabile di "significato", ma non può articolarlo in alcun dettaglio, proprio come i significati impliciti nella musica che non possiamo articolare esplicitamente. Questo è il compito dell'emisfero sinistro del cervello, lo "emissary (emissario)" di McGilchrist. Il suo compito è "disimballare" ciò che l'emisfero destro "presenta", "spiegarlo", per così dire, concentrandosi sui singoli alberi che compongono la foresta datagli dall'emisfero destro — e infine concentrandosi sulle singole foglie di un dato albero. Nei termini di Whitehead, il cervello destro interpreta con la "percezione del significato", mentre il sinistro si occupa della "percezione dell'immediatezza". Potremmo anche dire che il cervello sinistro conosce attraverso la "ricerca attiva" di conoscenza proposta da Tommaso d'Aquino, mentre il destro ne ha il "possesso intuitivo".
McGilchrist sostiene che nel corso della storia umana, i due "modi" dei nostri due cervelli si sono completati a vicenda e hanno funzionato, come dovrebbero fare le democrazie, attraverso un sistema di controlli ed equilibri, ciascuno inibendo o compensando gli eccessi dell'altro in una sorta di amichevole rivalità. Ci sono stati momenti in cui uno si è guadagnato un predominio sull'altro, ma questi si sono poi sempre livellati. E ci sono stati momenti in cui entrambi i cervelli hanno funzionato insieme in modo creativo, in quello che chiamo il "momento magico", quando le cose sono "proprio giuste". C'è ragione di sospettare che per millenni ci sia stata una specie di dominanza del cervello destro, e che il cambiamento nella coscienza umana che ha prodotto "l'uomo teorico" durante l'"Era Assiale" di Jaspers, sia stato uno spostamento verso una maggiore preponderanza del cervello sinistro.
Quello che è successo però, sostiene McGilchrist, è che negli ultimi due secoli, più specificamente dalla Rivoluzione industriale, l'emisfero sinistro ha acquisito un ascendente crescente rispetto a quello destro. La sua determinazione ad analizzare l'esperienza, a scomporre tutto in frammenti facilmente gestibili – un processo necessario per la nostra sopravvivenza – è sfuggita di mano e sta eliminando il contributo dell'emisfero destro. Quello che è successo è che, come lo presenta McGilchrist, l'"emissary" ha usurpato il potere dal "master" e si è imposto come capo. Ciò che questo ha comportato, sostiene McGilchrist, è un'immagine sempre più frammentata del mondo, con una consapevolezza sempre minore del collante intuitivo, necessario per tenere insieme le cose.
La Rivoluzione industriale è figlia, ovviamente, della "rivoluzione della conoscenza" del primo Seicento, con il regno della quantità che ha dato vita ai tipi di tecnologia che oggi ci dominano. Possiamo dire che il cervello sinistro di McGilchrist – non il suo personale, ovviamente, sebbene anche lui, come noi, ne condivida l'effetto – ha assunto il nuovo modo di conoscere e lo usi correntemente. Ma ciò mette il carro davanti ai buoi. Il nuovo modo di conoscere è radicato nell'emisfero sinistro, ne è un prodotto ed è, come abbiamo visto, qualcosa che sta con noi almeno dall'Era Assiale. Quello che è successo è che nella "rivoluzione della conoscenza" del diciassettesimo secolo, attraverso vari fattori, il nuovo modo di conoscere – un'applicazione accresciuta, intensificata e spietata della curiosità dell'"uomo teorico" – ha fatto il tentativo ben riuscito di estromettere tutti i concorrenti. È iniziata la spinta a quantificare l'esperienza e ad applicarne i risultati a fini pratici. Ne consegue il mondo moderno che vediamo intorno a noi, e che secondo McGilchrist è la prova del tentativo del cervello sinistro di ricreare il mondo "a propria immagine", con qualsiasi input dell'emisfero destro emarginato, se non addirittura respinto.
Se McGilchrist ha ragione, allora stiamo davvero soffrendo di una sorta di schizofrenia, con una parte di noi stessi che cerca di espiantare l'altra — un'"altra" che è profondamente radicata in noi, se non di più, rispetto alla prima. Come si vede subito, se questo tentativo riuscisse, si tradurrebbe in una sorta di suicidio. Per lo meno soffriremo il tipo di autoantagonismo che colpiva le persone soggette a operazioni che disconnettevano un emisfero cerebrale dall'altro e che successivamente si trovavano in guerra con la propria "altra metà".[19] In Faust, il suo classico dramma in versi di come il predominio di un tipo di conoscenza può svuotare la vita di ogni significato e soddisfazione, disse il grande poeta romantico tedesco Goethe: "Due anime, ahimè, vivono nel mio petto". Potrebbe aver sbagliato in anatomia, ma l'intuizione è chiara. Tuttavia, Goethe avrebbe potuto aggiungere: "E non vanno d'accordo".
Se i nostri cervelli stanno davvero combattendo – o, più precisamente, se il nostro emisfero destro è soggetto all'aggressione dal sinistro – allora temo che avremo dei guai. Se il nostro cervello sinistro, acceso dalla passione per il nuovo modo di conoscere, riesce a sfrattare il suo vicino, il risultato sarà un nuovo tipo di essere, che sarà radicalmente diverso da noi stessi, o almeno da come dovremmo essere. Non avremmo due cervelli se non ne avessimo bisogno e non ne avremmo bisogno se non funzionassero in modo diverso, con entrambi gli approcci necessari per essere "completamente umani".
McGilchrist non è stato il primo a riconoscerlo. Più di un secolo fa, il classicista Francis Cornford scrisse a libro importante, From Religion to Philosophy: A Study in the Origins of Western Speculation, che tracciava il passaggio dalla sensibilità "mitica" a quella "mentale" menzionata in precedenza. Mentre Cornford riconosceva, come fece Jaspers, che qualcosa di monumentale era avvenuto intorno al lato orientale del Mediterraneo intorno al 500 p.e.v., vide anche che la nostra "coscienza mitica" non era stata eliminata così completamente in quel momento come credevano i primi storici delle idee. "The philosophical Muse is not a motherless Athena", scriveva Cornford, riferendosi al mito della nascita di Atena, completamente formata, dalla fronte di Zeus, dopo che era stata squarciata dall'ascia di Prometeo. Ciò significava che il nuovo approccio "teorico" nasceva da un terreno mitico; non apparve all'improvviso e non era senza precedenti. Cornford sostenne che il nuovo tipo di coscienza che informava "l'uomo teorico" era emerso dalla religione e dalla mitologia greca. Non gettava via del tutto questi ultimi, come forme di superstizione e ignoranza, come credevano i contemporanei di Cornford, e praticamente tutti gli altri.[20]
Il nuovo modo di interrogarsi sul mondo alla fine, come abbiamo visto, diventerebbe ciò che chiamiamo "scienza". Ma è cresciuta in compagnia di un'altra tradizione. Le due scuole, asseriva Cornford, "were moved by distinguishable impulses along lines diverging, more and more widely, towards opposite conclusions". Scrivendo nel 1912, Cornford sostenne: "these impulses are still operative in our own speculation, for the simple reason that they correspond to two permanent needs of human nature, and characterise two familiar types of human temperament".[21] A quanto pare, siamo tornati ai due spiriti di Pascal e, se c'è qualche dubbio, Cornford continua a mettere i puntini sulle i. Parlando della prevalenza di un'unica tradizione nel suo – e nel nostro – tempo, Cornford afferma:
Ma c'è un problema, e prosegue:
Quell'altro tipo di mente è lo spirito della finezza, l'approccio intuitivo, la "chiave maestra" di Jünger, lo sguardo che abbraccia ogni cosa, tutto in una volta, e non poco a poco con un passo alla volta.
Bandire "il vago" può sembrare una buona idea. Ovviamente vogliamo che le cose siano chiare, semplici e dirette, e questo è qualcosa che il cervello sinistro, secondo McGilchrist, è molto bravo a realizzare. Ma troppa chiarezza può oscurare le cose oltre che rivelarle. La luce del sole nasconde le stelle. "A perfectly clear conceptual model of reality, adapted to explain all phenomena by the simplest formula" suona come il modo più "efficiente in termini di costi" per spiegare il mondo e noi stessi. Ma l'efficienza non è tutto e "il vago" per Cornford significa il tipo di cose riconducibili allo spirito di finezza di Pascal, ma non al suo spirito di geometria. Significa valori come la bellezza, la libertà, l'amore, cose che sono importanti in un modo più che utilitaristico, la cui importanza è in sé stessa e non come mezzo per qualche fine pratico o socialmente benefico. Sono, come li chiama George Steiner, "the sovereignly useless".[22] Non servono a niente, per quanto i pensatori di orientamento darwiniano possano dire che lo siano. Danno senso alla vita e sono ciò che la rende degna di essere vissuta. Quando Gesù disse che l'uomo non vive di solo pane, questo era ciò che aveva in mente.
Cosa succede quando un ragionevole desiderio di un "chiaro modello concettuale della realtà" a cui si arriva con "la formula più semplice che si possa trovare" sfugge di mano? Succede lo scientismo, che ha successo proprio perché riduce la realtà a ciò che può astrarre da essa e applicare a fini utili. Tendiamo ad associare la scienza riduttiva con la materia e il materialismo. Ma la "materia" stessa è un'astrazione. Non è la roba che incontriamo nel mondo, ma la nostra comprensione concettuale di essa. Tutti abbiamo visto cose materiali – ci circondano – ma nessuno ha mai visto la materia.[23] Quello che non va nello scientismo non è che sia "materiale" ma che sia troppo astratto, troppo innamorato della caccia alla formula più semplice, che oggi assume la forma di una "teoria del tutto". Per essere efficace, la scienza deve limitare la parte di realtà di cui si occupa a ciò che è rilevante per i suoi scopi. Per questo, come ci dice Barzun, "the realm of abstraction, useful and far from unreal, is thinner and barer and poorer than the world it is drawn from".[24]
Astrarre significa "estrarre" o "rimuovere" qualcosa, che sia un "astratto" di un articolo scientifico a cui sei interessato – cioè una breve descrizione di esso – o la tua idea di "albero" da tutti i tanti, diversi alberi "reali" che hai incontrato. Uno dei grandi giochi di prestigio che lo scientismo ha realizzato è convincere il pubblico ignaro che il mondo magro, spoglio e povero da cui astrae – cioè "estrae" – il nostro mondo sostanzioso, lussureggiante e ricco, è il mondo "realmente reale", quello che "esiste oggettivamente", mentre quello che incontriamo, amiamo e con/in cui lottiamo è una sorta di illusione soggettiva, alloggiata all'interno della nostra insulare coscienza individuale. Gestisce questo trucco esclusivamente per l'efficacia pratica che fornisce. Ridurre la realtà a quelle parti di essa che possono essere quantificate e manipolate a nostro vantaggio assicura che il nuovo modo di conoscere diventi rapidamente l'arbitro e il garante di ciò che è reale e di ciò che è vero. E ha funzionato, non c'è dubbio. Ma a un costo.
Finora abbiamo esaminato, anche se brevemente, lo sviluppo e il successo di una delle due tradizioni che secondo Cornford erano attive agli albori della nostra mentalità peculiarmente occidentale. Dico "particolarmente occidentale" perché, sebbene si sia diffuso in tutto il mondo, il tipo di curiosità insaziabile per il mondo – il desiderio di sapere cosa lo ha fatto "funzionare" e di applicare questa conoscenza a fini pratici – che sorse presso i Greci nell'Era Assiale, sembra non essere apparsa altrove, o almeno non nello stesso modo concentrato. Questo non è per celebrare l'eurocentrismo, ma semplicemente per riconoscere che la coscienza occidentale ha un compito particolare, che possiamo vedere come lo stabilire e mantenere una polarità creativa tra le nostre due tradizioni. E allora, qual è l'altra tradizione?
Come esempio dell'altra tradizione, Cornford indica Pitagora, di cui abbiamo già parlato. Sebbene Talete abbia preceduto Pitagora, egli non fu infatti il primo filosofo, se non altro perché Pitagora venne alcuni anni dopo, che coniò la parola. Contribuì anche altri termini importanti della nostra discussione: cosmo, tanto per citarne uno, e theōria (gr. θεωρία), che ci fornisce la nostra "teoria", per citarne un altro. Theōria deriva dal greco theōros, che significa "spettatore". Conserviamo ancora qualcosa di questa radice quando diciamo di avere una teoria su qualcosa basata sulla nostra "speculazione" al riguardo. Possiamo vedere Pitagora come uno dei primi "scienziati", nel senso che si arrovellò per arrivare a un resoconto razionale dell'esistenza. Conosciamo tutti il suo teorema – o almeno abbiamo faticato ad impararlo a scuola – e la sua scoperta dell'ottava, che è alla base della musica occidentale. Ma a differenza di Talete e dei suoi seguaci, Pitagora non pensava in termini di certe cose fondamentali di cui era fatto il mondo. Come abbiamo visto, credeva che il numero fosse dietro tutto. Cioè, pensava in termini di una sorta di principio, o idea, piuttosto che di una sostanza materiale. Pitagora vedeva anche la filosofia come qualcosa di più di un'indagine razionale, sebbene lo fosse certamente. Era più simile a una disciplina religiosa o mistica. Possiamo dire che con la Fratellanza Pitagorica, Pitagora fondò la prima scuola esoterica — essendo l'"esoterico" ciò che è "interiore", o il significato "interiore" di un insegnamento o di una religione, o la forma del nostro mondo "interiore". Cioè, fu una scuola mirata non solo a un modello concettuale difendibile della realtà, ma a un cambiamento nella coscienza, un cambiamento, cioè nel mondo interiore del filosofo, la sua mente. Questa era la saggezza che il filosofo perseguiva: filosofo (φιλόσοφος) nel senso primario di "amante della saggezza".
Pitagora iniziò come devoto dei misteri orfici, che erano essi stessi un perfezionamento dei primi riti più orgiastici del dio beone Dioniso. Le feste trasgressive di Dioniso, e le pratiche meditative più ascetiche degli Orfici, avevano lo stesso scopo. Si preoccupavano di risvegliare la scintilla della vita spirituale che giaceva addormentata, sprofondata nella "tomba portatile" del corpo e il suo senso di sé come individuo separato e mortale. Ma mentre i Dionisiaci si liberavano dei vincoli della mente cosciente attraverso un eccesso selvaggio, e gli Orfici risvegliavano l'anima negando la carne, Pitagora cercava di elevare la coscienza dei suoi studenti – e di se stesso – attraverso la contemplazione dei principi eterni della realtà. Invece di sfuggire alla mente cosciente (che teneva separati dal tutto) o calmare il corpo (che distoglieva la consapevolezza dall'anima), Pitagora vide un percorso diverso. Ritenne che lo spirito potesse essere risvegliato – come fece Orfeo, nei miti originali, riscattando dai morti sua moglie Euridice – attraverso la filosofia.[25] Ciò significava raggiungere un'armonia interiore del sé che corrispondesse all'armonia cosmica esterna, ciò che lui o i suoi seguaci chiamavano "la musica delle sfere".
Pitagora cercò di raggiungere un equilibrio creativo tra il tipo di coscienza più antico e mitico, incarnato nei misteri dionisiaci e orfici, e quello più nuovo, mentale. Infatti "armonia", a cui è associato Pitagora, significa "equilibrio", raggiungimento di un buon "adattamento". Un tale equilibrio è difficile da raggiungere, ma i tentativi di raggiungerlo non sono rari nella storia della coscienza occidentale, né i successi sono sconosciuti. Come sottolinea Barzun: "Pascal himself is proof that one can be a great geometer and a profound intuiter". (Abbiamo visto che anche McGilchrist è in entrambi i campi.) Barzun suggerisce ottimisticamente che "any good mind properly taught can think like Euclid and like Walt Whitman".[26]
Non si tratta di due specie di individui, o di "due culture", come sostenne negli anni 1950 un libro di C.P. Snow, egli stesso scienziato e romanziere. La nozione di due culture separate o di due "tipi" di menti che si escludono a vicenda – non due modi di usare una mente – è un prodotto della proliferazione della specializzazione, prima all'interno delle scienze e poi, a imitazione di esse, all'interno delle discipline umanistiche (o "scienze sociali", che penso sia un termine improprio) stesse. Non è un caso che una mente vaga e implicita non possa gestire modelli concettuali chiari, o che menti sintonizzate sulla formula più semplice non possano sopportare intuizioni, sebbene nei singoli casi la capacità di farlo, ovviamente, vari. È l'esplosione di informazioni che va avanti da tempo a tenere separate non solo le due culture; separa anche scienziati da scienziati nonché critici letterari dai loro colleghi. L'enorme quantità di materiale prodotto in ciascuna nicchia rende impossibile tenere il passo con qualsiasi cosa al di fuori di esse e le nicchie stesse sono in aumento. Gli scienziati possono non parlare con i poeti, ma non parlano nemmeno con molti altri scienziati, al di fuori della loro specialità. Il problema qui non è quello di due culture che non si capiscono, ma di troppe informazioni – la maggior parte, come assicura la politica del "pubblicare o perire" – di dubbia qualità.
Possiamo dire che l'altra tradizione che seguì l'approccio pitagorico – non necessariamente i suoi insegnamenti – mira a realizzare una sorta di polarità creativa tra i nostri due modi di conoscere. Riconosce il valore del nuovo modo quantitativo, lo spirito della geometria. Ma riconosce anche il valore dell'altra via, lo spirito della finezza. Riconosce inoltre che quando i due sono riuniti in una tensione creativa può emergere qualcosa di più grande di entrambi. Quando i significati vaghi e impliciti vengono sballati da una mente articolata sintonizzata su di essi, e quando le astrazioni necessarie per concettualizzare la realtà sono informate da un più ampio e generale senso del contesto, allora può verificarsi qualcosa che potremmo chiamare genio, o almeno intuizione. L'altra tradizione non vuole abbandonare la sua eredità mitica e intuitiva, nel suo desiderio di spiegare il mondo in modo eloquente ed economico. Né vuole tornare nelle calde acque del nostro precedente modo di coscienza, godendo di un inarticolato senso di connessione con il Tutto, cosa con cui viene spesso confusa. Inoltre non vuole alleviare le tensioni che sorgono dall'opposizione tra i due modi di conoscere attraverso un blando, placido compromesso, un tiepido accordo tra caldo e freddo. Vuole, come ho detto altrove, raggiungere quel "momento magico", quando l'equilibrio tra i due è "proprio giusto".
Non c'è, ovviamente, una formula per questo. Se ci fosse stata, l'avremmo raggiunta tutti ormai, nonostante alcuni tentativi di definirla e ottenere il "genio nella bottiglia". Ma dato che da alcuni secoli operiamo sotto gli editti del nuovo modo di conoscere, a me, e ad altri, sembra che potremmo aver bisogno di un aggiornamento sull'altro nostro modo di conoscere. Non è mai scomparso, anche se periodicamente i pontefici dello scientismo dichiarano che è sempre stato solo un malinteso e un pasticcio di ciò che ora è assolutamente chiaro, e che poi se ne è andato, per riapparire quindi poco dopo. Questa tradizione, tuttavia, mentre fa parte del nostro patrimonio – perché è parte di noi stessi – è per sua natura fluida e mutevole, e meno facilmente e chiaramente definita rispetto alla sua rivale. Come abbiamo visto, non opera con definizioni fisse ed esatte e ordini o algoritmi sequenziali immutabili, ma con schemi, relazioni, simpatie, analogie, intuizioni, percezioni e una comprensione sinottica dell'esperienza – cioè, la prende "a prima vista".
Altrove scrivo del nostro altro modo di conoscere, nel contesto di una storia della tradizione esoterica occidentale, il corpo di conoscenza interiore, mistica o occulta che ci è pervenuta da fonti antiche come l'ermetismo, lo gnosticismo, il neoplatonismo, la Cabala, e ancor più recenti.[27] La tradizione che questo corpus di testi e pratiche rappresenta è, nelle parole dello storico dell'occulto James Webb, una di "rejected knowledge (conoscenza rifiutata)", uno status che condivide con il tipo di conoscenza intuitiva e il modo di apprendere che ho scritto fin qui. Viene rifiutata per lo stesso motivo per cui lo è la "chiave maestra" di Jünger, perché non segue le regole prescritte su come dovrebbe essere la conoscenza "reale". C'è anche, come fa notare Jünger, una specie di gelosia professionale. Quelli con la chiave maestra della "casa dell'intelletto" – cenno a un libro di Barzun un tempo influente – "Those with the master key to the house of intellect penetrate effortlessly into the single rooms, arousing the wrath of the specialists who watch their banks of files invalidated at a single stroke".[28] Se riusciamo a trovare la via d'uscita dal labirinto con un sol passo, senza una mappa, metteremo presto fuori gioco i cartografi.
Le sentinelle della geometria non si preoccupano degli inesplicabili successi dei loro rivali e generalmente fanno del loro meglio per denigrarli o spiegarli in termini di idee proprie. Questo, infatti, è uno dei temi che ho esplorato altrove: vale a dire che la tradizione esoterica occidentale, un tempo tenuta in grande considerazione, è stata, dall'arrivo del nuovo modo di conoscere, soggetta al tipo di aggressione da parte del cervello sinistro che, sostiene McGilchrist, il cervello destro subisce da un po' di tempo. Vedo la tradizione esoterica occidentale come un insieme di ciò che potremmo chiamare "conoscenza del cervello destro". E sebbene abbia certamente avuto i suoi guai con il dogma religioso, sia della Chiesa che, più tardi, dell'Islam, è stato solo con l'arrivo del nuovo modo quantitativo di sapere che è completamente caduto in disgrazia ed è stato relegato nella pattumiera delle idee. Ma proprio come il nostro altro modo di conoscere non è mai stato né può essere asportato dal nostro essere – senza, credo, conseguenze fatali – la nostra tradizione di "conoscenza rifiutata" non è mai veramente scomparsa. È emersa in modi diversi in tempi e luoghi diversi, ricordando a chi ne è consapevole che un modo diverso di conoscere noi stessi e il nostro mondo esiste ed esiste per aiutarci ad essere "pienamente umani", senza ridurlo alla "formula più semplice disponibile".[29]
Parte di questa conoscenza rifiutata e le persone che l'hanno perseguita appariranno nelle pagine che seguono. Come accennato, una delle difficoltà nel parlare di quest'altra tradizione è come chiamarla, dato che, per definizione, non è qualcosa a cui si applicano esplicazioni chiare. Questo è qualcosa che ostacola quelli che possiamo chiamare i vari approcci "alternativi" alla vita, alla società, alla natura e così via, che si sono sviluppati nell'ultimo mezzo secolo o giù di lì, e che sono generalmente, ed erroneamente credo, conglobati sotto il titolo "Nuova Era (New Age)" o "Nuova Scienza" o qualche altro titolo fuorviante e poco edificante. In poche parole, non abbiamo un buon nome da dargli, che possa coprire adeguatamente tutti i suoi aspetti e anche dare a una parte interessata qualcosa di solido a cui aggrapparsi. Questo anche perché non è tanto una "nuova" era o una "nuova" scienza, ma un modo diverso di guardare all'era e alla scienza che già abbiamo. Non stiamo necessariamente cercando nuovi fatti, ma un nuovo modo di guardare ai fatti che già conosciamo.
Un'altra ragione dell'ambiguità è che generalmente è la tradizione consolidata a dare il nome, e poiché non è esattamente in sintonia con le preoccupazioni della sua alternativa, non sarà necessariamente molto accurata in come la chiama. Un altro motivo è l'ampia varietà di idee, insegnamenti, pratiche e credenze diverse che sono raggruppate insieme in virtù del loro essere "diverse" da quelle dominanti. Questo può portare a confusione e strani abbinamenti, con libri su UFO, satanismo, diete o salute, messi nella stessa categoria di quelli sull'esoterismo, sul misticismo o sulle filosofie della coscienza occidentali. Questo non è per denigrare alieni, satanisti o persone preoccupate per le dimensioni spirituali della loro dieta. Ma significa che gli studenti seri di filosofia esoterica spesso devono dedicare molto tempo a spiegare la differenza tra le loro occupazioni e queste altre, quando vien loro chiesto esattamente di cosa tratta l'esoterismo.
Una frase significativa fu coniata dalla poetessa, saggista e studiosa di Blake, Kathleen Raine, che parlò di ciò che lei chiamava "the lost knowledge of the imagination".[31] Ciò era collegato a qualcosa che lei chiamava "the learning of the imagination", una frase che ha trovato nell'opera del poeta W. B. Yeats, egli stesso un devoto, come Raine, della tradizione della "rejected knowledge". Una "lost knowledge" e una "rejected knowledge" – Raine parla anche di una "excluded knowledge" – possono non essere identiche, ma sicuramente sembrano piuttosto simili, e nella grande pattumiera delle idee, riempita fino all'orlo dai rigorosi tagli del nuovo modo di conoscere, penso debbano essere alquanto vicine.
Raine scrisse molti libri sostenendo che questa conoscenza "persa" o "esclusa" era in effetti centrale per la nostra umanità, e in essi ha dimostrato come alcune delle figure più rispettate della cultura occidentale ne fossero in realtà studiosi. Giunse addirittura a fondare un'accademia dedicata a questa conoscenza, che battezzò Temenos (gr. τέμενος), una parola greca che significa "spazio sacro", la terra santa che giaceva davanti a un tempio/santuario degli dei. Come William Blake, Raine si dedicò a questa "lotta mentale" per molti anni, dedicandovi la sua vita. Morì nel 2003 all'età di novantacinque anni.
Questo mio wikilibro parla di tale conoscenza "perduta" dell'immaginazione. Tuttavia, mentre ciò può darci una frase utile sotto la quale possiamo mettere esempi dell'altro tipo di conoscenza di cui ho parlato, non è immediatamente chiaro cosa intendiamo per "immaginazione". L'immaginazione è una di quelle cose che tutti conosciamo intimamente ma che troveremmo difficile definire esattamente. È una di quelle cose che, come ha detto Whitehead, sono "incapable of analysis in terms of factors more far-reaching than themselves".[32] Vale a dire, non possiamo "farci prendere" dall'immaginazione perché l'atto stesso di provare per farlo richiede immaginazione! Memoria, autocoscienza, pensiero, percezione: tutti informano e sono informati dall'immaginazione ed è difficile, se non impossibile, separarsi da essa o l'uno dall'altro. Questo non dovrebbe essere una sorpresa. L'immaginazione non segue le definizioni e i chiari gli assiomi dello spirito della geometria, ma le intuizioni ribelli, vaghe, sorprendenti dello spirito della finesse. Come disse lo stesso Blake: "Improvement makes straight roads, but the crooked roads, without Improvement, are roads of Genius".[33] Nelle pagine seguenti, seguiremo alcune di queste strade tortuose del genio e vedremo dove ci condurranno.
Ci sono ovviamente molti libri sull'immaginazione. Studi psicologici, opere motivazionali, istruzioni in visualizzazione, ricerca sulla creatività, guide all'uso dell'immaginazione negli affari, relazioni e miglioramento personale: questi sono alcuni dei risultati che provengono da una rapida ricerca internet sull'argomento. Ce ne sono molti di più. La maggior parte delle definizioni di "immaginazione" parlano del suo contrasto con la realtà. La Treccani mi dice quanto segue:
In (EN) l’Oxford Dictionary mi dice che l'immaginazione è "the mental faculty of forming images or concepts of objects or situations not existent or not directly experienced"; il Cambridge Dictionary afferma che l'immaginazione è "the ability to form pictures in the mind" e riguarda "something that you think exists or is true, although in fact is not real or true". Naturalmente anche l'immaginazione è creativa. Il Roget’s Thesaurus la chiama "the power to create in one’s mind" e gli esempi di sinonimi in italiano spaziano da "arte", "fantasia", "consapevolezza" e "ispirazione", a "inventiva", "intuizione" e "creatività".
Io credo che l'immaginazione sia una di quelle cose che tutti sappiamo subito ma che, come ho detto, troveremmo difficile da definire. In effetti, una sua definizione esatta la renderebbe solo più oscura.[34] Tuttavia, qui offrirò la mia definizione di immaginazione. Non è necessariamente esclusiva delle altre; la do per enfatizzare quello che ritengo essere il compito centrale dell'immaginazione e anche per chiarire come sia un modo diverso di intendere l'immaginazione. La prendo da Colin Wilson, che nelle sue stesse opere ha esplorato il potenziale evolutivo dell'immaginazione. L'immaginazione, ha detto Wilson, è "the ability to grasp realities that are not immediately present". Non una fuga dalla realtà, o un suo sostituto, ma un coinvolgimento più profondo con essa. Potremmo anche dire che l'immaginazione è semplicemente la nostra capacità di cogliere la realtà, o anche, in qualche modo strano, di crearla, o almeno di collaborare alla sua creazione. Limitiamoci per il momento alla prima formulazione.
È perché abbiamo bisogno dell'immaginazione per cogliere la realtà – quella parte di essa immediatamente davanti a noi e i suoi orizzonti più ampi che superano la portata dei nostri sensi fisici – che possiamo parlare di una "conoscenza" dell'immaginazione. L'immaginazione ha un carattere noetico; è la fonte e il mezzo del nostro altro modo di conoscere. Ci mostra aspetti e dimensioni della realtà che ci mancherebbero senza di essa – e che molta, se non la maggior parte, della cultura occidentale ufficiale ha perso da quando il nuovo modo di conoscere è diventato dominante. Sebbene possa essere utilizzato per fantasia, illusione, finzione ed evasione, il vero lavoro dell'immaginazione è entrare in contatto con lo strano mondo in cui viviamo e fungere sia da guida che da ispirazione per il nostro sviluppo al suo interno. È il modo in cui ci evolviamo. L'immaginazione ci presenta realtà possibili e potenziali che è nostro compito attualizzare. Ci presenta anche un mondo che non sarebbe completo senza il nostro aiuto.
Esaminiamo allora questa conoscenza perduta dell'immaginazione, e vediamo quanta ne possiamo rivelare.
Note
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Serie delle interpretazioni, Serie misticismo ebraico e Esistenzialismo shakespeariano. |
- ↑ Karl Jaspers, Way to Wisdom, Ralph Manheim, trad. (EN) (Londra: Victor Gollancz, 1951) p. 98.
- ↑ George Steiner, Has Truth a Future? (Londra: BBC Publications, 1978) pp. 16f.
- ↑ John Shand, Philosophy and Philosophers (Londra: Penguin Books, 1994) p. 6.
- ↑ Viene generalmente indicato come Pseudo-Dionigi l'Areopagita. Questo perché fu confuso con l'ateniese convertito dall'apostolo Paolo e menzionato in Atti 17:34; fu anche confuso con San Dionigi, patrono di Parigi.
- ↑ Jaspers 1951, p. 98.
- ↑ Friedrich Nietzsche, The Will to Power, trad. (EN) Walter Kaufman e R.J. Hollingdale (New York: Random House, 1967) p. 8.
- ↑ Steven Weinberg, The First Three Minutes (New York: Basic Books, 1993) p. 154.
- ↑ Jacques Barzun, From Dawn to Decadence (New York: HarperCollins, 2000) p. 218.
- ↑ Citato in Colin Wilson, Religion and the Rebel (Cambridge, MA: Houghton Mifflin Co., 1957) p. 185.
- ↑ Blaise Pascal, Pensées (New York: E.P. Dutton & Co, 1958) p. 1.
- ↑ Barzun 2000, p. 216.
- ↑ Ibid. p. 217.
- ↑ Citato in William Anderson, Dante the Maker (Londra: Routledge, 1980) p. 410.
- ↑ Ernst Jünger, The Adventurous Heart, trad. (EN) Thomas Friese (Candor, NY: Telos Press Publishing, 2012) p. 12.
- ↑ Michael Polanyi, The Tacit Dimension [(IT) La conoscenza inespressa], Anchor Books, 1967, p. 4.
- ↑ Si potrebbe certo dire che all'inizio andiamo in bicicletta "a metà". Se cerchiamo di farlo, cadiamo. E questo vuol dire andarci male. Non suoniamo uno strumento musicale "a metà", ma possiamo certamente suonarlo male.
- ↑ Alfred North Whitehead, Symbolism Its Meaning and Effect (New York: G.P. Putnam’s Sons, 1959). Whitehead in effetti parla di "causal efficacy" e "presentational immediacy"; qui io seguo la comprensibile riformulazione dei termini di Whitehead fornita da Wilson in Beyond the Outsider (Boston: Houghton Mifflin Co., 1965).
- ↑ Si vedano: Serie delle interpretazioni e Serie dei sentimenti.
- ↑ Si veda "The split-brain: a tale of two halves", articolo su natura, 2012.
- ↑ Devo sottolineare che negli ultimi tempi Peter Kingsley ha svolto un lavoro interessante sulle radici mitiche della filosofia greca. Si veda ad esempio Peter Kingsley, In The Dark Places of Wisdom (Inverness, CA; The Golden Sufi Center, 1999).
- ↑ Francis Cornford, From Religion to Philosophy (Princeton, NJ: Princeton University Press, 1991) p. xiv.
- ↑ George Steiner 1978, p. 16.
- ↑ Potresti, in una variazione della celebre confutazione del Dr Johnson al vescovo Berkeley, prendere una pietra e dire "Ecco la materia". Se lo fai, io risponderò: "No, è una pietra". Mostrami la materia che non è pietra, o albero, o nuvola, o lago – materia, cioè, che non è una "cosa" ma semplicemente se stessa. Questo, dico io, non puoi farlo.
- ↑ Barzun 2000, p. 218.
- ↑ Nelle prime versioni del mito, Orfeo riesce a liberare Euridice dall'Ade; è stato solo nelle versioni successive che fallisce e il racconto diventa una tragedia.
- ↑ Barzun 2000, p. 217.
- ↑ Si vedano le mie due serie: Serie misticismo ebraico e Serie delle interpretazioni, nonché le due Appendici a fine libro.
- ↑ Jünger 2012, p. 12. Jacques Barzun The House of Intellect (New York: HarperCollins, 2002), pubbl. orig. 1959.
- ↑ Si veda, int. al., il mio Abulafia e i segreti della Torah.
- ↑ Petr D. Uspenskij, Un nuovo modello dell'universo, p. 40, Mediterranee, 1991.
- ↑ Kathleen Raine, The Inner Journey of the Poet (New York: George Braziller, 1982) p. 12.
- ↑ Alfred North Whitehead, Modes of Thought (New York: The Free Press, 1966) p. 1.
- ↑ William Blake, The Marriage of Heaven and Hell in The Complete Poetry and Prose of William Blake, cur. David V. Erdman, (Berkeley, CA; University of California Press, 1982) p. 38.
- ↑ È un fenomeno, secondo le parole di Sir William Grove: "so obvious to simple apprehension that to define it would make it more obscure". Citato in Samuel Butler, ‘Thought and Language’ in The Importance of Language, cur. Max Black (Ithaca, NY: Cornell University Press, 1969) p. 13.