Indagine Post Mortem/Capitolo 2

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Cristo risorto (part.), di Pieter Paul Rubens (c.1516) — Galleria Palatina, Firenze
Indice del libro

Capitolo 2: Esperienze della Risurrezione[modifica]

Introduzione[modifica]

Nel Capitolo precedente ho sostenuto che nella Palestina della metà del I secolo c'erano persone che affermavano di aver visto Gesù risorto. In questo Capitolo, sosterrò che almeno alcuni (se non tutti) di loro assistettero a qualcosa che pensavano fosse Gesù.

Come notato nell'Introduzione, l'ipotesi della non-esperienza (tali persone pensavano di aver visto il Gesù risorto, ma nessuno di loro ebbe tale esperienza) era popolare durante la Controversia Deista. È stato poi suggerito che gli apostoli appresero che potere e gratificazioni alla fine sarebbero stati devoluti ​​ai capi religiosi, e quindi mentirono proclamando di aver visto Gesù risorto fisicamente per dar inizio a una religione (Allison 2005a, pp. 207-208). La sua popolarità è diminuita tra gli studiosi dopo le dettagliate confutazioni di William Paley e altri. Tuttavia, se ne possono trovare ancor oggi varianti. Ad esempio, è stato recentemente proposto che l'amore dei discepoli per Gesù, la loro lealtà reciproca o la loro convinzione che la causa di Gesù sarebbe stata un bene necessario per tutta l'umanità, avrebbero potuto far loro proclamare di aver visto Gesù risorto offrendone volentieri, anche se non ebbero tale esperienza.[1] In alternativa, i primi cristiani inizialmente credettero nella risurrezione di Gesù non perché avessero avuto tali esperienze, ma perché rimuginavano sulla sua traumatica crocifissione e si rivolgevano a brani dell'Antico Testamento come Isaia 53 per cercare di capirla, grazie ai quali arrivarono a credere che Gesù fosse il Giusto e che Dio doveva averlo rivendicato ed esaltato. In seguito pensavano che se Gesù fosse stato esaltato, non fosse più morto, e così in seguito fecero circolare le storie della sua risurrezione.2 Sebbene la volontà dei discepoli di morire per la risurrezione di Gesù sia stata offerta come prova della loro credibilità da Origene, Paley, e altri, Ehrman ha recentemente obiettato chiedendo quali siano le prove che questi discepoli siano morti per la loro fede nella risurrezione (Craig e Ehrman 2006, p. 29). Dopotutto, si è sostenuto che, a parte Pietro e Giacomo, non ci sono prove solide che alcun membro dei Dodici sia stato martirizzato (Meier 1991–2016, Vol. 3, p. 213) e in molti casi il motivo che i persecutori perseguitavano i cristiani non era la risurrezione ma altri motivi, come vederli come una minaccia per il Tempio (Regev 2009). In seguito pensarono che se Gesù fosse stato esaltato, non sarebbe più risultato morto, e così in seguito fecero circolare le storie della sua risurrezione.[2] Sebbene la volontà dei discepoli di morire per la risurrezione di Gesù sia stata offerta come prova della loro credibilità da Origene, Paley, e altri, Ehrman ha recentemente obiettato chiedendo quali siano le prove che questi discepoli fossero morti per la loro fede nella risurrezione (Craig e Ehrman 2006, p. 29). Dopotutto, si è sostenuto che, a parte Pietro e Giacomo, non ci siano prove solide che alcun membro dei Dodici sia stato martirizzato (Meier 1991–2016, Vol. 3, p. 213) e in molti casi la ragione per cui i persecutori perseguitavano i cristiani non era la risurrezione ma altri motivi, come il vederli quale minaccia per il Tempio (Regev 2009).

Il caso contro l'"ipotesi di nessuna esperienza" non è quindi così semplice come molti pensano. Per indirizzare le miriadi di possibili obiezioni alle ipotesi sottostanti e agli argomenti a sostegno, sarà utile se queste obiezioni possono essere essenzialmente ridotte a poche conosciute, in modo tale che tutte siano considerate prima della conclusione che "almeno alcune (se non tutte) di queste persone assistettero a qualcosa che pensavano fosse Gesù". Analizzando sillogisticamente la struttura della dialettica, mostrerò ora che ciò può essere fatto, come segue:

  • (2.2.1) ⇒ (2.2.1.1) o (2.2.1.2) è vero:[3]
(2.2.1.1) → Coloro che sostenevano di aver visto Gesù risorto nella Palestina della metà del I secolo non erano disposti a soffrire per la loro religione.
(2.2.1.2) → Almeno alcuni (se non tutti) di coloro che affermavano di aver visto Gesù risorto erano disposti a soffrire per la loro religione, nel qual caso è vero (2.2.2.1) o (2.2.2.2):
(2.2.2.1) → Non avevano ragioni per farlo.
(2.2.2.2) → Almeno alcuni (se non tutti) ne avevano delle ragioni, nel qual caso è vero (2.2.3.1) oppure (2.2.3.2):
(2.2.3.1) → Non credevano che Gesù fosse risorto e avevano altre ragioni per cui affermavano di aver visto Gesù risorto.
(2.2.3.2) → Almeno alcuni (se non tutti) credevano che Gesù fosse risorto, nel qual caso è vero (2.2.4.1) oppure (2.2.4.2):
(2.2.4.1) → Credevano che Gesù fosse risorto non perché avevano assistito a qualcosa che pensavano fosse Gesù: non ebbero una tale esperienza, ma affermarono di aver avuto una tale esperienza.
(2.2.4.2) → Almeno alcuni (se non tutti) di loro avevano assistito a qualcosa che pensavano fosse Gesù.

Valuterò ciascuna di queste disgiunzioni nel resto del presente Capitolo.

Soffrire per il Gesù risorto[modifica]

Per quanto riguarda la disgiunzione (2.2.1.1) vs (2.2.1.2), come notato in precedenza, la portata del martirio del primo cristianesimo è stata messa in discussione nella letteratura recente. Tuttavia, va notato che non è necessario che l'obiettore dell'ipotesi "nessuna esperienza" dimostri che questi discepoli sono invero morti per la loro fede, ma che erano disposti a soffrire e morire per la loro fede. La loro genuina volontà di rinunciare a tutto e morire per la propria fede può essere dedotta dalle seguenti considerazioni:

  • In primo luogo, questi discepoli sapevano che il loro capo (cioè Gesù) era già diffamato e brutalmente crocifisso, eppure scelsero di proclamarlo sapendo che un destino simile sarebbe potuto capitare loro per averlo fatto. Dopotutto, era consuetudine giustiziare i seguaci degli insorti al loro fianco, ed è probabile che la maggior parte dei seguaci di Gesù si nascondessero, temendo per la propria vita, al momento della sua morte (Joanna McGrath 2006, p. 298) .
  • In secondo luogo, furono effettivamente inflitte persecuzioni contro questi discepoli. Nella sua lettera ai Galati, Paolo ammise che stava perseguitando i cristiani nei suoi giorni precristiani (Gal. 1:13, 22; cfr. anche 1 Cor. 15:9, Fil. 3:6), e risalendo a 14 anni prima (Gal. 2:1) dal momento in cui fu scritto Galati, la sua persecuzione dei cristiani ebbe luogo proprio all'inizio del cristianesimo. James Dunn osserva che, da un punto di vista storico, "non c'è dubbio che Saul fosse stato pesantemente coinvolto nella persecuzione del movimento cristiano embrionale" (Dunn 2008, p. 335; Dunn ha riassunto le prove alle pp. 335-345). Ciò dimostra che, anche se non ci fu un tentativo onnipresente in tutto l'impero di sradicare i cristiani come nei secoli successivi (e c'è un dibattito accademico in corso sulla misura in cui i primi cristiani furono effettivamente perseguitati), ci furono persecuzioni dirette contro i primissimi Cristiani che, ovviamente, avrebbero incluso questi discepoli. La rappresentazione in Atti 8:1 che "una dura persecuzione iniziò contro la chiesa di Gerusalemme, e tutti tranne gli apostoli furono dispersi nelle campagne della Giudea e della Samaria" non implica che gli apostoli non furono perseguitati, ma "solo che non lasciarono Gerusalemme. Ciò può essere spiegato, ad esempio, dal fatto che per un periodo assunsero un profilo più basso" (Kankaanniemi 2010, p. 155).

Inoltre, Paolo, che in seguito divenne egli stesso apostolo, fu perseguitato per la sua fede in Gesù, come indicato dai suoi appelli alla conoscenza pubblica delle sue sofferenze (1 Cor. 4:11-13; 15:30; 2 Cor. 11:23-26; Fil. 1:7; 1 Tessalonicesi 2:2, 9; per la storicità della persecuzione di Paolo, cfr. Hurtado 2005, pp. 172-174). Una tale ammissione di essere un persecutore e un appello alla conoscenza pubblica della persecuzione, sono ragioni per pensare che i primi riferimenti cristiani alla persecuzione non possono essere spiegati come affermazioni motivate semplicemente dalla retorica. Piuttosto, questi riferimenti hanno basi nella storia, il che è prevedibile dato che i loro avversari si preoccuparono di far crocifiggere Gesù (il fatto che abbiano convinto Pilato a crocifiggere Gesù non è attestato solo da tutti i Vangeli, ma anche da Flavio Giuseppe [Antichità 18:64] e dal Talmud [Sanhedrin 43a]).

Infine, almeno alcuni dei "testimoni oculari di Gesù risorto" morirono veramente a causa delle persecuzioni contro i cristiani. Giacomo, il fratello di Gesù, che fu attestato quale testimone del Gesù risorto (1 Cor. 15:7; cfr. anche Capitolo 1), fu ucciso dagli ebrei come riportato da Flavio Giuseppe (Antichità, libro 20, capitolo 9). L'apostolo Giacomo, che era uno dei Dodici, fu giustiziato dal re Erode secondo l'autore di Atti (Atti 12:2), e Dunn nota che nessuno mette in dubbio la storicità di questo rapporto (Dunn 2008, p. 406, n. 114 ). I primi padri della chiesa affermarono all'unanimità che Pietro e Paolo furono pubblicamente giustiziati durante la persecuzione dei cristiani da parte di Nerone (Habermas e Licona 2004, pp. 56-60, 270-274, n. 46-57). Tertulliano (De Scorpiace 15) afferma che questo era nel registro pubblico romano quando scrive:

« E se un eretico vuole che la sua fiducia si fonda su un atto pubblico, parleranno gli archivi dell'impero, come farebbero le pietre di Gerusalemme. Leggiamo le vite dei Cesari: A Roma Nerone fu il primo a macchiare di sangue la nascente fede. Allora Pietro è cinto da un altro, quando è legato alla croce. »

McDowell (2015, p. 91) osserva:

« If there were no such public records, Tertullian would have automatically undermined his credibility. His appeal to them indicates his confidence that they existed and, if examined, would corroborate his testimony. Therefore, Tertullian was likely relying upon even earlier public records about the Neronian persecution and the fates of Peter and Paul. »

McDowell risponde ad altre obiezioni e conclude a pagina 91 che il martirio di Pietro è "la più alta probabilità possibile", citando Giovanni 21:18-19, 1 Clemente 5:4-5 (che menziona che ciò era accaduto "in tempi abbastanza recenti" e "della nostra generazione"), Lettera di Ignazio agli Smirnesi 3.1-2 e Lettera ai Romani 4.3, Apocalisse di Pietro 14.4, Ascensione di Isaia 4:2-3, Atti di Pietro, Dionigi di Corinto, Storia ecclesiastica 2.25 di Eusebio, e il De Scorpiace 15 di Tertulliano, e notando che "la mancanza di qualsiasi narrazione in competizione pesa favorevolmente per la visione tradizionale." Anche Svetonio (Nero 16.2, "punizioni furono inflitte anche ai cristiani, una setta che professava una nuova e dannosa fede religiosa") e Tacito notarono la persecuzione dei cristiani da parte di Nerone, quest'ultimo descrivendo quanto segue:

« Et haec quidem humanis consiliis providebantur. mox petita dis piacula aditique Sibyllae libri, ex quibus supplicatum Vulcano et Cereri Proserpinaeque ac propitiata Iuno per matronas, primum in Capitolio, deinde apud proximum mare, unde hausta aqua templum et simulacrumdeae perspersum est; et sellisternia ac pervigilia celebravere feminae quibus mariti erant. sed non ope humana, non largitionibus principis aut deum placamentis decedebat infamia quin iussum incendium crederetur. ergo abolendo rumori Nero subdidit reos et quaesitissimis poenis adfecit quos per flagitia invisos vulgus Christianos appellabat. auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaeam, originem eius mali, sed per urbem etiam quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt elebranturque. igitur primum correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt. et pereuntibus addita ludibria, ut ferarum tergis contecti laniatu canum interirent, aut crucibus adfixi aut flammandi, atque ubi defecisset dies in usum nocturni luminis urerentur. hortos suos ei spectaculo Nero obtulerat et circense ludicrum edebat, habitu aurigae permixtus plebi vel curriculo insistens. unde quamquam adversus sontis et novissima exempla meritos miseratio oriebatur, tamquam non utilitate publica sed in saevitiam unius absumerentur. »
(Annales 15.44[4])

Lo storico Paul Maier (2013, p. 55) osserva che "raramente fonti amichevoli e ostili sono d'accordo su qualcosa, ma la persecuzione dei cristiani è una di queste". La disponibilità dei primi cristiani a soffrire per la loro religione può essere provata dal fatto che continuarono la loro missione anche se avevano visto i loro fratelli cristiani perseguitati e uccisi per tale religione (Habermas & Licona 2004, pp. 59-60).

Credere nel Gesù risorto[modifica]

Per quanto riguarda la disgiunzione (2.2.2.1) ⇔ (2.2.2.2), alcuni scettici potrebbero obiettare che le persone a volte agiscono senza pensare, e i discepoli potrebbero essere stati in uno stato di frenesia. In risposta: come notato nel Capitolo 1, i primi cristiani erano abbastanza razionali da dibattere (es. Galati 2:11-21), da pensare alle testimonianze della loro fede (es. 1 Corinzi 15:6), da considerarne le sue conseguenze (1 Corinzi 15:14-19) — come dover affrontare frequenti pericoli e martiri (1 Corinzi 15:30-32) — e da persuadere gli altri ad attenersi alle loro opinioni. Inoltre, dopo la crocifissione di Gesù, i discepoli ebbero il tempo di pensare alle conseguenze prima di proclamare la risurrezione, e dopo aver iniziato a predicare molti di loro ebbero molti anni per riflettere sulle conseguenze del loro annuncio. Pertanto, possiamo essere abbastanza sicuri che i discepoli avevano ragioni per le quali erano disposti a soffrire per la loro religione.

Per quanto riguarda la disgiunzione (2.2.3.1) ⇔ (2.2.3.2), come notato in precedenza, alcuni scettici hanno suggerito che i discepoli potrebbero aver affermato che Gesù fosse risorto senza però crederci. Potrebbero aver mentito per motivi egoistici (ad es. desiderio di gratificazioni materiali) o "nobili" (ad es. amore per Gesù, lealtà reciproca, convinzione che la causa di Gesù sarebbe stata un bene necessario per tutta l'umanità) al fine di persuadere gli altri a seguire il cristianesimo.

Tuttavia, questi motivi suggeriti non avrebbero funzionato. Se i discepoli avessero mentito per motivi egoistici (ad esempio il desiderio di gratificazioni materiali), non sarebbero stati disposti a essere torturati e a morire per ciò che sapevano essere una menzogna. J. P. Moreland (1998, p. 252) osserva: "Non è come se ci fosse una villa ad attenderli nel Mediterraneo. Affrontarono una vita di stenti. Spesso rimasero senza cibo, dormirono esposti alle intemperie, vennero ridicolizzati, picchiati, imprigionati." Se i discepoli avessero voluto farsi un nome ed essere ricordati dai posteri, difficilmente avrebbero scelto una menzogna facilmente rivelabile (es. se uno dei tanti "testimoni" avesse rivelato l'inganno sotto tortura). Se i discepoli avessero avuto motivi "nobili", si sarebbero astenuti dal mentire, tanto più che la "tradizione di Gesù" condannava la menzogna (Matteo 5:37). Anche se la lealtà reciproca poteva essere stata una loro considerazione, la domanda più basilare che si sarebbero posti l'un l'altro doveva essere: "Ma perché continuiamo noi tutti a dire questa bugia?"

Inoltre, mentire su una questione così fondamentale riguardante la loro fede sarebbe stato incompatibile con la loro devozione al Dio d'Israele. Infatti, secondo le loro convinzioni, inventando la risurrezione di Gesù sarebbero stati giudicati colpevoli come falsi testimoni e condannati dal Dio d'Israele (1 Corinzi 15:15: "Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono"; cfr. anche Levitico 19:11, Proverbi 19:5,21:28). Mentre gli attentatori religiosi suicidi credevano che il loro sacrificio sarebbe stato ricompensato da Dio dopo la morte, i discepoli credevano che sacrificarsi come falsi testimoni sarebbe stato condannato da Dio dopo la morte. Mentre molte persone nel corso della storia furono disposte a sacrificare tutto (compresa la propria vita) per ciò che credevano essere vero (anche se in realtà poteva non esserlo), nessun grande gruppo di persone sarebbe disposto a sacrificare tutto per quello che non credono essere vero e poi essere condannati da Dio dopo la morte per essere stati falsi testimoni. La devozione dei primi cristiani al Dio di Israele può essere vista dalla loro condanna dell'idolatria (1 Corinzi 10:14-22) e dalla loro affermazione che l'ira di Dio è contro coloro che adorano e servono la creatura piuttosto che il Creatore (Romani 1:18-25). Hurtado osserva che, sebbene lettere come 1 Tessalonicesi e 1 Corinzi siano missive inviate a chiese gentili, il punto di vista religioso è "principalmente modellato dalla tradizione biblica/ebraica... Quindi, ad esempio, la retorica di 1 Tessalonicesi 1:9-10, sull'abbandono degli ‘idoli’ (parola ebraica per gli dei!) per servire ‘un Dio vivo e vero’ (si noti la combattività di questa frase) e il trattamento ostile e sdegnoso contro religioni pagane (in 1 Cor. 8 e 10 )" (Hurtado 2014). Anche altri testi del Nuovo Testamento indicano che i primi cristiani avevano l'atteggiamento che il culto dovesse essere rivolto esclusivamente all'unico Dio Creatore. Ad esempio, Atti 14:8-18 ritrae le persone di Listra che desiderano adorare Paolo e Barnaba come dèi dopo che Paolo aveva fatto un miracolo, ma Barnaba e Paolo rifiutano, esortandoli invece ad adorare "il Dio vivente, che ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi" (v. 15). È evidente che i primi cristiani si attenevano al comandamento: "Non avrai altri dèi all'infuori di Me" (Esodo 20:3). Si rifiutarono di onorare gli dei pagani e si rifiutarono di chiamare l'imperatore romano "Signore", anche di fronte a persecuzione. Se la loro devozione a YHWH fosse stata falsa, durante i periodi di grave persecuzione non avrebbero mostrato una devozione genuina in modo coerente alla presenza di altri cristiani e dei loro persecutori, senza rivelare l'inganno. La loro devozione a Dio avrebbe potuto essere percepita da altri in molti modi; per esempio, poteva essere percepita tramite il loro culto e le loro preghiere durante i periodi di sofferenza o le lettere che scrissero ad altri durante la persecuzione. Se la loro devozione non fosse stata genuina, altri che erano giunti a credere in Gesù in base alle loro testimonianze e che allo stesso tempo stavano anche soffrendo, se ne sarebbero accorti e la loro ipocrisia sarebbe stata smascherata. Le osservazioni sarcastiche di David Strauss riguardo all'ipotesi dell'inganno rimangono pertinenti:

« The apostles are supposed to have known best that there was not one single word of truth in the news of their master’s resurrection... yet regardless of this, they are supposed to have spread the same story with a fire of conviction that sufficed to give the world a different form. »
(Strauss 1862, pp. 276–277)

Inoltre, se i discepoli mentirono sulla risurrezione di Gesù, è difficile credere che durante i periodi di grave persecuzione avrebbero dimostrato genuina convinzione che Gesù fosse risorto, alla presenza di altri cristiani e dei loro persecutori, senza far emergere la beffa. Come osserva Pascal:

« L'ipotesi degli apostoli che ingannano è davvero assurda. Seguiamola fino in fondo, immaginiamo questi dodici uomini riuniti dopo la morte di Gesù Cristo per tessere il complotto della sua resurrezione. Con ciò si oppongono a tutti i poteri. Il cuore degli uomini è strettamente incline alla leggerezza, alla mutevolezza, alle promesse, alla ricchezza. Per poco che uno di loro avesse tradito, attratto da tutte queste cose, e inoltre sotto la minaccia della prigione, delle torture e della morte, essi erano perduti. Lo si pensi fino in fondo. »
(Pensées, 292)

Ci si potrebbe chiedere: "Come facciamo a sapere che nessuno di questi discepoli abbia abiurato quando furono torturati?" A questa domanda si può rispondere che se qualcuno di questi cruciali "testimoni oculari di Gesù risorto" avesse ritrattato quando furono torturati, i loro persecutori e altri oppositori dei primi cristiani lo avrebbero reso ampiamente noto dato che erano evidentemente motivati a distruggere il movimento cristiano (Habermas & Licona 2004, pp. 278-279, n. 63-64; Licona 2010, p. 371). Questo avrebbe mostrato che la fede cristiana era "vana" (1 Corinzi 15:17), e probabilmente non sarebbe sopravvissuta oltre il I secolo. Licona (2010, p. 371) sostiene:

« We may also expect that a recantation by any of the disciples would have provided ammunition for Christian opponents like Celsus and Lucian in the third quarter of the second century, the former of which wrote against the church while the latter wrote of the Christian movement in a pejorative manner. »

Carrier (2005a, pp. 179, 227, n. 333) obietta che fino al II secolo non si conosceva un solo attacco al cristianesimo. Parson afferma che gli antichi laici del primo secolo non erano generalmente interessati al cristianesimo, e quindi la maggior parte delle persone non si sarebbe presa la briga di confutarlo anche se fosse stato falso (Parsons 2005, p. 439). Sostiene che ci sarebbe stato un ulteriore lasso di tempo prima che qualcuno fosse sufficientemente irritato dalla loro predicazione da andare a controllare. Ai romani non importava ciò che veniva predicato fintantoché non avesse disturbarto la pace, mentre gli ebrei li avrebbero ignorati fino a quando non avessero avuto un numero sufficiente di proseliti. Quindi, invece di mettersi a dibattere, avrebbero semplicemente perseguitato i credenti (Parsons 2005, pp. 448, 451, n. 43). Lowder sostiene che i non-cristiani del primo secolo avevano poco interesse a confutare le affermazioni cristiane, tanto quanto gli scettici del ventesimo secolo avevano nel confutare le affermazioni fuorvianti del culto Heaven's Gate. Nota inoltre che le fonti ebraiche non menzionano nemmeno la risurrezione, tanto meno tentano di confutarla, e cita Martin che dice: "This hardly suggests that Jewish leaders were actively engaged in attempting to refute the Resurrection story but failing in their efforts" (Lowder 2005, pag. 288).

Risposta: si può concordare sul fatto che la nascita del cristianesimo sia avvenuta in una regione arretrata dell'impero romano, e che molti storici romani non si sarebbero presi la briga di annotare i dettagli riguardanti la risurrezione di Gesù, dal momento che liquidavano il cristianesimo come una superstizione (ad es. Tacito chiama il cristianesimo "una superstizione molto dannosa", Annali 15.44). Tuttavia, gli ebrei non cristiani si sarebbero preoccupati di confutare i cristiani fin dall'inizio; dato che si presero la briga di far crocifiggere Gesù, sarebbero stati interessati a confutare una setta che proclamava la sua risurrezione, portava avanti i suoi insegnamenti e faceva proseliti. Molti testimoni oculari ostili a Gesù (ad esempio i capi religiosi ebrei) che erano fortemente contrari al movimento cristiano, sarebbero stati ancora vivi e attivi a metà del I secolo. Come notato in precedenza, varie testimonianze indicano che le persecuzioni furono effettivamente inflitte dagli ebrei contro i primi cristiani. Per quanto riguarda le affermazioni di Carrier secondo cui non si conobbe un solo attacco al cristianesimo fino al II secolo e l'affermazione di Parson che gli ebrei non sarebbero stati interessati a coinvolgersi in dibattiti religiosi, la polemica in Matteo 28 indica che gli ebrei nel primo secolo stavano affermando che i discepoli avevano rubato il corpo di Gesù. (Ci sono ulteriori ragioni per pensare che questa polemica sia iniziata fin dall'inizio, intorno al 30 e.v.; si veda la discussione delle guardie alla tomba nel Capitolo 5).

Gli scettici sembrano immaginare che il cristianesimo si diffondesse segretamente in alcuni quartieri tranquilli e sconosciuti come fanno oggigiorno molti culti. Ciò è contrario alla rappresentazione di Luca-Atti secondo cui il cristianesimo fu predicato apertamente fin dal suo inizio in centri pubblici come il Tempio e le sinagoghe (in campo ostile, quindi) nelle grandi città dove si riunivano ebrei di ogni ceto sociale, che le affermazioni riguardanti Gesù furono dibattute apertamente (Atti 3:1-4:4,13:14-48,17:2-4,18:28, ecc.), e che le cose riguardanti il cristianesimo menzionate da Paolo non erano state "fatte in segreto" (26:26). Gli scettici dubiterebbero della storicità di questa rappresentazione. Tuttavia, Keener (2012, p. 208) osserva:

« Luke’s narrative arena in Acts contains real geography (often known to his audience, especially in the Aegean region) in quite recent history, in contrast to novels. Such settings demanded more accuracy than the distant times or exotic locations sometimes featured in other kinds of works. When Luke speaks of Paul’s conflicts in synagogues of specific locales, or the behavior of local authorities, or the founding of local churches, he reports matters that may well be preserved in local memories at the time of his writing. Local churches could dispute his assertions; synagogues could treat what they heard of his reports in the way they responded to and generated other polemic. Luke could not afford to get his basic facts wrong if he wished a wide readership, especially in the regions on which his narrative focuses. And it seems likely that just as Luke is disposed to quote biblical texts accurately, he would also wish to communicate accurately the history of his community. Although the former belonged to the community’s common repository of information, it appears that some of the latter did as well (Luke 1:4).[5] »

Che l'uso delle sinagoghe sia stata per lungo tempo la strategia missionaria di Paolo è confermato dal ricordo dello stesso Paolo di quante volte avesse sofferto sotto la disciplina giudaica (cinque volte aveva ricevuto 39 frustate [[[w:Seconda lettera ai Corinzi|2 Corinzi]] 11:24]), poiché è difficile immaginare che Paolo sarebbe stato punito e perseguitato se avesse evitato le comunità sinagogali e vissuto esclusivamente come un gentile tra le popolazioni gentili (Dunn 2008, pp. 421, 677). Che i primi cristiani fossero puniti dagli ebrei in luoghi pubblici, come si evince da passaggi tipo 2 Corinzi 11:24, implica anche che il messaggio in cui credevano e predicavano fosse noto agli ebrei pubblicamente, poiché questo sarebbe stato la causa della loro punizione. Citando lo studio di Horbury (2006, pp. 43-66) sulle pratiche disciplinari e di espulsione dell'ebraismo del Secondo Tempio, Kankaanniemi (2010, p. 234) sostiene che "le punizioni di Paolo nelle sinagoghe (2. Cor. 11:24) indicano che una sorta di giudizio ufficiale era stato dato e quindi erano state presentate accuse verbali. Gli ebrei difficilmente frustavano le persone a casaccio senza fornire un'adeguata razionalizzazione della punizione." Inoltre, va anche notato che la comunità ebraica in una grande città non era un piccolo gruppo disprezzato, ma di uno status sociale sufficiente da attirare un numero significativo di aderenti gentili (ibid., p. 677). Non è ragionevole pensare che il popolo abbia potuto ascoltare l'annuncio della risurrezione nelle sinagoghe senza avere la curiosità di fondo di chiederne i dettagli ("che cosa hanno visto i discepoli?" ecc.), soprattutto quando ciò che veniva annunciato era così straordinario e significativo. Gli oppositori ebrei che si presero il compito di far crocifiggere Gesù e punire i primi cristiani come Paolo, sarebbero stati interessati a indagare sui dettagli e confutare le affermazioni di una setta che proclamava la sua risurrezione e portava avanti i suoi insegnamenti, specialmente quando tale setta stava conquistando il loro popolo nei loro stessi luoghi di culto! Il silenzio delle prime fonti scritte ebraiche nel confutare la risurrezione può quindi essere spiegato dal fatto che pensavano di non poterla confutare in modo convincente (è interessante notare che la polemica ebraica dei discepoli che avevano rubato il corpo si riflette nelle fonti cristiane).

In sintesi, anche se molte persone nell'Impero romano del I secolo non erano interessate al cristianesimo, c'era certamente un gruppo significativo di persone (vale a dire i capi religiosi degli ebrei) che stavano attivamente cercando di demolire il cristianesimo fin dall'inizio.

Anche se (contro ogni probabilità) i persecutori non avessero resa ampiamente nota una qualche ritrattazione da parte dei cruciali "testimoni oculari di Gesù risorto" (se tali abiura fossero realmente esistite), dato che il movimento paleocristiano era una rete di stretti contatti e comunicazioni personali con i "testimoni oculari" (cfr. Capitolo 1), la notizia della loro abiura sarebbe stata comunque largamente nota tra i cristiani. Ciò li avrebbe indotti a sospettare che la loro fede fosse inutile (cfr. 1 Corinzi 15:17) e quindi ad abbandonare la fede, e il cristianesimo non sarebbe sopravvissuto a ulteriori persecuzioni.

A questo punto si potrebbe obiettare che la volontà di questi discepoli di soffrire per la loro religione non implica necessariamente la loro disponibilità a soffrire per la risurrezione di Gesù. In effetti, potrebbe non essere stato il caso che in tutte le situazioni di persecuzione i persecutori perseguitassero i primi cristiani perché non amavano la loro dottrina della risurrezione di Gesù, e non per altri motivi. Il contesto della persecuzione in tempi e luoghi specifici differiva l'uno dall'altro. Molti ebrei li consideravano una minaccia per il Tempio (Regev 2009), mentre molti romani erano disgustati dal rifiuto dei primi cristiani di rendere omaggio agli dei romani offrendo sacrifici, il che era visto come una minaccia alla stabilità dello stato (McDowell 2015, pp. 51-52).

In risposta, va notato che la dottrina della risurrezione di Gesù era fondamentale per la confessione da parte dei primi cristiani di Gesù come Signore (Hurtado 2005, pp. 192-194) e quindi per il loro comportamento come cristiani che portò alla loro persecuzione.

Contro questo, alcuni scettici hanno affermato che i Vangeli gnostici e/o il Vangelo di Tommaso[6] riflettono una diversità di opinioni tra i primi cristiani riguardo a Cristo. Dal lavoro influente di Walter Bauer su "ortodossia" ed "eresia" (1934/1971), molti studiosi hanno enfatizzato l'elemento della diversità nel cristianesimo primitivo. Ad esempio, basandosi sul lavoro precedente di Bauer, Robinson & Koester (1971) hanno proposto un modello di "traiettorie" dei primi sviluppi cristiani, secondo il quale vi erano più versioni del movimento cristiano fin dall'inizio. Sulla base del fatto che l'ipotetica Fonte Q e il Vangelo di Tommaso non si preoccupano della risurrezione di Gesù, è stato affermato che esistevano comunità cristiane primitive per le quali la risurrezione di Gesù non era la confessione centrale (Mack 1988, 1996, 2003; Crossan 1991; Cameron e Miller 2004, 2011; Kloppenborg Verbin 2000, pp. 363-364; Smith 2010). Alle loro argomentazioni si potrebbe aggiungere che, dopo tutto, si diceva che il centurione romano fosse convinto che Gesù fosse il Figlio di Dio sulla base della testimonianza della crocifissione e morte di Gesù (Marco 15:39; Matteo 27:54 aggiunge che anche quelli con lui ne erano convinti); ciò implica che la credenza che Gesù fosse risorto non fosse necessaria per quella convinzione.

Tuttavia, altri studiosi hanno osservato che ci sono ragioni per pensare che i Vangeli gnostici e il Vangelo di Tommaso siano stati scritti dopo il tempo dei primi cristiani (cioè dopo la metà del I secolo) e che siano inferiori ai Vangeli canonici come fonti storiche per Gesù (Jenkins 2001; Hill 2010). Riguardo in particolare al Vangelo di Tommaso, vi sono prove che esso dipenda dai Vangeli di Matteo e Luca e dall'Epistola di Paolo ai Romani, che rifletta una certa distanza cronologica e culturale dal Gesù storico della Palestina del I secolo, e che fu composto probabilmente verso la metà del II secolo (Gathercole 2012, 2015). L'argomento di Q non è valido, perché anche se esiste una tale fonte (la cui esistenza rimane controversa; cfr. Goodacre & Perrin 2004), non c'è ragione adeguata per pensare che le comunità cristiane che hanno utilizzato Q non abbiano utilizzato altri documenti che sottolineano la risurrezione (Dunn 2003, pp. 149-152; Jenkins 2001, pp. 73-78). È stato anche osservato che l'immagine di Gesù che Mack e altri hanno costruito sulla base di Q è così poco polemica e inoffensiva che ci si chiede perché un tale Gesù avrebbe suscitato un odio sufficiente tra gli ebrei da farlo crocifiggere (Tuckett 2011, p. 1873). Il lavoro di Bauer è stato avvalorato per aver messo in evidenza l'elemento della diversità nel primo cristianesimo. Tuttavia, vari studiosi hanno sottolineato che le sue argomentazioni su come l'"ortodossia" abbia trionfato sono fondamentalmente errate. Ad esempio, l'affermazione di Bauer secondo cui in diverse aree geografiche le teologie successivamente etichettate come "eresia" erano anteriori all'insegnamento "ortodosso" si è dimostrata incompatibile con le prove archeologiche e letterarie (Robinson 1988; Harrington 1980). Altri hanno dimostrato che Bauer non ha prestato sufficiente attenzione alle prove neotestamentarie del primo secolo mentre usava anacronisticamente i dati del secondo secolo per descrivere la natura del primo cristianesimo (del primo secolo) (Köstenberger e Kruger 2010, p. 33). Allo stesso modo, anche il modello a traiettorie multiple dei primi sviluppi cristiani proposto da Robinson & Koester (1971) è stato rifiutato da molti studiosi per la sua problematica analisi dei dati (cfr. Köstenberger & Kruger 2010; Hurtado 2013; Hartog 2015).

Mentre ci furono elementi di diversità nel primo cristianesimo, ci sono anche buone ragioni per pensare che il vangelo predicato da Paolo riguardo alla risurrezione di Gesù fosse il messaggio comune dei primi cristiani. Hurtado osserva che le lettere di Paolo (scritte prima dei Vangeli gnostici e del Vangelo di Tommaso) erano indirizzate a circoli cristiani già stabiliti negli anni ’50 e.v., incorporavano tradizioni cristiane di credenze e pratiche di anni ancora precedenti, le associazioni di Paolo con circoli cristiani includevano importanti personaggi cristiani come Pietro, Giacomo e Barnaba, e la sua conoscenza delle credenze e delle pratiche dei circoli cristiani era ampia ed estremamente precoce (Hurtado 2003, pp. 85-86). Hurtado sottolinea anche che, sebbene Paolo avesse manifestato la preoccupazione nelle sue epistole di mantenere i legami con la chiesa di Gerusalemme, non esitò a non essere d'accordo con questi cristiani su questioni importanti, come quella riguardante i termini di conversione dei cristiani gentili e l'autorità e legittimità apostolica di Paolo (Hurtado 2003, pp. 97, 112, 166). Diverse testimonianze indicano che i primi cristiani non rifuggivano da disaccordi tra loro (compresi i disaccordi con leader influenti) in questioni di importanza teologica. Per esempio, anche un apostolo molto rispettato come Pietro fu interrogato da coloro che erano circoncisi (come descritto in Atti 11:2) e sfidato da Paolo (Galati 2:11-14) riguardo a questioni relative all'accettazione dei Gentili. Altre forme di "vangelo" furono condannate (Galati 1:6-10), e tracce di disaccordi e discussioni riguardanti diverse questioni come la circoncisione, la correttezza e le regole che governavano ebrei e gentili che mangiavano insieme, le applicazioni della legge e così via, possono trovarsi nei primi documenti cristiani (Hengel et al. 1999, pp. 59-62; Dunn 2008, pp. 416-494; Wright 1992, pp. 453-455). Pertanto, abbiamo buone ragioni per aspettarci che Paolo avesse risposto nelle sue epistole a qualsiasi seria sfida a questioni cristologiche di fondamentale importanza riguardanti la persona di Gesù e la sua risurrezione, che egli proclamava nelle sue chiese. Tuttavia, è estremamente significativo che nelle sue epistole vi sia una cospicua mancanza di prove di tali disaccordi (Hurtado 2003, pp. 112, 166). Mentre Paolo a Corinto in 1 Corinzi 15:12 dovette rispondere agli scettici riguardo alla risurrezione di Gesù, non vi è alcuna indicazione che abbia dovuto fare lo stesso coi capi cristiani di Gerusalemme.

Al contrario, Dunn osserva che gli scritti di Paolo (ad es. 1 Corinzi 15:3,11) indicano che il vangelo di "prima importanza" riguardante Gesù era il messaggio, la fede e l'indicatore di identità comuni dei primi cristiani (vedi Dunn 2008, pp. 213, 533, 657). Riguardo alla "prima importanza", la fondamentalità della risurrezione di Gesù per i primi cristiani può essere confermata dall'enfatica dichiarazione di Paolo: "Ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede" (1 Corinzi 15:17). La relazione tra la loro sofferenza e la loro fede nella risurrezione corporea, che era fondata sulla loro convinzione che Gesù fosse risorto ({{passo biblico2|1Corinzi|15:3-11]]), può essere vista nei versetti 30-32:

« E perché noi ci esponiamo al pericolo continuamente? Ogni giorno io affronto la morte, come è vero che voi siete il mio vanto, fratelli, in Cristo Gesù nostro Signore! Se soltanto per ragioni umane io avessi combattuto a Efeso contro le belve, a che mi gioverebbe? Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo. »

Oltre a 1 Corinzi 15:3-5, anche altre affermazioni di credo estremamente antiche che circolarono prima della loro inclusione in vari libri del Nuovo Testamento (ad esempio in Romani 1:3-4;4:24-25; 1 Tessalonicesi 4:14) indicano la centralità della risurrezione nel primo kerigma cristiano (McDowell 2015, cap. 2). Come osservano Theissen & Merz: "Secondo Paolo il proprio atteggiamento nei confronti della risurrezione di Gesù è decisivo per il significato o la mancanza di significato della fede in Gesù" (Theissen & Merz 1998, p. 474).

Riguardo al "messaggio comune, alla fede e al marcatore di identità dei primi cristiani", Hill sottolinea che Galati 1:23 e 2:7-9 implicano che condividessero la stessa fede e proclamassero lo stesso vangelo; le epistole di Paolo contenevano precedenti tradizioni cristiane che Paolo stesso ricevette da coloro che "erano in Cristo già prima di me" (Rom. 16:7; ad es. in 1 Cor. 11:23-26 e 15:1-11, specialmente 15:11: "Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto"); Paolo riconobbe l'autorità della chiesa di Gerusalemme di convalidare, o anche di invalidare, il suo vangelo (Gal. 2:2) e presumette la legittimità dei leader di Gerusalemme (ad es. 1 Cor. 3:22 e 9:5) (Hill 2007). Data la centralità della risurrezione di Gesù per Paolo, tutto ciò non sarebbe avvenuto se i santi di Gerusalemme, i "più di cinquecento fratelli", avessero avuto una visione della risurrezione di Gesù contraria a quella di Paolo. Pertanto, l'evidenza per pensare che Paolo avesse proclamato lo stesso vangelo riguardo a Gesù Cristo (anche se espresse disaccordo su altre questioni) implica che il punto di vista di Paolo riguardo alla risurrezione fosse anche il punto di vista dei cristiani di Gerusalemme guidati dai membri dei Dodici. Questa conclusione è coerente con altri passi neotestamentari che ritraggono la centralità della risurrezione di Gesù nella predicazione apostolica (McDowell 2015, pp. 21-22).[7]

Pertanto, anche se c'era una certa diversità tra i primi cristiani riguardo a una serie di altre convinzioni, e anche se è possibile che alcuni individui (ad esempio il centurione romano) potessero essere stati convinti che Gesù fosse il Figlio di Dio prima della credenza che Gesù fosse risorto (Marco 15:39; Matteo 27:54), ci sono ottime ragioni per pensare che le lettere paoline riflettano le convinzioni ampiamente condivise tra Paolo e altri primi cristiani (compresi quei "testimoni oculari"; cfr. 1 Cor. 15:11) riguardo alla risurrezione di Gesù.

Questa conclusione è coerente con il fatto che nei libri del Nuovo Testamento vi sono accenti e approcci cristologi diversi (cfr. Neyrey 1985; Tuckett 2001). Questa conclusione è anche coerente con le diverse interpretazioni di Paolo da parte dei cristiani successivi. Lehtipuu (2015) sostiene che tra i cristiani successivi c'era una diversità di punti di vista sulla risurrezione e su come le credenze sulla risurrezione servissero da importante marcatore di identità e strumento per la demarcazione del gruppo, sostenendo che "l'eredità di Paolo era abbastanza ambivalente da consentire diverse soluzioni ermeneutiche" (p. 204) riguardo alla natura del "corpo spirituale" (ibid.; cfr. anche Nicklas et al. 2010). Tuttavia, indipendentemente da queste differenze di opinioni tra i cristiani successivi su ciò che Paolo intendeva per risurrezione, Paolo sapeva sicuramente cosa intendesse, ed è stato affermato in precedenza che Paolo asserisce una "rianimazione o rivivificazione del cadavere" (Ware 2014, p. 494) e che implica che altri primi leader cristiani come i Dodici affermanssero lo stesso. Anche Lehtipuu (2015) sostiene che "c'era una controversia simile sulla storia evangelica del dibattito di Gesù con i sadducei sulla risurrezione" (p. 204), in particolare sul fatto che il paragone dei resuscitati con "angeli in cielo" significasse che non ci sarebbero stati organi sessuali o "se tali parti avrebbero funzioni diverse in cielo" (ibid.). Anche in questo caso, indipendentemente da tali differenze di opinioni riguardo alle parti del corpo risorto, i Vangeli affermano chiaramente una rivitalizzazione del cadavere di Gesù raffigurando una tomba vuota.

Riassumendo, ho mostrato l'inadeguatezza delle obiezioni alla conclusione (basata sulle ragioni fornite in precedenza) che le lettere paoline riflettano la convinzione diffusa e persistente tra i primi cristiani riguardo alla risurrezione di Gesù. Va notato che non sto affermando che non c'era persona del I secolo che si definisse cristiano e che negasse questa opinione. Quello che ho sostenuto è che, indipendentemente dal fatto che ogni persona del I secolo che si definiva cristiano affermasse questa opinione, c'era un ampio accordo tra i capi della chiesa di Gerusalemme e Paolo e i suoi collaboratori, riguardo a questa opinione — e l'origine di questo accordo diffuso richiede una spiegazione.

Data la loro comune comprensione della fondamentalità della risurrezione di Gesù, i casi di persecuzione per la loro religione erano direttamente o indirettamente il risultato della loro dottrina della risurrezione di Gesù. Non è quindi errato dire che questi discepoli subirono (o furono disposti a soffrire) persecuzioni per la risurrezione di Gesù, anche se la risurrezione non era esplicitamente il motivo per cui scelsero di soffrire o l'accusa rivolta contro di loro in tutti i casi.

In conclusione, è ragionevole pensare che la convinzione che Gesù fosse risorto fosse il motivo fondamentale per cui erano disposti a soffrire e morire per la loro fede. È vero che i seguaci di quasi tutte le altre religioni hanno subito persecuzioni ad un certo punto della loro storia e che ciò è stato generalmente ritenuto forgiasse una fede più resistente (Bowker 2007, p. 745). Tuttavia, la loro disponibilità a sacrificarsi per le proprie religioni dimostra solo che molte persone sono disposte a sacrificarsi per ciò che pensano sia vero, anche se potrebbe non essere vero. La loro disponibilità al sacrificio non implica che siano stati in grado di scoprire se ciò in cui credono sia vero, o che siano state escluse altre ipotesi naturalistiche. Ad esempio, per quanto riguarda i terroristi musulmani che attaccarono le Torri Gemelle l'11 settembre, McDowell (2015, p. 260) osserva che "non furono testimoni oculari di alcun evento della vita di Maometto. Vissero invece più di tredici secoli dopo. Senza dubbio i radicali musulmani agirono per fede sincera, ma le loro convinzioni erano state ricevute di seconda mano, nella migliore delle ipotesi, da altri." Si potrebbe obiettare che seguaci di leader settari come Jim Jones (1931-1978) e Marshall Applewhite (1931-1997) sono morti per la loro fede suicidandosi e sono stati testimoni oculari dei loro leader. Tuttavia, la ragione per cui i seguaci di Jones si suicidarono era perché pensavano che avrebbero dovuto commettere "un atto di suicidio rivoluzionario per protestare contro le condizioni di un mondo disumano".[8] Sono spiegazioni naturalistiche plausibili (ad esempio le loro osservazioni su casi di ingiustizia) del motivo per cui pensavano che le condizioni del mondo fossero disumane.

Similmente, in molti altri casi di martirio, l'impegno per una causa morale o per le proprie culture e tradizioni può aver portato quei martiri alla volontà di sacrificio, e queste pulsioni possono avere spiegazioni naturalistiche plausibili. Il motivo per cui i seguaci di Applewhite si suicidarono era perché pensavano che uccidendosi le loro anime sarebbero state portate a un livello di esistenza superiore associato ad alieni extraterrestri;[9] non erano in grado di disprovare questa convinzione prima di morire. Alcune persone avrebbero potuto credere a Jones, ad Applewhite e ad altri leader settari, a causa di loro discorsi persuasivi che facevano appello a convinzioni e desideri — ma gli apostoli credettero che Gesù fosse risorto non a causa di un discorso persuasivo ma perché avevano "visto" qualcosa che pensavano fosse il Gesù risorto, e furono in grado di attestare ciò che videro. Se coloro che affermavano di aver visto Gesù risorto non avessero visto nulla ma avessero però affermato che Gesù era risorto, allora avrebbero saputo che ciò che affermavano era falso (cioè inventato da loro). Non è ragionevole pensare che gruppi di persone siano disposti a soffrire e morire per ciò che sanno essere falso e, come sostenuto nel resto di questo libro, ci sono buone ragioni per escludere altre ipotesi naturalistiche.

Testimoni del Gesù risorto[modifica]

Per quanto riguarda la disgiunzione (2.2.4.1) ⇔ (2.2.4.2), si potrebbe obiettare che la convinzione dei discepoli che Gesù è risorto non implica necessariamente che abbiano assistito a qualcosa che pensavano fosse il Gesù risorto, perché altri fattori avrebbero potuto causare tale credenza. Plantinga obietta all'argomento dell'affidabilità delle testimonianze degli apostoli basata sulla loro disponibilità a morire come martiri, sostenendo che ciò che conta di più in tali casi è la fermezza della fede, non se la fede in questione costituisce conoscenza o è vera (Plantinga 2006, pp. 14-16). Le persone a volte non aspettano le prove prima di credere. È stato suggerito in un saggio di Rudolf Pesch (1973) che la fede dei discepoli in Gesù come profeta e Messia profetico prima della sua crocifissione, insieme alle predizioni di Gesù sulla sua morte violenta, avrebbe potuto indurre i discepoli a continuare a credere in lui dopo la sua crocifissione. Lindemann (2017, p. 579) afferma:

« Christian faith started with an interpretation of Jesus’ death as a means for reconciling humanity with God. The empty tomb and the appearance narratives do not claim to be historical statements, but express the belief of Jesus’ first disciples, and of later generations, that Jesus is Messiah and Lord, as he himself explained to his disciples in the Gospel of Luke. »

Come notato in precedenza, Ehrman suggerisce che la credenza dei primi cristiani nella risurrezione di Gesù potrebbe essere stata causata dalla loro rimuginazione della sua crocifissione traumatica e dalla meditazione dei passaggi dell'Antico Testamento, e non perché avessero assistito a ciò che pensavano fosse il Gesù risorto.

Contro Ehrman e altri, si potrebbe obiettare che la ragione addotta da Paolo per credere che Gesù fosse risorto è che c'erano persone che testimoniarono di aver visto Gesù risorto (1 Corinzi 15:3-11). È vero che Paolo afferma che la risurrezione di Gesù ha realizzato le profezie dell'Antico Testamento (1 Corinzi 15:4: "secondo le Scritture").[10] Tuttavia, la domanda "come i discepoli sapessero che era Gesù di Nazareth" e non un'altra persona che adempiva alle profezie, riceve risposta da esse sulla base di quelle che si diceva fossero le esperienze dei testimoni oculari (ad esempio "apparve anche a me" [1 Cor. 15:8]). In altre parole, "secondo le Scritture" nel presente contesto significa un'interpretazione degli eventi della morte e risurrezione di Gesù da parte delle Scritture (Theissen & Merz 1998, p. 489). Ciò implica che i discepoli fossero convinti per altri motivi che gli eventi si fossero verificati prima che usassero le Scritture per interpretarli. L'affermazione che Gesù "in seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora" (1 Cor. 15:6) è chiaramente intesa come prova testimoniale che è verificabile dal suo pubblico in modo che possano infatti sapere che l'apparizione della resurrezione è realmente avvenuta. Paolo sta dicendo in effetti, "un gran numero di testimoni oculari è ancora vivo e può essere visto e ascoltato", e ciò viene fornito per affrontare il problema che i Corinzi trovavano incredibile la risurrezione (1 Cor. 15:12) (Bauckham 2006, pag. 308). Come osservano Theissen & Merz: "I riferimenti alle apparizioni in ordine cronologico e l'accessibilità nel presente di molti testimoni, solo alcuni dei quali sono morti, supportano la comprensione di 1 Corinzi 15:3-11 come un tentativo di provare la risurrezione di Cristo" (Theissen & Merz 1998, p. 489). Mentre il Vangelo di Giovanni ritrae un discepolo creduto a causa della tomba vuota (Giovanni 20:8), la tradizione precedente in 1 Corinzi 15:3-11 indica che, per la maggior parte dei primi cristiani, la prova della risurrezione di Gesù si trova nelle esperienze dei testimoni (cfr. inoltre Hurtado 2005, pp. 192-193). L'evidenza dell'apparizione della risurrezione a Paolo stesso (1 Cor. 15:8) era, naturalmente, la sua stessa ragione per pensare che la risurrezione fosse avvenuta.

Tuttavia, de Jonge (2002, p. 47) obietta che mentre la pretesa delle apparizioni di Gesù risorto acquisì presto la funzione di prova della risurrezione di Gesù in 1 Corinzi 15, ciò non smentisce l'ipotesi che nella prima fase l'affermazione delle apparizioni "non fu il fondamento della fede nella risurrezione di Gesù, ma piuttosto assumeva quella fede come base". De Jonge sostiene che la fede derivò da ciò "che era iniziato prima di essa in risposta alla sua persona, alla sua predicazione e alle sue azioni. La storia della chiesa iniziò come una risposta da parte delle persone che Gesù vinse con la sua predicazione durante la sua attività sulla terra" (2002, pp. 48-49). De Jonge propone:

« Thanks to the boldness and authority with which Jesus spoke out against the religious authorities of his day, thanks to his attention to the humble and lowly, his healing of the sick and the exorcisms which accompanied his preaching a group of people became convinced that God’s rule was indeed at hand and that Jesus was the Messiah. This conviction was so strongly held by some of Jesus’ followers that they could not abandon it when he died, for the core of their conviction lay in their belief that God was causing his rule to dawn, and not in their view of the person or role of Jesus. »
(ibid.)

Superarono la sua morte, aggiungendo l'idea che la salvezza era diventata possibile soprattutto attraverso la morte di Gesù (p. 49), e credettero nella risurrezione di Gesù come espressione della loro fede che Dio aveva sancito l'opera di Gesù sulla terra e come un modo per rendere più facile immaginare il ruolo che Gesù doveva ancora svolgere come giudice e salvatore nella prossima svolta definitiva del Regno di Dio (pp. 50-51). De Jonge sostiene che i resoconti della disperazione e del dubbio dei discepoli dopo la crocifissione di Gesù (es. Luca 24:11) fossero espedienti retorici usati dai redattori per contrastare il riconoscimento del Cristo risorto con la diffidenza che lo precedeva, cosicché le apparizioni di Cristo avrebbero assunto una maggiore convinzione per i lettori. Conclude: "In termini storici non sappiamo nulla di delusioni e scoramenti tra i discepoli di Gesù subito prima e dopo la sua crocifissione" (ibid.). Contro de Jonge, Wright (2003, p. 700) sostiene che "nessuno, dopo tutto, credeva che il Messia sarebbe risorto dai morti; nessuno si aspettava una cosa del genere" e che non c'era alcun precedente ebraico sull'aspettativa della risurrezione di un uomo prima della risurrezione generale. Tuttavia, gli scettici potrebbero obiettare che la "predizione" di Gesù della sua risurrezione potrebbe aver causato tale attesa (Whittenberger 2011), promossa dalla loro "aspettativa escatologica intensificata" che Gesù aveva alimentato (Novakovic 2016, p. 153), e potrebbero sostenere che la rappresentazione dei Vangeli dell'iniziale incapacità dei discepoli di comprendere queste predizioni sono "rhetorical devices used by the redactors" (per usare l'espressione di de Jonge).

Tuttavia, rimangono diversi problemi.
Primo, non tutti i "testimoni oculari" iniziarono come credenti. Giacomo e Paolo, per esempio, erano scettici prima di "testimoniare" il Gesù risorto (vedi oltre, Capitolo 3).

In secondo luogo, riguardo ai Dodici, l'affermazione di de Jonge secondo cui i resoconti della disperazione dei discepoli erano dispositivi retorici usati dai redattori, ignora il contesto della persecuzione. È più probabile che, avendo saputo quanto fosse stat orribile la morte di Gesù, almeno alcuni (se non tutti) di questi discepoli avevano grande paura di menzionarlo di nuovo, per timore di essere crocifissi anche loro.

Inoltre, dato che l'idea che "erano i messia falliti a finire sulle croci" era così profondamente impressa nella loro coscienza ebraica (Wright 1999, p. 276; cfr. capitolo successivo), è probabile che un certo grado di cinismo riguardo a Gesù ("era solo un impostore!") sarebbe stato presente nella mente di almeno alcuni di questi discepoli. Mentre il fatto che i discepoli avessero davvero investito molto nella causa di Gesù avrebbe potuto render loro arduo abbandonare rapidamente le proprie convinzioni, sarebbe stato più difficile proclamare senza paura qualcosa di così arduo da credere per altri ebrei come un Messia crocifisso e dover affrontare la persecuzione per questo.

Inoltre, l'idea che qualcuno sia fisicamente vivo e vegeto di nuovo in poco tempo dopo la crocifissione[11] è davvero straordinaria; non è qualcosa che ci si aspetta di vedere tutti i giorni. Come notato nel Capitolo 1, lo scetticismo sulle persone che risorgevano dai morti era chiaramente presente tra le persone del I secolo. Contrariamente a de Jonge, Matteo 28:17 difficilmente potrebbe essere spiegato come un "dispositivo retorico usato dai redattori", poiché il contesto di Matteo 28:17 non dice che il dubbio sia stato superato dalle apparizioni di Cristo. È vero (come sostenuto in precedenza) che sulla base di altre considerazioni storiche, si può dedurre che, se i loro dubbi fossero rimasti, non sarebbero stati disposti a continuare il movimento cristiano e a soffrire e morire per questo. Tuttavia, il Vangelo di Matteo non lo dice, e quindi è difficile considerare Matteo 28:17 come un dispositivo retorico. La storicità dei discepoli che dubitano della risurrezione di Gesù (indipendentemente dal fatto che Gesù l'avesse predetta), ben attestata in tutti i Vangeli (Matteo 28:17, Pseudo-Marco 16:14, Luca 24:36-41, Giovanni 20:24-29), è molto plausibile dato che "i discepoli non erano irrimediabilmente e insensibilmente alienati dal mondo solido" per scoprire da esperienza che i cadaveri non escono spontaneamente dalle tombe (Allison 2005a, pp. 246, 305). Parsons (2005, p. 443) esprime incredulità per il fatto che i discepoli fossero ancora così dubbiosi dopo aver visto così tanti "miracoli" fatti da Gesù in precedenza. Risposta: ciò non è così sorprendente, considerando che vedere qualcuno vivo e vegeto di nuovo in un corpo glorioso dopo la crocifissione fu davvero un evento straordinario. Inoltre, come ha sostenuto Atkins (2019), il dubbio e l'incredulità sono costantemente condannati da un'ampia varietà di autori paleocristiani, gli antichi testi cristiani indicano esplicitamente che il dubbio/incredulità è una fonte di vergogna, e faceva sembrare gli apostoli testardi o sciocchi nel la loro incredulità. Così il dubbio degli apostoli sarebbe stato imbarazzante in un antico contesto cristiano; questo corrisponde al criterio dell'imbarazzo ed è quindi molto probabilmente autentico.

Lo stesso Pesch in seguito rifiutò la sua visione precedente, riconoscendo che la fede dei discepoli in Gesù come profeta e Messia profetico prima della sua crocifissione sarebbe stata insufficiente per superare la crisi di fede dei discepoli e spiegare l'origine e la persistenza della loro affermazione che Gesù era veramente divino.[12] Da un lato, le previsioni di Gesù sulla propria morte violenta difficilmente sarebbero state sufficienti; non sarebbe stato difficile pensare a come qualcuno potesse far avverare su di sé una tale profezia facendo il genere di cose che fece Gesù al Tempio. D'altra parte, la crisi di fede dei discepoli era da aspettersi, poiché la crocifissione era la forma di punizione ultima in epoca romana, riservata principalmente agli schiavi e ai sudditi ribelli (Hengel 1977).

È vero che prima della nascita del cristianesimo alcuni ebrei avevano già interpretato brani come Isaia 53 ad indicare che il Messia avrebbe sofferto (Boyarin 2012, pp. 129–156), e che alcuni individui (il centurione romano pagano e quelli con lui) si diceva fossero convinti che Gesù era il Figlio di Dio in base alla testimonianza della sua crocifissione e morte (Matteo 27:54). Tuttavia, come indicato dall'ebreo Trifone nel Dialogo di Giustino, è dubbio che la visione di un Messia che soffre la peggior forma di punizione nelle mani dei loro nemici, invece di liberarli dall'oppressore, fosse ciò che gli ebrei (compreso i discepoli di Gesù) avrebbero facilmente accettato in epoca romana. Ancor più importante, non c'è alcuna indicazione che brani come Isaia 53 fossero stati interpretati a prospettare che Dio il Creatore avrebbe sofferto nelle mani dei suoi nemici. È degno di nota il fatto che, sebbene ci fossero stati un certo numero di movimenti messianici tra il 150 p.e.v. e il 150 e.v., questi movimenti non sopravvissero alla morte violenta dei loro fondatori (ad es. Teuda, Bar Kokhba) p[er mano dei loro nemici (Wright 2003, p. 699). Nessuno dei loro seguaci applicò a loro Isaia 53 e continuò il movimento, né ci fu alcuna prova che qualcuno di loro venisse adorato e considerato veramente divino dopo la morte. La dottrina di un "Dio crocifisso" sarebbe stata considerata da molti nell'antichità, sia ebrei che gentili, come "una spudorata impertinenza e assurdità" (Hengel 1995, p. 383). Tuttavia, Gesù fu considerato dai primi leader cristiani come parte del Creatore della relazione Creatore-creatura (8:6: "Per noi c'è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui") e adorato da questi antichi ebrei monoteisti. Mentre 1 Corinzi dipinge Cristo crocifisso ("scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani" — 1 Corinzi 1:23) come "potenza di Dio e sapienza di Dio" (1:24), la stessa lettera sottolinea tuttavia la verificabilità dei "testimoni oculari" delle apparizioni post mortem di Gesù (15:6) e che "se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede" (15:17). Senza che le persone sperimentassero quello che pensavano fosse il Gesù risorto dopo la sua morte vergognosa, il cristianesimo non sarebbe iniziato come fece e non avrebbe fatto proseliti.

In terzo luogo, i primi cristiani erano in grado di distinguere tra fede e fatti: consideravano la fede priva di valore se la risurrezione di Gesù non fosse stata un fatto, come implicato da 1 Corinzi 15:17, e comprendevano la risurrezione di Gesù come "rianimazione o rivitalizzazione del cadavere' (Ware 2014, p. 494) — un'affermazione fattuale sulla realtà fisica osservabile. Sebbene i discepoli non avessero osservato questo evento nel momento stesso in cui si verificò, difficilmente avrebbero potuto giungere all'accordo diffuso che fosse accaduto se il cadavere fosse stato ancora nella tomba e nessuno in seguito avesse osservato quello che pensava fosse il Gesù risorto. Come sostenuto nel Capitolo 1, 1 Corinzi 15 fu scritto quando molti di coloro che affermavano di aver visto Gesù risorto, compresi i leader di spicco dei cristiani di Gerusalemme, erano ancora vivi e potevano essere controllati dai lettori. Resta ancora da spiegare le affermazioni delle apparizioni post mortem di Gesù (e anche la fatticità della tomba vuota; cfr. Capitolo 5): come si ottengono "più di cinquecento fratelli", gli "altri apostoli" e scettici come Giacomo e Paolo, ad affermare di aver visto Gesù risorto (come stabilito nel Capitolo 1) se in realtà non avevano visto niente del genere, e ad essere disposti a soffrire e morire per questa religione? Inoltre, come affermato in precedenza, se non avessero visto nulla di ciò che pensavano fosse il Gesù risorto, durante i periodi di intensa persecuzione non sarebbero stati in grado di apparire sinceri e coerenti nel testimoniare di aver vissuto tali esperienze, senza che nessuno rivelasse invece che questi non avevano assistito a niente del genere. È più ragionevole pensare che avessero visto qualcosa che pensavano fosse il Gesù risorto, tanto da proclamare con coraggio che Gesù era risorto, disposti a sacrificare tutto e a morire per questo, senza timore di essere giudicati colpevoli come falsi testimoni (1 Cor 15:15) e condannati dal Dio d'Israele.

Conclusione[modifica]

In questo Capitolo, ho argomentato per la conclusione che (2.2) almeno alcune (se non tutte) di quelle persone nella Palestina della metà del I secolo che affermavano di aver assistito a Gesù risorto, sperimentarono qualcosa che pensavano fosse il Gesù risorto.

L'ipotesi alternativa (2.1.1) "queste persone non sperimentarono nulla che pensavano fosse il Gesù risorto, e non credettero che Gesù fosse risorto" è contraddetta dalla considerazione che affermare di aver visto Gesù risorto voleva dire rischiare la sofferenza e la morte. Mentre molte persone nel corso della storia sarebbero state disposte a sacrificare tutto (compresa la propria vita) per ciò che credevano essere vero (anche se in realtà poteva non essere vero), nessun grande gruppo di persone sarebbe stato disposto a sacrificare tutto per quello che non credevano essere veroi e venire condannati da Dio dopo la morte come falsi testimoni (cfr. 1 Corinzi 15:15). Ho spiegato che i discepoli credevano devotamente che un tale Dio esiste e che la volontà dei discepoli di morire per la loro religione può essere dedotta dal fatto che sapevano che il loro capo (cioè Gesù) era stato già crocifisso e tuttavia scelsero di proclamarlo sapendo che un simile destino sarebbe potuto capitare a loro; che furono effettivamente inflitte persecuzioni contro i primi cristiani (come ammise Paolo nelle sue epistole); e che molti di loro furono uccisi (es. Atti 12:2, Flavio Giuseppe Antichità 20:9). Ho anche sostenuto che la dottrina della risurrezione di Gesù fu fondamentale per la confessione dei primi cristiani di Gesù come Signore, e quindi per il loro comportamento come cristiani, che portò alla loro persecuzione. Inoltre, se i discepoli mentirono sulla risurrezione, è difficile credere che durante i periodi di dura persecuzione avrebbero dimostrato genuina convinzione che Gesù fosse risorto alla presenza di altri cristiani e dei loro persecutori, senza far emergere la menzogna.

Che dire dell'ipotesi alternativa (2.1.2), che queste persone non sperimentarono nulla che pensavano fosse il Gesù risorto, e avevano altre ragioni per cui credevano che Gesù fosse risorto? Questo è ad hoc perché richiede speculazioni su come ex scettici come Paolo e Giacomo, il fratello di Gesù, arrivarono a credere che Gesù fosse risorto senza assistere a quello che pensavano fosse il Gesù risorto. Inoltre, ho sostenuto che, se questi discepoli non avessero sperimentato nulla di ciò che pensavano fosse Gesù risorto, durante i periodi di persecuzione non sarebbero apparsi genuini e coerenti nel testimoniare di aver avuto tali esperienze. L'ipotesi alternativa (2.1.2) è contraddetta anche da considerazioni riguardanti le difficoltà di accettare e proclamare un Messia crocifisso, lo scetticismo popolare sulla risurrezione corporea, i rischi di persecuzione e il loro riverente timore di essere giudicati da YHWH come falsi testimoni. Date queste considerazioni, è irragionevole pensare che "più di cinquecento fratelli", gli "altri apostoli", e scettici come Giacomo e Paolo, nonché "i Dodici", possano aver falsamente affermato di aver visto Gesù risorto senza aver visto qualcosa del genere ed essere disposti a essere perseguitati. Si può quindi concludere che videro e provarono qualcosa che pensavano fosse il Gesù risorto.

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Serie cristologica.
  1. Questo suggerimento è riportato in Carrier (1999, 2005), anche se poi continua dicendo: "Tuttavia, penso che sia più probabile che Pietro e Giacomo, e certamente Paolo, forse molti altri, abbiano visto qualcosa che ispirò la loro fede".
  2. Questo è adattato dall'ipotesi suggerita da Ehrman in Craig & Ehrman (2006, p. 29). Ehrman prosegue suggerendo: "I credenti che sapevano che era stato risuscitato dai morti iniziarono ad avere visioni di lui", e quindi la sua ipotesi non può essere rigorosamente classificata come "ipotesi di nessuna esperienza" poiché i discepoli ebbero determinate esperienze in seguito (cioè visioni).
  3. Si noti che "o/oppure" è inteso in senso esclusivo in questo sillogismo come anche nel successivo.
  4. Per una difesa della storicità della persecuzione dei cristiani da parte di Nerone, si veda Jones (2017); Van der Lans and Bremmer (2017); cfr. Shaw (2015).
  5. Keener (2012) ha risposto anche ad altre obiezioni contro l'attendibilità storica di Atti, ad esempio l'apparente incoerenza con le epistole di Paolo; cfr. Carrier (2009).
  6. Mentre alcuni studiosi classificano il Vangelo di Tommaso come gnostico, altri obiettano (ad esempio manca la distinzione tra il "vero Dio" e "il demiurgo"); probabilmente è meglio classificarlo come elitario e ascetico (Gathercole 2015).
  7. Vinzent (2011) ha fatto un tentativo creativo di mettere in discussione quanto fosse centrale la risurrezione per i primi cristiani, sostenendo che non fosse centrale per i primi 140 anni del cristianesimo, tranne che negli scritti di Paolo. Tuttavia, il suo libro si basa su ipotesi e datazioni problematiche dei contenuti dei testi pertinenti, inclusi i Vangeli e gli Atti (Drake Williams III, 2014) e ignora l'evidenza che la risurrezione fosse "il messaggio, la credenza e l'indicatore di identità comuni dei primi cristiani" notata in precedenza (es. Gal 1:23, 2:7-9; 1 Cor. 15:11).
  8. Cfr. The "Death Tape".
  9. Cfr. heavensgate.com.
  10. Riguardo a 1 Corinzi 15:4, Licona (2010, p. 319) nota che un caso plausibile potrebbe essere che i primi cristiani avessero in mente testi scritturali specifici, osservando che "negli Atti, Luca afferma anche che Cristo morì e risuscitò dai morti secondo le Scritture (Atti 3:18; 17:2-3; 26:22-23), e cita una serie di testi a sostegno (Salmi 16:8-11 in Atti 2:25-32; Salmi 118:22 in Atti 4:10-11; Salmi 2:1-2 in Atti 4:25-28; Isaia 53:7-8 in Atti 8:32-35; Isaia 55:3 e Salmi 16:10 in Atti 13:33-37."
  11. Contro l'ipotesi dello svenimento (vedi Capitolo 4), un Gesù mezzo morto ancora sofferente per le ferite della crocifissione non avrebbe convinto i discepoli di essere il Signore risorto in gloria.
  12. Pesch si attiene alla teoria delle visioni oggettive; cfr. Pesch (1983); Galvin (1988, pp. 27–35).