Sovranità Ebraica/Capitolo 3

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Il Purim (פורים) in un quadro di Arthur Szyk, 1948

La Tradizione come Linguaggio e Narrativa[modifica]

Come accennato in precedenza, qui non solo mi presumo di evidenziare le devastanti lacune e i fallimenti del quadro epistemologico dominante che viene più comunemente utilizzato per comprendere ciò che viene solitamente definito come "religione e politica" in Israele, ma anche di offrire almeno il profilo di un epistemologia alternativa. Questa sarebbe una posizione "tradizionista", poiché ha a che fare con il concetto di tradizione. Questo Capitolo è dedicato all'interpretazione del concetto e allo studio del nostro rapporto con le nostre tradizioni. Il Capitolo noterà innanzitutto la prevalenza di un sospetto errato nei confronti della tradizione, nonché un palese fraintendimento della nozione stessa di tradizione in alcuni ambienti accademici. Verranno quindi delineati alcuni dei principi fondamentali di una interpretazione alternativa della tradizione, basata su una lettura "sociologica" di alcune importanti opere filosofiche. Il Capitolo lo fa rivisitando e sintetizzando alcuni argomenti concettuali noti e molto influenti che, nel loro insieme, offrono un'interpretazione e una comprensione della tradizione avvincente e completa, che riesce a evitare e superare le false dicotomie che hanno dominato il pensiero socio-scientifico. Suggerirò due analogie corrispondenti che catturano la natura complessa della tradizione: tradizione come linguaggio e tradizione come narrativa. Il Capitolo prosegue poi discutendo le principali implicazioni che queste analogie portano alla nostra comprensione della tradizione.

Tradizione come antimonio alla libertà?[modifica]

In un discorso del 1955 al Congress on Cultural Freedom, in una Conferenza sul Futuro della Libertà, Edward Shils avvertì il suo pubblico di non sottovalutare la tradizione come un'assoluta antinomia della libertà. Pur affermando che la fede liberale "correctly points to the inherent antinomy between tradition and liberty",[1] Shils tuttavia insistette su una comprensione più sfumata della tradizione, che evidenzi sia l'inevitabilità e la limitatezza della sua autorità, sia la sua complessa relazione con l'individualità. (in effetti, questo è stato uno dei progetti più importanti della sua vita lavorativa come intellettuale). Per questo usò un'analogia piuttosto ingegnosa, quella della tradizione del giardiniere:

« Tradition is not the dead hand of the past but rather the hand of the gardener, which nourishes and elicits tendencies of judgment which would otherwise not be strong enough to emerge on their own. In this respect tradition is an encouragement to incipient individuality rather than its enemy. It is a stimulant to moral judgment and self-discipline rather than an opiate. »
(Shils, ibid., 156)

Shils parla qui in un contesto di generale disprezzo della tradizione come qualcosa che, nella migliore delle ipotesi, è rilevante solo per comprendere il passato, sicuramente privo di rilevanza per comprendere il presente o il futuro. In una certa misura, questo sentimento è diventato fondamentale nella costruzione del sé moderno e occidentale.

Questo sentimento deve molto a un senso "scientifico" (ontologico) nato dall'Illuminismo, di un'antinomia intrinseca tra tradizione e sovranità e libertà individuale, quindi, in definitiva, un'opposizione epistemologica tra tradizione e verità (scientifica o artistica). Questo senso di sospetto è stato catturato al meglio da Cartesio nelle osservazioni di apertura alla sua prima meditazione, dove sostiene che l'atto costitutivo, la base stessa della sua capacità di acquisire la vera conoscenza, deve essere la sua auto-liberazione dal suo passato, o tradizione, che gli aveva imposto le sue falsità.[2]

Il rimedio di Cartesio per la sua "ansia"[3] – cioè, la sua soluzione alla sua paura di poter credere che ciò che è falso (a causa dell'autorevole imposizione da parte della tradizione dei suoi discutibili dettami all'ignaro giovane Cartesio) fosse vero – era (presumibilmente) liberarsi da tutto ciò che conosce, così come da qualsiasi sistema di conoscenza privo di una componente di "prova" metodica e sistematica, e ritornare ad uno stadio apparentemente "puro" di mente pulita ma tuttavia razionale e logica che acquisisce verità attraverso una ricerca e analisi metodiche.

Questo ideale è diventato uno stadio formativo nella costruzione del soggetto moderno, o sé, come agente sovrano, indipendente, autoriflessivo e ostinato, liberato dalla presa della tradizione e dell'autorità; da qui, come nota Charles Taylor,[4] le pesanti implicazioni etiche sono incapsulate in quelle che altrimenti potrebbero sembrare considerazioni piuttosto tecniche relative alla filosofia della scienza. Ha dato vita alla concezione di un essere umano distaccato dal suo passato, o almeno lo è potenzialmente; come minimo, questo agente razionale e disimpegnato è sicuramente percepito come sovrano rispetto al suo passato, cioè può avvicinarsi ad esso in modo indipendente e giudicarlo "dall'esterno", per così dire.

Ora, anche se ci sono alcuni evidenti difetti nelle nozioni di conoscenza, verità e azione di Cartesio,[5] questa concezione del soggetto disimpegnato o "mente" e l'implicita antinomia tra conoscenza tradizionale e verità sono state tuttavia consacrate come nozioni fondamentali di "vera" scienza.[6] In effetti, in alcune letture, il progetto filosofico avviato da Cartesio è ciò che intendiamo con il nostro uso moderno della parola "scienza". Questo è anche il contesto in cui le argomentazioni contrarie, in particolare quelle di Polanyi[7] e Kuhn,[8] sono state viste come "controverse" se non addirittura "rivoluzionarie": per quanto convincenti siano queste argomentazioni, sono state tuttavia "scioccanti" nel loro indebolire dell'ideale fondativo di una mente disimpegnata e astorica che cerca la verità e la conoscenza attraverso osservazioni e analisi metodiche e sistematiche.

Il predominio di questo ideale scientifico potrebbe spiegare perché l'appello di Shils sembra essere stato lasciato in gran parte inascoltato durante i tempi d'oro del comportamentismo positivista nelle scienze sociali. Accettando la distinzione dicotomica tra "moderno" ("uomo", società) e "tradizionale" come assioma paradigmatico dello studio scientifico della società (parte della narrativa più ampia di secolarizzazione e modernizzazione), un'autoimmagine dominante del moderno, l'Occidente liberale ha avuto la tendenza a sminuire la tradizione come una questione del passato. Considerando gli individui moderni, razionali ed epistemologicamente secolari come sovrani sul loro passato, queste scienze sociali tendevano a vedere la tradizione come un elemento dato per scontato, autorevolmente incontrastato e piuttosto inequivocabile del contesto socioculturale "premoderno" (anzi, "tradizionale"). Tendevano quindi a considerare la tradizione come un limite alla libertà individuale, alla razionalità e alla riflessività. La liberazione dalla tradizione divenne così una precondizione della capacità di vedere la realtà in modo imparziale, veritiero e razionale.

Quei rari tentativi da parte degli scienziati sociali di discutere la tradizione in modi che trascendono la falsa dicotomia tra tradizione/storia e modernità/cambiamento o almeno di facilitare una considerazione più sfumata del concetto di tradizione, pur illuminante di per sé, indicano anche il fatto ovvio che tali tentativi di "riabilitare" il discorso sulla tradizione sono un revisionismo offerto sullo sfondo di una "ortodossia" generale che ignora la nozione di tradizione in quanto irrilevante per la comprensione della modernità apparentemente liberata e secolare, se non addirittura sua nemica.

Questo truismo si inserisce in un argomento ben sostenuto che contrappone i razionalisti/secolaristi ai conservatori/tradizionalisti come i due opposti esclusivi ed esaustivi di un argomento storico ed etico riguardante il valore e il merito della tradizione nella vita moderna. Tuttavia, per quanto feroci possano essere le argomentazioni lungo questa opposizione, è abbastanza evidente che entrambe le parti mantengono una nozione fondamentalmente simile, o un'immagine della tradizione come un "pacchetto" sigillato trasferito a noi, contemporanei, dal passato, che porta con sé dettami autorevoli su ciò che dovremmo credere sia vero e su come dovremmo comportarci nel presente. Entrambe le parti sembrano concordare sul fatto che il passato è un "dato di fatto", immutabile e univoco; l'unica discussione tra le due parti, così sembra, è se dovremmo attenerci ai dettami che questo passato comporta, in modo conservatore/tradizionalista, o ignorarli (se non ribellarci contro di essi) in un atto razionalista/laicista di indipendenza intellettuale e sovranità individualista. Questo argomento, per quanto costitutivo di tanta discussione sociofilosofica, è particolarmente deplorevole, poiché si basa su un grave malinteso della tradizione.

In larga misura, questo malinteso e il conseguente disprezzo della tradizione (se non addirittura la relativa ostilità) si nutrono di un deplorevole scisma disciplinare, che separa le scienze sociali dalle discipline umanistiche, soprattutto dalla filosofia. Poiché la filosofia si trova (sebbene spesso non riconosciuta) al centro del sospetto e del disprezzo della tradizione da parte della scienza sociale positivista, e offre alcune interpretazioni alternative ponderate della tradizione, tali che possono sicuramente gettare una luce illuminante sullo studio della società. Per prima cosa, come accennato in precedenza, è piuttosto ovvio per chiunque sia anche solo parzialmente in sintonia con lo studio filosofico dell'epistemologia che questo atteggiamento scettico nei confronti della tradizione è una manifestazione di ciò che deve essere etichettato, per quanto paradossale possa sembrare, una "tradizionale" epistemologia cartesiana e kantiana.[9] E man mano che la critica a questa epistemologia acquisisce coerenza e credibilità, diventa urgente la spiegazione di una comprensione alternativa della tradizione.

Inoltre, come ho accennato in precedenza, una delle correnti revisioniste più forti nelle scienze sociali contemporanee (o, più in generale, nelle scienze umane) è stata una travolgente decostruzione e discredito della narrativa quasi paradigmatica della secolarizzazione, il massimo precursore socio-scientifico della suddetta antimonia tra tradizione e libertà e suoi derivati (contrapponendo la tradizione alla verità, alla razionalità, alla modernità, alla riflessività, alla neutralità, all'oggettività e ad altri concetti fondativi dell'immagine di sé dominante nella professione accademico-scientifica). Questa svolta evidenzia l'urgenza del suddetto appello di Shils, anche più di mezzo secolo dopo che fu reso pubblico per la prima volta: una valutazione attenta, sfumata e non ideologicamente secolarista della tradizione è essenziale per lo sviluppo della nostra autocomprensione. È sicuramente fondamentale per comprendere l'argomento di questo wikilibro, vale a dire il modo in cui il pensiero sionista e la sociopolitica israeliana affrontano le tradizioni ebraiche che li hanno preceduti.

Un'epistemologia alternativa[modifica]

Il resto di questo Capitolo cerca, quindi, di delineare alcuni dei principi fondamentali di tale comprensione alternativa della tradizione, basata su una lettura "sociologica" di diverse importanti opere filosofiche (inutile dire che la presunta distinzione disciplinare è messa in discussione praticamente da ogni autore interessato). Lo fa rivisitando e sintetizzando alcune opere filosofiche note e di grande influenza che, nel loro insieme, offrono un'interpretazione e una comprensione della tradizione avvincente e completa, che riesce a evitare e superare le false dicotomie che hanno dominato il pensiero socio-scientifico, come quello della presunta antimonia inerente, sopra menzionata, tra tradizione e individualità o tra tradizione e modernità, tra verità e autorità, tra scienza e tradizione, ecc.

Al centro di questa comprensione della tradizione c'è l'enfasi sulla natura fondativa, o costitutiva, della tradizione. Vista da questa prospettiva, la tradizione emerge come una metastruttura piuttosto dinamica nella quale si nasce e all'interno della quale e attraverso la quale si acquisisce il senso del mondo e si sviluppa il senso di azione, soggettività o individualità: in breve, la propria individualità. La tradizione è quindi vista come l'infrastruttura che consente la nostra autocomprensione e ne fissa i limiti, anche quando questa autocomprensione viene definita dalla sua ribellione alla tradizione.

Questa visione sottolinea anche che la tradizione è priva di significato senza la sua interpretazione-applicazione effettiva e contemporanea da parte di individui e comunità, evidenziando così la natura piuttosto dinamica della tradizione. In altre parole, questa comprensione della tradizione è strettamente attenta alla continua formazione e riforma del nostro passato costitutivo. Rifiuta il consenso conservatore/secolarista secondo cui il passato è un dato inflessibile, sostenendo invece (per quanto tautologico possa sembrare) che il significato stesso di queste infrastrutture che instillano significato nel nostro essere umano non è mai fisso, ma piuttosto viene interpretato e reinterpretato così come viene applicato, praticato.

In effetti, questo può essere visto come un'ulteriore formulazione di ciò che alcuni schemi logici possono vedere come un tentativo paradossale di sottolineare entrambi e allo stesso tempo l'autorità del passato su di noi e la nostra azione nel costruire e modellare proprio questo passato. Tuttavia, "thinking about it [the past, or ‘public memory’] is as close as we can get to reflecting on the conditions of our thought – as undetermined and inconclusive as this may sound".[10]

Inutile dire che questa interpretazione della tradizione, o almeno delle correnti forti delle sue nozioni principali (portanti etichette varie e divergenti), non è una novità sociofilosofica. Senza offrire una spiegazione sistematica ed esauriente di questa affermazione, direi che si possono trovare forti correnti di una comprensione fondamentalmente simile della tradizione (per citare i nomi più notevoli) nella discussione di Ludwig Wittgenstein[11] sulle "forme di vita", sul "contesto ereditato" e sul comportamento "governato da regole"; nell’argomentazione post-wittgensteiniana di Clifford Geertz[12] secondo cui il pensiero umano è intrinsecamente pubblico e nella sua corrispondente ricostruzione della "cultura"; nella nozione di "conoscenza tacita" di Michael Polanyi;[13] nell'idea di "paradigma" di Thomas Kuhn;[14] nell'evidenziazione del ruolo della "conoscenza tradizionale" da parte di Michael Oakeshott;[15] e nell'enfasi di Charles Taylor[16] sul "significato intersoggettivo" e sul "linguaggio" per la comprensione dell'umanità; riceve inoltre una formulazione più completa e sistematica nel pensiero di Hans-Georg Gadamer[17] e Alasdair MacIntyre.[18] E come dimostra la citazione di Shils di cui sopra, questa comprensione della nozione di tradizione può essere trovata anche nelle opere dei maggiori studiosi di scienze sociali. (Oltre a Shils,[19] S. N. Eisenstadt[20] è probabilmente l'altro sociologo più importante a questo riguardo). Ma penso che comunque non sia riuscita a penetrare il comune discorso occidentale sulla tradizione.

Certo, come può capire chiunque abbia anche solo un po’ di familiarità con il pensiero dei succitati pensatori, l'atto stesso di identificare molti di loro e i loro modi di pensare come presunti membri di un'unica "scuola" coerente è chiaramente fuorviante. Tuttavia, poiché il mio scopo qui è un tentativo di offrire una comprensione interpretativa di una delle nozioni più fondamentali dell'umanità, e non la narrazione di una storia della filosofia, direi che una considerazione attenta e meticolosa di alcuni dei principali temi sviluppati da questi vari autori possono essere molto produttivi nel facilitare una riconsiderazione della tradizione tanto necessaria.

Pertanto, sebbene i pensatori sopra menzionati emergano da scuole filosofiche divergenti e utilizzino varie modalità di indagine, le loro concettualizzazioni della tradizione sembrano essere complementari. Tutti mirano a una nozione piuttosto simile di tradizione come ciò che può essere definito presupposto contemporaneo, testuale e costitutivo, sia della comunità che del sé. E, come notato sopra, sottolineano che la tradizione, che è intrinsecamente collettiva, non solo è inevitabile ma anche vitale per la formazione dell'identità individuale e privata. La tradizione, in altre parole, abilita e limita la nostra capacità di comprendere la realtà, sottolineando la nostra situazione come precondizione della nostra stessa cognizione; ed è di per sé un riflesso della comprensione presente e contemporanea del significato del passato.

Due immagini o analogie corrispondenti catturano questa natura complessa della tradizione: la tradizione come linguaggio e la tradizione come narrativa. Di seguito presenterò queste analogie e discuterò le principali implicazioni che comportano per la nostra comprensione della tradizione.

Tradizione come linguaggio[modifica]

Questa analogia sottolineerebbe la visione della tradizione come sistema pratico di significati, proprio come il linguaggio è testuale e verbale. Ancora più importante, queste immagini catturano sia l'inevitabilità dell'influenza della tradizione (che è, di certo, intrinsecamente pubblica, o collettiva) sull'individuo, sia, in un certo senso, i limiti di questa influenza, o l'azione del parlante/portatore nel mantenere e rimodellare la lingua/tradizione. Lo fa, in primo luogo, sottolineando che la tradizione è una precondizione della nostra individualità; che, proprio come il linguaggio, la tradizione è una sottostruttura, principalmente di pratica e significato, che è il letto nutritivo da cui ci sviluppiamo e attraverso il quale ci comportiamo come individui e membri della società. Sottolinea inoltre il fatto che, proprio come i diversi linguaggi umani, così ogni tradizione ha una struttura di significato unica, un certo modo di significare (con la propria storia, il proprio modo particolare di rappresentare la realtà, il proprio insieme di valori guida, e via dicendo).

Allo stesso tempo, questa analogia evidenzia anche il ruolo dell'individuo nel "mantenere" la tradizione, sottolineando la natura dialogica (anche se non paritaria) del nostro rapporto con la tradizione. Pertanto, questa analogia può aiutarci sia ad apprezzare la natura inevitabile del ruolo costitutivo della tradizione nel plasmare la nostra azione "dialogica", o individualità (in contrapposizione alle nozioni razionaliste-individualiste di un agente "monologico"),[21] sia a contestualizzare questo ruolo in modo da per esporre la sua intrinseca dipendenza dalla pratica, dall'applicazione e dall'interpretazione della lingua/tradizione da parte degli individui e delle comunità che le parlano/portano o le praticano (in contrasto con l'inclinazione conservatrice a sottovalutare l'azione umana).

Per cominciare, proprio come non scegliamo la lingua in cui nasciamo, così non scegliamo la tradizione in cui nasciamo e attraverso la quale veniamo formati come individui. ("Socializzazione" è stato un termine così abusato da renderlo quasi privo di significato, ma potrebbe comunque essere adatto qui.) E questo fatto piuttosto circostanziato porta implicazioni pesanti e decisive: perché la lingua non è solo un mezzo o uno strumento del nostro pensiero, ma la precondizione stessa della propria capacità di pensare.

Ci sono vari modi in cui possiamo concepirlo: possiamo, ad esempio, sottolineare che il pensiero è intrinsecamente pubblico o dialogico. Ma ciò che probabilmente è più importante è che non possiamo nemmeno concepire un simile linguaggio "monologico" o, per usare la famosa espressione di Wittgenstein, "privato". In altre parole, la lingua – la lingua intrinsecamente pubblica – può essere vista come una precondizione della propria coscienza. Se esiste qualcosa come la coscienza senza linguaggio, è semplicemente al di là della nostra capacità di conoscerlo o comprenderlo.[22]

Ora, potrebbe benissimo darsi che la tradizione, con la sua enfasi sulla pratica, dovrebbe essere vista come un po’ "meno onnicomprensiva" del linguaggio: per prima cosa, mentre non possiamo concepire una persona cosciente che non abbia un linguaggio (pubblico), possiamo almeno concepire una persona vitale che tuttavia sia così ignorante della sua tradizione – cioè, ignorante del modo di vita che essa costituisce, ignorante di come praticare la tradizione di cui fa parte – che sarebbe corretto supporre che tale persona "non sappia parlare" la sua "lingua" e in un certo senso sia "senza tradizione". Inutile dire che questa ipotetica persona è il tipo di persona che solitamente consideriamo priva di un elemento cruciale della sua identità, come inautentica. Inoltre: data la visione della tradizione con cui ho iniziato questa discussione, sarebbe anche corretto sostenere che questa persona, se è un membro almeno minimamente attivo della società, non è veramente priva di tradizione – che per funzionare in modo sensato in un contesto sociale deve condividere una pratica sociale basata sulla tradizione, la stessa "grammatica" che consente la comunicazione sociale. Questa ipotetica persona verrebbe quindi considerata "doppiamente ignorante": cioè inconsapevole del fatto di seguire effettivamente le linee guida di una pratica basata sulla tradizione (ad esempio, come ha acquisito guardando rappresentazioni della realtà in TV). Tuttavia, il fatto che possiamo concepire ed essere critici nei confronti di una persona del genere, suggerisce che questa potenziale persona non è totalmente frutto dell'immaginazione accademica. Sarebbe quindi saggio tenere presenti i limiti dell'analogia discussa.

Questa analogia è particolarmente illuminante poiché cattura la natura "silenziosa" e inevitabile della "presa" della tradizione su di noi. La tradizione, come la lingua, ci precede, non solo cronologicamente, ma anche – essendo il "modus vivendi" o "il modo in cui le cose vengono fatte" nel nostro habitat socioculturale – in modo significativo, nel fissare la grammatica (pratica) attraverso la quale e con la quale noi ci sviluppiamo come individui. In altre parole, questa analogia coglie l'infrastruttura pubblica, o collettiva, costitutiva della nostra azione individuale, della nostra coscienza e comprensione di sé.

In secondo luogo, questa analogia indirizza la nostra attenzione alla natura storica e particolaristica di questa infrastruttura, gettando così una luce critica sulla pretesa universalistica di nozioni razionalistiche di una mente indipendente e razionale che esamina liberamente la realtà attraverso l'uso delle regole (astratte) della logica. Proprio come quell'inevitabile fondamento della nostra coscienza, il linguaggio, è di natura particolaristica – cioè, ha un certo passato, un certo modo di vedere la realtà e di descriverla, un certo modo di comportarsi nel proprio mondo, ecc., permettendoci di esprimerci in certi modi e impedendoci di farlo in altri (fatto di cui possiamo essere intellettualmente consapevoli e tuttavia incapaci di articolarlo), così la tradizione "impone" la sua "grammatica pratica", se si vuole, a noi. Permette a noi, i suoi portatori, di comportarci in certi modi e ci impedisce di farlo in altri modi. Sarebbe semplicemente fuorviante presumere che "si è liberi di fare qualunque cosa si voglia fare": non solo la pratica e l'autorità che manifesta ci incoraggiano direttamente a fare le cose in certi modi, ma (in qualche modo indirettamente) ci impediscono e vietano dal fare le cose in altri modi.[23]

Ma, come ho accennato in precedenza, questa enfasi sull'autorità della tradizione su di noi è lungi dall'essere l'intera storia: poiché la nostra relazione dialogica con la tradizione significa anche che la tradizione – ancora una volta, proprio come il linguaggio – dipende da noi, i suoi portatori, per la sua interpretazione, applicazione, pratica e, in definitiva, la sua stessa sopravvivenza.

Comunemente ci riferiamo a una lingua che non viene parlata come una lingua "morta". I suoi resti potrebbero risiedere in libri e dizionari, e alcuni accademici che si dedicano allo studio di tale lingua potrebbero ancora sapere come parlarla. Ma una volta che la comunità di persone che parlano questa lingua cessa di esistere, una volta che questa lingua non è più di uso quotidiano, la sua stessa esistenza come vero e proprio sistema di significazione viene vista come qualcosa che ha cessato di esistere. Ciò indica il fatto che finché questa lingua è effettivamente parlata, viva, è in un processo costante e dinamico di formazione e riformazione. Le persone che parlano una certa lingua, i suoi "praticanti" nel presente, sono anche i suoi applicatori, i suoi interpreti e, come comunità, la modellano e la rimodellano costantemente.

Quindi, per affermare solo l’ovvio, mentre una certa lingua è parlata e ha una storia, assume forme di vita diverse in diverse comunità e diversi periodi di tempo. L'inglese parlato oggi negli Stati Uniti, per fare un esempio un po' banale, è ben diverso dalla lingua omonima che Shakespeare usava nell'Inghilterra del XVI secolo per scrivere le sue opere; e l'introduzione di determinate tecnologie incoraggia nuovi giochi sullo stesso insieme di "strumenti" di significazione, tanto che un divario generazionale si trasforma in un divario linguistico. E continuiamo a riferirci a tutte queste diverse istanze come manifestazioni di una lingua, l'inglese. Lo stesso si può dire dell'italiano, pensando a Dante e confrontandolo con Ungaretti. Ciò, quindi, evidenzia il fatto che i parlanti di una certa lingua sono anche i suoi modellatori e riformatori. Loro, come individui e come comunità, la vivono, vivono in base ad essa e la cambiano mentre lo fanno.

Lo stesso vale per la tradizione. La pratica della tradizione significa la sua interpretazione. "A living tradition is never set or frozen, but is rather a moving image of the past [...] Parts of tradition may wither and die while other continue to move and flourish".[24] Per comprendere ciò dobbiamo prestare attenzione al senso unico della conoscenza su cui si fonda la tradizione. La conoscenza pratica, o conoscenza tradizionale, è molto diversa da quella forma di conoscenza "tecnica" o formale che ha finito per dominare il nostro senso di intelligenza. La tradizione vive nella pratica, nei significati "esperienziali" o "intersoggettivi"[25] che essa significa, e non nelle sue articolazioni formali. Infatti, come osserva Oakeshott sulle tradizioni politiche, tali tentativi di formalizzare queste tradizioni in insiemi formali di "dottrine politiche" o "ideologie", non sono altro che caricature delle tradizioni su cui si basano: catturano un certo elemento autentico della tradizione, sottolineandolo a tal punto da distorcere apertamente la tradizione originaria da cui deriva.[26] Nelle parole di Rabinow, questo è infatti l'opposto della tradizione, vale a dire, alienazione: "the attempt to maintain a fixed sense of symbols once other conditions have shifted".[27] Ciò può avere un valore intellettuale, ma ovviamente fallisce sul piano pratico. Lo stesso si può dire di altre tradizioni – diciamo, legali o religiose – e dei tentativi di iscriverle e codificarle: una volta completate, queste codificazioni richiedono immediatamente interpretazioni affinché possano essere attualizzate, praticate e applicate in circostanze mutevoli.

Quest'ultimo argomento indirizza la nostra attenzione anche agli aspetti istituzionali e organizzativi sia della lingua che della tradizione. Entrambe sono stati oggetto di tentativi da parte di poteri sovrani (in particolare il moderno stato-nazione e quelle che comunemente chiamiamo autorità "religiose") di "regolamentare" la pratica – e in effetti, il senso stesso in alcuni casi – di questi sistemi di significati. La storia di questi tentativi ci racconta sia della potenzialità dell'organizzazione istituzionale di influenzare il modo in cui percepiamo e pratichiamo la lingua/tradizione (la "standardizzazione" delle lingue "nazionali" e la concomitante "invenzione" e diffusione forzata delle tradizioni nazionali è troppo immensa e non la si può trascurare), ma anche dei loro limiti. In un certo senso, lo stesso argomento presumibilmente "non logico" che ho presentato in precedenza deve essere ribadito qui: anche nei casi in cui questi poteri riescono a stabilire una tradizione "standardizzata" (cioè, attuali interpretazioni programmatiche e interessate del passato e del suo significato) o linguaggio (poiché questa nozione è antinomica rispetto all'essenza della tradizione e del linguaggio), una volta che queste standardizzazioni sono "vive", portate avanti da chi le parla/pratica, la capacità di questi poteri di controllare il modo in cui questa pratica viene portata avanti (compresa la possibilità di rivisitare il passato e rifiutarne la versione ufficiale) è piuttosto limitata.

L'accostamento della tradizione al linguaggio getta quindi una luce illuminante sul tipo di rapporto che noi – portatori di tradizione o parlatori di linguaggio – abbiamo con questi presupposti storico-sociali della nostra individualità. Porta in primo piano entrambi i lati della storia: che siamo per sempre "catturati" nella rete di significati intessuti dalla tradizione (come manifestato nella nostra pratica, nel nostro modo di vivere, quel medium "dato" o "scontato" con cui noi stessi ci conduciamo), e che noi – portatori della tradizione – siamo anche i suoi interpreti, che non solo la mantengono ma la rimodellano costantemente.

Ora confrontiamo questa visione della tradizione e del linguaggio con il tentativo logico-positivista di "superare" quella che è vista come la natura limitata del linguaggio umano quale strumento con cui avvicinarsi alla realtà. Questo progetto, che ha raggiunto l'apice con Russel, Frege e il primo Wittgenstein, tendeva a considerare il linguaggio umano come uno strumento debole e parziale, che tende a incoraggiarci a sbagliare: ci consente di affermare piuttosto facilmente e naturalmente ciò che è ovviamente falso come se fosse vero. Cercavano invece di sostituire il linguaggio umano con simboli matematici, sostituendo il discorso con la logica, come mezzo per "forzare" la mente a comprendere la realtà "così com’è". Nelle scienze sociali ciò assumerebbe la forma di un tentativo comportamentista di costruire un linguaggio "neutro", "scientifico" (cioè carico di gergo) basato su "teorizzazioni" e "modelli" che dovrebbero superare la molteplicità di significati associati ai simboli (sia discorsivi che pratici) separando il linguaggio scientifico dal linguaggio umano.

L'analogia tra tradizione e linguaggio getterebbe anche una luce critica sulle nozioni conservatrici riguardanti la rigidità, o l'atemporalità, della tradizione, poiché evidenzia la natura dinamica e contemporanea della tradizione. Tornerò su questo punto più avanti.

Tradizione come narrativa[modifica]

Secondo questa analogia (sviluppata in modo più completo da MacIntyre), la tradizione è, molto semplicemente, la nostra storia: è la narrativa storica, ma in continuo sviluppo, di cui facciamo parte. Può trattarsi della narrazione di una certa pratica o professione, di una certa etnia o nazione, di una certa religione, di una certa filosofia morale e così via. Secondo questa visione, ogni istituzione umana ha – o in un certo senso forse addirittura è – una narrativa. E, cosa ancora più critica, l'individualità e l'azione umana sono viste di conseguenza come costituite da tali narrazioni sociali. Come dice MacIntyre:

« I can only answer the question “What am I to do?” if I can answer the prior question “Of what story or stories do I find myself a part?” We enter human society, that is, with one or more imputed characters—roles into which we have been drafted—and we have to learn what they are in order to be able to understand how others respond to us and how our responses to them are apt to be construed [...] [T]here is no way to give us an understanding of any society, including our own, except through the stock of stories which constitute its initial dramatic resources [...] Narrative history of a certain kind turns out to be the basic and essential genre for the characterization of human actions [...]. »
(Alasdair MacIntyre, After Virtue, 209, 216)

Un'implicazione immediata di questa analogia, molto simile nel caso della prima, è l'enfasi simultanea sull'inevitabilità sia della tradizione che dell'azione. In altre parole, questa analogia incarna l'interazione e l'interconnessione tra cambiamento, sviluppo e continuità nel senso più chiaro. Perché "to be an adherent of a tradition is always to enact some further stage in the development of one’s tradition".[28] La narratività – avere una struttura narrativa che infonde significato alla realtà – è una precondizione per la nostra capacità di fare ciò che ci rende umani, cioè: comprendere. La "nostra storia" è ciò che ci permette in primo luogo di comprendere la realtà e di comportarci nel mondo. Come dice MacIntyre nella citazione supra, la tradizione, o la narrativa che è tradizione, ci "trascina" in un "ruolo" le cui caratteristiche di base sono già stabilite. Non scegliamo noi questo ruolo, né scegliamo queste caratteristiche costitutive. Ma siamo noi che interpretiamo questi ruoli. Ogni individuo "interpreta" i suoi vari ruoli e, come in ogni caso di gioco, interpreta questi ruoli e le loro caratteristiche, mentre lo fa.

Non è un caso che i concetti di "play" e "game" abbiano un ruolo così decisivo in molte delle opere filosofiche sopra menzionate. Proprio come la nozione di MacIntyre secondo cui gli agenti svolgono i loro "ruoli" in un gioco/narrativa in corso, sia la nozione di "language games" di Wittgenstein che la discussione di "play" di Gadamer, per citare solo i due esempi più sorprendenti, puntano direttamente al nucleo del relazione complessa tra il comportamento governato da regole (cioè il potere della tradizione su di noi) e un'agenzia o individualità attiva e cosciente. Per capirlo dobbiamo prima abbandonare le nozioni razionalistiche della soggettività umana, secondo le quali un soggetto umano indipendente "sa" che sta semplicemente giocando, e "riflette" sul gioco mentre lo mette in atto (in effetti, tale agire o giocare "consapevole" è una ricetta per una prestazione palesemente negativa); si tratta invece di un "modo di essere"[29] in un ambiente che sembra avere vita propria ma che tuttavia, per essere, dipende fondamentalmente dall'attore-giocatore. Lo studio del gioco rivela quindi chiaramente quella che potrebbe essere considerata la sua supremazia sull'essere umano che lo gioca:

« The players are not the subjects of play; instead, play merely reaches presentation (Darstellung) through the players [...] Play clearly represents an order in which the to-and-fro motion of play follows of itself [...] [A]ll playing is a being-played, [...] the game masters the players [...] The real subject of the game [...] is not the player but instead the game itself. What holds the player in its spell, draws him into play, and keeps him there is the game itself. »
(Gadamer, ibid., 103, 105, 106)

Ma, allo stesso tempo, il fatto più ovvio che dobbiamo tenere presente è che senza giocatori o attori che lo compiano, il gioco non ha un'esistenza reale; e che non esistono due rappresentazioni della stessa opera teatrale identiche: ogni messa in scena è anche un atto di interpretazione, un caso "individuale" di rappresentazione.

Come possiamo – sia come attori che interpretano un ruolo in una narrativa sia come ricercatori che studiano il loro comportamento – decidere quale sia la narrativa "giusta" da rappresentare? In altre parole, come dobbiamo rispondere al dilemma costitutivo di MacIntyre sopra citato: "Di quale storia o storie mi ritrovo a far parte?" Perché è piuttosto ovvio che la risposta a questa domanda – chiamiamola la questione della "selettività" nella fenomenologia della tradizione portatrice – non è mai fissa, chiara e determinata. Sono "io" che "trovo" (scelta sembra davvero un termine troppo forte qui, ma l'azione è lungi dall'essere muta) me stesso in una storia, e poi vado a mettere in scena il capitolo successivo di questa narrativa.

Una risposta forte potrebbe sostenere che è proprio questa ermeneutica non deterministica – anzi, "relativistica" – a preservare la nozione centrale di democrazia; che l'insistenza sul dialogo qui racchiusa consente all'ermeneutica di "affermare di essere una possibile filosofia della trasformazione sociale, che sarebbe basata [...] sull'affermazione dell'identità culturale come arma nella lotta contro il capitalismo e l'ordine mondiale imperialista".[30]

Ma questo ci lascia ancora con la questione irrisolta dell'"autenticità": si può facilmente pensare a casi in cui gli agenti, o "attori", sembrano cercare di recitare un ruolo in una narrativa che sa di inautenticità, chiaramente non "loro" (vari esempi di "americanizzazione" ne sono probabilmente gli esempi più ovvi) – che cercano di portare avanti una tradizione che è, fondamentalmente, loro estranea. Ciò acquista uno slancio ancora più urgente nel contesto di un ethos di autenticità, in cui ci si aspetta che uno sia ciò che è "essenzialmente".[31] Ho il sospetto che questa sia una di quelle questioni che richiedono di essere lasciate irrisolte: che al di là di questi ovvi casi di mimetismo totale e spesso ignorante, ci rimane un'ampia gamma di letture e messe in atto potenziali e "relativistiche" che sono aperte a divergenti giudizi sulla loro "autenticità".

Quest'ultima questione di selettività e autenticità è ulteriormente complicata se prendiamo in considerazione quei casi unici nella storia, vale a dire i momenti rivoluzionari, in cui gli agenti che agiscono dichiarano di dissertare una "vecchia" tradizione/narrativa, e di scrivere un romanzo, rivoluzionariamente nuovo: narrativa e tradizione. Sebbene sia chiaro che si tratta di esempi di azione accentuata, in cui il dialogo tra la tradizione e i suoi portatori diventa assertivo, se non combattivo, si può comunque sostenere che la percezione di tali momenti rivoluzionari come del tutto "nuovi", come se non avessero nulla a che fare con il loro passato, è semplicemente sbagliato. Come chiarisce MacIntyre[32] nella sua critica all’improbabile duo Kuhn e Burke (e vedi sotto), una concezione "rivoluzionaria" (in contrapposizione a quella evolutiva, sviluppativa) della progressione all'interno e tra le tradizioni (o paradigmi) non riesce a vedere che queste "nuove" tradizioni/paradigmi contengono una narrativa essenziale del fallimento dei loro predecessori, quindi una comprensione del loro passato. C’è, in altre parole, un importante elemento di "trasferimento" anche in caso di rivoluzioni: "What is carried over from one paradigm to another are epistemological ideals and a correlative understanding of what constitutes the progress of a single intellectual life".[33]

La tradizione, "a flow of sympathy",[34] è sempre messa in discussione e potrebbe effettivamente essere intesa come fuorviante, ma anche questa sfida e la potenziale crisi/rivoluzione che ne consegue dovrebbero essere viste come, in un senso importante, una mossa "tradizionale":

« [Tradition] may be temporarily disrupted by the incursion of a foreign influence, it may be diverted, restricted, arrested, or become dried-up. And it may reveal so deep-seated an incoherence that (even without foreign assistance) a crisis appears. And if, in order to meet these crises, there were some steady, unchanging, independent guide to which a society might resort, it would no doubt be well advised to do so. But no such guide exists; we have no resources outside the fragments, the vestiges, the relics of its own tradition of behaviour which the crisis has left untouched. For even the help we may get from the traditions of another society (or from a tradition of a vaguer sort which is shared by a number of societies) is conditional upon our being able to assimilate them to our own arrangements and our own manner of attending to our arrangements. »
(Oakeshott, ibid.)

Una seconda implicazione centrale dell'analogia della "tradition as narrative" è che queste narrazioni sono narrazioni aperte. I loro finali devono ancora essere scritti. Le nostre relative interpretazioni sono fasi del loro sviluppo e queste interpretazioni svolgono un ruolo nel determinare lo sviluppo futuro della narrativa. Ciò ci rimanda direttamente alla natura dinamica e contemporanea della tradizione. Contrariamente alla percezione sia razionalista-secolare che conservatrice della tradizione come un insieme piuttosto fermo e immutabile di credenze e pratiche, una "comprensione narrativa" della tradizione mostra che essa è essenzialmente dinamica e in continua evoluzione. Vista come una narrativa in procinto di essere scritta e riscritta, una storia che non solo viene raccontata e ri-raccontata ma anche, nello stesso processo in cui viene rappresentata, costantemente rimodellata dalle varie interpretazioni dei suoi attori (cioè individui e comunità che portano questa tradizione), la tradizione si rivela tanto contemporanea quanto antica (o almeno tanto quanto viene considerata come radicata nel passato).

Questa enfasi sul carattere dinamico della tradizione è così profonda da portare MacIntyre, spesso considerato un pensatore "conservatore", a criticare con le parole più dure l'uomo solitamente visto come il padre del pensiero conservatore, Edmund Burke, definendolo a un certo punto "an agent of positive harm".[35] Pertanto, mentre la nozione di tradizione come narrativa facilita una nozione argomentativa, conflittuale e discorsiva della tradizione,[36] una nozione conservatrice di tradizione alla Burke, in cui stabilità e veridicità al di là della critica sono viste come caratteristiche essenziali della tradizione, è, nel migliore dei casi, un malinteso: "Traditions, when vital, embody continuities of conflict. Indeed when a tradition becomes Burkean, it is always dying or dead".[37]

Quindi, cosa indicano queste analogie?[modifica]

La visione della tradizione manifestata nelle analogie discusse supra ha diverse implicazioni per la nostra comprensione di noi stessi come agenti razionali, costituiti dalla tradizione. Ancora una volta, questa è lungi dall'essere una novità. Piuttosto, questa visione della tradizione e delle sue implicazioni riecheggia diversi temi, che sono comuni a tutti o alla maggior parte dei pensatori sopra menzionati, e potrebbe aiutarci nella valutazione di tali temi. In quanto segue abbozzerò i contorni molto sommari di alcuni dei più urgenti di questi.

Epistemologicamente, la nozione di tradizione sopra delineata sfida il razionalismo illuminista, empirista e positivista, con il suo generale disprezzo per la tradizione e la pratica, e la sua enfasi esclusiva sulla ragione astratta, sul metodo e sulla conoscenza tecnica. Invece, questa visione della tradizione evidenzia il ruolo essenziale della ragione pratica o della conoscenza tradizionale. Ciò equivale a sfidare la presunta antinomia tra tradizione e ragione che caratterizza l'epistemologia razionalista, evidenziando invece il ruolo della tradizione e dell'autorità come elementi costitutivi della ragione e del pensiero. Allo stesso tempo, questa visione metterebbe in risalto la natura dinamica della tradizione e il ruolo dell'agente individuale e della comunità interessata nell'interpretazione e nel mantenimento della tradizione, argomentando contro le nozioni conservatrici della presunta natura rigida, "eterna" e apertamente autorevole della tradizione, quasi a celebrare la presunta irrazionalità della tradizione.[38]

Questa sfida contro le nozioni illuministiche di razionalismo va di pari passo con un'accresciuta sensibilità al ruolo della pratica. La tradizione è, per la sua stessa "essenza" – cioè ontologicamente e fenomenologicamente – realizzata solo quando è compresa, interpretata, carica di significato (che è sempre "contemporaneo"), interiorizzata e applicata o praticata dai suoi portatori. In altre parole, la comprensione pratica della tradizione (che richiede sempre la sua interpretazione e affermazione) è una precondizione della sua esistenza. La pratica è così permeata di accresciuta importanza, in quanto portatrice della ragione stessa. Dato che l'epistemologia empirista/positivista/razionalista è stata il nido intellettuale della tesi della secolarizzazione, l'insistenza nell'esporre i punti ciechi di questa epistemologia dominante, che è implicata nella comprensione della tradizione qui riassunta, e i vari tentativi di superarne i limiti attraverso l'enfasi su modalità alternative di conoscenza, può rivelarsi molto fruttuosa nel facilitare una prospettiva e un'epistemologia post-secolare.

Fondamentalmente, tale epistemologia alternativa supererebbe la presunta scelta esclusiva tra, da un lato, oggettivismo, realismo e verità, e, dall'altro, relativismo. Offrirebbe un'insistenza attenta e sfumata su una visione della realtà in cui la verità ontologica è riconosciuta e può sicuramente essere oggetto di discorso, ma allo stesso tempo sarebbe ovviamente stanca dell'assolutismo empirista. Invece, metterebbe in risalto la natura limitata della nostra capacità di cogliere questa verità, e la natura storica, comunitaria e dinamica (cioè legata alla tradizione) della nostra conoscenza di tale verità.

Questa visione della tradizione confuta anche la presunta antinomia tra tradizione (collettiva) e libertà (personale), sottolineando invece che la capacità stessa di concettualizzare la soggettività e di vedere il sé come un agente indipendente dipende essa stessa da una tradizione costitutiva in cui tale formulazione è possibile in primo luogo. Come sostengono praticamente tutte le opere filosofiche sopra citate, sarebbe gravemente sbagliato sottovalutare il ruolo costruttivo svolto dai preconcetti e dalle prospettive ereditate dalla realtà storico-sociale nel modellare la nostra comprensione di questa realtà.

Comprendere il ruolo costitutivo della tradizione fa luce anche sulla natura e sul ruolo dell'autorità, evidenziandola come precondizione per accumulare conoscenza e per permetterci di riflettere sulla realtà. In effetti, questa può essere vista come l'ennesima riflessione critica sul suggerimento razionalistico secondo cui qualsiasi precondizione alla conoscenza è intrinsecamente sbagliata e fuorviante.

Un altro tema centrale catturato qui è un'attenta valutazione della natura dinamica e in via di sviluppo della tradizione. Dato il suo ruolo costitutivo, il "cambiamento tradizionale" – cioè lo sviluppo – è di natura relativamente lenta e graduale. Dovremmo tuttavia insistere sul fatto che, poiché la tradizione vive solo attraverso le interpretazioni pratiche che ne danno l'individuo e la comunità, essa è destinata a cambiare nel tempo. Ciò apre anche la possibilità di conflitto nella tradizione e, in un arco temporale storico più ampio, anche di contestazione totale della tradizione. Il riconoscimento della natura costitutiva della tradizione dovrebbe anche portarci a un'attenta valutazione della nostra capacità di acquisire nuove tradizioni, che ci sono originariamente estranee, della nostra capacità di tradurre le tradizioni e della natura dell'eventuale influenza reciproca, della corrispondenza o conflitto tra tradizioni.

Certo, questa interpretazione lascia tuttavia irrisolte diverse questioni. In primo luogo, non posso sostenere di offrire una comprensione diretta del modo in cui la tradizione viene trasmessa e fatta propria. Cosa succede "esattamente" quando mi trovo accanto a un cuoco esperto come suo apprendista e acquisisco la conoscenza pratica della cucina secondo una certa tradizione? Questa, infatti, è una delle questioni fondamentali dello studio dell'umanità, e tocca il nostro essere sociale e storico. Oltre a notare l'ovvio: che la tradizione viene trasmessa e fatta propria – come il linguaggio e la narrativa – nella sua stessa pratica (e solo parzialmente e spesso in modo fuorviante, va notato, nel suo "studio" e codificazione formale), sospetto che questo sia uno degli aspetti della nostra umanità che sfuggono a una chiara articolazione e formulazione. Non è un caso che le opere filosofiche su cui si fonda la discussione attuale siano tutte incentrate su un'interpretazione del fenomeno della tradizione, e non pretendano di offrire una "spiegazione" schematica del modo in cui la tradizione "in atto" funziona e si trasmette. e appropriato. Similmente, sembra allo stesso tempo urgente e in definitiva inutile definire la "natura" del potere (sociale) della tradizione. Questa, semplicemente, è una questione della nostra umanità.

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico e Serie letteratura moderna.
  1. Shils, "Tradition and Liberty", 153.
  2. Come dice il filosofo: "Sono passati ormai alcuni anni da quando ho scoperto quante erano le false credenze che fin dalla mia prima giovinezza avevo ammesso come vere, e quanto era dubbio tutto ciò che da allora avevo costruito su questa base; e da allora mi convinsi che dovevo impegnarmi seriamente, una volta per sempre, a liberarmi di tutte le opinioni che avevo precedentemente accettato, e cominciare a ricostruire dalle fondamenta, se volevo stabilire una struttura salda e permanente nelle scienze" (Descartes, Meditazioni, 18).
  3. Usando il termine di Richard Bernstein: Bernstein, Beyond Objectivism and Relativism, 16.
  4. Taylor, Philosophical Papers, 2:4–6.
  5. MacIntyre, The Tasks of Philosophy, 3–23; Taylor, Philosophical Arguments, 1–20, 34–60; Oakeshott, Rationalism in Politics and Other Essays, 6–42.
  6. Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature.
  7. Polanyi, Science, Faith and Society; Polanyi, Personal Knowledge.
  8. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions; Kuhn, The Essential Tension.
  9. Cfr. specialmente Taylor, Philosophical Arguments, 61–78; Taylor, Philosophical Papers; MacIntyre, The Tasks of Philosophy, 3–23.
  10. Douglas, How Institutions Think, 70.
  11. Wittgenstein, Philosophical Investigations; Wittgenstein, On Certainty.
  12. Specialmente Geertz, The Interpretation of Cultures; Geertz, Islam Observed.
  13. Polanyi, Personal Knowledge; Polanyi, Science, Faith and Society.
  14. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions.
  15. Oakeshott, Rationalism in Politics and Other Essays.
  16. Specialmente Taylor, Human Agency and Language; Taylor, "Interpretation and the Sciences of Man".
  17. Gadamer, Truth and Method; Gadamer, "The Problem of Historical Consciousness"; Gadamer, Philosophical Hermeneutics.
  18. MacIntyre, After Virtue; MacIntyre, Whose Justice?; MacIntyre, Three Rival Versions of Moral Enquiry.
  19. Spec.. Shils, Tradition.
  20. Eisenstadt, "Intellectuals and Tradition"; Eisenstadt, Tradition, Change, and Modernity.
  21. Cfr. Taylor, Philosophical Arguments, 169–172.
  22. Come Wittgenstein commenta la (im)possibilità di un linguaggio privato (nella lettura di MacIntyre): "On the best account of language that I can give and the best account of inner mental states that I can give, I can make nothing of the notion of a private language, I cannot render it adequately intelligible". MacIntyre, After Virtue, 101.
  23. La cucina è stata uno degli esempi spesso utilizzati nel discorso intellettuale sulla tradizione, soprattutto perché riesce a catturare bene sia la superiorità della pratica rispetto alla conoscenza intellettuale (si pensi al cuoco che ha imparato a cucinare stando accanto a – e accettando l'autorità di – uno chef esperto, contro il "cuoco" inesperto che cerca di seguire le istruzioni di un libro di cucina). In modo simile, anche la cucina può esemplificare il mio punto qui: si pensi a tutti i modi in cui un certo cuoco, che è immerso in una certa cultura e pratica culinaria – cioè tradizione – non penserebbe mai nemmeno di cucinare un certo piatto, mentre quegli stessi modi sono i modi più ovvi con cui un altro cuoco, proveniente da un'altra tradizione culinaria, tratterebbe lo stesso piatto (preparare e servire piatti di carne cruda in alcune cucine contro l'impossibilità pratica di fare lo stesso in altre è solo un esempio a questo proposito). Inutile dire che ciò non si limita alle tradizioni culinarie.
  24. Rabinow, Symbolic Domination, 1.
  25. "Experiential" e "intersubjective" sono entrambi termini usati da Taylor, "Interpretation and the Sciences of Man".
  26. Oakeshott, Rationalism in Politics and Other Essays, 148.
  27. Rabinow, Symbolic Domination, 1.
  28. MacIntyre, Whose Justice?, 11.
  29. Gadamer, Truth and Method, 103.
  30. Vattimo, "Democracy and Hermeneutics", 12.
  31. Taylor, The Ethics of Authenticity.
  32. Specialmente MacIntyre, The Tasks of Philosophy, 15–23.
  33. Ibid., 19; cfr. anche MacIntyre, Whose Justice?, 354–5.
  34. Oakeshott, Rationalism in Politics and Other Essays, 59.
  35. MacIntyre, Whose Justice?, 353; inutile dire che la lettura di Burke da parte di MacIntyre non è incontrastata. Cfr. Byrne, Edmund Burke for Our Time, 91–93; Baldacchino, "The Value-Centered Historicism of Edmund Burke".
  36. Come asserisce MacIntyre nel suo Whose Justice?, 12: "A tradition is an argument extended through time in which certain fundamental agreements are defined and redefined in terms of two kinds of conflict: those with critics and enemies external to the tradition who reject all or at least parts of those fundamental agreements, and those internal, interpretative debates through which the meaning and rationale of the fundamental agreements come to be expressed and by whose progress a tradition is constituted.
  37. MacIntyre, After Virtue, 222.
  38. Almeno secondo la lettura critica di MacIntyre riguardo a Burke e Kuhn e alla critica del romanticismo fatta da Gadamer: MacIntyre, The Tasks of Philosophy, 2–23; MacIntyre, After Virtue, 221–22; Gadamer, Truth and Method, 282.